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n. 5 -2010 - © copyright

 

ALFONSO CELOTTO

Il Trattato di Lisbona ha reso la CEDU direttamente applicabile
nell’ordinamento italiano?
(in margine alla sentenza n.1220/2010 del Consiglio di Stato)


1. Negli ultimi decenni il diritto sovranazionale ha acquisito una forza sempre più pervasiva rispetto alle fonti nazionali.
Sappiamo che alle fonti comunitarie è stata riconosciuta una efficacia tale da prevalere non solo sulle leggi interne (a partire dalla sent. n. 170 del 1984 della Corte costituzionale) ma anche sulle norme nazionali di rango costituzionale (a partire dalla sent. n. 399 del 1987 della medesima Corte costituzionale), mediante la diretta applicazione da parte dei giudici comuni. Questa prevalenza ha sostanzialmente modificato il controllo sulle leggi nel nostro ordinamento, consentendo ai giudici di disapplicare le leggi, per contrasto con il diritto comunitario, malgrado gli art. 101, 2° comma e 134 Cost. avessero configurato un modello accentrato in cui soltanto la Corte costituzionale poteva giudicare (e se del caso non applicare) le leggi.
Dopo la modifica costituzionale del 2001 questi principi, noti e consolidati, sono stati costituzionalizzati nell’art. 117, 1° comma, Cost., secondo cui “La potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario”.
Tale disposizione costituzionale aggiunge anche che la potestà legislativa è esercitata nel rispetto degli “obblighi internazionali”, creando non pochi problemi interpretativi e attuativi. Da ormai dieci anni continuiamo a chiederci se anche i trattati internazionali siano diventanti vincoli di validità rispetto alle leggi nazionali, con applicazioni ondivaghe da parte dei giudici, che a volte ignorano questi vincoli, a volte li ritengono così forti al punto da disapplicare le norme interne configgenti, a volte li utilizzano soltanto al fine di offrire una interpretazione costituzionalmente adeguata della legislazione nazionale.
Il problema si è posto soprattutto rispetto all’efficacia della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (comunemente CEDU). A mettere chiarezza è intervenuta la Corte costituzionale con le note sentenze n. 348 e 349 del 2007, a cui hanno fatto seguito le sent. n. 239, 311 e 317 del 2009).
La Corte ha chiarito che «l’art. 117, primo comma, Cost., ed in particolare l’espressione “obblighi internazionali” in esso contenuta, si riferisce alle norme internazionali convenzionali anche diverse da quelle comprese nella previsione degli artt. 10 e 11 Cost. Così interpretato, l’art. 117, primo comma, Cost., ha colmato la lacuna prima esistente quanto alle norme che a livello costituzionale garantiscono l’osservanza degli obblighi internazionali pattizi. La conseguenza è che il contrasto di una norma nazionale con una norma convenzionale, in particolare della CEDU, si traduce in una violazione dell’art. 117, primo comma, Cost.
Questa Corte ha, inoltre, precisato nelle predette pronunce che al giudice nazionale, in quanto giudice comune della Convenzione, spetta il compito di applicare le relative norme, nell’interpretazione offertane dalla Corte di Strasburgo, alla quale questa competenza è stata espressamente attribuita dagli Stati contraenti.
Nel caso in cui si profili un contrasto tra una norma interna e una norma della Convenzione europea, il giudice nazionale comune deve, pertanto, procedere ad una interpretazione della prima conforme a quella convenzionale, fino a dove ciò sia consentito dal testo delle disposizioni a confronto e avvalendosi di tutti i normali strumenti di ermeneutica giuridica. …
Solo quando ritiene che non sia possibile comporre il contrasto in via interpretativa, il giudice comune, il quale non può procedere all’applicazione della norma della CEDU (allo stato, a differenza di quella comunitaria provvista di effetto diretto) in luogo di quella interna contrastante, tanto meno fare applicazione di una norma interna che egli stesso abbia ritenuto in contrasto con la CEDU, e pertanto con la Costituzione, deve sollevare la questione di costituzionalità (anche sentenza n. 239 del 2009), con riferimento al parametro dell’art. 117, primo comma, Cost., ovvero anche dell’art. 10, primo comma, Cost., ove si tratti di una norma convenzionale ricognitiva di una norma del diritto internazionale generalmente riconosciuta. La clausola del necessario rispetto dei vincoli derivanti dagli obblighi internazionali, dettata dall’art. 117, primo comma, Cost., attraverso un meccanismo di rinvio mobile del diritto interno alle norme internazionali pattizie di volta in volta rilevanti, impone infatti il controllo di costituzionalità, qualora il giudice comune ritenga lo strumento dell’interpretazione insufficiente ad eliminare il contrasto
» (in questi termini sent. n. 311 del 2009, § 6 Cons. diritto).
In buona sostanza, la Corte costituzionale ha ritenuto vincolante nell’ordinamento interno la CEDU, ma ha ritenuto che la prevalenza sulle leggi interne passi attraverso un tentativo di interpretazione conforme, seguito non dalla disapplicazione, ma dal classico schema della illegittimità costituzionale per violazione di norma interposta (in questo caso la CEDU si configura quale norma interposta che integra il parametro dell’art. 117, 1° comma, Cost., così come si riteneva che il diritto comunitario integrasse il parametro dell’art. 11 negli anni ’70, prima di ammettere la disapplicazione).

