CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV - decisione 17 ottobre 2003
n. 6335
Pres. Paolo Salvatore, Est. Leoni
1 - Opere pubbliche – controversie arbitrali – composizione del collegio – nomina presidenti da parte della Camera arbitrale – illegittimita’
2 - Opere pubbliche – controversie arbitrali – norme del regolamento di attuazione della legge 109/1994 - legittimita’
1 - E’ illegittima la norma (art. 150, comma 3 del regolamento lavori pubblici, D.P.R. 21 dicembre 1999, n.554) che prevede la nomina di un terzo arbitro (il Presidente) attraverso un elenco predisposto dalla Camera arbitrale che ha sede in Roma, presso l’Autorita’ di vigilanza sui lavori pubblici. Questo elenco di potenziali presidenti viola la libera determinazione delle parti . Vengono quindi meno le disposizioni relative alla formazione dell’albo degli arbitri della camera arbitrale (art. 151, commi 5 e 7, quest’ultimo limitatamente agli arbitri), nonché alla durata dell’iscrizione ed alle incompatibilità conseguenti all’iscrizione stessa (art. 151, comma 8, sempre limitatamente agli arbitri; restano, invece, salve le incompatibilità previste dal successivo comma 9).
2 - Sono legittime le regole procedurali del giudizio
arbitrale in materia di lavori pubblici (art. 2 del D.M. 398/2000; art. 150,
commi 5° e 6°; art. 151, comma 11 del D.P.R. n. 554/1994) per cio’
che riguarda a) la individuazione delle norme che devono essere osservate nel
procedimento arbitrale, salva la facoltà degli arbitri, in caso di mancanza
di tali norme, di regolare lo svolgimento del giudizio nel modo che ritengono
più opportuno (art. 816 co.3), fatti salvi il diritto di difesa delle
parti o il principio del contraddittorio.
E’ legittima la norma del regolamento (art. 10, comma 2, del D.M. n. 398/2000),
il quale attribuisce alla camera arbitrale il potere di determinare i corrispettivi
dovuti dalle parti a titolo di compenso al collegio arbitrale e a titolo di
spese di consulenza tecnica, con ordinanza che costituisce titolo esecutivo
e non è impugnabile.
Sono legittime, nel giudizio arbitrale su lavori pubblici, la previsione della
litispendenza collegata alla costituzione del collegio (art. 3, comma 5); la
previsione del termine per la conciliazione (art. 5, comma 3), giacchè
essa e non impedisce che le parti addivengano, anche successivamente, alla transazione
della controversia; l’esclusione, dal novero dei mezzi di prova ammissibili,
del giuramento in tutte le sue forme (art. 7, comma 2, prima parte), trattandosi
di giudizi che vedono, prevalentemente se non esclusivamente, quale parte una
pubblica amministrazione; l’art. 8, concernente l’udienza di discussione,
l’art. 9, comma 1, che dispone che il lodo si ha per pronunciato con il
suo deposito presso la camera arbitrale, l’art. 10, commi 4-6, che dettano
i criteri per la determinazione del valore della controversia ai fini della
liquidazione del compenso per il collegio, e comma 7, che prevede la solidarietà
tra le parti anche per il pagamento delle spese di consulenza tecnica.
REPUBBLICA ITALIANA
in nome del popolo italiano
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta) ha pronunciato la seguente
D E C I S I O N E
Su ricorso di Spagnolo Vigorita Vincenzo, Di Martino Paolo, Cancrini Arturo, Di Falco Sandro, Mastelloni Ugo, Migliarotti Luigi, Mussari Francesco, Pallottino Michele, Piselli Luigi, Salvi Mario e Sanino Mario (Avv.ti se medesimi, Vincenzo Spagnolo Vigorita e Paolo Di Martino), Alpa Guido, Cesaro Ernesto, Cilento Andrea, D’Angelo Amdrea, D’Angelo Guido, Grasso Biagio, Olivieri Giuseppe, Recchia Giorgio e Spagna Michele, tutti rappresentati e difesi da se stessi e anche disgiuntamente dall’avv. Paolo Di Martino), ICLA Costruzioni generali s.p.a., Fondedile Costruzioni s.p.a., I.Co.Mez. s.p.a., A. & I. Della Morte s.p.a. (Avv.ti Vincenzo Spagnuolo Vigorita e Paolo Di Martino)
c. Presidenza del Consiglio dei Ministri (avv. Stato) , Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, Ministero dell’Ambiente e del territorio, Ministero dei beni e delle attività culturali, Ministero della giustizia, in persona dei Ministri p.t., n.c.;
per l'annullamento
della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale del Lazio, Sez. III, n. 5432 dell’11 giugno 2002:
nonché
sul ricorso n. 162 del 2003, proposto da contro Ministero delle infrastrutture e dei trasporti; Ministero della giustizia, entrambi costituitisi in giudizio, rappresentati e difesi dall’Avvocatura generale dello Stato, presso la stessa domiciliati ex lege in Roma, via dei Portoghesi n. 12;
per l’annullamento e riforma
della sentenza n. 5437 dell’11 giugno 2002 del T.A.R. del Lazio, Sez. III;
Visti i ricorsi con i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio delle Amministrazioni intimate;
Viste le memorie prodotte dalle parti a sostegno delle rispettive difese;
Visti gli atti tutti delle cause;
Relatore alla pubblica udienza del 27 maggio 2003 il Consigliere Anna Leoni;
uditi l'Avvocato
Ritenuto e considerato in fatto e in diritto quanto segue:
FATTO
(Ricorso n.9089/2002) . Con ricorso notificato
il 26 giugno 2000 gli attuali appellanti, professionisti ed imprese che operano
da tempo nel settore dei lavori pubblici, impugnavano davanti al TAR del Lazio
le norme regolamentari che, nell’ambito della riforma dell’ordinamento dei lavori
pubblici attuata in esecuzione della L. 11 febbraio 1994 n. 109, avevano disciplinato
il procedimento arbitrale(in particolare, gli artt. 149, 150 e 151 del D.P.R.
n. 554/99 e l’art. 34 del capitolato generale approvato con D.M. n. 145 del
2000).
Con successivi motivi aggiunti, gli stessi soggetti impugnavano, sostenendone
l’illegittimità derivata, il D.M. 2 dicembre 2000 n. 398, contenente le norme
di procedura del giudizio arbitrale ai sensi dell’art. 32 della L.n. 109/94.
Sostenevano, in estrema sintesi, i ricorrenti che il nuovo sistema di definizione
delle controversie si sarebbe posto in contrasto con la disciplina regolante
l’istituto dell’arbitrato nel nostro ordinamento; che, sul piano strettamente
giuridico avrebbe ecceduto dai limiti della delega legislativa; che avrebbe
violato i principi generali in tema di disciplina processuale dell’arbitrato;
che si sarebbe posto in contrasto con una molteplicità di principi costituzionali.
