TAR LOMBARDIA, MILANO, SEZ. II - sentenza
23 settembre 2003 n. 4278
Pres. Guerrieri, Rel. Anastasi; Milczarczyk Cristina
(avv. Gianluigi Varesini) c. Comune di Milano (avv. ti Maria Rita Surano ed
Elena Savasta dell’Avvocatura Comunale di Milano).
1 – Pubblico impiego – mansioni superiori – inquadramento nella categoria corrispondente – esclusione
2 – Pubblico impiego – mansioni superiori – inquadramento nella categoria corrispondente – vale come istanza di riesame – silenzio-rifiuto – assenza dell’obbligo di provvedere - non si forma
3 – Pubblico impiego – mansioni superiori – diritto alla retribuzione – azione di accertamento – termine - prescrizione e non decadenza
4 – Pubblico impiego - mansioni superiori – diritto alla retribuzione corrispondente – norma regolamentare di attribuzione – necessità
1 - Nel pubblico impiego lo svolgimento di mansioni superiori in via di fatto e, cioè, in assenza di alcun atto di autorizzazione proveniente dall’amministrazione inteso a conferirle, non può essere considerato rilevante ai fini dell’inquadramento giuridico del personale del settore. Infatti, l’accertamento di uno “status” può discendere unicamente da una determinazione autoritativa della p.a..
2 – La domanda volta ad ottenere il riconoscimento del diritto ad ottenere l’inquadramento corrispondente alle mansioni superiori svolte in via di fatto si configura come un’istanza di riesame dell’inquadramento, a fronte della quale, tuttavia, l’amministrazione non ha obbligo di provvedere ed il relativo omesso esame non dà luogo neanche alla formazione del silenzio-rifiuto impugnabile in sede giurisdizionale, per la carenza del presupposto sostanziale dell’obbligo dell’amministrazione di provvedere sull’istanza dell’interessato.
3 – La domanda attinente pretese retributive per le superiori mansioni svolte, concerne un aspetto meramente patrimoniale del rapporto d’impiego, sicche’ non emergono provvedimenti di carattere autoritativo della P.A., ma solo atti paritetici, che rinvengono il loro titolo ed il loro parametro di legittimità esclusivamente e direttamente nelle norme legislative e regolamentari disciplinanti il trattamento economico. Conseguentemente, in relazione a tale domanda, non si configurano posizioni di interesse legittimo, ma di diritto soggettivo, con il conseguente assoggettamento dell’azione relativa all’ordinario termine prescrizionale e non ai ristretti termini decadenziali.
4 – L’art. 23 della legge 29 marzo 1983, n. 93, pur avendo esteso ai dipendenti pubblici le disposizioni di numerosi articoli della legge 300/1970, lo “Statuto dei Lavoratori”, ha escluso il richiamo alle disposizioni contenute nell’art. 13 della legge medesima, non facilmente conciliabili con il sistema del pubblico impiego, caratterizzato da ruoli organici, da qualifiche impiegatizie, da procedure dirette alla scelta degli impiegati più idonei per il posto da ricoprire e da regolamenti organici che contemplano puntualmente le vicende del rapporto d’impiego connesse all’attribuzione di mansioni superiori ed alle promozioni. Pertanto, il principio costituzionale di “adeguatezza” della retribuzione alla qualità e quantità del lavoro prestato, di cui all’art. 36 della Costituzione, non comporta che il dipendente possa vantare un diritto soggettivo immediatamente tutelabile ad una retribuzione commisurata alle mansioni effettivamente svolte, prescindendo dagli atti autoritativi mediante i quali la P.A. esercita il proprio potere discrezionale in ordine alla organizzazione degli uffici ed alla disciplina dello “status” dei dipendenti.
