Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana, sezione giurisdizionale, sentenza non definitiva 15 dicembre 2020, n. 1136 – Pres. Taormina, Est. Molinaro.
Responsabilità civile – Pubblica Amministrazione – Impianti produzione energie rinnovabili – Inerzia dell’amministrazione – Sopravvenienza normativa – Interruzione del nesso di causalità – Natura contrattuale o extracontrattuale – Rilevanza ai fini della quantificazione ovvero della prevedibilità del danno – Danno da mancata vendita dell’energia – Deferimento all’Adunanza Plenaria.
Devono essere rimesse all’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato le questioni: a) se si configuri o meno una interruzione del nesso di causalità della fattispecie risarcitoria ex art. 2043 c.c. di tipo omissivo se, successivamente all’inerzia dell’Amministrazione su istanza pretensiva del privato, di per sé foriera di ledere il solo bene tempo, si verifichi una sopravvenienza normativa che, impedendo al privato di realizzare il progetto al quale l’istanza era preordinata, determini la lesione dell’aspettativa sostanziale sottesa alla domanda presentata all’Amministrazione, che sarebbe stata comunque soddisfatta, nonostante l’intervenuta nuova disciplina, se l’Amministrazione avesse ottemperato per tempo; b) se il paradigma normativo cui ancorare la responsabilità dell’Amministrazione da provvedimento (ovvero da inerzia e/o ritardo) sia costituito dalla responsabilità contrattuale piuttosto che da quella aquiliana; c) in caso di risposta al quesito sub b) nel senso della natura contrattuale della responsabilità, se la sopravvenienza normativa occorsa intervenga, all’interno della fattispecie risarcitoria, in punto di quantificazione del danno (art. 1223 c.c.) o di prevedibilità del medesimo (art. 1225 c.c.); d) in caso di risposta al quesito sub b) nel senso della natura contrattuale della responsabilità, se deve o meno essere riconosciuta la responsabilità dell’Amministrazione per il danno da mancata vendita dell’energia nei termini, anche probatori, sopra illustrati; e) in via subordinata, in caso di risposta al quesito sub b) nel senso della natura extracontrattuale della responsabilità, se in ipotesi di responsabilità colposa da lesione dell’interesse legittimo pretensivo integrata nel paradigma normativo di cui all’art. 2043 c.c. la Pubblica amministrazione sia tenuta o meno a rispondere anche dei danni derivanti dalla preclusione al soddisfacimento del detto interesse a cagione dell’ evento – per essa imprevedibile – rappresentato dalla sopravvenienza normativa primaria preclusiva e, in ipotesi di positiva risposta al detto quesito, se tale risposta non renda non manifestamente infondato un dubbio di compatibilità di tale ricostruzione con il precetto di cui all’art. 81, comma 3, Cost.; f) sempre in via subordinata, in caso di risposta al quesito sub b) nel senso della natura extracontrattuale della responsabilità se debba o meno essere riconosciuta la responsabilità della Regione per il danno da mancata vendita dell’energia nei termini, anche probatori, sopra illustrati.
Sommario: 1 – Il caso. 2 – Il nesso di causalità: sopravvenienza normativa come possibile concausa sopravvenuta interruttiva. 3 – Le tesi sulla natura giuridica della responsabilità civile dell’Amministrazione. 4 – Dal regime della responsabilità alla qualificazione. 5 – L’influenza della situazione giuridica lesa e del rapporto di diritto pubblico sui connotati della responsabilità dell’Amministrazione. 6 – Sul possibile contrasto con l’art. 81, co. 3 Cost. 7 – Qualche riflessione conclusiva.
1 – Il caso.