Le Amministrazioni intimate si costituivano in giudizio, eccependo, da un lato,
l’inammissibilità del ricorso relativamente ad alcune censure per mancanza di
interesse giuridicamente rilevante da parte dei ricorrenti e, dall’altro, l’infondatezza
nel merito delle rimanenti censure.
Con sentenza n. 5432 dell’11 giugno 2002 il TAR del Lazio dichiarava in parte
inammissibile ed in parte respingeva il ricorso, compensando tra le parti le
spese di giudizio.
Contro tale sentenza è stato proposto il ricorso in appello oggi all’esame del
Collegio, notificato in data 22 ottobre 2002, con il quale gli appellanti, dopo
aver riportato integralmente il testo del ricorso introduttivo di I grado(in
quanto, a loro avviso il TAR avrebbe ignorato e pretermesso gran parte delle
considerazioni in diritto svolte nel corso del giudizio ed in particolare quelle
contenute nella memoria collegiale, da cui la necessità della loro integrale
trascrizione nell’atto di appello affinché se ne tenga, in questa sede, la dovuta
considerazione), hanno dedotto i seguenti motivi di appello:
6.1. Error in iudicando sul primo motivo di
ricorso, in quanto il TAR, dopo aver qualificato le norme impugnate come regolamento
autorizzato e conseguentemente sottratto le stesse al sindacato di costituzionalità
delle leggi, avrebbe omesso di operare lo stesso sindacato nei confronti delle
norme di cui alla legge n. 109/94 attuate dal regolamento.
La delega di cui all’art.32 della legge citata, infatti, operando un mero rinvio
ai principi limite di trasparenza, imparzialità e correttezza in una materia
in cui sembrerebbe pacifica la riserva di legge, si porrebbe in contrasto con
gli artt. 24, 76, 103 e 108 Cost.
Né varrebbe, in contrario, richiamare la disciplina dell’arbitrato contenuta
nel codice di procedura civile, che non consentirebbe comunque al Governo di
esercitare illegittime opzioni in una materia coperta da riserva di legge(quantomeno
relativa)quale sarebbe, ad avviso degli appellanti, l’aver irragionevolmente
rimesso ad un “arbitrato amministrato” un intero blocco di arbitrati ratione
materiae e cioè quelli legati alla materia dei lavori pubblici.
In tal modo, infatti, la scelta se ricorrere o no all’arbitrato sarebbe solo
formalmente facoltativa, essendo rimesso all’Amministrazione se fare o meno
ricorso a tale strumento, inserendo nello schema di contratto da inserire nel
progetto a base di gara le modalità di risoluzione delle controversie(art.45
comma 1, lett.m) DPR n. 554 del 1999).
Gli appellanti, poi, ripropongono le tesi già esposte in I grado circa i criteri
di individuazione e le incompatibilità dei componenti all’Albo, ritenendo la
sentenza impugnata affetta da perplessità sul punto. Ripropongono, altresì,
le censure relative alla determinazione del compenso agli arbitri, sottratta
alla competenza degli ordini professionali.
6.2.Error in iudicando sul secondo motivo di
ricorso.
Gli appellanti censurano il rigetto del secondo motivo di ricorso da parte del
TAR ( a proposito di differenza tra legge delegata e regolamento autorizzato)
richiamando le argomentazioni svolte con il primo motivo di appello.
6.3.Error in iudicando sul III motivo di ricorso.
Il TAR avrebbe errato nel respingere la censura con cui i ricorrenti, in I grado,
avevano sostenuto la violazione dell’art.32 della legge n. 109/94, che prevedeva
che le norme di procedura dei collegi arbitrali fossero affidate al Ministero
dei lavori pubblici di concerto, con quello della Giustizia, dimenticando che
la nomina del Presidente del Collegio arbitrale è una tipica norma della procedura
arbitrale.
6.4. Error in iudicando sul IV motivo di ricorso.
Si propugna la tesi della non imparzialità della Autorità di vigilanza per i
lavori pubblici e della Camera arbitrale presso la stessa istituita, in quanto
promananti dall’Amministrazione dei lavori pubblici.
6.5. Error in iudicando sul V motivo di ricorso.
Si censura la sentenza nella parte in cui ha ritenuto che la materia delle incompatibilità
potesse essere oggetto di regolamento, in quanto avente valore di legge in virtù
della delega ricevuta dal Governo.
6.6. Error in iudicando sui motivi aggiunti
I, II, III e IV.
Il TAR avrebbe errato nel rigettare le censure rivolte avverso il D.M. n. 398/2000,
che detta regole di procedura del giudizio arbitrale de quo, per non essere
le stesse in contrasto con i principi del c.p.c.: invero, il regime delle nullità
e delle preclusioni(non conforme al c.p.c.) non è stato liberamente scelto dalle
parti, ma sancito dal Ministero dei lavori pubblici, di concerto con quello
di giustizia, mediante un decreto ministeriale. Avrebbe, inoltre, errato nel
ritenere che le norme richiamate a sostegno delle censure(artt. 164, 180. 183
e 189 del c.p.c.)non siano capisaldi del diritto processuale, bensì frutto di
una innovazione del 1990.
6.7. Error in iudicando sul IV motivo aggiunto.
Il TAR avrebbe errato nel ritenere che il C:T.U., se vuole contestare i compensi
ricevuti, può autonomamente impugnare il lodo, in quanto l’organo deputato alla
liquidazione (Camera arbitrale) non è”giudice”, ma un organo amministrativo
e la liquidazione avviene con ordinanza camerale.
6.8. Error in iudicando sul VI motivo aggiunto.
Il TAR avrebbe errato nel respingere il ricorso relativamente alla censura relativa
alla disciplina della determinazione del valore della controversia ai fini della
liquidazione delle spese di lite, utilizzando argomentazioni non conferenti.
7.Si sono costituite in giudizio le Amministrazioni appellate che, con articolata memoria, hanno contestato in parte l’ammissibilità ed in parte l’infondatezza delle proposte censure di appello.
8.Gli appellanti hanno prodotto una ampia memoria
difensiva, con la quale hanno riaffermato le proprie tesi e controdedotto alle
eccezioni dell’Avvocatura dello Stato.
