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n. 6-1999 - © copyright.

T.A.R. SICILIA-CATANIA, SEZ. II - Sentenza 10 giugno 1999 n. 1137Pres. Passanisi, Est. Savasta – Barone e c.ti (Avv.ti Pappalardo e Gitto) c. Comune di Catania (Avv.ti Deodati e Mineo), GEPI S.p.A. (Avv. Castello) e CATANIA MULTISERVIZI S.p.A.(Avv.ti Silvestri, Acquarone, Anselmi e Villani) – (accoglie).

Giurisdizione e competenza – Società miste – Controversie circa le modalità di scelta del partner – Giurisdizione amministrativa – Sussiste.

Ricorso giurisdizionale – Legittimazione attiva – Di impresa affidataria di un servizio – Nel caso di adozione di atti di costituzione di società mista – Sussiste.

Comune e Provincia – Società miste – Scelta del socio di maggioranza o di minoranza – Nel caso in cui la società sia affidataria di un servizio pubblico – Gara ad evidenza pubblica – Necessità – Mancanza – Illegittimità.

Nel caso in cui la controversia riguardi non già l’atto di costituzione della società mista in quanto tale, ma l'esercizio scorretto, da parte dell'Ente locale, della potestà amministrativa di organizzare il servizio senza la prevista procedura dell'evidenza pubblica (anche solo limitatamente alla scelta del partner), la relativa controversia rientra nella giurisdizione dell’A.G.O., dato che tale controversia non riguarda la costituzione di una società o la successiva attività di gestione della stessa, ma, più a monte, la legittimità dell'esercizio di un potere discrezionale di scelta del partner societario senza la necessaria procedura di gara.

Una impresa operante nel settore delle pulizie titolare di un contratto di appalto per lo svolgimento del servizio in favore di una P.A è legittimata ad impugnare gli atti con i quali la P.A. stessa costituisce una società mista finalizzata alla gestione dei medesimi servizi, dato che tali atti sono in grado di precludere all’impresa medesima, per lungo tempo, la mera possibilità di operare nel settore di competenza (1).

Poiché la costituzione di una società mista consente il contestuale affidamento del servizio oggetto della stessa società, se la funzione ricoperta non assume un interesse generale e se non è possibile attribuire la valenza di servizio pubblico all’attività da svolgere, la stessa non può essere regolata dai modelli previsti dalla legislazione di settore e, pertanto, concretando di fatto l’affidamento di un servizio secondo una procedura assimilabile all’appalto, richiede necessariamente l’applicazione della normativa di matrice comunitaria e, pertanto, l’utilizzo della evidenza pubblica nella scelta del partner sia esso di maggioranza che di minoranza.

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(1) Cfr. Cons. Stato, V, 19 febbraio 1998 n. 192.

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Sicilia, Sezione Staccata di Catania, Sezione Seconda, composto dai Signori Magistrati:

Dott. Luigi Passanisi Presidente

Dott. Ettore Leotta Consigliere

Dott. Pancrazio Maria Savasta Referendario rel. est.

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sui ricorsi nn. 3135/97 e 3319/97 R.G. proposti

quanto al ricorso n° 3135/97

da ANTONINO BARONE, nella qualità di legale rappresentante p.t. dell'A.G.A.P. - CONFARTIGIANATO, sez. provinciale di Catania, VALERIA BONFIGLIO, nella qualità di legale rappresentante p.t. della SOOC. COOP. a r.l. "L'AURORA PULIZIE", PATRIZIA GULISANO, titolare dell'impresa individuale di pulizie "LA STELLA", GIUSEPPA MIRONE, nella qualità di legale rappresentante p.t. della s.a.s. "PUNTO PULIZIE", GIULIANA IOLANDA, nella qualità di legale rappresentante p.t. della s.r.l. "POLISERVICE" e GRAZIA LO FARO, titolare dell'impresa individuale di pulizie ARTIGIANA PULIZIE, rappresentati e difesi dagli avv.ti Santi Pappalardo e Giuseppe Gitto, ed elettivamente domiciliati presso lo studio di questi sito in Catania Via Umberto I n° 200;

contro

il Comune di Catania, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dagli avv.ti Donata Deodati e Francesco Mineo, dell'Avvocatura dell'Ente, presso la cui sede è elettivamente domiciliato in Catania P.za Verga n° 7;

e nei confronti

della GEPI S.p.A., oggi ITAINVEST S.p.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’avv. Francesco Castiello ed elettivamente domiciliata presso lo studio dell'avv. Ignazio Scuderi sito in Catania Via V. Giuffrida n° 37;

della CATANIA MULTISERVIZI S.p.A., interveniente, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avv.ti Enzo Silvestri, Lorenzo Acquarone, Daniela Anselmi e Ludovico Villani ed elettivamente domiciliata, ex lege, presso la Segreteria di questo Tribunale;

quanto al ricorso 3319/97

da LA LUCENTE di MARIA LOMBARDO, la COOP. EUREKA a r.l., in persona del Presidente Vincenzo Rapisarda, la SOC. COOP. a r.l. OSCAR BRILL, in persona del Presidente Giuseppe Zappalà, la TECNO SERVICE di RINALDI GRAZIA in persona di Antonio Paratore, la I.P.I. di LO FARO ALFIO rappresentati e difesi dagli avv.ti Michele Alì e Donato De Luca ed elettivamente domiciliati presso lo studio di quest'ultimo sito in Catania Via Lago di Nicito n° 14;

contro

il Comune di Catania, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dagli avv.ti Mario Libertini e Francesco Mineo, ed elettivamente domiciliato presso la sede dell'Avvocatura dell'Ente, sita in Catania P.za Verga n° 7;

e nei confronti

della GEPI S.p.A., oggi ITAINVEST S.p.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’avv. Francesco Castiello ed elettivamente domiciliata presso lo studio dell'avv. Ignazio Scuderi sito in Catania Via V. Giuffrida n° 37;

della CATANIA MULTISERVIZI S.p.A., interveniente, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avv.ti Enzo Silvestri, Lorenzo Acquarone, Daniela Anselmi e Ludovico Villani ed elettivamente domiciliata, ex lege, presso la Segreteria di questo Tribunale;

per l’annullamento

della deliberazione del Consiglio Comunale di Catania, n° 14 del 26.2.1996, con cui è stata deliberata la costituzione tra il Comune di Catania e la GEPI S.p.A. della Società per Azioni "CATANIA MULTISERVIZI" ed è stato disposto l'affidamento diretto alla predetta società dei servizi di pulizia e custodia degli immobili di proprietà o in uso del Comune;

Visti i ricorsi ed i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio dell’Amministrazione comunale intimata e della Itainvest S.p.A.;

Visto l'atto di intervento in giudizio della Catania Multiservizi s.p.A.;

Viste le memorie prodotte dalle parti a sostegno delle rispettive difese;

Visti gli atti tutti della causa;

Designato relatore per la pubblica udienza del 15.1.1999 il Referendario Dr. Pancrazio Savasta;

Uditi gli avv.ti Santi Pappalardo, Giuseppe Gitto, Michele Alì e Donato De Luca, per i ricorrenti, Francesco Mineo e Mario Libertini, per l’Amministrazione intimata, Francesco Castiello, per la Itainvest S.p.A., Lorenzo Acquarone ed Enzo Silvestri, per la Catania Multiservizi interveniente;

Ritenuto in fatto e considerato in diritto quanto segue:

FATTO

Il Comune di Catania, con delibera n° 14 del 26.2.1997, ha costituito con la GEPI S.p.A., oggi Itainvest S.p.A., la Società per Azioni "Catania Multiservizi", riservandosi la quota di partecipazione maggioritaria del 51% fissata in £. 3.000 milioni.

Il nuovo organismo societario, così come è dato evincere dalla motivazione espressa nel provvedimento istitutivo, è stato costituito al fine di eliminare una serie di inconvenienti legati alla carenza di personale comunale ed al consequenziale affidamento dei servizi di pulizia e custodia di locali propri o comunque affidati all’amministrazione intimata (centro dir. di n.u. ed autoparco, uffici comunali, impianti sportivi, mercati rionali, ittico ed ortofrutticolo, Palazzo di Giustizia, aule bunker, scuole ed altri).

In particolare, si è inteso ovviare all'esborso di un prezzo che comprende utili e spese generali delle imprese appaltatrici e, altresì, alla necessità di bandire ed espletare gare che spesso generano contenziosi, di gestire il passaggio (molte volte anch'esso oggetto di controversie generanti incertezza ed instabilità nell'occupazione) dei dipendenti dalle imprese che cessano il servizio a quelle subentranti, di organizzare e mantenere un adeguato servizio di controllo di dette attività, con consequenziale sottrazione di risorse soggettive ed oggettive comunali allo svolgimento di altri compiti di istituto.

Esplicitate le finalità, il Comune, con la delibera

impugnata, dopo aver richiamato l'art. 22 della L. 142/90 nel testo regionale e l'art. 4, 6° comma, del d.l. 21.1.1995 n° 26, ha precisato che, trattandosi di società con maggioranza di capitale pubblico, non sussisteva l'obbligo di adottare la procedura ad evidenza pubblica per la scelta del socio altrimenti necessaria e, pertanto, addiveniva alla costituzione della società senza ricorrere ad alcuna selezione, ma mediante scelta diretta del partner societario.

Le ricorrenti, imprese di pulizia operanti nel settore e titolari di contratto di appalto (munito di esplicita clausola di risoluzione in caso di affidamento del servizio ai sensi del citato art. 22 L. 142/90) con il Comune resistente, con ricorso iscritto al n° 3135/97 notificato il 10.6.97 e depositato il 24.6.97 e con ricorso iscritto al n° 3319/97 notificato il 27.6.1997 e depositato il 3.7.197, hanno impugnato tale ultimo provvedimento, deducendo, a sostegno delle proprie ragioni, le seguenti censure:

Ricorso 3135/97:

I. Violazione del D.Lgs.vo 17.3.1997 n° 157 e della direttiva C.E. n° 50/92 del 18.6.1992. Violazione degli articoli 5, 85 e 90 del Trattato Istitutivo della Comunità Europea. Violazione dell'art. 3 Direttiva C.E. n° 50/92.

L'amministrazione resistente, ritenendo possibile la diretta costituzione di una società mista con la GEPI S.p.A., ha posto a fondamento dell'impugnato provvedimento le norme espresse dall'art. 4, 6° comma, della L. 95/1995 e dal regolamento sulla costituzione di società miste in materia di servizi pubblici locali emanato con il D.P.R. 16.9.1996 n° 533.

Secondo quest'ultima fonte legislativa, il ricorso alla procedura concorsuale sarebbe obbligatorio soltanto nel caso in cui debba scegliersi il socio privato di maggioranza.

Il riferimento, secondo i ricorrenti, sarebbe privo di pregio.

Il regolamento de quo, infatti, si soffermerebbe a favorire l'avvio della operatività delle disposizioni previste dall'art. 12 della L. 498/92 teso a regolare esclusivamente il tipo di rapporti richiamato.

Ne deriverebbe l'impossibilità di applicazione della normativa richiamata al caso in esame.

Lo stesso, infatti, concernerebbe la diversa fattispecie relativa alla costituzione di una società mista a partecipazione maggioritaria dell'ente locale.

L'espressa previsione legislativa, in quanto circoscritta all'ambito delineato, non sarebbe pertanto espressiva di una volontà del legislatore volta a limitare l'evidenza pubblica al solo caso richiamato di partecipazione minoritaria dell'amministrazione.

L'art. 22 della L. 142/90, finalizzato alla istituzione di un organismo diverso dalla originaria amministrazione legittimato al diretto affidamento dei servizi pubblici, dovrebbe essere letto alla luce dell'intervenuta normativa comunitaria ed alle disposizioni di attuazione espresse dal D. Lgs.vo 157/95 (attuativo della Direttiva CEE 92/50).

Ne deriverebbe che l'affidamento in appalto di servizi pubblici, anche da parte degli enti territoriali, dovrebbe essere conferito mediante procedura ad evidenza pubblica, da seguire almeno al momento della scelta del socio privato.

Quest'ultimo, infatti, coinvolto seppur indirettamente nella gestione di detti servizi, dovrebbe essere selezionato secondo i procedimenti previsti per la scelta del contraente e per la stipulazione dei contratti (tale essendo, per altro, la configurazione giuridica della costituzione della società mista).

L'impugnato provvedimento non si sarebbe soffermato alla scelta del partner di minoranza, ma, andando oltre, si sarebbe spinto, derogando ulteriormente dalle disposizioni comunitarie, sino all'affidamento diretto dei vari servizi di pulizia alla costituita nuova società.

L'Amministrazione resistente, per altro, risulterebbe convinta della bontà delle tesi sostenute dai ricorrenti, atteso che, nella parte motiva della deliberazione avversata, avrebbe giustificato la deroga alle procedure anzidette, "altrimenti necessarie", sol perché la società è stata costituita con la GEPI S.p.A.

Infatti, ai sensi dell'art. 4, comma 6°, della L. 95/95, il legislatore avrebbe autorizzato, "al fine di favorire l'occupazione e la rioccupazione dei lavoratori" i comuni e le provincie a costituire società per azioni con la GEPI S.p.A., anche per la gestione di servizi pubblici locali.

Detta norma, conferendo una posizione di indubbio vantaggio in favore di detta ultima società, dovrebbe essere disapplicata alla luce della più volte richiamata normativa comunitaria.

La GEPI, infatti, nonostante i suoi fini istituzionali e la partecipazione al capitale sociale dello Stato ed Enti pubblici, rimarrebbe comunque una società di diritto privato.

L'art. 90 del Trattato CEE renderebbe illegittimo ogni intervento degli stati membri, anche a carattere legislativo, volto a rendere praticamente inefficaci le norme sulla concorrenza.

Analogo divieto scaturirebbe dal combinato disposto degli artt. 5 ed 85 del medesimo Atto istitutivo.

Dalla diretta applicabilità delle richiamate norme, deriverebbe che la diversa previsione legislativa dovrebbe essere considerata tamquam non esset.

II. Violazione degli articoli 189 Ord. Amm. EE.LL. Reg. Sic. (L.R. 15.3.1963 n° 16) e dell'art. 55, co. 5°, L. 8.6.1990 n° 142 recepito con L. R. 11.12.1991 n° 48.

L'art. 189 dell'O.A.EE.LL. stabilisce che le deliberazioni dei Comuni che importino spesa devono indicare la copertura finanziaria.

L'art. 55, co. 5°, della L. 142/90, recepito nella Regione Siciliana con L.R. 48/91, prescrive che gli impegni di spesa non possono essere assunti senza l'attestazione della medesima.

A detti obblighi, l'amministrazione comunale non si sarebbe sottratta limitatamente alla prima stesura non emendata del provvedimento impugnato.

Di seguito alle successive variazioni, la dichiarazione relativa alla copertura delle spese, conclamando la sua illegittimità, sarebbe risultata imputata a capitoli di bilancio differenti.

Ricorso 3319/97.