2. L’intervento del giudice costituzionale non sembra tuttavia sufficiente a mettere chiarezza sul punto, come ci dimostra la sent. n. 1220 del 2010 del Consiglio di Stato.
Nell’affrontare una intricata accessione invertita, con interessanti risvolti relativi alla giurisdizione relativa all’azione di restituzione dell’indebito, il Consiglio fa «applicazione dei principi sulla effettività della tutela giurisdizionale, desumibili dall’articolo 24 della Costituzione e dagli articoli 6 e 13 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (divenuti direttamente applicabili nel sistema nazionale, a seguito della modifica dell’art. 6 del Trattato, disposta dal Trattato di Lisbona, entrato in vigore il 1° dicembre 2009).
Per la pacifica giurisprudenza della Corte di Strasburgo (CEDU, Sez. III, 28-9-2006, Prisyazhnikova c. Russia, § 23; CEDU, 15-2-2006, Androsov-Russia, § 51; CEDU, 27-12-2005, Iza c. Georgia, § 42; CEDU, Sez. II, 30-11-2005, Mykhaylenky c. Ucraina, § 51; CEDU, Sez. IV, 15-9-2004, Luntre c. Moldova, § 32), gli artt. 6 e 13 impongono agli Stati di prevedere una giustizia effettiva e non illusoria in base al principio ‘the domestic remedies must be effective’.
In base ad un principio applicabile già prima dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, il giudice nazionale deve prevenire la violazione della Convenzione del 1950 (CEDU, 29-2-2006, Cherginets c. Ucraina, § 25) con la scelta della soluzione che la rispetti (CEDU, 20-12-2005, Trykhlib c. Ucraina, §§ 38 e 50)».
Non ci soffermiamo qui sulla correttezza della soluzione adottata, ma riteniamo assai utile riflettere sulla collocazione gerarchica proposta per la CEDU nel nostro ordinamento (e sui relativi poteri spettanti ai giudici).
Giustamente il Consiglio di Stato ritiene che il giudice nazionale deve prevenire la violazione della CEDU, ma il problema riguarda l’inciso iniziale circa una (reputata) diretta applicabilità della CEDU a seguito del Trattato di Lisbona.
Il Trattato di Lisbona reca due importanti modifiche all’art. 6 del Trattato Unione europea relativamente alla tutela dei diritti fondamentali
Il primo paragrafo riguarda la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (c.d. Carta di Nizza), che viene “comunitarizzata”. Il secondo e terzo paragrafo la CEDU, a cui si consente che l’Unione europea possa aderire.
In particolare al par. 1 leggiamo:
«L'Unione riconosce i diritti, le libertà e i principi sanciti nella Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea del 7 dicembre 2000, adattata il 12 dicembre 2007 a Strasburgo, che ha lo stesso valore giuridico dei trattati.
Le disposizioni della Carta non estendono in alcun modo le competenze dell'Unione definite nei trattati.
I diritti, le libertà e i principi della Carta sono interpretati in conformità delle disposizioni generali del titolo VII della Carta che disciplinano la sua interpretazione e applicazione e tenendo in debito conto le spiegazioni cui si fa riferimento nella Carta, che indicano le fonti di tali disposizioni.»
Ai par. 2 e 3 che:
«L'Unione aderisce alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali. Tale adesione non modifica le competenze dell'Unione definite nei trattati.
I diritti fondamentali, garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, fanno parte del diritto dell'Unione in quanto principi generali
».
E’ evidente il diverso valore giuridico che vengono ad assumere la Carta di Nizza e la CEDU.
La prima acquisisce “lo stesso valore giuridico dei trattati”. In tal modo diviene diritto comunitario e comporta tutte le conseguenze del diritto comunitario in termini di prevalenza sugli ordinamenti nazionali. Intendo dire, che – a seguito del Trattato di Lisbona - una legge interna che contrasta con una norma della Carta di Nizza ben potrà essere disapplicata dal giudice nazionale.
Diverso è il discorso per la CEDU. Il Trattato Unione Europea, per come modificato dal Trattato di Lisbona, consente – superando la tradizionale querelle (cfr. CGCE 28 marzo 1996, parere 2/94) - l’adesione dell’Unione alla CEDU. Non solo tale adesione deve ancora avvenire, secondo le procedure del protocollo n. 8 annesso al Trattato, ma soprattutto non comporterà l’equiparazione della CEDU al diritto comunitario, bensì - semplicemente - una loro utilizzabilità quali “principi generali” del diritto dell’Unione al pari delle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri. Si tratta di una formula non certo dissimile da quella originaria del Trattato sull’Unione europea (approvata nel 1992) “L'Unione rispetta i diritti fondamentali quali sono garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, e quali risultano dalle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri, in quanto principi generali del diritto comunitario”.
Ad avviso di chi scrive, quindi, il Trattato di Lisbona nulla ha modificato circa la (non) diretta applicabilità nell’ordinamento italiano della CEDU che resta, per l’Italia, solamente un obbligo internazionale, con tutte le conseguenze in termini di interpretazione conforme e di prevalenza mediante questione di legittimità costituzionale, secondo quanto già riconosciuto dalla Corte costituzionale.

 

(pubblicato il 21.5.2010)

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