FATTO
Con atto notificato in data 29.5.1997, la ricorrente
premetteva di essere dipendente del Comune di Milano dal 16.2.1971 ed inquadrata
al 5° livello retributivo, con assegnazione presso l’Ufficio del Personale della
Casa di Riposo per Anziani Famagosta di via di Rudinì, 3. DIRITTO
1. Giova precisare che la normativa applicabile al caso di
specie, in base ai principi di ordine generale codificati dall’art.11 delle
Disposizioni Preliminari al codice civile, è quella anteriore all’entrata in
vigore del D.lg. 29 ottobre 1998 n.387, il cui art.15 ha reso anticipatamente
operativa la disciplina dell'art.56 del d.lg. 3 febbraio 1993 n.29, nel testo
sostituito con l'art.25 del d.lg. 31 marzo 1998 n.80.
2. Va preliminarmente esaminata l’eccezione di inammissibilità
del presente ricorso, svolta dal Comune di Milano, per omessa interposta impugnativa
avverso i pregressi atti di inquadramento della ricorrente. 2.1. La seconda domanda, attinente alle pretese retributive
per le superiori mansioni asseritamente svolte, concernendo un aspetto meramente
patrimoniale del rapporto d'impiego, è invece ammissibile. 2.2. La questione inerente la domanda di retribuzione per lo
svolgimento di mansioni superiori si inquadra nell'ambito della più ampia problematica,
scaturente dai profili interpretativi in ordine all'ambito di estensione dell'applicazione
diretta del principio costituzionale di cui all'art. 36, di proporzionalita'
ed adeguatezza della retribuzione al lavoro effettivamente svolto. 2.3. Ciò posto, osserva il Collegio che, nella specie, non
risulta che la pretesa della ricorrente, sia supportata dai seguenti elementi
probatori:
Assumeva di svolgere mansioni che, in base alle declaratorie contrattuali, sarebbero
ascrivibili alla 6° qualifica funzionale quale istruttore ai sensi del D.P.R.
N.347/83, per cui concludeva chiedendo il riconoscimento del proprio diritto
all’inquadramento nella 6° qualifica funzionale, in base al principio della
diretta operatività dell’art.36 della Costituzione anche nell’ambito del rapporto
di pubblico impiego, nonché il pagamento delle differenze retributive per il
periodo pregresso, oltre interessi e rivalutazione dalla singole scadenze fino
alla data di effettivo soddisfo, con vittoria di spese.
Con atto del 23 luglio 1997, si costituiva il Comune di Milano, il quale, in
via preliminare, eccepiva l’inammissibilità del ricorso per omessa interposta
impugnativa avverso i pregressi atti di inquadramento, non potendo essere ipotizzabile,
nel caso di specie, un’azione di accertamento, intesa a far conseguire un diverso
inquadramento alla ricorrente.
Nel merito, sosteneva la tesi dell’infondatezza del ricorso poiché le mansioni
superiori per cui è causa sarebbero state svolte in via di fatto e, cioè, in
assenza di alcun atto di autorizzazione proveniente dall’amministrazione inteso
a conferirle.
Concludeva per il rigetto del ricorso, con ogni consequenziale statuizione anche
in ordine alle spese.
Con memoria del 30.4.2003, la ricorrente sosteneva che il proprio diritto all’inquadramento
nelle superiori mansioni risulterebbe dimostrato per tabulas dalla documentazione
prodotta, inerente la redazione dei turni di servizio, la corrispondenza intercorsa
con la casa di riposo presso cui prestava servizio, le denunce di infortunio,
etc..
Insisteva pertanto nelle già formulate richieste, con vittoria di spese.
Alla pubblica udienza del 21 maggior 2003, il ricorso passava in decisione.
Nell’ambito del quadro normativo applicabile al caso di specie, è “jus receptum”,
a seguito della sentenza della Corte Costituzionale 25 luglio 1990 n.369, che,
ai fini dell'inquadramento giuridico del personale del settore pubblico, non
può essere considerato rilevante lo svolgimento di mansioni riferibili a qualifiche
superiori.