Una società energetica presentava ai competenti uffici della Regione Siciliana quattro distinte istanze di autorizzazione unica ai sensi dell’art. 12 D. lgs. n. 387 del 2003, per la costruzione e la gestione di altrettanti impianti fotovoltaici. A fronte all’inerzia dell’Amministrazione veniva proposto ricorso davanti al Tar Sicilia – Palermo, ai sensi degli artt. 31 e 117 c.p.a., con ulteriore domanda di risarcimento del danno causato dalla ritardata conclusione del procedimento. Il Tar accoglieva le domande di declaratoria dell’illegittimità del silenzio serbato dall’Amministrazione, acclarando il superamento del termine massimo per la conclusione del procedimento; le domande risarcitorie, invece, venivano dichiarate inammissibili, stabilendo il Tar l’obbligo della Regione Sicilia di pronunciarsi espressamente sulle istanze. La domanda di ristoro per equivalente veniva riproposta dinanzi al C.g.a.: nel tempo utile al rilascio delle autorizzazioni, infatti, l’art. 65 del D.l. n. 1 del 2012 aveva eliminato gli incentivi per gli impianti fotovoltaici collocati su terreno agricolo e precluso alla società ricorrente la possibilità di fruirne. Al momento del tardivo rilascio dei provvedimenti ampliativi le risorse pubbliche non erano più erogabili e l’attività produttiva sarebbe stata, ove comunque intrapresa, costantemente in perdita. Ne conseguiva la decisione di non procedere oltre con la realizzazione degli impianti e la conseguente richiesta risarcitoria, comprensiva del danno emergente e del lucro cessante. Il ritardo dell’Amministrazione, precludendo alla società di accedere agli incentivi statali e di intraprendere l’attività di produzione e distribuzione dell’energia, avrebbe procurato un danno risarcibile.
2 – Il nesso di causalità: sopravvenienza normativa come possibile concausa sopravvenuta interruttiva.
A seguito del positivo scrutinio di ammissibilità delle domande risarcitorie (ad eccezione della sola domanda risarcitoria relativa al lucro cessante riguardante il quarto impianto), il C.g.a. si interroga sulla fondatezza della domanda, formulata a titolo di responsabilità extracontrattuale ed avente ad oggetto, oltre al danno emergente, il lucro cessante. Quest’ultimo viene dalla società ricorrente individuato nel mancato guadagno derivante dal ritardo dall’Amministrazione nell’adozione del provvedimento di autorizzazione, senza il quale non sarebbero venute meno le condizioni di realizzabilità del progetto e non sarebbe stato precluso alla società di acquisire, per un ventennio, le utilità patrimoniali connesse ad esso, individuate negli introiti prodotti dal regime incentivante e dalla vendita dell’energia elettrica erogata (solo in via subordinata viene chiesto il danno da perdita di chance). Il Consiglio, tuttavia, ritiene che sussistano ragioni di incertezza in relazione all’applicazione del requisito del nesso di causalità e alla misura e ampiezza del danno da risarcire, questioni dipendenti dalla qualificazione della responsabilità dell’Amministrazione, dalla conseguente applicabilità del canone della prevedibilità di cui all’art. 1225 c.c. e dalla nozione di danno quale conseguenza immediata e diretta della condotta.
Sul tema della causalità, il C.g.a. evidenzia preliminarmente come la stessa, in termini materiali, si sostanzi nel legame intercorrente tra l’attività illegittima dell’Amministrazione e la lesione dell’interesse al bene della vita al quale l’interesse legittimo si collega; in termini giuridici, nel nesso esistente tra la compressione della situazione soggettiva e le conseguenze dannose verificatesi.
L’accertamento della causalità materiale, secondo il Consiglio, postula una preventiva individuazione dell’obbligo giuridico di pronunciarsi sull’istanza – nel caso rinvenibile nell’art. 2bis, co. 1 della legge n. 241 del 1990[1] – e del bene della vita anelato dal privato: il danno da ritardo nella conclusione del procedimento, invero, sarebbe risarcibile non “come effetto del ritardo in sé e per sé, bensì per il fatto che la condotta inerte o tardiva dell’amministrazione sia stata causa di un danno altrimenti prodottosi nella sfera giuridica del privato che, con la propria istanza, ha dato avvio al procedimento amministrativo“.[2]
Ciò posto, il C.g.a. ritiene di fare applicazione dei canoni della c.d. teoria condizionalistica, in base alla quale deve considerarsi causa ogni antecedente senza cui il risultato non si sarebbe verificato, ciò in forza del giudizio controfattuale (o contrario ai fatti), basato sul criterio del “più probabile che non”.[3] La verifica dovrebbe svolgersi secondo la c.d. “doppia formula”: la condotta umana sarebbe causa dell’evento se senza di essa (con essa nel giudizio omissivo) l’evento non si sarebbe verificato; di contro, la condotta non potrebbe ritenersi causalmente rilevante quando, senza di essa (con essa nel giudizio omissivo) l’evento si sarebbe verificato ugualmente.