Hanno, in particolare, fatto rilevare che:
- la disciplina introdotta in tema di arbitrato sui lavori pubblici avrebbe
di fatto creato un giudice speciale, in spregio agli artt. 102 e 25 co.1 Cost,;
- le norme che attribuiscono alla Camera arbitrale il compito di nominare il
terzo arbitro con funzioni di Presidente del collegio sarebbero affette da illegittimità
costituzionale per contrasto con gli artt. 3, 41 e 101 Cost., in quanto la facoltà
di scelta degli arbitri riservata esclusivamente alle parti sarebbe l’unico
metodo idoneo per garantire l’imparzialità;
- l’eccezione di inammissibilità del ricorso per carenza di legittimazione a
ricorrere, ribadita dalla difesa erariale anche in sede di giudizio di appello,
sarebbe inammissibile in quanto coperta da giudicato, essendosi il giudice di
I grado già pronunciato in materia e non avendo la difesa erariale appellato
in parte qua la sentenza.
9. (Ricorso n. 162/2003) . Con ricorso notificato il 5 marzo 2001 gli attuali appellanti, professionisti ed imprese che operano da tempo nel settore dei lavori pubblici, impugnavano davanti al TAR del Lazio il decreto 2 dicembre 2000 n. 398 che, nell’ambito della riforma dell’ordinamento dei lavori pubblici attuata in esecuzione dell’art.32 della L. 11 febbraio 1994 n. 109, avevano dettato le norme di procedura per lo svolgimento del giudizio arbitrale.
10.Sostenevano, in estrema sintesi, i ricorrenti l’illegittimità delle norme regolamentari in questione, che avrebbero introdotto nullità e preclusioni incompatibili con i principi generali in materia di processo civile e, quindi, avrebbero violato sia le norme del codice di procedura civile sia la norma di legge che vincolava il regolamento al rispetto di quei principi.
11.Le Amministrazioni intimate si costituivano in giudizio, eccependo, da un lato, l’inammissibilità del ricorso per mancanza di interesse giuridicamente rilevante da parte dei ricorrenti e, dall’altro, l’infondatezza nel merito delle rimanenti censure.
12.Con sentenza n. 5437 dell’11 giugno 2002 il TAR del Lazio respingeva il ricorso, compensando tra le parti le spese di giudizio.
13.Contro tale sentenza è stato proposto il ricorso in appello oggi all’esame del Collegio, notificato in data 17 dicembre 2002, con il quale gli appellanti, dopo aver riportato integralmente il testo del ricorso introduttivo di I grado(in quanto, a loro avviso il TAR avrebbe ignorato e pretermesso gran parte delle considerazioni in diritto svolte nel corso del giudizio ed in particolare quelle contenute nella memoria collegiale, da cui la necessità della loro integrale trascrizione nell’atto di appello affinché se ne tenga, in questa sede, la dovuta considerazione), hanno dedotto i seguenti motivi di appello:
13.1.Error in iudicando sui motivi I, II, III e V di ricorso, in quanto il TAR, rigettando le censure con le quali si era dedotto il contrasto fra diverse disposizioni del D.M. n. 398/2000 ed il codice di procedura civile, nel presupposto della libertà delle parti di dettare la disciplina delle modalità di svolgimento del procedimento, ivi compreso il regime delle nullità che intendessero introdurre, avrebbe dimenticato che il regime delle libertà e delle preclusioni non è stato liberamente stabilito dalle parti, ma sancito dal Ministero dei lavori pubblici, di concerto con quello della Giustizia, mediante un decreto ministeriale. Avrebbe, inoltre, errato nel ritenere che le norme richiamate a sostegno delle censure(artt. 164, 180. 183 e 189 del c.p.c.)non siano capisaldi del diritto processuale, in quanto frutto di una innovazione del 1990.
13.2.Error in iudicando sul IV motivo di ricorso. Il TAR avrebbe errato nel ritenere che il C:T.U., se intende contestare i compensi ricevuti, può autonomamente impugnare il lodo, in quanto l’organo deputato alla liquidazione (Camera arbitrale) non è”giudice”, ma un organo amministrativo e la liquidazione avviene con ordinanza camerale.
13.3. Error in iudicando sul VI motivo di ricorso. Il TAR avrebbe errato nel respingere il ricorso relativamente alla censura relativa alla disciplina della determinazione del valore della controversia ai fini della liquidazione delle spese di lite, utilizzando argomentazioni non conferenti.
14.Si sono costituite in giudizio le Amministrazioni appellate che, con articolata memoria, hanno contestato in parte l’ammissibilità ed in parte l’infondatezza delle proposte censure di appello.
15.Gli appellanti hanno prodotto una ampia memoria difensiva, con la quale hanno riaffermato le proprie tesi e controdedotto alle eccezioni dell’Avvocatura dello Stato. Hanno, in particolare, fatto rilevare che: - la sentenza sarebbe errata nella parte in cui ha ritenuto che nessuna delle disposizioni censurate andasse a collidere con principi inderogabili, dal momento che gli artt. 816, co.2 e 829, co.7 del c.p.c. ammettono per le sole parti la possibilità di disciplinare la procedura arbitrale, mentre nella fattispecie si sarebbe in presenza di una disciplina imposta e non scelta liberamente; - la sentenza non avrebbe tenuto conto del principio di unità del rapporto processuale, determinato dalla domanda processuale, inteso come possibilità di fisiologico sviluppo del processo in relazione alla domanda proposta, di talchè sarebbe illegittimo l’art. 2 del Decreto impugnato che inibisce nuove o diverse domande, aggiornamenti od ampliamenti della stessa domanda originaria in corso di causa.
16. Entrambi gli appelli sono stati inseriti nel ruolo d’udienza del 27 maggio 2003.
DIRITTO
1. Attesi gli evidenti motivi di connessione, i due appelli vanno riuniti ai fini di un’unica decisione. Il primo appello (n.9089/2002) è diretto avverso la sentenza n.5432 dell’11 giugno 2002 del Tribunale amministrativo regionale del Lazio, Sez. III, che ha in parte respinto ed in parte dichiarato inammissibile il ricorso proposto dagli attuali appellanti avverso le norme regolamentari che, nell’ambito della riforma dell’ordinamento dei lavori pubblici attuata in esecuzione della L. 11 febbraio 1994, n.109, hanno disciplinato il giudizio arbitrale e la relativa procedura.
2. Va, anzitutto, respinta l’eccezione di inammissibilità dell’appello per carenza di legittimazione a ricorrere relativamente al primo motivo proposto, reiterata anche in questa fase di giudizio dalla difesa erariale, atteso che, come correttamente osservato dagli appellanti, sulla eccezione si è pronunciato, ritenendola infondata, il giudice di primo grado nella sentenza appellata, non impugnata in parte qua dall’Avvocatura dello Stato, determinando con ciò il verificarsi di una preclusione processuale sul punto, derivante da giudicato cd. interno, che non può non essere rilevata dal giudice del grado successivo (cfr. Cass. n.2388/98).