I. Violazione e falsa applicazione dell'art. 4, commi 6 e 55, del D.L. 31.01.1995 n° 26 conv. nella L. 29.03.1995 n° 95 in relazione agli artt. 5 e 55 della L. 22.03.1971 n° 184. Difetto di giuridico presupposto. Eccesso di potere sotto i profili dello sviamento.

Le finalità della GEPI sono state previste esplicitamente dall'art. 5 della L. 184/71 che avrebbe limitato l'intervento della citata Società alle sole ipotesi di accrescimento dei livelli di occupazione compromessi da difficoltà transitorie di imprese industriali.

L'art. 4 della L. 95/1995 ha altresì stabilito che, ai predetti fini, i comuni e le province sono autorizzati a costituire società per azioni con la GEPI S.p.A. anche per la gestione di servizi pubblici locali, ovvero consentirne l'ingresso in società da essi partecipate.

Le partecipazioni da quest'ultima detenute, in ogni caso, devono essere cedute entro il termine di cinque anni mediante gara pubblica.

Dall'esame congiunto delle citate disposizioni, deriverebbe che la GEPI può partecipare a società miste per la gestione di servizi pubblici, solo in quanto vi siano imprese che non riescano ad assicurare livelli occupazionali a causa di difficoltà transitorie.

Ai sensi dell'art. 22 L. 142/90, quindi, il Comune sarebbe legittimato a gestire in proprio o mediante concessione un servizio, ovvero a dare vita, a tal fine, ad un'azienda speciale o ad una società mista, ma a quest'ultima soluzione non si potrebbe giungere senza la sussistenza delle preliminari condizioni stabilite dalla legge.

Il provvedimento impugnato, pertanto, sarebbe illegittimo perchè la costituita società, fuori dalla necessaria gara pubblica per la scelta del partner sia pure minoritario, non intenderebbe perseguire gli scopi stabiliti dalla legge, ma sarebbe volta alla risoluzione di difficoltà interne relative alla gestione dei servizi in esame ed a dirimere il contenzioso che normalmente viene ad instaurarsi in ordine al trapasso dei lavoratori da una ditta aggiudicataria ad un'altra nell'ipotesi di subingresso nell'appalto.

Quest'ultimo scopo, per altro, non potrebbe considerarsi come derivato dalla normativa già esaminata e relativa ai fini istituzionali della GEPI.

Così argomentando, infatti, si giungerebbe alla conclusione secondo la quale tutti i Comuni, in quanto assillati dalle medesime "preoccupazioni" dell'Amministrazione resistente, dovrebbero costituire ciascuno una società con la GEPI S.p.A.

Conclusivamente, sul punto, dalle finalità espresse si sarebbe dovuto giungere soltanto alla costituzione di una società con le imprese operanti sul mercato mediante l'osservanza dei criteri concorrenziali della gara pubblica e non già ad una trattativa privilegiata con un partner determinato.

II. Violazione dell'art. 45 bis della L.R. 29.04.1985 n° 21 nel testo introdotto dall'art. 53 della L.R. 10/1993. Violazione dell'art. 3, comma 7 lettera E, della L.R. 5.4.1995 n° 26. Violazione degli artt. 97 Cost. Violazione degli artt. 6 e 55 della L. 241/1990. Violazione degli artt. 86 e 90 Trattato C.E.C.

L'art. 45 bis della L.R. 21/85, nel testo introdotto dall'art. 53 della L.R. 10/93 stabilisce che la scelta dei soci privati e pubblici per la costituzione delle società miste per la gestione dei servizi pubblici a maggioranza pubblica "è ammesso a condizione che venga data un'adeguata pubblicità alla procedura di scelta dei soggetti pubblici e privati con cui costituire la società".

Risulterebbe confermata, pertanto, la necessità del ricorso alla procedura ad evidenza pubblica.

L'art. 3 della L.R. 26/95, inoltre, occupandosi della medesima materia relativa alla costituzione delle società in esame, ha demandato all'emanazione di direttive specifiche del Presidente della Regione il compito di regolare "i criteri di scelta dei possibili soci mediante procedimento di confronto concorrenziale, nel rispetto dei principi della normativa comunitaria".

Per altro, pur ipotizzando che l'art. 4 L.95/1995 abbia ammesso un'eccezione all'evidenza pubblica, nell'ipotesi di costituzione di società con la GEPI, la stessa risulterebbe contrastante con la normativa speciale citata, espressione della potestà legislativa esclusiva del legislatore siciliano.

In definitiva, quindi, l'attività amministrativa non avrebbe assicurato né le forme di pubblicità previste dalla L.R. 21/85, né il confronto concorrenziale destinato a garantire l'efficienza e l'imparzialità della stessa.

Inoltre, la scelta mediante gara discenderebbe direttamente dalla normativa comunitaria espressa dagli artt. 86 e 90 del Trattato CEE richiamato nel parere del 24.2.1997 dell'Autorità per la concorrenza, che avrebbe censurato il mancato confronto concorrenziale con gli altri operatori.

Con ulteriore censura, i ricorrenti hanno precisato che l'amministrazione resistente, in spregio agli artt. 6 e ss. della L. 241/90, avrebbe omesso di nominare un responsabile del procedimento e di avvertire le imprese ricorrenti (tutte impegnate a svolgere i servizi de quibus).

III. Eccesso di potere per carenza di motivazione, erroneità dei presupposti e contraddittorietà. Violazione del principio di buona amministrazione.

La deliberazione impugnata non si sarebbe, come dovuto, adeguatamente espressa in ordine alle ragioni che avrebbero determinato l'Amministrazione a scegliere il tipo di organismo costituito al fine del raggiungimento dei propri fini ed ai concreti vantaggi derivanti dalla scelta operata.

L'accenno ai vantaggi che detta nuova società garantirebbe, oltre che essere comunque relativamente immotivato (in quanto non renderebbe conto della maggiore utilità derivante da una scelta del partner GEPI rispetto ad altre imprese), risulterebbe fondato sull'erroneo presupposto secondo il quale la scelta dell'amministrazione resistente avrebbe risolto il problema occupazionale del personale impiegato dalle imprese appaltatrici ed avrebbe creato prospettive concrete di nuova occupazione.

La costituita nuova società, secondo un apposito studio denominato "progetto di una società mista Comune di Catania-GEPI" concernente l'impiego di mano d'opera e costi, avrebbe dovuto assicurare utili crescenti da un minimo di £. 33.000.000 ad un massimo di £. 644.000.000.

Detta circostanza non sarebbe conforme al vero atteso che la situazione relativa all'attuale occupazione sarebbe determinata dall'impiego di 522 addetti, per il costo complessivo di £. 15.487.705.000 a fronte di una utilizzazione prevista di 440 operai con un costo di £. 20.883.688.000.

Conclusivamente, il Comune perderebbe una media di 5 miliardi l'anno e risulterebbe una contrazione del personale impiegato di circa il 20 %.

I dati, inoltre, sarebbero ancora da integrare.

Infatti, la valutazione dei costi dei servizi operata nel riferito progetto, essendo in alcuni casi relazionata non già al prezzo di aggiudicazione, ma alla base d'asta, risulterebbe evidentemente falsata per un importo pari a circa 1 miliardo.

Costituitasi nei due ricorsi l'Amministrazione intimata ha concluso per l'irricevibilità, l'inammissibilità e, comunque, l'infondatezza del ricorso.

Quanto al ricorso 3135/97, in particolare, ha eccepito la tardività dell'azione dei ricorrenti atteso che l'art. 19, comma 3, della L. 135/97 ha disposto la riduzione a metà dei termini processuali e che di conseguenza il ricorso avrebbe dovuto essere notificato entro il mese di maggio del 1997, mentre a tale onere si è ottemperato solo il 9.6.1997.

Il ricorso, inoltre, sarebbe inammissibile per la carenza dell'interesse dei ricorrenti, i quali, dalla delibera impugnata, non riceverebbero alcun danno diretto, attuale ed immediato.

In effetti, il ricorso è volto a sindacare una scelta meramente discrezionale dell'amministrazione, la quale non avrebbe alcun obbligo di svolgere i servizi de quibus mediante l'affidamento degli stessi con la formula dell'appalto.

A tanto non sarebbe possibile pervenire atteso che gli artt. 22 e 23 della L. 142/90, in tema di servizi pubblici, offrirebbero un ventaglio di scelte che, in quanto discrezionali, non sarebbero sindacabili dal giudice amministrativo.

A tale conclusione, sarebbe doveroso giungere segnatamente nella fattispecie in esame caratterizzata dalla costituzione di una società con partner societario di minoranza prestabilito dalla vigente normativa, per cui la valutazione dell'interesse pubblico sarebbe stata già insindacabilmente effettuata dal legislatore.

Nel merito, poi, non sarebbe stata affatto violata la normativa comunitaria cui i ricorrenti si riferiscono per sostenere le proprie ragioni.

Posto, infatti, che il D.P.R. 533/96 impone la selezione ad evidenza pubblica solo nel caso di società miste a prevalente capitale privato, nell'ipotesi in cui la partecipazione dell'ente costituente sia maggioritaria, non sussisterebbe detto obbligo tanto più nell'ipotesi in cui, secondo il chiaro dettato dell'art. 4, comma 6°, della L. 95/1995, il partner prescelto sia la GEPI S.p.A.

In tal senso, la questione sarebbe stata risolta in maniera tanto autorevole quanto illuminante dal parere espresso, proprio in ordine al citato D.P.R. 533/1996, dall'Adunanza Generale del Consiglio di Stato del 16.5.1996.

Destituita di fondamento sarebbe, in ultimo, la censura relativa alla violazione dell'art. 189 dell'O.R.E.L. e dell'art. 55 della L. 142/90, in quanto il finanziamento relativo alla costituzione della società, diversamente da quanto sostenuto dai ricorrenti, sarebbe collegato non già a somme di futura disponibilità, ma ad importi già presenti nella contabilità dell'Amministrazione.

Quanto al ricorso 3319/97, il Comune, riportandosi alle eccezioni sopra evidenziate, ha altresì insistito in ordine alla inammissibilità ed alla infondatezza dei motivi addotti dai ricorrenti.

In particolare, poi, ha contestato il sillogismo secondo il quale non sussistendo la premessa principale dello stato di "difficoltà transitoria delle imprese", dovrebbe conseguire l'inapplicabilità della norma di favore in caso di costituzione di società miste con la GEPI S.p.A.

A tanto dovrebbe giungersi qualora si osservi che l'originaria funzione di detta società ha trovato notevole sviluppo per effetto di tutta una serie di interventi legislativi che hanno posto come unico obiettivo ineludibile, il sostegno e/o l'incremento dell'occupazione, finalità, questa, evidentemente perseguita dall'impugnato provvedimento.

Analogamente privo di fondamento alcuno sarebbe l'assunto dei ricorrenti secondo il quale il presupposto per l'applicazione della normativa comunitaria dovrebbe essere riferito al concetto di "servizio pubblico".

L'attività prevista dalla deliberazione avversata, non avrebbe nulla a che vedere con la predetta categoria.

Infatti, quest'ultima dovrebbe riferirsi a delle ipotesi in cui i servizi si indirizzano alla collettività in quanto tale (e, pertanto, di regola, vengono remunerati secondo il criterio delle tariffe) e non già direttamente all'Ente come nel caso in esame.

La normativa comunitaria, quindi, dovendo essere riferita soltanto agli appalti di pubblici servizi, e cioè, secondo l'art. 3, comma 1, del D.L. 157/95 di recepimento della Direttiva 92/50/CEE, a quei contratti a titolo oneroso conclusi per iscritto tra un prestatore di servizi ed un'amministrazione aggiudicatrice (……) aventi ad oggetto la prestazione dei servizi elencati negli allegati, non potrebbe essere debitamente richiamata in questo caso ove ci si riferisce a servizi erogati esclusivamente in favore dell'Ente pubblico.

Il servizio di pulizia dei locali, destinati a qualsiasi attività pubblica, infatti, sarebbe un mero "servizio strumentale" per la realizzazione dell'attività pubblica di cui si tratta.

Per l'acquisizione dello stesso, secondo la difesa del Comune, l'Ente pubblico potrebbe "scegliere la via dell'autoproduzione, mentre, se ritenga di doversi rivolgere a terzi, dovrebbe applicarsi la normativa concernente gli appalti dei pubblici servizi, così come per l'acquisizione di qualsiasi bene strumentale per la realizzazione di un'attività pubblica si dovrà applicare la disciplina degli appalti pubblici di fornitura di beni".

Risulterebbe, pertanto, inapplicabile l'art. 45 bis della L.R. 21/1985 essendo lo stesso finalizzato alla scelta di soggetti pubblici e privati con i quali costituire società volte ad erogare servizi pubblici che abbiano ad oggetto attività rivolte a realizzare fini sociali ed a promuovere lo sviluppo economico e civile delle comunità locali.

Per gli identici motivi non potrebbe trovare applicazione l'art. 8 della L.R. 26/1995.

In definitiva, allora, occorrerebbe semplicemente applicare la normativa nazionale in vigore e, segnatamente, il richiamato art. 4, comma 6, della L. 95/1995 che autorizza i Comuni a costituire società con la GEPI anche per la gestione di servizi pubblici.

Dalla riferita congiunzione, emergerebbe la volontà del legislatore di estendere nei rapporti de quibus la possibilità di costituzione di una società anche nei casi non specifici di gestione di servizi pubblici.

La legittimità dell'operato amministrativo sarebbe comunque rilevabile sol che si consideri che la maggioranza del capitale della società viene detenuta dal Comune.

Ne deriverebbe l'inapplicabilità dell'art. 12 della L. 492/1992 e del D.P.R. 533/96 volti alla regolamentazione delle società costituite per l'esercizio dei servizi pubblici.

Coerentemente, secondo l'art. 3 dello statuto societario, la società può erogare i servizi solo nei confronti del Comune.

Il socio di minoranza, inoltre, nel perseguire le finalità espresse dall'art. 4 della L. 95/1995, dovrà cedere la sua partecipazione entro cinque anni mediante gara pubblica.

Il modello delineato, quindi, essendo caratterizzato dalla prevalenza del capitale pubblico ed avendo, quindi, un ruolo determinante nella gestione della società, si avvicinerebbe a quello della "gestione diretta" e, come tale, privo di quella "libertà di movimento" che consentirebbe di incidere sullo svolgersi del processo concorrenziale.

Detto modulo, inoltre, manterrebbe tutti i requisiti richiesti per essere sottratto alla procedura ad evidenza pubblica secondo la definizione di "organismo pubblico" fornito dalla stessa normativa comunitaria (e d'attuazione) richiamata dai ricorrenti.

Infatti la costituita società sarebbe dotata di personalità giuridica, sarebbe finanziata interamente dallo Stato (tramite la GEPI) e dal Comune e sarebbe stata istituita per soddisfare bisogni di interesse generale aventi carattere non industriale o commerciale (quali l'interesse ad una migliore e più razionale organizzazione dell'attività del Comune di Catania e l'interesse a favorire l'occupazione mediante la stabilizzazione dei rapporti altrimenti precari).