Nel caso in esame, se l’Amministrazione avesse autorizzato per tempo la società, quest’ultima avrebbe realizzato l’impianto, secondo il giudizio del “più probabile che non” basato sugli elementi probatori raccolti, così accedendo agli introiti conseguenti.
A rilevare quale fattore ulteriore e sopravvenuto, rispetto all’inerzia dell’Amministrazione, vi è la sopravvenienza normativa citata (l’art. 65 del D.l. n. 1 del 2012): nonostante la condotta omissiva, l’interesse privato sarebbe stato soddisfatto comunque se il mutamento legislativo non avesse posto fine al regime contributivo pubblico.
Si tratta di valutare, quindi, se un elemento normativo sopraggiunto abbia un valore causale assorbente e se sia identificabile con un fattore idoneo di per sé a cagionare l’evento lesivo e, conseguentemente, ad interrompere il nesso causale.
Dopo aver richiamato gli artt. 40 e 41 c.p., espressivi di principi generali in tema di causalità, valevoli anche per la responsabilità civile, il C.g.a. richiama tre teorie ben note al diritto penale, tutte finalizzate ad individuare un correttivo della teoria condizionalistica pura e a delimitare l’ambito di responsabilità derivante da una sua rigorosa applicazione: la teoria della causalità adeguata[4]; la teoria della causalità umana[5]; la teoria dell’imputazione obiettiva dell’evento.[6]
Secondo la teoria della causalità adeguata non ogni antecedente storico dell’evento ne rappresenta la causa, ma solo quello rispetto al quale l’evento, sulla base di un giudizio ex ante e in astratto, ne costituisca uno sviluppo probabile, normale sulla base dell’id quod plerumque accidit.
La teoria della causalità umana sostiene che possono considerarsi causati dall’uomo solo i risultati che lo stesso è in grado di dominare in virtù dei suoi poteri cognitivi e volitivi; non possono, di contro, dirsi da lui causati gli eventi eccezionali, idonei a sfuggire al potere di dominio dell’uomo, avendo una probabilità minima o insignificante di verificarsi.
Infine, in base alla teoria dell’imputazione obiettiva dell’evento, la condotta umana è causa dell’evento quando abbia creato o aumentato un pericolo giuridicamente non consentito, sempre che lo stesso si sia anche effettivamente realizzato nel concreto prodursi dell’evento.
Ciò posto, il C.g.a. prospetta due possibilità: concludere nel senso della sussistenza del nesso causale tra ritardo dell’Amministrazione e lesione dell’interesse giuridicamente tutelato, applicando il criterio controfattuale puro o, semmai, la teoria dell’imputazione obiettiva dell’evento (avendo il ritardo dell’Amministrazione aumentato il rischio che si verificassero situazioni ostative rispetto alla realizzazione del progetto ed essendosi quel rischio concretizzato); escludere, viceversa, il nesso causale, ritenendo la sopravvenienza normativa assorbente. In quest’ultimo senso deporrebbe la teoria della causalità adeguata: il decorso causale in esame, infatti, non sarebbe sussumibile nell’area dalla regolarità, rappresentando la sopravvenienza normativa un’eventualità anomala (il c.d. factum principis, che secondo il C.g.a. sarebbe sempre interruttivo del nesso di causalità).
Anche secondo la diversa teoria della causalità umana, non rientrando la sopravvenienza normativa nella sfera di controllo dell’Amministrazione che ha tenuto la condotta omissiva nel caso di specie, il legame eziologico sarebbe interrotto.
Al contrario, la teoria dell’imputazione obiettiva dell’evento potrebbe avvalorare entrambe le tesi esposte, a seconda dello scopo che si riconosca all’art. 2 della l. n. 241 del 1990.