Conseguentemente, la richiesta del pubblico dipendente -intesa ad ottenere una
pronuncia dichiarativa di un preteso diritto all'inquadramento in qualifica
sovraordinata (rispetto a quella rivestita) a causa dello svolgimento di mansioni
superiori - si risolve, in sostanza, in un "petitum" d'accertamento di uno "status",
che può discendere unicamente da una determinazione autoritativa della p.a.
Invero, in tali ipotesi, la domanda dell'impiegato viene a configurarsi come
un’istanza di riesame del proprio inquadramento, disposto con precedente deliberazione
rimasta inoppugnata ed emanata -in assenza di apposita previsione normativa-
nell’esercizio di una potestà discrezionale della p.a. e non già in adempimento
di un obbligo della stessa.
Ne deriva che la pretesa di un dipendente alla revisione del proprio inquadramento,
non impugnato tempestivamente, non impone all'amministrazione di provvedere
(Consiglio Stato, Sez.V°, 1 aprile 1989 n.186), con la conseguenza che l'omesso
esame, da parte dell’amministrazione, della domanda di revisione dell'inquadramento
inopponibile, non da' luogo neanche alla formazione del silenzio-rifiuto impugnabile
in sede giurisdizionale (ex multis: (T.A.R. Umbria 22 dicembre 1995, n. 511),
proprio per la suddetta carenza del presupposto sostanziale dell'obbligo dell'amministrazione
di provvedere in ordine all'istanza dell’interessato.
Diversamente opinando, si perverrebbe all’inaccettabile conclusione secondo
cui l’ordinamento consentirebbe che il dipendente, mediante la domanda di revisione
e la successiva diffida ad adempiere, potrebbe introdurre in giudizio una domanda
di accertamento, atta ad eludere la perentorietà del termine decadenziale (ex
multis: Consiglio Stato sez. IV, 8 settembre 1995, n.661).
Nella specie, la ricorrente avanza una domanda di piu' favorevole inquadramento,
pur non avendo tempestivamente impugnato né l'atto di inquadramento, ne' un
eventuale altro atto dispositivo della revisione in "melius" dell’inquadramento
di altri dipendenti (ex multis, conf.: T.A.R. Friuli Venezia Giulia 20 maggio
1991 n. 247).
Pertanto, la domanda della ricorrente, che ha omesso di interporre impugnativa
avverso il provvedimento definitivo della sua posizione giuridica va dichiarata
INAMMISSIBILE.
Infatti, in relazione alla predetta domanda, non vengono in emergenza provvedimenti
di carattere autoritativo -in cui risulta definita la posizione giuridica e
funzionale della dipendente- ma solo atti paritetici, che rinvengono il loro
titolo ed il loro parametro di legittimita' esclusivamente e direttamente nelle
norme legislative e regolamentari, disciplinanti il trattamento economico.
Conseguentemente, in relazione a tale domanda, non si configurano posizioni
di interesse legittimo, ma di diritto soggettivo, con il conseguente assoggettamento
dell’azione relativa all'ordinario termine prescrizionale e non ai piu' ristretti
termini decadenziali, senza la necessita', quindi, dell'intermediazione dell'impugnativa
di un provvedimento amministrativo o dell'atto paritetico.
Ed invero, il principio di "adeguamento automatico della retribuzione" alla
qualifica inerente le mansioni effettivamente svolte ha trovato attuazione con
l'art.13 della legge 20 maggio 1970 n.300 (Statuto dei Lavoratori), il quale
prevede che al lavoratore, che svolga di fatto mansioni superiori, compete la
retribuzione commisurata a detta prestazione, ma l'art.23 della legge 29 marzo
1983 n.93 (legge quadro sul pubblico impiego) -pur avendo esteso ai dipendenti
pubblici le disposizioni di numerosi articoli della predetta legge n.300/1970-
ha escluso proprio il richiamo alle disposizioni contenute nel predetto art.13,
non facilmente conciliabile con il sistema dell'impiego pubblico, caratterizzato
da ruoli organici, da qualifiche impiegatizie, da procedure dirette alla scelta
degli impiegati piu' idonei per il posto da ricoprire e da regolamenti organici
che contemplano puntualmente le vicende del rapporto d'impiego connesse all'attribuzione
di mansioni superiori ed alle promozioni.