In definitiva, il Comune, mediante un atto organizzatorio, strettamente connesso alle proprie funzioni istituzionali, avrebbe deliberato il passaggio da un regime di appalto pubblico ad uno di autoproduzione (ed in tal senso deporrebbe la previsione dell'assorbimento della forza lavoro proveniente dalla gestione dei servizi comunali).

Risulterebbe privo di pregio il riferimento al parere dell'Autorità garante della Concorrenza e del Mercato atteso che lo stesso si sarebbe rivolto soltanto alla possibilità che, nelle ipotesi di costituzione di società miste, il socio di minoranza possa fruire della situazione di monopolio garantita funzionalmente all'ente pubblico collegato soltanto nelle ipotesi in cui si versi in ipotesi di gestione di servizi pubblici.

Non essendovi, nel caso in esame, alcun riferimento a detta ultima possibilità, non sarebbe legittimo trarre alcuna conclusione relazionata ad una inesistente situazione di monopolio.

Ove, poi, venga in rilievo che la GEPI, per espressa disposizione normativa (art. 3, comma 2, D.M. Ind. 15.3.1996), non può assumere in ogni caso una partecipazione maggioritaria, sarebbe debito concludere per l'insussistenza di alcuna titolarità di diritto speciale censurata dall'art. 90 del Trattato CE.

Ne conseguirebbe la non doverosità di adozione di alcuna procedura ad evidenza pubblica, per altro espressamente prevista al momento della necessaria dismissione a termine dalla partecipazione azionaria della GEPI.

In ordine, poi, alla censura relativa alla relazione tecnica, risulterebbe sufficiente evidenziare come la previsione dei 440 dipendenti si riferisce a soggetti impiegati "a tempo pieno" contro i presunti 520 soggetti "part time" che le imprese occuperebbero.

Costituitasi la GEPI S.p.A., premesso che l'evidenza pubblica sarebbe statuita soltanto per le ipotesi in cui non si versi in società miste definibili, a causa della partecipazione minoritaria del partner privato, come "finalisticamente caratterizzate", ha posto in evidenza come la normativa di riferimento deve essere individuata in quella che, in maniera speciale ed innovando rispetto alle pregresse previsioni, ha consentito, proprio a detta società, di costituire, nell'esercizio dell'attività discrezionale amministrativa, autonomi organismi con i Comuni.

L'esistenza di una specifica quanto diversa normativa a favore della GEPI deporrebbe, in maniera non equivoca, per la volontà del legislatore di prendere in esame l'esclusiva posizione, finalisticamente preordinata, della società controinteressata mediante delle disposizioni volte a discriminare la stessa rispetto tutti gli altri organismi privati dello stesso tipo.

Per altro, la normativa regionale richiamata dai ricorrenti indirizzata a regolare la scelta dei soci, non avrebbe ancora trovato attuale applicazione in carenza della prevista emanazione delle necessarie direttive del Presidente della Regione.

Inoltre, il disposto espresso dall'art. 4 della L. 95/1995 costituirebbe estrinsecazione di un principio generale dell'ordinamento amministrativo secondo il quale la procedura dell'evidenza pubblica sarebbe inconciliabile con i contratti associativi della P.A. (dominati dall'intuitus personae), limitandosi, la stessa, ad essere compatibile soltanto con i contratti di scambio.

Da detto principio non sarebbe lecito prescindere ove si osservi che la legge regionale, con i richiamati riferimenti alla necessità dell'evidenza pubblica, sarebbe priva dello strumento attuativo previsto e consistente nelle Direttive del Presidente della Regione.

In ordine, poi, alla ritenuta deviazione dalla normativa comunitaria, la società mista strutturata con la forma della partecipazione maggioritaria dell'ente pubblico, dovrebbe essere debitamente ricondotta alla gestione diretta da parte dell'ente locale.

Con atto di intervento notificato per ambedue i procedimenti il 7.1.1998, anche la "Catania Multiservizi S.p.A." ha chiesto che i ricorsi vengano dichiarati inammissibili e comunque infondati nel merito.

Con ulteriore memoria depositata il 16.4.1998, i ricorrenti (ritenute come fondate le osservazioni del Comune e della GEPI secondo le quali non sarebbe possibile riferirsi all'art. 22 lett. e) della L. 142/90 in quanto l'attività oggetto della costituita società non concernerebbe "servizi pubblici", ma compiti che il Comune avrebbe potuto gestire in proprio mediante l'assunzione diretta di personale alle proprie dipendenze) hanno osservato come i tre argomenti principali posti a fondamento delle controdeduzioni non possano essere condivisi.

Privo di rilievo, infatti, sarebbe il riferimento alla sussistenza nel caso de quo di un contratto associativo per cui, ai fini della costituzione delle società miste, non sarebbero applicabili le norme di contabilità di Stato che, quindi, concernerebbero soltanto i contratti di scambio.

L'art. 42 del Regolamento di esecuzione dell'O.R.E.L. farebbe, intanto, riferimento indistintamente a tutti i contratti.

La normativa de qua, inoltre, non potrebbe contenere alcun riferimento alle pattuizioni associative per il semplice motivo che, al momento della emanazione della

stessa, non sarebbe stata prevista la capacità della P.A. di costituire società a capitale misto.

La procedura ad evidenza pubblica, pertanto, sarebbe necessitata sol che si osservi che la società diventa direttamente affidataria del servizio senza che sia necessario un separato affidamento del medesimo.

Né maggior rilievo assumerebbe la circostanza secondo la quale, conformemente al diritto comunitario, la gara sarebbe stata prevista dal diritto interno quale mera opzione versandosi, nel caso in esame, di partecipazione minoritaria da parte dell'ente privato.

L'osservazione avrebbe giuridica consistenza, e quindi avrebbe senso il trattamento di favore di scelta del partner, qualora la struttura costituita con il provvedimento impugnato fosse riconducibile all'ipotesi di "organismo di diritto pubblico" cui rinviano in maniera esplicita gli artt. 1 e 6 della Direttiva CEE 92/50.

A detta ultima conclusione non sarebbe possibile giungere atteso che verrebbe a mancare almeno uno degli elementi indefettibili richiesti dalla richiamata normativa.

Infatti, il nuovo soggetto creato dall'Amministrazione resistente con la GEPI non beneficerebbe di un diritto esclusivo, ovvero non sarebbe stato istituito al fine di soddisfare specificatamente bisogni di interesse generale.

Nel caso in esame, proprio dalle argomentazioni espresse dalle difese del Comune, emergerebbe come l'attività amministrativa si sia rivolta alla cura di interessi specifici dell'Ente territoriale.

Rimarrebbe avvalorata la necessità di una applicazione indiscriminata della normativa comunitaria e, pertanto, la necessità del ricorso all'evidenza pubblica nella scelta del partner.

Lo scopo della normativa comunitaria, infatti, risiederebbe nella individuazione di criteri che consentano l'accesso in condizioni di eguaglianza agli appalti pubblici, talché risulterebbe necessitata la censura verso ogni comportamento volto a conseguire direttamente o indirettamente un effetto elusivo nei confronti del richiamato elemento teleologico.

Ad una diversa conclusione, comunque, non sarebbe possibile pervenire neanche di fronte ai richiami di diritto interno.

Occorrerebbe, infatti, nell'ipotesi de qua risolta da una recente pronuncia del Consiglio di Stato (Sez. V, 192/98), per legittimare la scelta mediante gara del partner privato di minoranza, richiamare la normativa espressa dall'art. 87 del T.U. 3.3.1934 n° 383 e del titolo II del Regolamento di Contabilità di Stato, R.D. 23.5.1927 n° 827.

Con memoria depositata il 28.5.1998, l'amministrazione resistente ha precisato che detta ultima pronuncia non potrebbe trovare alcuna applicazione al caso de quo, in quanto la GEPI ha assunto la qualità di socio "finanziatore" e non già "industriale di minoranza".

Ne deriverebbe che la scelta del partner operata dal Comune di Catania non sarebbe destinata ad incidere sul mercato delle imprese di produzione di servizi, ma sul mercato finanziario in senso lato.

Inoltre, la GEPI, atteggiandosi come società a partecipazione pubblica, per i principi evincibili dal D.P.R. 533/1996, non richiederebbe in ogni caso la procedura di scelta ad evidenza pubblica.

Ne deriverebbe l'inapplicabilità al caso in esame delle argomentazioni del Consiglio di Stato nella citata pronuncia fondate, comunque, su una normativa ormai superata ed incoerente rispetto a tutti i principi richiamati.

Con Ordinanza Collegiale n° 1377 del 9.6.1998, questo Tribunale – Sezione Seconda - ha provvisoriamente accolto la domanda di sospensione dell’esecuzione del provvedimento impugnato, disponendo, altresì, incombenti istruttori.

Agli stessi il Comune di Catania ha regolarmente adempiuto.

Successivamente, con ricorsi depositati il 22.12.1998 ed il 12.1.1999, la società Multiservizi, ha proposto regolamento preventivo di giurisdizione posto che, al momento della proposizione del ricorso, ai sensi del D.Lgs.vo n° 80/98, giudice competente a pronunciarsi sul caso in esame sarebbe stato quello ordinario, chiamato, comunque a rendere giudizio nelle ipotesi di omologazione di società anche se di spessore pubblico.

Con Ordinanza del 15.1.1999, questa Sezione dichiarava l’insussistenza dei presupposti richiesti per la sospensione del procedimento.

Alla pubblica udienza del 15.1.1999 la causa è stata trattenuta per la decisione.

DIRITTO

Le ditte ricorrenti svolgono attività di impresa di pulizie a favore del Comune di Catania.

Con delibera n° 14 del 26.2.1997, il Consiglio Comunale ha autorizzato la costituzione con la GEPI S.p.A. (oggi ITAINVEST S.p.A.), "nei modi e per le finalità di cui alla l. 8.6.1990 n° 142, art. 22 lett. e) e D.L. 31.1.1995 n° 26 art. 4 co. 6, di una società per azioni per lo svolgimento di servizi pubblici di interesse del Comune, denominata CATANIA MULTISERVICES S.p.a".

Contestualmente è stato approvato lo statuto ed i patti sociali relativi alla costituenda società ed autorizzato, tra l'altro, il versamento della quota di capitale sociale di pertinenza dell'Amministrazione.

Il provvedimento, inoltre, ha contestualmente previsto di "affidare alla costituenda società Catania Multiservices, ai sensi dell'art. 32 lett. f) L. 142/1990, lo svolgimento dei servizi di pulizia e custodia degli immobili di proprietà o in uso del Comune di Catania e di quegli altri immobili che il Comune deve per legge mettere a disposizione di altre Pubbliche Amministrazioni (omissis) delegando la G.M. ad approvare il relativo contratto di servizio che sarà sottoscritto dal sindaco e dal legale rappresentante della Società".

Dal testo emendato della delibera, emerge, inoltre, la modifica delle modalità di finanziamento e della denominazione della Società che è stata definitivamente costituita con il nome "CATANIA MULTISERVIZI S.p.A.".

Con il richiamato provvedimento, l'Amministrazione, premesso il rinvio all'art. 22 della L. 142/90 (recepita in Sicilia con l.r. 48/91) secondo il quale la gestione dei servizi pubblici può avvenire "anche a mezzo di società a prevalente capitale pubblico locale", e ritenuta l'impossibilità, fondata sulle disposizioni impartite dalla L. 662/1996, di assunzione di nuovo personale, ha deliberato la costituzione del detto organismo sulla necessità di ovviare ai seguenti inconvenienti:

a) maggior esborso di danaro pubblico, a fronte dell'inevitabile remunerazione degli utili di impresa per le ditte aggiudicatarie;

b) procedure ad evidenza pubblica volte alla assegnazione dei servizi, rese obbligatorie dalla normativa sugli appalti pubblici, e consequenziale contenzioso che oramai ordinariamente viene ad instaurarsi sulle stesse;

c) gestione del passaggio dei lavoratori impiegati nei servizi dalle imprese cessanti a quelle subentranti, con possibile contenzioso e "situazioni di incertezza ed instabilità dell'occupazione dei lavoratori, con ricorrenti manifestazioni di protesta a tutela del diritto al lavoro, tensioni sociali e situazioni di pericolo per l'ordine pubblico";

d) controllo del regolare svolgimento dei contratti relativi ai servizi "de quibus" con impiego di risorse impiegatizie comunali e con sottrazione delle stesse allo svolgimento di altrettanti rilevanti compiti di istituto.

L'Amministrazione, inoltre, richiamato esplicitamente il contenuto dell'art. 4 co. 6 del D.L. 21.1.1995 n° 26, che consente la costituzione di società con la GEPI S.p.A., e stigmatizzate le opportunità di lavoro promuovibili grazie alla particolare competenza settoriale e agli apporti di capitale che detta società garantirebbe, ha ritenuto giustificata la mancata scelta del partner societario tramite procedura ad evidenza pubblica, "altrimenti necessaria", in quanto l'art. 1, comma 4, del D.P.R. 16.9.1996 richiederebbe il ricorso a detta selezione "solo nel caso in cui si debba procedere alla scelta del socio privato di maggioranza".

Al contrario, la configurazione prevista era quella di un nuovo soggetto con apporto maggioritario di capitale pubblico, agente nell'alveo dell'autonomia privata e sottoposto al controllo da parte dell'Ente territoriale, socio di maggioranza.

*  *  *

Giurisdizione.

Ciò posto, il Collegio deve preliminarmente occuparsi delle eccezioni sollevate dalla Multiservizi, secondo la quale questo Tribunale sarebbe carente di giurisdizione.

In sostanza, ad avviso della società interveniente, la competenza atterrebbe al Giudice ordinario in quanto l'Amministrazione, con il provvedimento impugnato, si sarebbe determinata a costituire una società, svolgendo, così, semplicemente un'attività di mero diritto privato.

Con il successivo regolamento preventivo di giurisdizione, inoltre, si è sostenuto che tutto il procedimento di costituzione della società, e quindi di omologazione della stessa, atterrebbe in ogni caso alla competenza del Giudice ordinario.

La sollevata eccezione è stata dichiarata da questo Tribunale manifestamente infondata, sotto tutti i dedotti profili con Ordinanza n°270/99.

L'errore di prospettiva in cui è incorsa la difesa della Società interveniente consiste nella individuazione dell'oggetto del provvedimento impugnato, limitato soltanto alla costituzione della società in quanto tale.

L'atto di riferimento, al contrario, si presenta ben più articolato e complesso e, pertanto, espressivo di un potere sicuramente esercitato nell'ambito della capacità di diritto pubblico, atteso che l'attività amministrativa è stata contestualmente rivolta alla scelta del partner societario e, di più, all'affidamento del servizio.