3. Prima di passare all’esame del merito è opportuno
delineare sinteticamente l’evoluzione legislativa che ha interessato l’istituto
dell’arbitrato in materia di lavori pubblici a partire dalla c.d. legge quadro
(L.11 febbraio 1994, n.109).
Il testo originario dell’art. 32 di tale legge, dopo aver previsto, al primo
comma, la conciliazione in via amministrativa delle controversie, al secondo
comma, per il mancato raggiungimento dell’accordo, da un lato, devolveva le
controversie alla competenza del giudice ordinario e, dall’altro, vietava che
nei capitolati generali o speciali fosse previsto il deferimento delle controversie
ai collegi arbitrali.
Tale disposizione fu contestata sia per il suo possibile contrasto con numerose
disposizioni della Costituzione (artt.24, 113, 3 e 97) sia perchè privava il
settore di un istituto avente una crescente rilevanza, in dipendenza del mutamento
in atto nell’assetto dello Stato: nella struttura amministrativa, nell’organizzazione
giudiziaria, nei rapporti con i cittadini. Ciò in relazione all’aumento del
valore dell’autonomia privata ed alla luce della moderna concezione del diritto
amministrativo, fondata sul pluralismo istituzionale e sull’esercizio di compiti
pubblici non in forza del principio dell’autorità dell’amministrazione bensì
con la collaborazione dei soggetti interessati e con il ricorso ad istituti
convenzionali e paritari.
Il Governo, con numerosi decreti-legge, via via reiterati fino al D.L. 31 gennaio
1995, n.26, sospese, fino al 30 giugno 1995, l’applicazione di quasi tutte le
disposizioni della legge n.109/1994, fra cui quelle contenute nell’art.32. Con
l’art. 9 bis del D.L. 3 aprile 1995, n.101, convertito in legge, con modificazioni,
dalla L.2 giugno 1995, n.216, si ebbe il capovolgimento della previsione in
materia, in quanto esso disponeva, al comma 1, che, qualora non si fosse raggiunto
l’accordo bonario previsto dall’articolo precedente, la definizione delle controversie
“è attribuita ad un arbitrato ai sensi delle norme del titolo VIII del libro
quarto del codice di procedura civile”.
Anche questa disposizione diede luogo a problemi, soprattutto in relazione alla
sua formulazione che sembrava prevedere un arbitrato obbligatorio, istituto,
questo, ritenuto incostituzionale (come si vedrà in seguito) dalla costante
giurisprudenza della Corte costituzionale.
L’art. 10 della L.18 novembre 1998, n.415 contiene un testo interamente sostitutivo
dell’art. 32 della legge n.109/1994 ed è quello vigente (salvo modificazioni,
che in questa sede non interessano, introdotte dall’art. 7 della L.1° agosto
2002, n.166).
Tre sono gli aspetti salienti dell’attuale disciplina legislativa che incidono
particolarmente sulla presente controversia:
a) la natura facoltativa, volontaria o consensuale dell’arbitrato. L’adozione
dell’espressione “Possono essere deferite ad arbitri” (comma 1), vale a fugare
ogni dubbio di illegittimità della previsione dell’arbitrato, alla luce dell’orientamento
della Corte costituzionale innanzi richiamato;
b) la previsione di un procedimento arbitrale c.d. amministrato, che si svolge
sotto l’egida della camera arbitrale istituita presso l’Autorità per la vigilanza
sui lavori pubblici (comma 3, prima parte);
c) l’attribuzione ad un regolamento, adottato con decreto interministeriale
(lavori pubblici – grazia e giustizia), della fissazione delle norme di procedura
del giudizio arbitrale “nel rispetto dei principi del codice di procedura civile”
(comma 2, seconda parte), intendendosi ovviamente per tali quelli che costituiscono
i capisaldi del processo, perché altrimenti verrebbe ad attribuirsi ad una fonte
di pari grado (il Codice di Procedura Civile)una durevolezza che proprio la
specificità e fluidità delle materie de qua esclude in radice.
Alla disciplina primaria ha fatto seguito la disciplina secondaria, contenuta
negli artt. 150 e 151 del D.P.R. 21 dicembre 1999, n.554, recante il regolamento
di attuazione della legge quadro, nel D.M. 2 dicembre 2000, n.398, recante le
norme di procedura del giudizio arbitrale, e negli artt. 33 e 34 del D.M. 19
aprile 2000, n.145, recante il capitolato generale d’appalto dei lavori pubblici.
4. Ciò premesso la questione che va preliminarmente esaminata è quella di legittimità costituzionale, già sollevata in primo grado e riproposta in questa sede, dell’art.32 della legge n.109/1994 e successive modificazioni, nonché delle norme regolamentari che riservano alla camera arbitrale la nomina del presidente del collegio, la determinazione dei compensi dovuti agli arbitri, la tenuta di un albo l’iscrizione al quale condiziona lo svolgimento delle funzioni arbitrali e determina situazioni di incompatibilità, e pongono, inoltre, una disciplina procedurale che si assume ampiamente divergere rispetto ai principi del codice di procedura civile, in riferimento agli artt. 3, 4, 24, 25, 41, 76 e 77 Cost.
4.1. In quanto rivolte avverso l’art. 32 della
legge n.109/1994 talune delle censure di illegittimità costituzionale sono inammissibili.
Ciò vale per quelle completamente fuori centro, come quella concernente la violazione
dell’art. 77, che disciplina la decretazione d’urgenza, del tutto estranea alla
presente materia, nonché quella proposta in relazione all’art. 76, che concerne
la delegazione legislativa, mentre nella specie viene in rilievo l’istituto
– del tutto differente – dell’autorizzazione legislativa all’esercizio della
potestà regolamentare da parte del Governo o di singoli Ministri.
Le altre censure sono manifestamente infondate. Infatti, nell’art. 32 non è
ravvisabile – neanche prima facie, nell’ambito del potere di delibazione attribuito
al giudice a quo – alcun profilo di illegittimità costituzionale, in quanto
esso non prevede un arbitrato c.d. obbligatorio e risulta per questo aspetto
rispettoso dei principi affermati dalla Corte costituzionale circa il fondamento
dell’arbitrato sull’accordo delle parti; attribuisce all’arbitrato il carattere
di “amministrato” il che – qualora esso sia correttamente inteso ed applicato
– non appare in contrasto con nessuna delle disposizioni della Costituzione
asseritamente violate; dispone, infine, un'ampia delegificazione, in coerenza
con la filosofia cui è improntata tutta la legge 109 del 1994 (cfr., in particolare,
l’art. 3, in ordine al quale la Corte costituzionale, con la sentenza 7 novembre
1995, n.482, si è pronunciata sostanzialmente in senso favorevole), e con l’indicazione,
sintetica ma sufficiente, dei criteri (rispetto dei principi del codice di procedura
civile per il procedimento arbitrale [co.2]; principi di trasparenza, imparzialità
e correttezza per la camera arbitrale [co. 3]), cui l’esercizio della potestà
regolamentare deve attenersi.