Perciò, nell'ambito del pubblico impiego, il principio costituzionale di “adeguatezza”
della retribuzione alla qualità e quantità del lavoro prestato non comporta
che il dipendente possa vantare un diritto soggettivo -immediatamente tutelabile-
ad una retribuzione commisurata alle mansioni effettivamente svolte, prescindendo
dagli atti autoritativi mediante i quali la pubblica amministrazione esercita
il proprio potere discrezionale in ordine alla organizzazione degli uffici ed
alla disciplina dello "status" dei dipendenti.
Occorre, quindi che il diritto “de quo” sia riconosciuto anche da una norma
regolamentare della pubblica amministrazione, a condizione, comunque, che le
mansioni superiori siano svolte non in via di mero fatto, ma in base a formali
atti di conferimento d'incarico.
E’ stato, infatti, precisato che per «atti formali», attributivi delle mansioni
superiori, si intendono (Cons. Stato, Sez. IV 21 Gen. 1987 n.38) quelli adottati
nell'osservanza delle norme organizzatorie e dei limiti della competenza di
ciascun organo, con l’ovvia conseguenza che va considerata inidonea l'attribuzione
di mansioni superiori disposta da un organo incompetente e/o non ratificata
dall'autorità competente (cfr.: Cons. Stato, Sez. IV° 24 gennaio 1985 n.20 e
28 aprile 1986 n.300).
a) l'esistenza di una norma regolamentare dell'ente di appartenenza che, eccezionalmente,
consenta lo svolgimento di mansioni superiori, sia pure entro limiti temporali
definiti;
b) la sussistenza di ordine di servizio, proveniente dall'autorità gerarchicamente
competente, di cui la prestazione sia esecutiva o, almeno, il riconoscimento
di utilità della medesima da parte della competente autorità;
c) la vacanza e disponibilità del posto in organico, corrispondente alla qualifica
cui si riferiscono le mansioni superiori asseritamente svolte.
Pertanto, nella specie, la stessa peculiare natura del soggetto datore di lavoro,
dotato di un ampio potere organizzatorio (che normalmente esercita, mediante
atti autoritativi), consente di escludere che l'eventuale esercizio di fatto
di mansioni superiori possa supportare la pretesa della ricorrente ad un trattamento
economico diverso da quello corrispondente alla qualifica formalmente rivestita:
a meno che tali effetti non derivino espressamente da apposita previsione normativa
(conf.: Consiglio Stato sez.V 1 dicembre 1992 n. 1415), che, però, nella specie
non risulta provata.
Né può valere il richiamo all’art. 2126 c.c., atteso che detta norma concerne
il principio della retribuibilità del lavoro prestato sulla base di un contratto
o di un atto nullo o annullato e non dà rilievo alle mansioni svolte in difformità
dal titolo invalido, con la conseguenza che essa non appare idonea ad incidere
in alcun modo sui provvedimenti che individuano il trattamento giuridico ed
economico dei dipendenti pubblici e che non consente di disapplicare gli atti
di nomina o di inquadramento.
In conclusione, la domanda della ricorrente, intesa ad ottenere l'integrazione
di trattamento economico, risulta INFONDATA.
In conclusione, il ricorso va, quindi, dichiarato in parte INAMMISSIBILE ed
in parte INFONDATO.
Sussistono giustificati motivi per disporre l’integrale compensazione delle
spese e degli onorari del presente giudizio, ai sensi dell’art.92, I° cpv. c.p.c..