Ciò, ad avviso del Collegio, è sufficiente a radicare, senza dubbio alcuno, in capo ai ricorrenti un interesse legittimo a che la scelta operata dall'Amministrazione (proprio perché concretamente rivolta all'individuazione del modulo organizzatorio prescelto per la gestione del presunto servizio pubblico) sia coerente con i principi generali volti a regolarne l’attività e con le disposizioni specifiche introdotte per limitare l'esercizio del potere pubblicistico conferito.

In effetti, nel caso in esame viene avversato non già l’atto di costituzione della società mista in quanto tale (non fosse altro perché, come rettamente sostenuto dai ricorrenti, lo stesso ha trovato concreta attuazione solo dopo l'emanazione del provvedimento impugnato e l’introduzione del presente giudizio), ma l'esercizio scorretto, da parte dell'Ente locale, della potestà amministrativa di organizzare il servizio assegnato precedentemente a detti ricorrenti senza la prevista procedura dell'evidenza pubblica (anche solo limitatamente alla scelta del partner).

Ne deriva, quindi, che il riferimento alla capacità di diritto privato dell'Amministrazione (pertinente, semmai, se riferita alla società già costituita ed operante quale soggetto di diritto privato distinto dall’Ente pubblico in quanto tale) non assume rilievo, essendosi le censure riferite non già alla consacrazione dell’accordo contrattuale tra l'Ente e la GEPI per la costituzione di una società o alla successiva attività di gestione della stessa, ma, più a monte, alla legittimità dell'esercizio di un potere discrezionale di scelta del partner societario senza la necessaria procedura di gara.

Resta pertanto confermata la giurisdizione del Giudice amministrativo.

Sempre in ordine alla giurisdizione del giudice adito, non assume miglior pregio quanto sostenuto in sede di regolamento preventivo di giurisdizione.

La società interveniente ha sostenuto che tutte le questioni attinenti alla costituzione della società concernono l'autonomo procedimento di omologazione di sicura competenza del Giudice ordinario.

Al riguardo, oltre che ribadire che detta impostazione si appalesa riduttiva rispetto a quanto regolamentato con il provvedimento impugnato (e, quindi, per ciò stesso da respingere, per le medesime argomentazioni appena prospettate), il Collegio ritiene per altro che il Tribunale civile, in sede di omologazione, svolga un controllo di mera legalità, puramente estrinseco e formale, diretto ad accertare soltanto quelle illegalità che risultino, per la loro estrinsecità, "prima facie" rilevabili (cfr. Cons. Stato, VI, 12.3.1990 n° 374).

Detto giudizio, pertanto, in relazione alle diverse finalità perseguite, ben può coesistere con quello amministrativo volto, al contrario, nel caso in esame, a stabilire la legittimità della scelta effettuata dall'Amministrazione (avuto riguardo sia alla procedura da seguire, sia all'individuazione concreta del partner privato).

In effetti, a ben vedere, il tipo di procedimento utilizzato ai fini del conferimento del servizio non coincide con il richiamato atto di omologazione, che costituisce un "posterius" rispetto alla scelta (oggetto delle censure dei ricorrenti) già operata dalla Amministrazione.

In altri termini, il rilievo in esame non tiene in debito conto che la vicenda relativa alla materiale costituzione della società mista (sottoposta alla disciplina privatistica) vive una dimensione parallela caratterizzata, per l’appunto, da una fase di determinazione non già degli effetti relativi alla società, ma del procedimento deliberativo, a chiaro respiro pubblicistico, riguardante esclusivamente l’Ente locale.

In quest’ultimo senso assumono distinto rilievo, rispetto alla materiale costituzione della società, gli atti ed i provvedimenti di determinazione amministrativa ovvero gli accordi e le intese tra gli enti interessati, sulla cui legittimità è chiamato a pronunciarsi il Giudice amministrativo.

Ciò chiarito, non appare convincente neanche il successivo richiamo al D.Lgs.vo 31.3.1998 n° 80 e segnatamente all'art. 33 che, nella parte di interesse, così dispone:

"1. Sono devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo tutte le controversie in materia di pubblici servizi, ivi compresi quelli afferenti al credito, alla vigilanza sulle assicurazioni, al mercato mobiliare, al servizio farmaceutico, ai trasporti, alle telecomunicazioni e ai servizi di cui alla legge 14 novembre 1995, n. 481.

2. Tali controversie sono, in particolare, quelle:

a) concernenti la istituzione, modificazione o estinzione di soggetti gestori di pubblici servizi, ivi comprese le aziende speciali, le istituzioni o le società di capitali anche di trasformazione urbana;

(omissis)

c) tra le amministrazioni pubbliche e i soci di società miste e quelle riguardanti la scelta dei soci;

Ad avviso della Multiservizi, il richiamo delle lettere a) e c) troncherebbe ogni discussione sulla attualità della giurisdizione di questo Tribunale in quanto la stessa, essendo decorrente ex art. 45, comma 18, dal 1° luglio 1998, sarebbe da ritenersi in precedenza ( e quindi al tempo dell’introduzione del gravame ) radicata presso il Giudice ordinario.

La conclusione prospettata si appalesa, anch'essa, manifestamente infondata.

L'art. 33 assegna in maniera indiscriminata alla giurisdizione esclusiva dei tribunali amministrativi la materia dei pubblici servizi.

In sostanza, la norma richiamata determina la giurisdizione (ora divenuta esclusiva) non più sulla base della posizione soggettiva da far valere, bensì su quella della ripartizione per materia.

Anche in precedenza, quindi, tutte le questioni riguardanti interessi legittimi, relative a pubblici servizi, erano pur sempre attribuite alla cognizione del medesimo Giudice amministrativo.

In conclusione, l'art. 33 ha operato, per un verso, un allargamento delle fattispecie da sottoporre al giudizio del G.A., includendovi anche quelle a rilievo meramente privatistico e, dall’altro, un potenziamento dei poteri di detto Giudicante rispetto ad una materia a questi già attribuita, seppur in maniera più circoscritta e secondo i consolidati canoni della giurisdizione generale di legittimità.

In tal senso risulta certamente priva di pregio la prospettazione della Multiservizi che assegna alla presunta tassatività dell'elenco contenuto nell'articolo in esame una portata latamente innovativa rispetto alla normativa pregressa.

Per altro, già in precedenza, espresse previsioni legislative (art. 12 L. 23 dicembre 1992, n. 498, richiamato dall’art. 4 D.L. 31 gennaio 1995, n. 26, conv. in legge dalla l. 29 marzo 1995 n. 95, e 17, co. 59, l. n. 127/1997) richiedevano per la scelta del socio privato l’adozione di procedure ad evidenza pubblica che, per definizione, sono ricadenti nell'ambito della giurisdizione del Giudice Amministrativo.

Né sarebbe pertinente l'eventuale obiezione, secondo la quale detta normativa riguarderebbe soltanto le società a partecipazione pubblica minoritaria, mentre il caso in esame concernerebbe una società mista a partecipazione pubblica maggioritaria, in quanto, l'identità degli interessi coinvolti depone comunque per la giurisdizione del Giudice Amministrativo.

Ciò posto, il Collegio rileva che l'art. 33 del D.Lgs.vo n° 80/1998 si limita a prevedere la giurisdizione esclusiva soltanto nella specifica materia dei pubblici servizi.

Al di fuori di detto caso, tutte le controversie concernenti i servizi a "matrice non pubblica" continuano ad essere regolati secondo i principi dell’ordinario riparto della giurisdizione, per cui a fronte di una presunta lesione di un interesse legittimo dovrà pur sempre adirsi la giurisdizione dei Tribunali amministrativi.

Il Collegio rileva, a questo punto, che, come in maniera più approfondita sarà in seguito esplicitato, l'assegnazione del servizio di pulizia dei locali della Amministrazione risulta essere un'attività strumentale e non già di pubblico interesse.

Ne deriva che ogni identificazione della giurisdizione con la norma in commento risulta certamente priva di fondamento.

Conclusivamente, per quanto già espresso in precedenza, essendo oggetto di gravame un provvedimento in dipendenza del quale viene contestata la scelta operata dall'Amministrazione della procedura con cui si è inteso affidare il servizio di pulizia dei locali (ponendosi la costituzione della società mista come strumentale rispetto a detta scelta) sussiste un interesse legittimo dei ricorrenti a che l'attività amministrativa sia conforme alla vigente normativa, onde la relativa tutela appartiene esclusivamente a questo Tribunale.

Legittimazione attiva.

Con i ricorsi in epigrafe, i ricorrenti, con varie censure, hanno impugnato la delibera riferita sostenendo, preliminarmente, di essere portatori di un interesse differenziato acché la stessa venga annullata.

Il Collegio, diversamente da come sostenuto dal Comune e dai controinteressati, ritiene di dover condividere questa premessa.

Non sembra, infatti, revocabile in dubbio, in quanto risultante dagli atti versati, che le ditte "de quibus" siano tutte soggetti operanti nel settore dei servizi di pulizia, cui si riferisce la delibera impugnata.

Egualmente rilevante è la considerazione secondo la quale le stesse siano parti sostanziali in altrettanti rapporti contrattuali vigenti al momento dell'emanazione del provvedimento avversato.

Inoltre, le regole pattizie, tese a individuare i contenuti di detti rapporti, hanno stabilito una "riserva", esercitabile "ad nutum" dall'Amministrazione, di risoluzione del rapporto laddove (come nel caso in esame) si fosse addivenuti alla costituzione di una società mista finalizzata alla gestione dei medesimi servizi.

In conclusione, quindi, l'evidente natura di imprese operanti nel settore, titolari di precedenti rapporti con l'Amministrazione resistente, risulta sufficiente ai fini dell'individuazione di un interesse strumentale alla rimozione di una determinazione amministrativa ritenuta illegittima ed in grado di precludere per lungo tempo la mera possibilità di operare nel settore di propria competenza (cfr., ex multis, Cons. Stato, V, 19.2.1998 n°192).

L'interesse "de quo", infatti, deve ritenersi sussistente non solo quando la ditta sia rimasta esclusa dalla gara volta alla scelta del contraente, ma anche quando il ricorrente, munito dei titoli sopra citati, lamenti l'illegittima elusione di una normativa posta per imporre la procedura della evidenza pubblica (illegittimamente omessa).

Il Collegio rileva, infatti, che l'interesse sostanzialmente pretensivo-strumentale, non può essere limitato alla caducazione di una procedura che abbia comportato la denegazione delle aspirazioni del ricorrente, dovendosi considerare, perché equivalente, anche l'ipotesi in cui il medesimo effetto consegua da una procedura ritenuta dovuta ed omessa.

La strumentalità, in questo caso, emerge non già dalla rinnovazione del procedimento, ma dalla formalizzazione, ad opera del giudice, dell'obbligo amministrativo di ricorrere ad una gara (verso cui le ditte hanno un evidente e supportato interesse), per assegnare il servizio secondo i principi dell'imparzialità e della trasparenza e mediante una procedura allargata, tale, cioè, da consentire al ricorrente l'esercizio di una possibilità partecipativa.

In altri termini, qui assume rilievo la necessità di offrire una "chance" non già di seguito al rinnovo del medesimo procedimento depurato dai vizi censurati, ma mediante l'utilizzo di una diversa procedura, che consenta la partecipazione (prima negata) a ditte che operano nel settore relativo al servizio da assegnare.

Conclusivamente, va disattesa, perché infondata, l’eccezione di difetto di legittimazione attiva dei ricorrenti.

Tardività.

Il secondo dei ricorsi in esame, inoltre, sarebbe tardivo in quanto notificato oltre i trenta giorni dell'intervenuta esecutività del provvedimento impugnato previsti dall’art. 19 della L. 135/97.

La circostanza, seppur riscontrata in fatto, non viene ritenuta fondata in diritto.

E' appena il caso di osservare che la norma richiamata non trova applicazione nelle ipotesi di affidamento di un servizio pubblico, o di appalto pubblico di servizi.

Deve concludersi, pertanto, che per il caso in esame valgono i normali termini processuali che risultano ampiamente rispettati, non avendo il Comune dimostrato (ed eccepito) che i ricorrenti avessero conosciuto la delibera impugnata all'atto della sua pubblicazione.

Merito.

Ritenuta la sussistenza dell'interesse dei ricorrenti, il Collegio può ora esaminare le censure relative al merito.

In sostanza, la questione prospettata con i motivi principali di ricorso, così come sono stati ampliati dalle eccezioni dei controinteressati, attiene alla legittimità dell’affidamento del servizio e della scelta del partner di minoranza nell'ambito di una società a prevalente capitale pubblico, senza una procedura ad evidenza pubblica.

Con il ricorso 3135/97, in particolare, è stata dedotta l'illegittimità di un provvedimento volto a costituire una società mista prescindendo da una selezione pubblica e che, contestualmente, affida un servizio coincidente con lo scopo sociale del nuovo organismo.

*  *  *

Il Collegio, onde individuare l'esatta natura giuridica della società mista, ritiene di dover esaminare preliminarmente la disciplina volta a regolare le modalità di gestione dei servizi da parte degli enti locali territoriali.

Come è noto, ai Comuni, quali enti esponenziali delle collettività locali, è stata tradizionalmente affidata la gestione di attività anche imprenditoriali, finalizzate al raggiungimento di scopi di interesse sociale.

In tal senso già l'art. 1 del R.D. del 15.10.1925 n° 2578 (di riforma della L. 29.03.1903 n° 103) prevedeva una serie di servizi c.d. "municipalizzati" da gestire mediante aziende speciali (organismi dotati di personalità giuridica), ovvero in economia (ove la rilevanza del servizio non giustificasse il ricorso alla predetta forma), ovvero, infine, mediante "concessione all'industria privata".

In quest'ottica, la Legge 8.6.1990 n° 142 (c.d. legge sulle autonomie locali) ha introdotto tutta una serie di novità, sia sotto il profilo soggettivo, sia sotto il profilo oggettivo, qualificando come servizio pubblico tutte quelle attività che, a giudizio del Consiglio comunale, possano rivestire una qualche utilità sociale.

L'art. 22 della legge citata, infatti stabilisce che i comuni e le province, nell'ambito delle rispettive competenze, provvedono alla gestione dei servizi pubblici "che abbiano per oggetto produzione di beni ed attività rivolte a realizzare fini sociali ed a promuovere lo sviluppo economico e civile delle comunità locali", secondo le seguenti forme:

a) in economia, nelle ipotesi in cui la dimensione o la caratteristica del servizio non giustifichi la costituzione di una istituzione o di una azienda;

b) in concessione a terzi, ove sussistano ragioni tecniche, economiche e di opportunità sociale;

c) a mezzo di azienda speciale, ove la rilevanza economica ed imprenditoriale assuma determinante significato;

d) a mezzo di istituzione, ove occorra gestire servizi sociali senza rilevanza imprenditoriale;

e) "a mezzo di società per azioni o a responsabilità limitata a prevalente capitale pubblico locale costituite o partecipate dall'ente titolare del pubblico servizio, qualora sia opportuna in relazione alla natura o all'ambito territoriale del servizio la partecipazione di più soggetti pubblici o privati".