Se l’obbligo di concludere il procedimento con un provvedimento espresso entro il termine predeterminato rappresenta un canone generale all’attività amministrativa, che non mira a presidiare il bene della vita che ciascun procedimento è volto ad amministrare, allora nello scopo dell’art. 2 della l. n. 241 del 1990 non dovrebbe rientrare il fine di evitare che l’ottenimento del bene anelato venga frustrato da vicende normative. In una diversa prospettiva, ove si riconosca al fattore tempo un valore propriamente economico, la disciplina del procedimento amministrativo non sarebbe fine a sé stessa, ma funzionale a consentire proprio il governo del bene della vita connesso ad ogni procedimento.
La disciplina dei tempi dell’azione amministrativa, in altri termini, avrebbe precipuamente lo scopo di valorizzare il tempo, bene la cui perdita, oltre ad essere economicamente valutabile, comporta l’insorgere naturale del rischio di non soddisfazione del proprio interesse.
In chiave critica, tuttavia, si dovrebbe rilevare come il richiamo a quest’ultima teoria appaia non del tutto condivisibile: pur essendo innegabile il crescente rilievo che l’ordinamento attribuisce al tempo (ne è dimostrazione, d’altro canto, la previsione di una ipotesi di giurisdizione esclusiva in tema di risarcimento del danno da ritardo ai sensi dell’art. 133, co. 1, lett. a), n. 1), la teoria dell’imputazione obiettiva dell’evento tende ad anticipare considerazioni propriamente soggettive, attinenti al profilo della colpevolezza (violazione della regola cautelare e c.d. concretizzazione del rischio), in sede di accertamento del nesso causale. Simili conclusioni (l’esclusione della valenza interruttiva della sopravvenienza normativa), d’altro canto, potrebbero essere raggiunte limitandosi ad applicare il correttivo della causalità adeguata, non essendo necessariamente fondata l’equazione tra factum principis ed anormalità: la disciplina dell’incentivazione delle energie rinnovabili, a ben vedere, si è dimostrata particolarmente mutevole e soggetta a continue revisioni; il cambiamento delle condizioni di accesso ai c.d. conti energia, pertanto, non può essere ritenuto un fattore imprevedibile per il sol fatto di avere origine nell’Autorità, pena l’eccessiva restrizione delle conseguenze imputabili ad una determinata condotta.[7]
L’imputazione dell’evento sopravvenuto alla condotta inerte dell’Amministrazione, peraltro, sarebbe sostenibile a maggior ragione sposando la tesi della natura contrattuale della responsabilità da lesione di interessi legittimi, che il provvedimento in commento mostra nel proseguo di preferire. L’art. 1221 c.c., in una logica redistributiva del rischio, dispone che il debitore in mora non sia liberato per la sopravvenuta impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile, salvo che non provi che l’oggetto della prestazione sarebbe ugualmente perito presso il creditore. Il ritardo colpevole del debitore, in altri termini, fa sì che il rischio di fattori sopravvenuti ostativi – di norma gravante sul creditore, in virtù del principio ad impossibilia nemo tenetur – venga traslato sul debitore: la sopravvenienza, invero, ove l’obbligato avesse adempiuto per tempo, non si sarebbe verificata; la concausa sopravvenuta, idonea in astratto a recidere il nesso causale, viene quindi imputata al debitore. Nel caso in esame, se l’Amministrazione avesse rispettato i tempi del procedimento, il mutamento normativo non avrebbe impedito alla società di godere del sistema di incentivazione.
3 – Le tesi sulla natura giuridica della responsabilità civile dell’Amministrazione.
Il C.g.a., nell’ottica di limitare la quantificazione dell’obbligazione risarcitoria alle sole conseguenze prevedibili ai sensi dell’art. 1225 c.c., si spinge a sondare la tematica della natura giuridica della responsabilità dell’Amministrazione per la lesione di interessi legittimi.
Su tale versante è noto che l’art. 1225 c.c. non rientra tra le disposizioni richiamate dall’art. 2056 c.c. e come tali applicabili anche alla responsabilità extracontrattuale. Trattasi della naturale conseguenza dell’atteggiarsi dell’art. 2043 c.c. come previsione fondante la c.d. responsabilità del passante: il danneggiante non è legato al danneggiato da un precedente vincolo giuridico e non è posto nelle condizioni di poter prevedere le conseguenze delle sue azioni; la prospettiva compensativa del sistema della responsabilità aquiliana, peraltro, sposta l’attenzione sulla sfera giuridica del danneggiato e sulla necessità di un integrale ristoro dei danni subiti, a prescindere dalla loro prevedibilità.