4.2. In quanto rivolte avverso le disposizioni
regolamentari in precedenza richiamate (retro, n.3), le proposte censure di
illegittimità costituzionale sono inammissibili, alla stregua del costante insegnamento
della Corte costituzionale, secondo cui il giudizio di legittimità costituzionale
di norme aventi natura regolamentare eccede i limiti della giurisdizione della
Corte, secondo la definizione che di questa è data dall’art. 134 Cost., il quale
la limita al caso dell’illegittimità costituzionale delle leggi e degli atti
aventi forza di legge (C.cost. 14 giugno 2001, n.194 [ord.]; 18 ottobre 2000,
n.427; 25 luglio 1997, n.273; 27 giugno 1997, n.208 [ord.]; 23 aprile 1993,
n.199).
Peraltro, il pieno esplicarsi della garanzia della Costituzione nel sistema
delle fonti – con particolare riferimento a quelle di valore regolamentare adottate,
come nella specie, in sede di delegificazione – non è pregiudicato dall’anzidetta
limitazione della giurisdizione del giudice costituzionale, in quanto la relativa
garanzia è da ricercare (nei casi in cui, come si è innanzi rilevato, non sia
configurabile un vizio di costituzionalità delle legge abilitante all’adozione
del regolamento), nel controllo di legittimità del regolamento, ove il vizio
sia proprio ed esclusivo dello stesso, demandato al giudice ordinario ed al
giudice amministrativo, nell’ambito dei poteri ad essi spettanti, controllo
che può condurre, rispettivamente, alla disapplicazione o all’annullamento del
regolamento.
5. Alla luce di tali principi, pienamente condivisi dalla Sezione (cfr. IV, 17 aprile 2000, n.2292; 24 giugno 1980, n.692), debbono ora esaminarsi le censure, oltre che di violazione delle richiamate disposizioni della Costituzione, di violazione e falsa applicazione dell’art. 32 della L. n.109 del 1994, di violazione e falsa applicazione del Titolo VIII del c.p.c., di eccesso di potere sotto vari profili, vizi riferiti al regolamento n.554 del 1999 nella parte in cui attribuisce alla camera arbitrale costituita presso l’Autorità per la vigilanza sui lavori pubblici il potere di designare il terzo membro dei collegi arbitrali con funzioni di presidente. Il regolamento, inoltre, imporrebbe ingiustificate incompatibilità e priverebbe illegittimamente gli ordini professionali e i consigli nazionali dei propri poteri in materia di tariffe professionali, attribuendo alla camera arbitrale la fissazione dei compensi degli arbitri. Le censure, disattese dalla sentenza impugnata, sono fondate, nei limiti di seguito indicati.
5.1. Lo scrutinio di legittimità delle norme
regolamentari impugnate deve essere condotto, innanzitutto, alla luce del principio,
affermato dalla Corte costituzionale, della volontarietà dell’arbitrato.
Riveste fondamentale rilievo al riguardo la sentenza 14 luglio 1977, n.127,
seguita da numerose altre, assolutamente costanti nell’affermare i medesimi
principi (cfr. C.cost. 27 dicembre 1991, n.488; 10 giugno 1994, n.232; 27 febbraio
1996, n.54; 9 maggio 1996, n.152; 11 dicembre 1997, n.381; 24 luglio 1998, n.325;
21 aprile 2000, n.115), la quale ha ritenuto che chi vuol far valere un diritto
in giudizio non può rivolgersi che ai giudici ordinari di cui all’art. 102 Cost.
oppure ai giudici speciali elencati nell’art. 103 o comunque contemplati dalla
VI disp. trans.; con la sola alternativa del ricorso all’arbitrato , come descritto
dal codice di rito e caratterizzato dalla libera scelta delle parti, unica valida
deroga al principio della giurisdizione statuale.
Resta così confermata la prospettiva che la moderna dottrina ha utilizzato per
ricomporre ad unità il sistema dell’arbitrato. Esiste cioè una pluralità di
modelli arbitrali, i quali, tuttavia, sono sussumibili in uno schema unitario
caratterizzato da elementi comuni e, in primo luogo, dalla libertà delle parti
di optare per il giudizio arbitrale.
5.2. Così delineato il quadro di riferimento
costituzionale, dal quale resta del tutto esclusa la figura dell’arbitrato obbligatorio,
si può passare a verificare l’effettivo rispetto dei suindicati principi da
parte delle disposizioni regolamentari che disciplinano l’arbitrato di cui trattasi.
Viene innanzitutto in rilievo l’art. 150 del regolamento di attuazione di cui
al D.P.R. n.554 del 1999, secondo cui (comma 2) ciascuna delle parti, nella
domanda di arbitrato o nell’atto di resistenza alla domanda, nomina l’arbitro
di propria competenza tra professionisti di particolare esperienza nella materia
dei lavori pubblici e, se la parte nei cui confronti è diretta la domanda di
arbitrato omette di provvedervi, alla nomina procede il Presidente del Tribunale
ai sensi del’art, 810, comma 2, del c.p.c.; inoltre (comma 3), ad iniziativa
della parte più diligente, gli atti di nomina dei due arbitri sono trasmessi
alla camera arbitrale per il lavori pubblici affinchè provveda alla nomina del
terzo arbitro, con funzioni di presidente del collegio, scelto nell’ambito del’albo
camerale sulla base di criteri oggettivi e predeterminati.
La prima di tali disposizioni trova un puntuale riferimento nell’art.810 c.p.c.
(Nomina degli arbitri) e deve perciò considerarsi legittima.
Non lo sarebbe stato se fossero state accolte le proposte, che pure erano state
avanzate in sede di predisposizione del regolamento, di attribuire alla camera
arbitrale la nomina dell’intero collegio (il che avrebbe snaturato l’arbitrato
in questione, privandolo del carattere della volontarietà e riconducendolo ad
una giurisdizione speciale), o di rimettere alla camera la nomina dell’arbitro
di parte, nel caso di omissione della parte stessa (in contrasto con i principi,
inderogabili, del codice di procedura civile attinenti alla costituzione del
giudice).