Gli Enti sono pertanto chiamati ad individuare le attività aventi i requisiti richiesti e, secondo i presupposti tipizzati dalla citata normativa, ad adottare la conseguente forma organizzatoria.

Nel caso che assume rilievo, il Legislatore ha introdotto la nuova figura della società per azioni a partecipazione comunale, ponendo eminentemente l'accento sulla natura del servizio da gestire preferibilmente con l'apporto di più soggetti pubblici e/o privati.

Risulta evidente, a parte il riferimento alla dimensione territoriale, che si è voluto trovare una soluzione normativa per tutte quelle ipotesi in cui l'apporto finanziario, tecnico o commerciale relativo ad esperienze diverse, fosse più efficientemente gestibile mediante una struttura associativa a respiro privatistico.

Nella prima stesura riferita, inoltre, la finalità sociale da perseguirsi da parte della società mista, è stata garantita dalla necessità che la partecipazione dell'Ente territoriale fosse maggioritaria.

Detto limite è stato superato dall'art. 12 della L. 23.12.1992 n° 498 in base al quale:

a) le società miste possono essere costituite senza il predetto vincolo maggioritario;

b) la scelta dei partners privati, nel caso di partecipazione pubblica minoritaria, deve essere effettuata mediante il ricorso a procedure ad evidenza pubblica;

c) le società miste a prevalente capitale privato possono essere costituite non solo per l'esercizio di servizi pubblici, ma anche per realizzare le opere necessarie al corretto svolgimento del servizio, nonché le infrastrutture ed altre opere di interesse pubblico.

Da tale nuovo quadro normativo è stato fatto derivare che, ove il controllo della società sia rimesso all'Amministrazione pubblica (per effetto della partecipazione azionaria maggioritaria), non appare necessario che la selezione dei soci avvenga secondo una procedura selettiva preordinata e legislativamente imposta.

Inoltre, la natura di contratto associativo che legherebbe i contraenti, portandosi al di fuori del rapporto sinallagmatico fra le prestazioni degli stessi, determinerebbe la non necessità di applicazione della normativa comunitaria vigente in materia di appalto e l'opportunità (resa legittima) che la scelta dei soci privati avvenga secondo i criteri della effettiva compatibilità fra i futuri soci (cfr. Corte d'Appello Milano, I Sez. Civ., 24.6.1995 n° 708).

L'assunto appare confermato dallo stesso art. 12 citato che, nel rinviare ad apposito decreto legislativo la specificazione della materia, ha demandato al Governo la regolamentazione dell'entità del capitale sociale minimo da conferirsi da parte dell'Ente territoriale (al dichiarato fine di consentire, quanto meno ed in assenza di controllo della società, il diritto di chiedere la convocazione dell'assemblea), dei controlli sull'efficienza e sull'economicità dei servizi della nuova struttura, della natura del rapporto intercorrente con la stessa ed, infine, dei criteri di scelta dei possibili soci mediante procedimento di confronto concorrenziale che tenga conto dei principi della normativa comunitaria.

I principi fissati dal richiamato art. 12 non sono stati mai attuati con l'atto di legislazione delegata dal medesimo previsto, talché il legislatore "al fine di favorirne l'immediato avvio di operatività" ha emanato il D.L. 31.1.1995 n° 26 (convertito con L. 29.3.1995 n° 95).

Quest'ultimo atto legislativo, all'art. 4, ha ripreso la riferita normativa relativa alla costituzione di società miste con la partecipazione non maggioritaria degli enti locali per l'esercizio dei servizi pubblici e la realizzazione di opere pubbliche ed ha demandato ad un regolamento, da adottarsi ai sensi dell'art. 17, comma 2, della L. 23.8.1988 n° 400, la specificazione della stessa sulla base dei principi e dei criteri di cui al comma 2 del medesimo art. 12 (della L. 498/92) nel rispetto della normativa comunitaria.

Ancora una volta, però, il legislatore nel medesimo art. 4, ha fissato nella specifica finalità della gestione dei servizi pubblici il limite ontologico per poter costituire legittimamente dette società miste.

Con D.P.R. 16.9.1996 n° 533 si è finalmente giunti alla redazione della normativa attuativa.

L'art. 1 stabilisce che per l'esercizio dei servizi pubblici e per la realizzazione delle opere accessorie connesse, possono essere costituite società miste a prevalente capitale privato, nel qual caso la scelta del partner di maggioranza deve avvenire mediante una procedura concorsuale ristretta, assimilata all'appalto concorso di cui al D.Lgs.vo 17 marzo 1995 n° 157 (attuativo della Direttiva CEE 92/50).

L'art. 5 ha previsto che nei rapporti tra Ente pubblico e soci privati deve essere assicurata la verifica della conformità dell'assetto societario all'interesse pubblico alla gestione del servizio.

Da quanto sin qui richiamato emerge, in maniera del tutto inequivoca, che la normativa interna di settore ha distinto due ipotesi di società mista, stabilendo manifestamente il rispetto della normativa comunitaria di scelta del partner secondo la procedura dell'evidenza pubblica soltanto quando la partecipazione pubblica sia minoritaria.

L'altro elemento che emerge con altrettanta sicurezza consiste nella necessità che l'oggetto della costituenda società mista venga indirizzato, in ogni caso, alla realizzazione di servizi pubblici.

Le considerazioni premesse devono orientare l'esame del Collegio in ordine alla legittimità del provvedimento impugnato.

In somma sintesi, occorre stabilire se nel caso in esame ci si trovi innanzi ad un servizio pubblico e se, dalla prospettata normativa sia possibile definitivamente concludere che la scelta del partner privato di minoranza debba essere sottratto alla procedura dell'evidenza pubblica.

  1. Scelta del partner.

Il Collegio ritiene, intanto, che, sotto questo secondo profilo, nonostante le cennate differenze terminologiche, in sostanza non sussista una diversità teleologica per l'organismo in esame a seconda se vi sia una partecipazione maggioritaria o minoritaria dell'Ente pubblico.

L'assunto deriva dalla considerazione secondo la quale la legge sulle autonomie, all'art. 22, ha indicato delle modalità alternative di gestione dei servizi pubblici riprendendo, ed ampliando, le ipotesi già delineate dalla L.103/1903.

La stessa norma, inoltre, nel richiamare i "fini sociali" delle attività e la "promozione dello sviluppo economico e civile delle comunità locali", ha inteso dare una definizione onnicomprensiva, rispetto a quella, puntuale e circostanziata, della previgente disciplina del servizio pubblico locale.

La premessa relativa all'insussistenza di diversità d'oggetto viene avvalorata dall'analisi complessiva della norma, che prevede che le medesime finalità siano raggiunte, ad esempio, "in economia" quando, avuto riguardo alle modeste dimensioni o alle caratteristiche del servizio, non sia opportuno costituire una istituzione od un'azienda.

A maggior ragione, quindi, qualora vengano in rilievo le società per azioni, anche a partecipazione pubblica minoritaria, destinate non a compiti sostanzialmente diversi, ma a coprire zone di intervento dettate dall'opportunità ontologica o territoriale di associazione di più soggetti, rimane il rilievo sociale tipizzante del servizio pubblico.

D'altra parte, tutte le norme relative alla struttura a capitale privato maggioritario mantengono costantemente il riferimento teleologico al servizio (o all'opera) pubblico ed alle attività connesse.

Il Collegio rileva soltanto che la citata riferita differenza di obiettivi, secondo la quale la società a capitale pubblico maggioritario deve essere indirizzata altresì a finalità sociali, si fonda sulla specifica qualificazione dei servizi gestibili da detto organismo ad esclusivo respiro "locale".

La Sezione, a questo punto, si deve far carico di evidenziare come la L. 142/90, con il richiamato articolo 22, ha altresì stabilito che la gestione del servizio pubblico, in presenza dei presupposti indicati, si svolge "a mezzo di" società per azioni a prevalente capitale pubblico.

Ne deriva che la struttura così concepita non costituisce un necessario diaframma tra l'Ente ed i soggetti eventualmente chiamati alla gestione dell'attività, ma che la stessa è direttamente soggetto deputato alla gestione dei servizi.

In tal senso, in maniera non equivoca si esprime la L. sulle autonomie che, come già visto, ha posto cinque alternative forme di gestione dei servizi pubblici.

In definitiva, quindi, tra la costituzione della società e la gestione del servizio non vi è la necessità di un ulteriore atto concessorio, atteso che, tra l'altro, detto ultimo provvedimento è concepito nella serie delle alternative poste per la gestione delle attività di pertinenza dei Comuni.

L'alternatività tra i due modelli è, anzi, "per quanto riguarda la società senza il vincolo di proprietà maggioritaria, direttamente confermata dalla L. n° 492 del 1992. Quest'ultima, infatti, all'art. 12, comma 5, nell'identificare il soggetto chiamato a riscuotere le tariffe dei servizi pubblici" precisa che gestore è colui che svolge la relativa attività o per effetto di particolari convenzioni o concessioni dell'ente, o (e qui emerge la distinzione delle ipotesi) per effetto del modulo organizzativo della società mista (cfr. Cons. Stato A.G. n° 90/96 del 16.5.1996).

Detto affidamento diretto (cui ha ufficialmente aderito anche il Ministero dell’Interno con nota del 10.5.1994 prot. N° 15900/327/I BIS/L 142/90) viene ulteriormente ribadito dalla netta distinzione relativa alle competenze consiliari prevista dall’art. 32, comma 2, della L. 142/90 che, all’interno della lettera f), discrimina tra "concessione dei pubblici servizi" e "partecipazione dell’Ente locale a società di capitali".

In sostanza, quindi, ove sussista il presupposto già richiamato dell'espletamento di un servizio pubblico, l'Amministrazione potrà senz'altro procedere all'affidamento della funzione direttamente ad un organismo societario a maggioranza pubblica senza dover ricorrere alla gara pubblica comunitaria.

Come è stato rettamente precisato, infatti, i "servizi assoggettati obbligatoriamente alla disciplina comunitaria sono solo quelli elencati in allegato alla direttiva stessa, tra i quali non rientrano quelli svolti a favore dell'utenza collettiva, ma solo quelli espletati a vantaggio diretto ed esclusivo del soggetto aggiudicatario" (cfr. Cons Stato A.G. cit.; V, 19.2.1998 n° 192).

La scelta di detto modello, in presenza dei requisiti minimi stabiliti dalla legge sulle autonomie, si appalesa come ampiamente discrezionale e, se adeguatamente supportata da criteri di logica ed imparzialità, non si presta ad essere censurata in sede di giudizio amministrativo.

Se così è, se cioè è possibile l'assegnazione diretta del servizio mediante la costituzione di una società mista, resta da vedere se anche la scelta del partner di detta società debba essere sganciata dalla procedura ad evidenza pubblica.

Conviene a tal proposito osservare, per quanto sino ad ora sostenuto, che la scelta del partner privato di minoranza costituisce l’unico momento in cui è possibile richiedere l’utilizzo del modulo concorsuale secondo la normativa comunitaria.

Come è stato ravvisato, con opinione che il Collegio ritiene di dover condividere, il socio privato è chiamato ad assumere un ruolo all’interno della società (a maggior ragione ove si consideri che la sua percentuale di incidenza è pari al 49%) di notevole rilievo non solo in termini di finanziamento, ma soprattutto in relazione alla effettiva attività di espletamento del servizio da realizzare.

Secondo la difesa della GEPI, il socio privato di minoranza si limiterebbe soltanto ad una mera attività di finanziamento, senza assumere un ruolo diretto nella conduzione della nuova struttura societaria.

La circostanza, oltre che essere smentita dai fatti (se la società in sé gestisce un servizio di pulizia dei locali di pertinenza del Comune, non si può dire, in assenza di esplicita previsione contrattuale, che il ruolo del socio di minoranza sia di mero finanziamento, di mero "spettatore", cioè, di un servizio svolto da altri), diventa oltre modo pericolosa se avallata da questo Collegio.

Si consentirebbe, infatti, di fronte a servizi attivi ( e non di mero finanziamento ), il ricorso ad un semplice "escamotage" elusivo della normativa comunitaria, dei principi di buona amministrazione e trasparenza che devono accompagnare comunque l’azione amministrativa e della stessa normativa in esame.

In quest’ultimo senso, infatti, non può non rilevarsi che il comma 6 dell’art. 4 della L. 95/1995 consente la costituzione della società mista segnatamente per la "gestione" del servizio, senza limitare nella sostanza detto intervento secondo quanto erroneamente ritenuto dalla GEPI.

D’altra parte, la motivazione della scelta operata dal Comune è stata determinata anche in ragione della particolare competenza settoriale chiaramente disvelatrice di una funzione attiva della GEPI.

La scelta, quindi, di un socio imprenditore chiamato a svolgere un servizio richiedente una specifica competenza, ovvero chiamato ad apportare tecniche o strategie innovative (sia pure ai fini diversi dello specifico svolgimento del servizio, come, ad esempio, la risoluzione di problemi congiunturali o occupazionali), pone, in linea di principio, la necessità che la stessa non si basi sul semplice intuitus personae, ma venga a ricadere su un "soggetto che più di altri, sul piano della concorrenzialità, (sia) in grado di assicurare la migliore funzionalità del servizio, anche in termini di economicità, nell’interesse preminente della collettività locale" (cfr. Cons. Stato 192/98 cit.)

Coerentemente, quindi, se è pur vero che le forme di controllo nel caso di società a prevalente capitale pubblico, non essendo puramente assimilabili al rapporto concessorio (dal quale si discostano oltre che per la richiamata assenza di atto di conferimento, per la maggioritaria presenza del medesimo ente chiamato a gestire il servizio delegato), possono operare ab intra, non per questo può concludersi che la scelta del socio non sia da modellare secondo i criteri dell’evidenza pubblica.

E' bene premettere che la partecipazione dell’ente locale all’interno della società non altera la natura finale della stessa.

La costituita società, infatti, rimane pur sempre un soggetto autonomo la cui attività viene regolata dalle norme di diritto civile ed ove il Comune interviene come un qualsiasi socio seppur di maggioranza.

A ben vedere, anzi, la partecipazione dell’Ente locale, di per sé, può non essere maggioritaria in senso assoluto dovendo, in effetti, essere prevalente il "capitale pubblico locale".

Nello stesso senso la norma precisa la possibilità di costituzione "o di mera partecipazione dell’ente titolare del pubblico servizio".

In buona sostanza la dimensione territoriale del servizio non costituisce soltanto la qualificazione esterna del servizio pubblico, ma, di più, determina il limite minimo di capitale pubblico che deve essere necessariamente apportato nella forma originaria di società mista in esame che, come si è visto, è rivolta non già al semplice servizio pubblico, ma a quello a dimensione "locale".

Ne consegue che nel 51% minimo possono rientrare l’Ente locale, ovvero più Enti del medesimo tipo (se il servizio è a respiro pluricomunale), eventuali aziende consortili cui il Comune partecipa, o, infine, la Camera di Commercio Provinciale.