Ciò posto, il Consiglio dà atto dell’esistenza di due orientamenti nella giurisprudenza amministrativa: secondo una prima impostazione, fondata sulle affermazioni delle sentenze gemelle n. 500 e 501 del 1999 e sulla mancanza di un chiaro indice normativo, la responsabilità dell’Amministrazione da provvedimento (ma anche da silenzio e da ritardo dell’Amministrazione) sarebbe sussumibile nell’alveo dell’art. 2043 c.c.[8]; a mente dell’opposta tesi, la responsabilità sarebbe qualificabile come da inadempimento di obbligazioni, la cui fonte sarebbe rinvenibile in un contatto sociale qualificato.[9]
Coerente con quest’ultima ricostruzione sarebbe l’atteggiamento della giurisprudenza di legittimità, la quale avrebbe individuato nei rapporti tra privato e Amministrazione un caso di contatto sociale qualificato:[10] in particolare, il C.g.a richiama un recente arresto della Cassazione a sezioni unite ove si è sostenuto che la responsabilità gravante sull’Amministrazione per il danno prodotto al privato a causa delle violazione dell’affidamento dal medesimo riposto nella correttezza dell’azione amministrativa non sorgerebbe in assenza di rapporto, come la responsabilità aquiliana, ma da un rapporto tra soggetti nascente prima e a prescindere dal danno. Si tratterebbe, allora, di una responsabilità relazionale, da inquadrare nell’ambito della responsabilità ex art. 1218 c.c.[11]
In questo senso deporrebbe anche il possibile parallelismo tra la situazione di chi sta trattando con un’altra parte e la posizione del cittadino di fronte all’Amministrazione. In entrambi casi vi sarebbe un soggetto portatore di un interesse, il cui soddisfacimento non è assicurato dall’ordinamento; in ambo i casi vi sarebbe un soggetto che ripone il proprio affidamento in un altro. Orbene, anche la c.d. responsabilità precontrattuale del soggetto che tradisce l’affidamento correttamente riposto da un altro paciscente, dopo essere stata tradizionalmente sussunta nell’area della responsabilità aquiliana (in virtù della mancanza di un contratto stipulato), è stata di recente qualificata come ipotesi di responsabilità da inadempimento di una obbligazione riconducibile alla terza delle categorie considerate nell’art. 1173 c.c., cioè alle obbligazioni derivanti da ogni fatto o atto idoneo a produrle in conformità dell’ordinamento giuridico.[12]
Dalla qualificazione della responsabilità dell’Amministrazione come contrattuale, in ogni caso, dovrebbero derivare almeno due conseguenze.
Da un lato, dovrebbe venir meno l’operatività della mora automatica ai sensi dell’art. 1219 c.c., non essendo l’obbligazione risarcitoria più riconducibile alla categoria del fatto illecito; dall’altro, dovrebbe operare il canone della prevedibilità del danno di cui all’art. 1225 c.c. Secondo la Corte, la ratio del limite della prevedibilità – evitare che il patrimonio del debitore si trovi esposto a conseguenze più gravi di quelle che egli poteva calcolare al momento del sorgere del vincolo obbligatorio – sarebbe coerente con la posizione dell’Amministrazione. L’Amministrazione, infatti, agisce programmando il perseguimento di determinate finalità pubbliche, avvalendosi peraltro di risorse limitate: questo comporterebbe la necessità di poter calcolare le possibili conseguenze delle proprie azioni e renderebbe coerente l’applicazione dell’art. 1225 c.c.
4 – Dal regime della responsabilità alla qualificazione.
Il percorso argomentativo della tesi del C.g.a. passa per una analisi in concreto del regime attualmente applicato alla responsabilità dell’Amministrazione, ritenuto non distante da quello che risulterebbe in caso di qualificazione della stessa in termini contrattuali.