La seconda delle predette disposizioni, contenuta nell’art. 150, comma 3, del
regolamento, introduce una rilevante novità, consistente nella sottrazione alle
parti della possibilità di nominare direttamente, d’accordo fra loro, il terzo
arbitro o di individuare, per detta nomina, un meccanismo diverso, ma pure sempre
fondato sulla loro volontà (cfr. art. 810 c.p.c., cit.).
Questa disposizione è illegittima per un triplice, concorrente ordine di ragioni.
Al riguardo va, innanzitutto, rilevato che la norma primaria (art. 32, comma
3, della legge n.109/1994) attribuisce al regolamento la definizione della composizione
e delle modalità di funzionamento della camera arbitrale per i lavori pubblici,
la disciplina dei criteri cui la camera arbitrale dovrà attenersi nel fissare
i requisiti soggettivi e di professionalità per assumere l’incarico di arbitro,
nonché la durata dell’incarico stesso. La norma non contiene alcuna previsione,
che comunque sarebbe dovuta essere espressa, circa l’attribuzione alla potestà
regolamentare del Governo della fissazione dei criteri per la composizione dei
collegi arbitrali e, tanto meno, della sottrazione alle parti del potere di
scegliere d’accordo fra di loro il terzo arbitro, che sovente costituisce l’ago
della bilancia del giudizio arbitrale.
Sotto tale profilo la norma regolamentare è illegittima in quanto esorbita dai
limiti fissati dalla normativa primaria. Ma quand’anche volesse ammettersi la
sussistenza della potestà regolamentare, la norma in esame sarebbe illegittima
perché in contrasto con i principi sanciti dagli artt. 809 e ss. c.p.c. che
rientrano tra quelli fondamentali il cui rispetto è prescritto dall’art. 32,
comma 2, della legge n.109/1994.
I predetti articoli del codice di procedura civile, in materia di arbitrato
rituale (qual è, per espressa previsione dell’art. 150, comma 1, ult. p., del
regolamento, quello in materia di lavori pubblici), prevedono che il potere
di stabilire il numero e le modalità di nomina degli arbitri è rimesso alle
parti, con il solo limite del rispetto dell’ordine pubblico: le regole dettate
dall’ordinamento con disposizioni di carattere generale hanno, quindi, la sola
funzione di garantire la libera espressione della volontà delle parti.
E’ chiaro, pertanto, come non possa considerarsi legittima una disposizione
regolamentare – e quindi di livello secondario – che contrasti con quelle regole
che, in relazione alla natura volontaria dell’arbitrato, assurgono al rango
di veri e propri principi di carattere essenziale e strutturale.
Da ultimo – ma è il rilievo più consistente, di per sé assorbente - nel richiamare
l’orientamento della Corte costituzionale, in virtù del quale l’arbitrato non
può che essere facoltativo e volontario, deve ritenersi – sulla scorta di autorevoli
opinioni dottrinarie – che l’arbitrato è tale sia per la scelta di esso compiuta
dalle parti in luogo dei rimedi ordinari che per la scelta degli arbitri fatta
liberamente dalle parti stesse, tanto che, se i componenti di un collegio siano
designati con criteri diversi da quelli della libera scelta delle parti, si
tratterebbe di un vero e proprio organo di giurisdizione speciale (come tale,
illegittimo).
Consegue che la nomina degli arbitri, compreso – a fortiori – il presidente
del collegio, non può che essere attribuita alle parti, alla stregua del principio
fondante, contenuto nel codice di procedura civile (art. 810), secondo il quale
la nomina è compiuta dal presidente del tribunale soltanto nei casi in cui una
parte abbia omesso di nominare il proprio arbitro ovvero le parti non abbiano
trovato l’accordo entro una dato termine ovvero abbiano demandato ad un terzo
che non vi abbia provveduto o al presidente stesso la nomina di uno o più arbitri.
Questi principi sono indefettibili in quanto attengono alla natura stessa dell’istituto
arbitrale, quale riconosciuta dalla Corte costituzionale. Ma quand’anche si
potesse configurare una deroga allorchè la nomina sia attribuita ad un organo
giurisdizionale (presidente di corte d’appello, presidente del Consiglio di
Stato), come avveniva nel precedente capitolato generale, ciò non sarebbe sicuramente
consentito allorchè l’organo che procede alla nomina – come nel caso della camera
arbitrale – sia un organo che, pur operando in piena autonomia ed indipendenza,
è pur sempre amministrativo, facente parte della pubblica amministrazione, che
nella maggioranza dei casi è parte in causa nel giudizio arbitrale. Trattasi
comunque di un organo che non risponde a quei requisiti di terzietà che il titolo
IV della parte seconda della Costituzione richiede per tutti i giudici e per
tutti i giudizi.
Un siffatto sistema potrebbe far sorgere problemi, anche sul piano comunitario,
circa la effettiva terzietà degli arbitri così nominati e quindi sulla obiettività
del giudizio che essi sono chiamati ad esprimere (cfr., per riferimenti circa
la composizione dei collegi arbitrali, Corte cost. 13 febbraio 1995, n.33).
5.3. Da quant’innanzi deriva che l’art. 150,
comma 3, del regolamento, nella parte in cui sottrae alla libera determinazione
delle parti la scelta del terzo arbitro con funzioni di presidente, attribuendola
alla camera arbitrale, è illegittimo e deve essere annullato.
L’annullamento di tale disposizione comporta il venir meno di quelle relative
alla formazione dell’albo degli arbitri della camera arbitrale (art. 151, commi
5 e 7, quest’ultimo limitatamente agli arbitri), nonché alla durata dell’iscrizione
ed alle incompatibilità conseguenti all’iscrizione stessa (art. 151, comma 8,
sempre limitatamente agli arbitri; restano, invece, salve le incompatibilità
previste dal successivo comma 9, che appare legittimo in quanto meramente specificativo
di ipotesi di incompatibilità già presenti nel nostro ordinamento [cfr. art.
51 c.p.c.] e che comunque non risulta impugnato).
In conseguenza, debbono considerarsi assorbite le censure riguardanti i requisiti
per l’iscrizione all’albo tenuto dalla camera arbitrale, nonché le incompatibilità
(conseguenti all’iscrizione e, in particolare, quelle di cui al secondo motivo
di appello (error in iudicando sul secondo motivo di ricorso) ed al terzo motivo
di appello (error in iudicando sul terzo motivo di ricorso), attinenti alla
questione, già decisa, concernente la nomina del presidente del collegio arbitrale,
nonché quella di cui al quarto motivo (error in iudicando sul quarto motivo
di ricorso), con cui si deduce la non imparzialità dell’Autorità di vigilanza
sui lavori pubblici e della camera arbitrale istituita presso la stessa, giacchè
tale censura non ha una valenza propria, ma è strumentale rispetto alla questione
della nomina del presidente del collegio. Ugualmente deve considerarsi assorbita
la censura di cui al quinto motivo (error in iudicando sul quinto motivo di
ricorso), concernente la previsione di talune incompatibilità contenuta nel
regolamento, in quanto tale questione, nei limiti dell’impugnativa, è stata
già risolta per effetto della innanzi rilevata caducazione, in parte qua, dell’art.