Ciò significa, in realtà, che anche nella società a prevalente partecipazione pubblica maggioritaria, la gestione di maggioranza può svolgersi secondo le ordinarie regole delle società di capitali che richiedono normalmente un indirizzo concordato del "gruppo di maggioranza" e non già quello esclusivo dell’azionista di maggioranza.

Una forma di tal genere, da definire intermedia tra le due fattispecie estreme di società mista (caratterizzate dall’unicità maggioritaria o dalla partecipazione minoritaria dell’Ente locale portatore dell’interesse relativo al servizio pubblico), consente di avvicinare la forma di autorganizzazione (tipica della società a prevalente capitale pubblico) a quella del trasferimento funzionale (tipica della società a prevalente capitale privato).

In altri termini, l'esistenza di questa "zona grigia" tra le due fattispecie-tipo consente di non rendere più sicura l'affermazione secondo la quale la presenza prevalente della "mano pubblica del socio di maggioranza" comporti l'effettivo controllo della società da parte dell'organo pubblico.

Si possono, infatti, verificare eventuali determinazioni rilasciate, all'interno del sistema societario, a maggioranze costituite secondo equilibri diversi, ove il socio privato (tanto più se detenente il 49% delle partecipazioni) può assumere il medesimo ruolo dominante delle società a capitale privato maggioritario.

Se questa è la premessa (che il Collegio ritiene fondata), non appare congrua la conseguenza secondo la quale un soggetto di diritto comune, sol perché partecipato in misura maggioritaria da un ente locale, o, a fortiori, nell’ultima fattispecie prospettata, debba ottenere non solo il servizio "direttamente", ma, di più, lo debba ottenere al di fuori di qualsiasi procedura ad evidenza pubblica, in maniera, cioè, discutibilmente conforme ai dettami dell’ordinamento comunitario e delle regole poste, altresì, dallo stesso ordinamento interno.

Già la sussistenza della richiamata figura intermedia, avvicinandosi alla fattispecie di società mista a prevalente capitale privato, per la quale specificatamente il legislatore ha previsto la procedura dell’evidenza pubblica per la scelta del partner privato, mette in seria crisi le argomentazioni proposte a sostegno della inderogabilità della mancata esplicita previsione nella norma in esame del procedimento di gara.

Ciò posto, il Collegio ritiene di poter rintracciare nell’ordinamento ulteriori disposizioni che confortano la tesi prospettata.

Un primo approccio ci viene proprio dalla normativa "speciale" in tema di società costituita con la GEPI.

L’art. 4 della L. 95/95, che, si badi bene, si occupa di tutte le forme di società miste per i servizi pubblici, stabilisce al comma 8 che le partecipazioni azionarie detenute dalla GEPI "sono cedute entro il termine di cinque anni mediante gara pubblica".

E’ bene sottolineare che, come precisato dalla difesa del Comune di Catania, l’art. 3 comma 1 lett. c) del D.M. Ind. 5.1.1994 stabilisce che, "in ogni caso" la GEPI non può essere partecipe di una quota maggioritaria all’interno della società mista, per cui, l’eventuale costituzione di detto tipo di società può essere solo del tipo "a partecipazione privata di minoranza".

Se è vera la premessa (se, quindi, la fattispecie regolata dalla norma concerne le società a prevalente capitale pubblico costituito con la GEPI), si deve concludere che il legislatore ha espressamente previsto una procedura ad evidenza pubblica, sia pure posticipata, anche nelle ipotesi che assumono rilievo nel presente giudizio.

La giustificazione della postergazione della procedura è facilmente riferibile, ed è condizionata, alla attività di alto rilievo sociale che la GEPI deve svolgere ai sensi del comma 5 del medesimo articolo richiamato.

Assolto al compito cui la stessa è chiamata, però, il legislatore ha ritenuto necessario "riequilibrare" la procedura iniziale tramite l’assolvimento di una gara ad evidenza pubblica grazie alla quale il socio "privilegiato", preventivamente indicato dalla norma di settore, possa essere legittimamente sostituito da un altro soggetto munito delle caratteristiche sopra evidenziate di maggior rispondenza all’interesse pubblico e teoricamente assicurabili soltanto mediante l’adozione di scelta concorsuale.

Ne consegue che detta ultima forma di selezione costituisce in ogni caso la procedura ordinaria che il legislatore ha concepito per la scelta del partner.

Alla medesima conclusione della illegittimità di un conferimento diretto e privilegiato è possibile giungere ponendo ulteriori diverse considerazioni.

Si è già detto delle forme di gestione dei servizi pubblici locali da parte degli enti territoriali.

In sostanza, a parte la gestione in economia, vi è la possibilità di concessione dei servizi e l’affidamento degli stessi mediante la formazione di tre organismi fondamentali: azienda speciale, istituzione e società mista.

Senza addentrarsi nella specifica connotazione della natura giuridica dei primi due soggetti richiamati, v’è da dire che agli stessi viene certamente attribuita direttamente la gestione del servizio senza procedere ad alcuna scelta ad evidenza pubblica.

Tanto viene previsto perché trattasi di organi diversi ma strumentali dell’ente locale che, per espressa previsione dell’art. 23, comma 6, della L. 142/90, oltre che fornire il capitale di dotazione, determinare le finalità e gli indirizzi ed approvare gli atti fondamentali, esercita la vigilanza e verifica i risultati della gestione.

Nulla di tutto questo è stabilito per la società a prevalente capitale pubblico che, come si è detto, seppur posta in rapporto strumentale, viene chiamata ad agire quale soggetto di diritto comune in perfetta autonomia.

Ad analoghi controlli, come è noto, è sottoposta l’attività "indiretta" a rilievo concessorio del servizio pubblico e, soprattutto, ad una selezione iniziale volta ad indirizzare l’Amministrazione verso la migliore scelta possibile.

Sembra al Collegio, pertanto, che il legislatore, sia per le diverse figure di organismi strumentali che per le forme delegate di potere, ha utilizzato uno schema dell’affidamento del servizio sottoposto ad una sua "ingerenza" sia pur diversamente posizionata.

Non si vede perché, allora, dette forme di valutazione non debbano essere utilizzate anche per il tipo societario in questione.

Il richiamato controllo interno, infatti, rimane pur sempre espressione non già di un'attività "formale", ma di una partecipazione soggettiva inserita in una dinamica societaria.

D’altra parte è stato sostenuto, con decisione che il Collegio, anche sulla scorta delle ulteriori considerazioni già effettuate, ritiene di poter condividere, che esistono dei principi generali, espressi da una normativa suscettibile di applicazione al caso in esame, secondo i quali l’attività contrattuale del Comune deve essere comunque preceduta da pubblici incanti.

L’art. 87 del R.D. 3.3.1934 n° 383, che ha confermato la norma generale espressa nel R.D. 23.5.1924 n° 827, prevede lo strumento dell’evidenza pubblica nell’ambito di una serie di fattispecie, che pur non ricomprendendo specificatamente la costituzione della società mista o contratti associativi (ma ciò non sarebbe stato possibile, a causa dell’insussistenza, all’epoca, di dette forme organizzatorie), pone un principio non derogabile dall’Amministrazione comunale.

Non è inutile osservare che il richiamato principio

risulta "rivitalizzato" proprio dalla Legge sulle autonomie che ha previsto la costituzione della società mista a prevalente capitale pubblico.

L’art. 64 di detta normativa, nel prevedere la specifica abrogazione di una serie di disposizioni, ha fatto salva, in maniera specifica, proprio il richiamato art. 87, primo comma, del R.D. 383/34.

Coerentemente con le premesse espresse, quindi, se la scelta del modello organizzatorio (e della società mista) in presenza dei requisiti di legge attiene ad una attività meramente discrezionale dell’Amministrazione non censurabile se adeguatamente sorretta dal G.A. e se l’attività contrattuale della medesima amministrazione deve essere preceduta da procedimenti ad evidenza pubblica, è lecito concludere che gli stessi devono necessariamente concernere l’unica zona rimasta nella disponibilità di un controllo permeante, vale a dire, quella della scelta del partner societario privato.

A questa soluzione non può ostare la sussistenza di un contratto associativo in luogo di quello di scambio.

Si è già detto della irrilevanza della mancata specifica previsione legislativa nella Legge sulla contabilità.

Resta da verificare il pregio delle ulteriori censure formulate ex adverso.

In sostanza viene sostenuto dai resistenti che la costituzione di una società, concretando un contratto associativo caratterizzato dalla comunione di scopo, viene sottratta alla normativa dell'evidenza pubblica sopra richiamata.

Ciò non solo perché sarebbe mancante la specifica previsione normativa, ma anche perché mal si concilierebbe una scelta al di fuori dell'intuitus personae in un tipo di struttura caratterizzata in maniera qualificante dalla selezione individuale dei soci.

I rilievi non vengono condivisi dal Collegio.

Ritenere come tratto qualificante l'insussistenza di vincoli pubblicistici nella scelta della parte privata, determina una sorta di riconoscimento di una procedura privilegiata soggetta esclusivamente ad un regime privatistico in una zona (quella dell'affidamento dei servizi) chiaramente assoggettabile a procedimenti amministrativi caratterizzati dal confronto concorrenziale quale espressione del rispetto dei sopravvenuti principi costituzionali della trasparenza e del buon andamento dell'Amministrazione.

Ciò posto, al Collegio non sembra neanche che possa debitamente escludersi la sussistenza di elementi tipici del contratto di scambio (sicuramente richiamato delle riferite leggi sulla contabilità di Stato per sostenere l'applicabilità della evidenza pubblica) nelle ipotesi di costituzione di una società.

Come è stato rettamente sostenuto, infatti, la comunanza di scopo caratterizzante detto ultimo contratto, non esclude che esso "sia da considerarsi anche a prestazioni corrispettive, solo che si abbia riguardo al nesso di corrispettività fra i conferimenti e la partecipazione sociale" (cfr. T.A.R. Piemonte, II, 21.5.1996 n° 159).

Analogamente non decisivo sembra alla Sezione il riferimento alla presunta incoerenza della struttura societaria con la gara pubblica finalizzata alla scelta del socio.

Non può non osservarsi che detto assunto collide con qualsiasi tipo di forma societaria e, quindi, anche con il diverso tipo di società mista a prevalente capitale privato verso la quale, come si è visto, non è lecito dubitare della previsione normativa della selezione del socio di maggioranza attraverso la procedura dell'evidenza pubblica.

In ogni caso, è possibile evidenziare come la società di capitali, cui bisogna riferirsi anche dopo la novella della L. 127/97, in quanto caratterizzata dalla somma fungibilità dei soci e degli amministratori, di per sé, soffre la limitazione dell'intuitus personae (cfr. T.A.R. Piemonte, ult. cit.)

Conclusivamente sul punto, coerentemente con i principi generali richiamati, il Collegio ritiene che anche in tema di società miste a prevalente capitale pubblico (così come in quello a prevalenza privata) debba ritenersi necessaria la presenza di una procedura ad evidenza pubblica "avanzata", presente, pertanto, non già al momento dell'affidamento del servizio, ma in quello qualificante della scelta del partner.

VI Normativa comunitaria.

Ciò posto, il Collegio ritiene di dover verificare quanto dalle parti prospettato in ordine alla applicabilità della normativa comunitaria.

L’esame delle tesi richiamate, reso rilevante dalla prevalenza di detta normativa rispetto a quella interna (talché potrebbe la prima sovrapporsi alla seconda), involge necessariamente il concetto di servizio pubblico che, come si è visto, risulta essere un dato caratterizzante della società mista.

Lo stesso, inoltre, deve necessariamente essere rivolto a verificare quali siano le fattispecie relative ai servizi che sono sottoposte alla regolamentazione della Direttiva n° 92/50 CE e successive applicazioni e recepimenti.

La chiave di lettura dell’indagine da effettuare deve muovere dalla individuazione, nel caso in esame, di un’attività partecipativa, sia pure occasionale, di pubblici poteri.

E’ da rilevare, preliminarmente, che coerentemente a quanto previsto dall’art. 6 della richiamata Direttiva, la stessa non può trovare applicazione negli appalti pubblici di servizi aggiudicati ad un "ente che sia esso stesso un’amministrazione ai sensi dell’art. 1 lett. b), in base ad un diritto esclusivo di cui beneficia in virtù delle disposizioni legislative, regolamentari od amministrative pubblicate, purché tali disposizioni siano compatibili con il trattato".

Coerentemente, l’art. 5, comma 2 lett. h), del D.Lgs.vo n° 157/1995 esclude che la normativa di matrice comunitaria in esso contenuta possa applicarsi nella ipotesi di appalti aggiudicati ad un ente che sia esso stesso amministrazione aggiudicatrice.

In somma sintesi, quindi, per escludere l'applicazione della normativa comunitaria, occorre avere riguardo ad una dimensione soggettiva (identificativa della nozione di "organismo di diritto pubblico") e ad una oggettiva (volta ad individuare la gestione di un servizio pubblico invece che la sussistenza dell'affidamento del servizio mediante appalto pubblico).

Sotto il primo profilo, ad avviso del Comune di Catania, nel caso in esame, vi sarebbe luogo per identificare la società così costituita con la previsione soggettiva appena richiamata.

L’art. 1 lett. b) individua gli elementi caratterizzanti dell’Organismo di diritto pubblico, richiedendo, esplicitamente che si tratti di struttura:"- istituita per soddisfare specificatamente bisogni di interesse generale aventi carattere non industriale o commerciale e avente personalità giuridica, e la cui attività è finanziata in modo maggioritario dallo Stato, dagli enti locali o da organismi di diritto pubblico, oppure la cui gestione è soggetta al controllo, di questi ultimi, oppure il cui organo d’amministrazione, di direzione o di vigilanza è costituito da membri più della metà dei quali è designata dallo Stato, dagli enti locali o da altri organismi di diritto pubblico".

Le tre condizioni appena richiamate, come è dato evincere dal senso reso palese dalle parole utilizzate, hanno carattere "cumulativo".

Pertanto, come è stato rettamente sostenuto, se non ricorrono tutte, a nulla rileva che l’organismo sia costituito da un’amministrazione aggiudicatrice e sia dalla stessa controllato oppure finanziato (cfr. Corte di Giustizia delle Comunità Europee, 15.1.1998, C – 44/96).

Il Collegio osserva, preliminarmente che la definizione di organismo di diritto pubblico rettamente può attenere alle società mista a prevalente capitale pubblico.

E’ indubbio, infatti, che la stessa, normalmente dotata di personalità giuridica e finanziata in maniera maggioritaria dall’ente locale, raccoglie in sé, se adeguatamente finalizzata, tutti i presupposti sopra indicati dalla norma comunitaria.

A ciò non osta, in effetti, il rilievo secondo il quale si tratterebbe di una società a respiro privatistico, essendo ormai consolidata l'opinione che consente anche ad organismi privati di essere teleologicamente indirizzati all'espletamento di servizi pubblici.

Risulta, però, di estremo rilievo l’analisi dell’oggetto della società, posto che la stessa deve mirare a "fini generali" per altro aventi carattere non industriale o commerciale.