In primis, gli oneri di allegazione e di prova gravanti sul privato non sarebbero dissimili da quelli gravanti sul contraente ai sensi dell’art. 1218 c.c.: relativamente alla prova della condotta, del danno evento e del nesso di causalità materiale, il ricorrente deve dimostrare l’esistenza dell’interesse legittimo leso ed allegare l’inadempimento dell’Amministrazione, rimanendo poi alla controparte pubblica il compito di giustificare la propria scelta.[13]
Non ci sono dubbi, poi, sul fatto che spetti al privato dimostrare il c.d. danno conseguenza, trattandosi non solo di elemento comune ad entrambe le forme di responsabilità civile, ma essendo desumibile anche dalle maglie dell’art. 30 c.p.a., il cui quarto comma discorre di “danno che comprovi di aver subito.” Ad opinione della Corte, tuttavia, la dimostrazione concreta delle conseguenze pregiudizievoli subite sarebbe complicata dalla normale mancanza, nei rapporti di diritto pubblico, di un contenuto prettamente patrimoniale: al tal fine, allora, sarebbe invocabile la c.d. teoria normativa del danno,[14] secondo cui il danno da risarcire non sarebbe solo quello strettamente economico, ma anche quello che la norma violata intende ristorare. L’obbligazione di risarcimento, quindi, potrebbe non avere la funzione di garantire al danneggiato la precisa compensazione, in termini pecuniari, del danno subito, bensì quella di offrire alla vittima di un illecito una soddisfazione, sia pure in termini pecuniari, di carattere morale e, contemporaneamente, sanzionare il comportamento del soggetto responsabile.
Per ciò che concerne l’elemento soggettivo, la Corte dà atto della differenza di regimi intercorrente tra la materia degli appalti e le restanti: solo nella prima non è richiesta la prova della colpa, atteggiandosi la responsabilità come oggettiva, al fine di garantire al ricorrente il bene della vita seppur in forma per equivalente;[15]negli altri ambiti, invece, la prova della colpa o del dolo è imprescindibile.[16] Nondimeno, il criterio soggettivo sconta comunque l’atteggiamento giurisprudenziale che rinviene nell’illegittimità del provvedimento un elemento da cui presumere la colpa dell’Amministrazione,[17] spettando a quest’ultima dimostrare di essere incorsa in un errore scusabile, non evitabile con l’ordinaria diligenza. Ciò comporterebbe una oggettivizzazione dell’elemento soggettivo, tale da allontanare la responsabilità della P.A. dal modello aquiliano ed avvicinarla a quello contrattuale: quest’ultimo regime, pur nascendo come oggettivo, avrebbe subito nel tempo un processo di soggettivazione; la valorizzazione dell’art. 1176 c.c. avrebbe comportato la possibilità del debitore di liberarsi non solo dimostrando la causa non imputabile menzionata dall’art. 1218 c.c., ma anche provando la propria diligenza e l’impossibilità per qualunque debitore diligente di poter realizzare la prestazione.
Anche le modalità di tutela associate alla responsabilità dell’Amministrazione evocherebbero il regime dell’art. 1218 c.c.: il privato deluso, invero, viene messo nella concreta possibilità di scegliere la rinnovazione dell’attività amministrativa rispetto al risarcimento per equivalente,[18] al pari del creditore, il quale, ove possibile, può pretendere l’adempimento prima ancora del risarcimento ex art. 1453 c.c. Diversamente, nella logica degli artt. 2043 e 2058 c.c. è sottratta al danneggiato la scelta fra risarcimento in forma specifica e risarcimento per equivalente, subordinata alla valutazione di eccessiva onerosità per il debitore.
La prospettiva della responsabilità dell’amministrazione, poi, sarebbe esclusivamente compensativa, al pari del regime contrattuale e contrariamente a quello aquiliano.[19]L’ esborso aggiuntivo di risorse pubbliche, invero, finirebbe per gravare sulla collettività, non essendo garantita con certezza la traslazione del peso economico sul funzionario.
In ogni caso, la principale motivazione che porta la Corte ad assimilare la posizione dell’Amministrazione a quella di un obbligato attiene alla preesistenza rispetto al danno di un rapporto di diritto pubblico nel quale – al pari di quanto avviene nella relazione contrattuale – sono indicate le regole di condotta che l’Ente deve osservare. Quest’ultime hanno un contenuto definito e delineano una relazione che non si connota per la sua episodicità, come avverrebbe ove fosse invocabile il regime dell’art. 2043 c.c. a seguito della violazione del generale dovere del neminem laedere.