151, comma 8, del regolamento.
6.1. Con il sesto motivo di ricorso (error in iudicando sui motivi aggiunti I, II, III, e IV), si sostiene l’erroneità della sentenza di primo grado nella parte in cui ha rigettato le censure dirette contro numerose disposizioni contenute nel regolamento che detta la disciplina della procedura del giudizio arbitrale (D.M. 2 dicembre 2000, n. 398). Questo regolamento – come già detto – trova la sua base normativa nell’art. 32, comma 2, seconda parte, dell’art. 32 della legge n. 109/1994, che attribuisce al Ministro dei lavori pubblici, di concerto con il Ministro di grazia e giustizia, il relativo potere.
6.2. Si è detto che l’arbitrato di cui trattasi
pur richiamandosi al modello ordinario, è volontario, come debbono essere, in
forza del più volte richiamato orientamento della Corte costituzionale, tutti
gli arbitrati; è un arbitrato rituale e tale è espressamente qualificato dall’art.150,
comma 1, ult. p., del regolamento di attuazione di cui al D.P.R. n.554/1999;
è, infine, un arbitrato amministrato, che si richiama al modello ordinario pur
avendo delle sue peculiarità e che si caratterizza per il fatto che il collegio
arbitrale è costituito presso la camera arbitrale per i lavori pubblici (art.32,
comma 2, legge n.109/1994).
Alla luce di tali caratteri deve valutarsi la legittimità delle norme di procedura
contenute nel D.M. 2 dicembre 2000, n. 398, legittimità contestata dai ricorrenti
sotto svariati profili.
Da un punto di vista generale deve ammettersi la possibilità che l’emanazione
delle disposizioni in questione sia demandata ad un atto di normazione secondaria.
Infatti, da un lato, trattasi di un regolamento di delegificazione, per il quale
sono previsti dalla legge i criteri cui deve attenersi (rispetto dei principi
del codice di procedura civile); dall’altro, è da escludere che la materia in
questione sia coperta da riserva assoluta di legge, come è dimostrato dal rilievo
che anche la procedura dinanzi alla Sezioni giurisdizionali del Consiglio di
Stato è stata disciplinata a suo tempo con un regolamento che è tuttora vigente
(R.D. 17 agosto 1907, n.642, cui la Corte costituzionale, con sentenza 18 maggio
1898, n.251, ha espressamente riconosciuto natura regolamentare).
6.3. Prima di procedere all’esame delle censure
proposte avverso le singole disposizioni del regolamento in questione, è utile
richiamare talune considerazioni espresse da questo Consiglio nel parere sullo
schema di regolamento in questione (Sez. consultiva per gli atti normativi 17
aprile 2000, n. 65/2000).
In quella occasione fu osservato che il “recupero” al settore dei lavori pubblici
dello strumento arbitrale (in precedenza affrettatamente accantonato), ritenuto
finalisticamente più idoneo a garantire le esigenze di rapidità e di specializzazione
intrinsecamente connesse al contenzioso in materia, è stato, in certo senso,
mitigato, nel disegno della legge n. 415/1998, dalla previsione di una procedura
che, seppure prende a modello quello dell’arbitrato ordinario (come attesta
il richiamo ai principi del codice di procedura civile che sostanzialmente si
traduce nell’imporre il rispetto dei capisaldi strutturali del sistema processuale),
tenga conto delle esigenze connesse alla gestione di un settore, per sua natura
e per specifiche contingenze, particolarmente “sensibile” e quindi naturalmente
possibile oggetto di un corrispondente modello di disciplina particolare nei
sensi precisati.
6.4. Sulla base delle varie premesse in precedenza
illustrate, può procedersi all’esame delle varie censure dedotte. Viene in primo
luogo in rilievo la censura che investe le regole procedurali del giudizio arbitrale
in materia di lavori pubblici che vengono dagli appellanti ritenute in contrasto
con i principi del c.p.c. (tra le altre : art. 2 del D.M. 398/2000; art. 150,
commi 5° e 6°; art. 151, comma 11 del D.P.R. n. 554/1994).
La censura non può trovare accoglimento.
Invero, la individuazione delle norme che devono essere osservate nel procedimento
arbitrale appartiene alla disponibilità delle parti(art. 816 comma 2 c.p.c.),
salva la facoltà degli arbitri, in caso di mancanza di tali norme, di regolare
lo svolgimento del giudizio nel modo che ritengono più opportuno (art. 816 co.3),
fatti salvi il diritto di difesa delle parti o il principio del contraddittorio(Cass.
29 gennaio 1992 n. 923 e 4 giugno 1992 n. 6866).
Ne consegue, in virtù di tale disponibilità, la insussistenza di principi inderogabili
in materia, eccezion fatta per quello della parità di diritto di difesa tra
le parti, che però nella fattispecie non viene posto in discussione, anche perché
estranei all’ambito delle censure dedotte.
Quanto, poi, ai principi di diritto processuale generale che costituiscono l’intelaiatura
fondamentale dell’intero codice di procedura civile, essi come tali sono applicabili
anche al procedimento arbitrale e, quindi, non possono costituire oggetto di
discussione, anche perché estranei all’ambito delle censure dedotte.
Quanto, infine, alle disposizioni che sono frutto di scelta legislativa per
il solo processo ordinario, esse non possono assurgere al rango di capisaldi
del diritto processuale e, come tali, sono derogabili attraverso una scelta
legislativa di pari rango qual è quella effettuata dall’art.32 della L.n. 109/94(“…con
decreto del Ministro dei lavori pubblici di concerto con il Ministero di grazia
e giustizia … sono fissate le norme di procedura del giudizio arbitrale nel
rispetto dei principi del codice di procedura civile”).
Né può ritenersi che tale scelta violi la libertà delle parti, atteso che il
ricorso all’arbitrato in materia di lavori pubblici è facoltativo e, quindi,
rimesso alla libera scelta delle parti, che sono consapevoli, in quanto previsto
ex lege, che, per volontà del legislatore, in questa materia si opera con procedura
predefinita, adottata con scelta insindacabile, in quanto attinente al merito
dell’azione amministrativa, con l’unico limite della non violazione dei principi
inderogabili del c.p.c.