Dette finalità - come è dato evincere, ad esempio, dall’allegato 1 alla Direttiva CEE 93/37 - attengono per lo più a compiti cui lo Stato preferisce attendere, per motivi connessi all’interesse generale, direttamente o intende mantenere una influenza determinante (cfr. Corte Giustizia Comunità Europee – Seduta Plenaria – 10.11.1998 – Causa C-360/96).

Risulta chiaro che dette evenienze vengono a verificarsi normalmente nelle ipotesi in cui l’erogazione del servizio attenga "istituzionalmente ad una pubblica autorità".

Ora, nel caso in esame, la difesa del Comune ha sostenuto che il requisito dell’interesse generale rimarrebbe soddisfatto dalla circostanza secondo la quale la GEPI sarebbe deputata a svolgere la propria attività al fine (coerente con la normativa speciale espressa all’art. 4, comma 6 della L. 95/1995) di riallocare le maestranze occupate nel servizio di pulizia dei locali di pertinenza del Comune.

Il Collegio osserva che detta impostazione rileva un ulteriore errore di prospettiva che va censurato.

L’interesse generale cui occorre riferirsi per connaturare l’organismo di diritto pubblico non può concernere la finalità mediata dello stesso, ma deve necessariamente riferirsi al fine istituzionale perseguito.

La norma in esame, infatti, dispone in merito ad un organismo "istituito per soddisfare specificatamente bisogni di interesse generale", dimostrando, perciò, di mirare a qualificarne l’oggetto.

L'uso dell'avverbio "specificatamente" indirizza l'indagine evidentemente verso l'obiettivo principale che l'organismo deve perseguire.

Se così non fosse si concederebbe la possibilità di eludere facilmente la norma con l'introduzione di presunte qualificanti attività a respiro sociale affiancate alle vere finalità programmate.

Ora, se non si vuole negare la realtà, la società mista è stata costituita (oltre che per la serie di motivi già elencati) fondamentalmente per la gestione del servizio di pulizia dei locali comunali, per un’attività, cioè, rivolta non già alla utenza in quanto tale, ma riferita precipuamente alla stessa Amministrazione appaltante.

In altri termini, l’attività disvelatrice della funzione della società mista, cui necessariamente occorre riferirsi ai fini della individuazione teleologica, non depone affatto per una funzione generalizzata, ma per una strumentale rispetto ai compiti di autogestione del Comune.

In tal senso, l’Ente locale ha due opzioni: o svolgere il servizio in proprio, oppure affidarlo ad altri.

Trattandosi di un’attività "interna" e "materiale" non espressiva di alcuna potestà, la stessa può essere affidata mediante la forma dell’appalto di servizi e non mediante una forma concessoria.

Concludendo sul punto, dalla inconfigurabilità di un organismo di diritto pubblico correlata alla mancanza del necessario perseguimento dell’interesse generale, il Collegio trae la conseguenza che non possa escludersi l’applicazione della normativa comunitaria.

Consegue che detta società, nel caso in esame, non può essere altresì annoverata tra le "amministrazioni aggiudicatrici" ai sensi dell'art. 2 del D.Lgs.vo 157/95, posto che, tra le altre fattispecie certamente non riconducibili alla società in esame, detta norma ricomprende anche i richiamati organismi.

Ne deriva ulteriormente, quindi, la non esclusione della applicabilità di detto decreto (e della procedura ad evidenza pubblica) ai sensi dell'art. 5, comma 2, del medesimo.

La norma richiamata, infatti, così recita:

"Il presente decreto non si applica, inoltre:

(omissis)

h) agli appalti pubblici di servizi aggiudicati a un ente che sia esso stesso un'amministrazione aggiudicatrice ai sensi dell'art. 2, in base a un diritto di esclusiva di cui beneficia in virtù di disposizioni legislative, regolamentari o amministrative, purché queste siano compatibili con il trattato".

In conclusione, al di là di ogni ulteriore qualificazione della normativa di conferimento di diritti di esclusiva, l'improspettabilità di un organismo pubblico determina la contestuale inconfigurabilità di un appalto "escluso".

*  *  *

Analizzato l’elemento soggettivo ed appurata nella specie la non configurabilità dell’organismo di diritto pubblico, è da verificare anche l’eventuale sussistenza degli elementi oggettivi richiesti per poter comunque debitamente applicare detta normativa.

La stessa certamente, per esplicita previsione, deve trovare applicazione in tema di appalto pubblico di servizi e può essere evitata nell'ipotesi in cui si versi in tema di servizi di interesse economico generale.

L'indagine è particolarmente rilevante, atteso che, come si è ampiamente dimostrato, le società miste, indipendentemente dalla loro natura, devono essere finalizzate a detto tipo di servizio.

La Direttiva CEE 92/50, tra i considerando introduttivi, inoltre, statuisce che la prestazione di servizi è dalla medesima disciplinata soltanto quando si fondi su contratti d'appalto.

"La prestazione su altra base, quali leggi o regolamenti ovvero contratti di lavoro, esula dal campo d'applicazione" della stessa.

L'appalto pubblico di servizio viene configurato dall'art. 1 di detta direttiva come il contratto a titolo oneroso stipulato in forma scritta tra un prestatore di servizi ed una amministrazione aggiudicatrice.

Diversamente, quindi, l'assegnazione di un servizio pubblico non obbliga alla scelta della procedura concorsuale.

Deriva, pertanto, che la scelta di modellare anche in questa ipotesi la procedura sulla scorta della normativa comunitaria, "costituisce un'opzione, certamente opportuna, di diritto interno, ma non un adempimento di un obbligo comunitario" (cfr. Cons. Stato, A.G. 90/96 cit.).

La prima conseguenza che il Collegio trae è che la richiamata normativa interna volta a giustificare l'applicazione dell'evidenza pubblica anche per la scelta del partner privato minoritario in tema di servizio pubblico, pur non essendo derivabile dalle direttive CEE, con le stesse non collide e, pertanto, può ben essere confermata in linea di principio in tutte le ipotesi di società mista.

Come è stato rettamente osservato, con decisione che il Collegio ritiene di poter condividere, il ricorso facoltativo alla evidenza pubblica nella ipotesi di perseguimento di un interesse generale non risulta contrastante con l'art. 59 del Trattato CEE che bandisce "le restrizioni alla libera prestazione di servizi all'interno della Comunità" (cfr. Cons. Stato A.G. cit.)

Per effetto del combinato disposto degli artt. 66 e 55, primo comma, del medesimo Trattato, infatti, la norma espressa dall'art. 59 non trova applicazione per le attività che nello Stato "partecipino, sia pure occasionalmente, all'esercizio di pubblici poteri".

Detta partecipazione, come richiamato nella predetta decisione, è stata rettamente individuata dal Dipartimento delle Politiche Comunitarie, non necessariamente in un'attribuzione formale di poteri pubblici, o nell'esercizio di poteri autoritativi in senso proprio, ma nel "conferimento, nel quadro della partecipazione a modelli organizzativi della pubblica amministrazione, di una funzione di oggettivo interesse pubblico".

La conclusione che il Consesso Consultivo trae, con opinione che è coerente con le premesse richiamate da questo Collegio, è che i moduli organizzativi delle società miste (non importa se a capitale maggioritario pubblico o meno), in quanto preposti al raggiungimento di un servizio pubblico, partecipano necessariamente a detto potere finalizzato all'interesse pubblico.

Detta partecipazione da parte di moduli societari, ad evidente respiro privatistico, viene confermato dalle direttive sui "settori esclusi" (90/531 e 92/38 CEE), attuate con D.Lgs.vo 158/95, che, all'art. 2, annovera tra le "amministrazioni aggiudicatrici" anche i "soggetti privati che, "nell'esercizio delle loro attività si avvalgono di diritti speciali o esclusivi, di quei diritti, cioè, costituiti per legge, regolamento o in virtù di una concessione o altro provvedimento amministrativo avente l'effetto di riservare ad uno o più soggetti l'esercizio delle attività di cui agli artt. 3 e 6".

In queste ipotesi, il servizio viene affidato senza il ricorso alla gara pubblica.

Ciò posto, diventa fondamentale l'esame del servizio da espletare da parte della società Multiservizi per evidenziare la sussistenza o meno del presupposto dell'esercizio di un servizio pubblico e del raggiungimento dell'interesse generale che richiede il non utilizzo delle regole della concorrenza qualora le stesse possano ostare "all'adempimento, in linea di diritto e di fatto, "alla "specifica missione " affidata alle imprese incaricate del servizio stesso (cfr. art. 90, comma 2, del Trattato CEE).

Si è già anticipato, in tema di individuazione delle figure di Organismo di diritto pubblico e di Amministrazione aggiudicatrice che nel caso in esame non è dato riscontrare la sussistenza delle richiamate finalità.

L'affermazione, vista la particolare rilevanza, merita un ulteriore approfondimento.

Come è noto, la cura degli interessi pubblici non si realizza soltanto mediante l'esercizio delle potestà amministrative manifestate mediante l'emanazione di atti giuridici pubblici o privati.

La stessa, infatti, può concretarsi altresì in semplici attività materiali ove la prevalenza del fatto o della operazione connota gli interventi della pubblica amministrazione.

In una prima accezione, a rilevanza eminentemente soggettiva, la nozione di pubblico servizio si rivolgeva alla necessità che l'attività materiale fosse comunque gestita dalla "mano pubblica".

Questo orientamento, come è evidente dall'attribuibilità del servizio proprio alle società miste già dalla L. 142/90, deve lasciare il posto alla qualificazione della rilevanza sociale degli interessi perseguiti.

Coerentemente con le definizioni della normativa comunitaria, resi anche in tema di appalto pubblico di servizio, per individuare il pubblico servizio, occorre avere riguardo a tre elementi fondamentali: il beneficiario del servizio, la sussistenza o meno di un interesse generale e la remunerazione.

Il necessario perseguimento dell'interesse generale richiamato, ribadito a chiare lettere nella premessa dell'art. 22 della L. 142/90, richiede che l'attività in considerazione debba essere rivolta non già allo stesso Ente, ma ad una utenza indiscriminata.

In altri termini la funzione deve in questi casi essere rivolta necessariamente a vantaggio della collettività.

Ne deriva che la remunerazione del servizio non si pone quale corrispettivo del sinallagma contrattuale (che caratterizza, al contrario l'appalto pubblico del servizio), ma, come chiaramente ribadito dall'art. 12, comma 5, della L. 23.12.1992 n° 498, richiede il ricorso alla diversa forma tariffaria.

Venendo al caso in esame, il vero oggetto del contratto, per il quale è previsto un corrispettivo e non già una tariffa o un sistema di tariffe, consiste semplicemente nella manutenzione e pulizia dei locali di proprietà o di pertinenza del Comune.

Detta attività, senza ombra di dubbio, oltre che rivolgersi all'Ente in quanto tale, rientra nei servizi appaltabili come da Tabella (Categoria 14) di cui all'Allegato IA alla Direttiva CEE 92/50.

Si deve concludere, quindi, che a causa dell'insussistenza di un "servizio pubblico" non è possibile giustificare un’eventuale deroga alla normativa comunitaria e, soprattutto, l’applicabilità della normativa relativa alla costituzione delle società miste che richiede come indefettibile detto presupposto.

In sostanza, al di là del modulo utilizzato (a partecipazione pubblica privata o maggioritaria) il comune denominatore è da rintracciare pur sempre nell’espletamento di una funzione di oggettivo interesse pubblico, senza la quale la riconduzione alla disciplina comunitaria diviene, anziché facoltativa (e, quindi, pur sempre percorribile), certamente inevitabile.

Sintetizzando.

Premesso che la costituzione di una società mista consente il contestuale affidamento del servizio oggetto della stessa società, se la funzione ricoperta non assume un interesse generale e se non è possibile attribuire la valenza di servizio pubblico all’attività da svolgere, la stessa non può essere regolata dai modelli previsti dalla legislazione di settore e, pertanto, concretando di fatto l’affidamento di un servizio secondo una procedura assimilabile all’appalto, richiede necessariamente l’applicazione della normativa di matrice comunitaria e, pertanto, l’utilizzo della evidenza pubblica nella scelta del partner sia esso di maggioranza che di minoranza.

VI. La società costituita con la GEPI.

Il Collegio ritiene, in ultimo, di dover verificare l’eccezione sollevata dai controinteressati sulla irrilevanza della distinzione sopra delineata in ordine al servizio pubblico rispetto all'appalto pubblico di servizi.

Ad avviso dei resistenti, la necessità dello svolgimento di un servizio pubblico verrebbe meno per effetto della norma "speciale" contenuta nel richiamato D.L. 26/95 (conv. in legge 95/95).

Il medesimo art. 4, che come si è già detto è volto a regolare la costituzione di "società miste per i servizi pubblici", al comma 6, così stabilisce:

"Al fine di favorire l'occupazione o la rioccupazione di lavoratori, i comuni e le province sono autorizzati a costituire società per azioni con la GEPI S.p.a., anche per la gestione di servizi pubblici locali".

In sostanza detta norma stabilirebbe:

  1. che, in presenza della congiunzione "anche", un sodalizio societario tra ente locale e GEPI potrebbe essere esteso a forme di gestione di servizi "non" pubblici (ma ad appalti pubblici di servizi);
  2. che la scelta operata in favore di detto organismo (inserito nella organizzazione del Ministero del Tesoro) consentirebbe comunque, indipendentemente dal tipo societario di maggioranza pubblica o privata, un conferimento posto al di fuori della evidenza pubblica.

Ciò posto, il Collegio è chiamato ad esaminare i due aspetti sopra riferiti al fine di verificare la sussistenza delle eccezioni prospettate segnatamente dalla difesa della GEPI.

La Sezione osserva in proposito che da una lettura sistematica della norma in esame non è possibile far derivare né l'interpretazione fornita, né le conseguenze dalla stessa ricavate.

Se il legislatore avesse voluto inserire una eccezione alla necessità che la società mista costituita da enti locali dovesse rivolgersi a servizi pubblici (come chiaramente dal contesto normativo precedente e successivo a detta norma ritenuta "speciale") avrebbe, semmai, esteso le ipotesi ulteriori non già ai casi ordinari già previsti dei servizi pubblici, ma a quelli, non qualificati nello stesso corpo della norma, dei "servizi non pubblici".

In altri termini, ritenuto che già il titolo ed il successivo conforme contenuto dell'art. 4 si rivolgono esclusivamente ai servizi pubblici, coerentemente, il dettato normativo, per non essere pleonastico e per estendersi alle ipotesi prospettare dalla GEPI, si sarebbe dovuto esprimere secondo la formula "anche per la gestione di servizi diversi da quelli pubblici", od una similare, inserendo, così, l'eccezione alla regola generale programmata.

Ad avviso del Collegio, invero, il significato espresso dalla congiunzione "anche" deve essere riferito al diverso attributo aggiuntivo "locali", non presente in nessuna delle altre norme richiamate.