La relazione di diritto pubblico, inoltre, è connotata dal dovere dell’Amministrazione di farsi carico dell’interesse del privato, cui peraltro non è assicurato il risultato finale. Un dovere che deve essere assolto con professionalità, concetto di per sé evocativo del contatto sociale qualificato, quale atto o fatto idoneo a produrre obbligazioni in conformità all’ordinamento giuridico ai sensi dell’art. 1173 c.c.
In disparte l’inversione logica realizzata dalla Corte, che da un regime pretende di ricavare una qualificazione, alcune delle considerazioni dalla stessa avanzate non convincono del tutto. La presunzione sostanziale di colpa, ad esempio, è frutto del ricorso al meccanismo di cui agli artt. 2727 e 2729 c.c. da parte di una giurisprudenza consapevole delle difficoltà in cui potrebbe incorrere il privato nell’assolvere all’onere probatorio a causa dell’asimmetria del suo rapporto con l’Amministrazione. Questo non toglie che la responsabilità della P.A., al pari del regime aquiliano, si atteggi come soggettiva, al contrario della responsabilità da inadempimento di obbligazioni di cui all’art. 1218 c.c., delineata dalla legge come oggettiva, ma gradualmente soggettivizzata valorizzando il ruolo della diligenza e della buona fede. La P.A. può esonerarsi da responsabilità dimostrando il difetto di colpa e la scusabilità del proprio errore; il debitore si libera provando l’esistenza di una causa a lui non imputabile, comportante l’impossibilità oggettiva ed assoluta di adempiere. La valorizzazione dell’art. 1176 c.c. ha semplicemente comportato una estensione del concetto di impossibilità, oggi intesa anche come soggettiva e relativa, ma non superabile secondo l’ordinaria diligenza; ciò non toglie che sia sempre il debitore a sopportare il rischio della causa ignota. Il modello della responsabilità della P.A., invece, si avvicina più al regime di cui all’art. 2043 c.c.: il rischio della causa ignota è posto sul danneggiato, salvo la prova degli elementi costitutivi dell’illecito e salvo l’operare di meccanismi presuntivi.[20]
Maggiori perplessità, infine, desta la ritenuta diversità di funzioni delle due forme di responsabilità civile. È innata in entrambe, oltre che una primaria prospettiva compensativa, una ulteriore finalità deterrente e sanzionatoria. Ne è dimostrazione, ad esempio, l’istituto della clausola penale (c.d. pena privata) di cui all’art. 1382 c.c.: le parti possono pattuire che, in caso di inadempimento o ritardo, uno dei contraenti sia tenuto ad una determinata prestazione, a prescindere dalla prova del danno. La prospettazione di un tale peso spinge la parte ad adempiere a monte e la sanziona a valle in caso di effettivo inadempimento.
Sicuramente condivisibili, di contro, appaiono le riflessioni del C.g.a. sul carattere non decisivo della lettera di alcune disposizioni spesso evocate per sostenere la natura aquiliana della responsabilità dell’Amministrazione. L’art. 2 bis, co. 1, della l. n. 241 del 1990, nonché artt. 30 e 133, comma 1, lett. a), n. 1) c.p.a. fanno riferimento all’ingiustizia del danno e al dolo o alla colpa dell’inosservanza del termine procedimentale. Il danno ingiusto, tuttavia, è sempre centrale in ambo le forme di responsabilità: non si può prescindere dal verificare che ci sia stata una lesione di un interesse meritevole di tutela (ubi ius, ibi remedium). Nel regime dell’art. 2043 c.c. spetta al danneggiato dimostrarne l’esistenza; nell’ottica dell’art. 1218 c.c., al contrario, la valutazione di meritevolezza è insita nella relazione contrattuale.
La soggettivazione della responsabilità contrattuale, ancora, rende non decisivo nemmeno il richiamo all’elemento soggettivo, partecipando la diligenza di cui all’art. 1176 c.c. a delineare la prestazione dovuta.
La menzione dell’art. 2058 c.c. compiuta dall’art. 30, comma 2, c.p.a., infine, è neutra anch’essa: il risarcimento in forma specifica, pur essendo previsto in materia aquiliana, è considerato utilizzabile anche nel regime contrattuale.