6.5. Nel novero delle censure rivolte contro
il regolamento assume particolare rilievo quella con la quale i ricorrenti denunciano
l’illegittimità dell’art. 10, comma 2, del D.M. n. 398/2000, il quale attribuisce
alla camera arbitrale il potere di determinare i corrispettivi dovuti dalle
parti a titolo di compenso al collegio arbitrale e a titolo di spese di consulenza
tecnica, con ordinanza che costituisce titolo esecutivo e non è impugnabile.
Per quanto concerne le spese di consulenza tecnica, non può trovare accoglimento
il settimo motivo di ricorso (error in iudicando sul quarto motivo aggiunto),
con il quale si sostiene l’erroneità della sentenza nella parte in cui non ha
accolto la tesi della illegittimità delle norme regolamentari che affidano alla
camera arbitrale la loro liquidazione.
E’ infatti fondata l’eccezione di inammissibilità avanzata dalla difesa erariale,
in quanto materia del tutto estranea all’interesse protetto di cui sono titolari
i ricorrenti.
Sono, invece, ammissibili, ma peraltro infondate, le censure concernenti la
determinazione, ad opera della camera arbitrale, dei compensi per gli arbitri.
Al riguardo è appena il caso preliminarmente di osservare che i cd arbitrati
amministrati, altro non sono che forme assistite da un’istituzione a ciò preposta,
che provvede ad una serie di incombenze pratiche, svolgendo sostanzialmente
una funzione di controllo dell’intero processo arbitrale, al fine di rendere
meno litigioso lo svolgimento della procedura arbitrale, senza che ciò comporti
alcun rapporto tra gli arbitri e l’istituzione, arbitri che nel momento in cui
accettano, si impegnano esclusivamente nei confronti delle parti.
Alla luce di tale premessa sembra che la previsione di cui all’art. 150 comma
sesto del Regolamento, attuativo di quanto disposto nell’art. 32 comma secondo
della legge n. 109/94, in materia di poteri della camera arbitrale di determinare
i compensi spettanti agli arbitri si pongono in una linea di coerenza con l’impianto
generale previsto dalla normazione primaria.
Ed invero dal momento che la Camera è soggetto preposto allo svolgimento della
procedura arbitrale e limitatamente alla liquidazione dei compensi sfornito
di qualsiasi interesse, non essendo previsto che una parte degli stessi sia
da essa trattenuta, appare del tutto legittimo e corrispondente a criteri di
garanzia delle parti, secondo i principi di trasparenza, imparzialità e correttezza
fissati dall’art. 32 della L.n. 109/94, affidare alla stessa il compito di stabilire,
in modo vincolante per le parti ed in base a tariffe prefissate con decreto
interministeriale, la determinazione della prestazione dedotta nell’arbitrato.
6.6. Le censure proposte avverso altre disposizioni
contenute nel regolamento non meritano accoglimento. Appaiono, infatti, da un
lato rispondenti a peculiari esigenze del procedimento arbitrale in questione
e, dall’altro, non in contrasto con i principi fondamentali del sistema civilprocessualistico
(ma solo, in certi casi, con particolari disposizioni del codice di rito che,
per l’appunto non rivestono siffatti connotati) e rientrano quindi nel legittimo
esercizio della potestà regolamentare, conferita dalla norma primaria di cui
all’art. 32, comma 2, della legge n.109/1994, la previsione della litispendenza
collegata alla costituzione del collegio (art. 3, comma 5); la previsione del
termine per la conciliazione (art. 5, comma 3), giacchè essa si riferisce evidentemente
alla conciliazione dinanzi al collegio e non impedisce che le parti addivengano,
anche successivamente, alla transazione della controversia; l’esclusione, dal
novero dei mezzi di prova ammissibili, del giuramento in tutte le sue forme
(art. 7, comma 2, prima parte), il che, trattandosi di giudizi che vedono, prevalentemente
se non esclusivamente, quale parte una pubblica amministrazione, vale a conformare,
sotto questo aspetto, il giudizio arbitrale al processo amministrativo, nel
quale, come è noto, il giuramento non è ammesso.
Infine, l’art. 8, concernente l’udienza di discussione, l’art. 9, comma 1, che
dispone che il lodo si ha per pronunciato con il suo deposito presso la camera
arbitrale, l’art. 10, commi 4-6, che dettano i criteri per la determinazione
del valore della controversia ai fini della liquidazione del compenso per il
collegio, e comma 7, che prevede la solidarietà tra le parti anche per il pagamento
delle spese di consulenza tecnica, sono tutte disposizioni che trovano logica
giustificazione nelle peculiarità del giudizio arbitrale in questione.
7. Il secondo appello(n. 162/2003) è rivolto
avverso la sentenza n. 5437/2002 con cui il Tribunale amministrativo regionale
del Lazio, sez. III, ha respinto il ricorso proposto dagli attuali appellanti
avverso il decreto n. 398/2000 che ha dettato le norme di procedura per lo svolgimento
del giudizio arbitrale nel settore dei lavori pubblici.
Va anzitutto respinta l’eccezione di inammissibilità del gravame per assenza
di interesse tutelabile in capo a chi agisce proposta anche nel secondo appello
dalla difesa erariale, richiamando, al riguardo, le considerazioni già svolte
Riguardo al merito non resta, pertanto, che rinviare alle considerazioni già
svolte ed in particolare:
va respinto il primo motivo di appello (error in iudicando sui motivi I, II,
III e V di ricorso: vedasi retro sub 6.4); 6.5); 6.6);
va altresì respinto il terzo motivo di appello (Error in iudicando sul IV motivo
di ricorso vedesi retro sub 6.4),6.5); 6.6);
va infine dichiarata inammissibile la censura contenuta nel secondo motivo di
appello (vedasi retro sub 6.5) In conclusione in base alle suesposte considerazioni
il secondo appello va respinto, con conseguente conferma della sentenza impugnata.
8. La disamina della normativa sovracompiuta sollecitata dai ricorsi sopraesaminati, anche se necessariamente circoscritta agli spazi propri delle censure dedotte, rende doveroso, in chiusura, l’auspicio di un intervento del legislatore per una aggiornata sistemazione della materia, che certamente si gioverà della considerazione della riforma del titolo quinto della parte seconda della Costituzione operata con la legge cost. 18 ottobre 2001 n. 3 e delle sentenze della Corte Costituzionale 1° ottobre 2003 n. 302 e 303.
9. In entrambi gli appelli, le spese e gli onorari della presente fase di giudizio possono trovare equa compensazione tra le parti.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale – Sezione IV – definitivamente pronunciando in ordine ai ricorsi in appello indicati in epigrafe, previa riunione dei medesimi, accoglie in parte il primo ricorso, con conseguente riforma della sentenza di primo grado; rigetta il secondo, con conseguente conferma della sentenza impugnata.