In effetti, quindi, si è voluto rimarcare la possibilità di scelta della GEPI quale partner esclusivo non solo in tema di soli servizi pubblici, ma, di più, di quelli tipicamente "locali".

Ad identica conclusione, comunque, è possibile giungere ove si abbia riguardo alla successiva normativa regionale introdotta in subiecta materia.

La L.R. 4.4.1995 n° 26, modificata dalla L.R. 42/96, all'art. 3, ha ribadito che la Regione, d'intesa con la GEPI, "è autorizzata ad adottare iniziative volte a favorire la costituzione di società a partecipazione pubblica", al dichiarato fine di espletare "i servizi pubblici affidati".

Il comma 3 del medesimo articolo, poi, prevede che "la Regione, avvalendosi prioritariamente di società a partecipazione pubblica regionale, con esclusione delle società costituite ai sensi dell'articolo 2 della legge regionale 11 aprile 1981, n. 54, è autorizzata a promuovere e deliberare la costituzione, anche con partecipazione di minoranza, delle società di cui al comma 1, per l'espletamento dei seguenti servizi: custodia, conservazione e fruizione dei beni culturali; servizi socio-sanitari; custodia, manutenzione, tutela e fruizione dei beni ambientali ed in particolare dei parchi, riserve, oasi ed aree protette; altri servizi pubblici di competenza dell'Amministrazione regionale".

La norma viene, poi, estesa dal comma successivo "agli enti ed istituti pubblici comunque denominati, sottoposti a vigilanza e/o tutela dell'Amministrazione regionale", per i quali, "con decreto del Presidente della Regione", è stata stabilita l'emanazione di direttive occorrenti per l'attuazione per quanto riguarda "l'espletamento dei servizi pubblici di loro competenza".

A mente del medesimo comma, detti enti "sono autorizzati a promuovere e deliberare la costituzione delle società di cui al comma 3 e la partecipazione azionaria al capitale delle società stesse".

Successivamente, in ottemperanza alla richiamata disposizione, la materia è stata puntualizzata con i Decreti Presidenziali 7.2.1996 n° 13 e 13.5.1996 n° 39.

Il primo di detti atti di normazione, dopo aver ribadito la possibilità di costituzione delle società miste con la GEPI all'art. 8 così recita:

"l'oggetto sociale delle società previste dal presente decreto, individuato dai relativi atti costitutivi e dagli statuti, deve concentrarsi esclusivamente sul perseguimento di finalità coincidenti con quelle proprie dei pubblici servizi e delle connesse attività, al cui svolgimento la costituzione delle società stesse è preordinata, in armonia con le previsioni di cui ai commi 3, 4 e 5 dell'articolo 3 della legge regionale 4 aprile 1995, n. 26".

Il successivo decreto 39/96, nell'unico articolo che lo costituisce, pur richiamando nella sua interezza l'art. 4 della L. 95/1995 ( e, quindi, la presunta inclusione dei servizi non pubblici ) nella sua intestazione, con espressione volta a dirimere ogni dubbio residuale così si esprime:

"Regolamento di attuazione dell'art. 3, comma 7, della legge regionale 4 aprile 1995, n. 26, concernente "Ulteriori modifiche ed integrazioni all'art. 4 della legge regionale 5 gennaio 1993, n. 3 e successive modifiche, concernente norme per l'utilizzazione di lavoratori beneficiari di interventi straordinari di integrazione salariale in progetti di pubblica utilità. Misure volte a favorire il reimpiego dei medesimi lavoratori presso società a partecipazione pubblica per la gestione dei pubblici servizi - Modifica"."

Dal complesso normativo esaminato, quindi, emerge in maniera inequivocabile che l'attività di gestione delle società miste costituite con e da enti locali, anche nelle ipotesi di partenariato con la GEPI, deve indirizzarsi allo svolgimento di servizi pubblici.

In conclusione, per quanto già chiarito, anche l’ulteriore rilievo del Comune resistente va disatteso e confermata l’illegittimità del provvedimento impugnato.

VII. La stabilizzazione dell’occupazione quale presupposto della società con la GEPI.

L’illegittimità del provvedimento viene ancora in rilievo anche sotto il diverso censurato profilo teleologico del raggiungimento dell’obiettivo della stabilità dell’occupazione dei lavoratori del settore.

Si è già arrivati alla conclusione che la costituzione di una società mista avente come partner la GEPI deve orientarsi necessariamente al compimento di servizi pubblici.

Occorre precisare, però, che la finalità specifica di detto sodalizio societario è formalmente limitata, ex art. 4 della L. 95/1995, dal dichiarato ed ineludibile fine di "favorire l'occupazione o la rioccupazione di lavoratori".

Il Collegio ritiene che non occorra spendere molte parole per far derivare da detto inciso la sola conclusione possibile secondo la quale una società con la GEPI, formalizzata al di fuori di ogni processo ad evidenza pubblica, sia possibile non solo a fronte di servizi pubblici, ma, di più, a fronte di situazioni di chiaro disagio occupazionale, laddove, cioè, occorra intervenire per incrementare l'occupazione delle aree depresse, ovvero occorra stabilizzare claudicanti realtà del mercato del lavoro.

La richiamata esigenza è non solo confermata, ma diventa ancora più ineludibile alla luce della normativa regionale.

L'art. 3, comma 1, della L.R. 26/95 così recita:

"La Regione, d'intesa con la GEPI, anche per il tramite della NOVA s.p.a., nel quadro degli interventi previsti dall'articolo 3 della legge regionale 23 maggio 1994, n. 14, e successive modifiche, è autorizzata ad adottare iniziative volte a favorire la costituzione di società a partecipazione pubblica che, per l'espletamento dei servizi pubblici loro affidati, procedano prioritariamente all'assunzione di lavoratori in possesso delle professionalità richieste i quali:

a) anche anteriormente alla data di entrata in vigore della presente legge siano stati alle dipendenze della GEPI, o di società non operative costituite dalla GEPI, e fruiscano o abbiano fruito dei trattamenti straordinari di integrazione salariale di cui ai commi 3 e 4 dell'articolo 4 del decreto legge 29 marzo 1991, n. 108, convertito dalla legge 1° giugno 1991, n. 169, ed ai commi 1 e 4 dell'articolo 2 del decreto legge 4 settembre 1987, n. 366, convertito dalla legge 3 novembre 1987, n. 452;

b) partecipino, alla data di entrata in vigore della presente legge o successivamente a tale data, alla realizzazione di progetti di pubblica utilità disciplinati dall'articolo 4 della legge regionale 5 gennaio 1993, n. 3, e successive modifiche e integrazioni, e, qualora vengano adottate le iniziative di cui al comma 4 dell'articolo 1, abbiano partecipato alle attività oggetto delle medesime iniziative".

Detta specifica individuazione delle fattispecie viene confermata dal richiamato D. Pres. Reg. Sic. 7.2.1996 n° 13, che, all'art. 2, così stabilisce:

"Gli Assessori regionali che per l'espletamento di servizi di loro competenza intendano promuovere la costituzione di società per azioni a partecipazione pubblica in conformità a quanto previsto dall'art. 3, comma 3 della legge regionale 4 aprile 1995, n. 26, redigono, d'intesa con la GEPI, anche per il tramite della NOVA s.p.a., un apposito progetto nel quale vanno indicati:

(omissis)

b) le unità da impiegare, che dovranno essere costituite prioritariamente e prevalentemente dai lavoratori di cui all'articolo 3, comma 1, della legge regionale 4 aprile 1995, n. 26, per l'assolvimento del servizio distintamente per ciascuna località e sede, con la specifica delle professionalità occorrenti e delle mansioni da svolgere"

(omissis)

In buona sostanza, la funzione dominante diviene l'assunzione di specifici soggetti e la stabilizzazione (sempre mediante nuove assunzioni) di lavoratori precedentemente inseriti in progetti di pubblica utilità.

Nella situazione sottoposta all'esame del Collegio, la necessità di intervento straordinario (che si coglie a piene mani nella normativa indicata) non solo non viene in evidenza, ma neanche costituisce necessario presupposto riferibile in fatto all'atto impugnato.

A fronte della indicata normativa, non è condivisibile quanto affermato dalla GEPI in ordine alla supposta modificazione teleologica della società, che da organismo volto ad intervenire in settori economici in crisi, è passato, per evoluzione normativa, ad occuparsi genericamente di stabilizzazione dell'occupazione.

Il Collegio ritiene che il problema della stabilizzazione possa avere senso solo se riferito alla possibilità concreta che il sussistente livello occupazionale possa essere, in settori ben definiti ed innanzi a fattispecie concrete, compromesso da problemi congiunturali o di depressione della domanda del servizio.

Il comma 8 dell'art. 4 della L. 95/1995, infatti, impone che l'intervento della GEPI debba essere limitato, tramite la cessione delle partecipazioni mediante pubblica gara, ad un termine massimo di cinque anni.

Ciò significa, a giudizio di questo Tribunale, che detto intervento, da finalizzare alla "occupazione o alla rioccupazione" debba essere rivolto alla creazione di nuove occasioni di lavoro da offrire a lavoratori in cerca di prima occupazione o divenuti già disoccupati.

Dal senso fatto palese delle parole utilizzate, quindi, l'intervento non può essere mirato alla stabilizzazione del lavoro già esistente, ma, esclusivamente, alla creazione di nuove occasioni di lavoro in aree evidentemente caratterizzate da una difficoltà congiunturale nel settore specifico di intervento.

Se così non fosse, il legislatore immotivatamente avrebbe creato una normativa ad hoc volta al conferimento di speciali poteri ad un organismo certamente nato per risolvere i problemi congiunturali sopra richiamati.

In altri termini, la detta possibilità servirebbe soltanto per far transitare le maestranze da un'impresa privata ad una struttura istituzionalizzata ex lege con fini di mantenimento del livello occupazionale, non minacciato da situazioni di crisi.

Il che è certamente privo di senso ed in aperto contrasto con le regole e le norme che tutelano il libero mercato.

Sembra opportuno, inoltre, aggiungere che la stabilizzazione intesa non come incremento delle occasioni di posti di lavoro colliderebbe non solo con le finalità della GEPI e della società mista con essa costituita, ma con la stessa natura transitoria del sodalizio consentito dalla legge.

La Sezione, infatti, ritiene che non avrebbe alcun significato prevedere una "conferma" di posti di lavoro per un periodo circoscritto senza che l’attività si rivolga a zone bisognose di interventi concepiti quale volano per l'economia di settore in crisi di modo che, alla fine del provvisorio rapporto, il livello occupazionale possa rimanere garantito perché consolidato.

Osserva il Collegio, nel caso in esame, che, nella realtà, nonostante le dichiarazioni di intenti espresse nel provvedimento volte a ribadire la finalità di intervento nel senso di incremento della occupazione e di stabilità della stessa, non si è intervenuti in un settore caratterizzato da deficienze strutturali, ma dal normale passaggio di lavoratori già occupati da un'impresa ad un'altra con i controlli demandati, ex lege (come riconosciuto nel provvedimento), all'Ispettorato del Lavoro.

Inoltre, come acquisito da questo Tribunale, in realtà, il Piano di intervento con l'analisi dell'impiego della manodopera e dei costi riferita al periodo 1997 - 2002 espressamente richiamato a pag. 3 del provvedimento impugnato, non conforta i propositi in esso trasfusi.

A pag. 3.4, intanto si legge che i capitolati formalizzati con la GEPI, hanno "evidenziato la volontà comunale di salvaguardare i livelli occupazionali esistenti, essendo prevista una clausola, esclusa solo negli appalti più recenti, che obbliga la società aggiudicataria ad assumere tutti gli operatori già precedentemente occupati nel servizio".

Già questo dimostra in maniera palmare l'insussistenza di un programma di incremento di posti di lavoro, ma soltanto un mantenimento in difetto delle maestranze già utilizzate.

Il dato viene confermato dall'analisi della tabella I di cui alla pag. 3.6 che per n° 6 ore giornaliere lavorate ha previsto l'impiego nelle ditte svolgenti il servizio prima dell'affidamento alla Multiservizi di n° 522 dipendenti.

Raffrontando questi dati con i dati di progetto di cui alla pag. 4.9, si arriva alla conclusione che per il medesimo numero di ore lavorate, sono previsti n° 440 addetti.

Non appare neanche calzante l'eccezione mossa dalle difese dei controinteressati secondo le quali il maggior numero di addetti sarebbe reso possibile solo da contratti a tempo parziale.

Rimane troncante, ammesso che l'affermazione sia vera, che in un momento storico in cui viene presa in considerazione la differenziazione dei salari, visti i seri problemi connessi alla possibilità di occupazione, la diffusione a tempo parziale potrebbe concepirsi come preferibile rispetto ad una significativa restrizione occupazionale sia pure a tempo pieno.

Il Collegio rileva, inoltre, che dall'analisi del prospetto D allegato alla nota prot. n° 1504/97 del 21.10.1998 di ottemperanza alla sentenza interlocutoria n° 1297/98 emerge che il dato complessivo degli occupati dalle ditte già appaltatrici dei servizi de quibus (riferito agli appalti già scaduti ed in scadenza al 17.2.2000) consiste in 560 unità, mentre il numero degli addetti che si prevede saranno impiegati entro il 17.2.2000 ammonterebbe a 580.

In sostanza, il Comune ha evidenziato che dalla costituzione della società il potenziale occupazionale, diversamente che dalle riferite premesse, risulterebbe amplificato di venti unità.

Il dato non appare del tutto convincente.

I dati delle unità originariamente occupate (vedasi prospetti B e D) pari, rispettivamente a 536 (per i rapporti già conclusi) ed a 560 (per i rapporti comprensivi quelli da concludere) non comprendono, come è chiaramente previsto alla nota n° 2 posta in detti elenchi, tutti gli operatori assunti dopo il 31.12.1995.

Talché, il presunto gap occupazionale colmato, pari, si ripete, a venti unità, seppur ipoteticamente pregevole, non risulta confermato, in quanto rimane incerto il dato attuale di partenza di 560 lavoratori che nell'ultimo triennio può aver trovato un ulteriore incremento.

*  *  *

Conclusivamente, dalla positiva definizione delle richiamate censure consegue l'accoglimento dei ricorsi e, pertanto, va disposto l'annullamento degli atti impugnati.

Rimangono assorbiti gli ulteriori motivi di gravame.

Stante la particolare novità delle questioni prospettate, stimasi equo disporre la compensazione tra le parti delle spese e degli onorari del giudizio.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale della Sicilia, Sezione staccata di Catania, Sezione Seconda, accoglie i ricorsi in epigrafe e, per l’effetto, annulla i provvedimenti ivi impugnati.

Spese compensate.

Ordina che la presente sentenza venga eseguita dall’Autorità Amministrativa.

Così deciso in Catania nella Camera di Consiglio del 15.1.1999.

L’ESTENSORE IL PRESIDENTE

Pancrazio Savasta Luigi Passanisi

Il Segretario

Depositata nella Segreteria del T.A.R.S.–Sez.di Catania il 10.6.1999.

Copertina