5 – L’influenza della situazione giuridica lesa e del rapporto di diritto pubblico sui connotati della responsabilità dell’Amministrazione.
In disparte la qualificazione della responsabilità dell’Amministrazione in termini aquiliani o contrattuali, il C.g.a. ritiene che le peculiarità dell’interesse legittimo e del rapporto di diritto pubblico in cui si innesta si riflettano in ogni caso sul regime di quella responsabilità.
La riflessione si incentra in prima battuta sulla lesione della situazione giuridica: il potere pubblico è finalizzato al perseguimento di interessi che trovano, per la maggior parte, la loro fonte, diretta o indiretta, in situazioni giuridiche tutelate dalla Costituzione; pertanto, l’Amministrazione, agendo illegittimamente, mette in pericolo le garanzie costituzionali della persona. Si verificherebbe, conseguentemente, una situazione similare a quella in cui il privato faccia valere una pretesa risarcitoria non patrimoniale.
Secondo la Corte, quindi, la gravità dell’offesa costituirebbe requisito ulteriore per l’ammissione al risarcimento dei danni da lesione dell’interesse legittimo, così come affermato dalla giurisprudenza in tema di danno non patrimoniale:[21] l’interesse dovrebbe essere inciso oltre una certa soglia minima, cagionando un pregiudizio serio. La lesione dovrebbe eccedere un minimo livello di offensività, rendendo il pregiudizio tanto rilevante da essere meritevole di tutela in un sistema imperniato sui principi di solidarietà e tolleranza.
Sarebbe, allora, difficile ammettere il presidio risarcitorio quale rimedio alla violazione di meri canoni procedurali, che non sfoci in una compromissione della situazione di base.[22]
Tali affermazioni, a ben vedere, sono da ritenersi in controtendenza con quanto affermato nella prima parte della pronuncia: sussumere nell’area dell’art. 1218 c.c. la responsabilità della P.A., in quanto soggetto gravato da obblighi di protezione nei confronti del privato in virtù di una situazione relazionale, qual è il procedimento amministrativo, dovrebbe comportare l’innalzamento delle tutele e non l’arretramento.[23]
Sul versante del pregiudizio effettivamente risarcibile, le conclusioni del Consiglio si incentrano sul coacervo di interessi coinvolti dall’azione pubblica, ulteriori rispetto a quello leso, nonché sul pregiudizio che l’obbligazione risarcitoria è di per sé in grado di arrecare alle casse pubbliche.
La pluralità di interessi coinvolti dall’attività amministrativa imporrebbe di valutare il danno conseguenza anche tenendo a mente le ulteriori soggettività interessate, compresa la posizione della stessa Amministrazione, la quale vedrebbe aggravato il pregiudizio già subito a causa dell’illegittimità dal sorgere dell’obbligazione compensativa.
In altri termini, è proprio l’interesse pubblico che subirebbe una ulteriore conseguenza sfavorevole dall’adempimento dell’obbligo risarcitorio, a maggior ragione ove si consideri la scarsità delle risorse che l’Amministrazione ha a disposizione.
La c.d. teoria differenziale,[24] per la quale la quantificazione del danno deve originare da un raffronto tra la situazione patrimoniale del soggetto prima dell’evento lesivo e dopo l’evento lesivo e il cui fondamento giuridico sarebbe rinvenibile nell’art. 1223 c.c., troverebbe un limite nel rapporto pubblicistico: il risarcimento, in ambito contrattuale, assicura al danneggiato una condizione equivalente a quella che avrebbe avuto senza l’illecito e conduce il danneggiante a prestare ciò che non aveva prestato in precedenza; in ambito pubblicistico, invece, il danneggiante finirebbe per andare incontro ad una duplicazione di spesa.
Quanto detto comporterebbe che: l’art. 1227, co. 2 c.c., nella parte in cui impone di ridurre l’obbligazione risarcitoria rispetto ai danni che il creditore avrebbe potuto evitare usando l’ordinaria diligenza, sarebbe in ambito pubblicistico idoneo ad elidere anche l’an del danno;[25]non potrebbero essere addossate all’Amministrazione le conseguenze comunque dipendenti dalla esplicazione di libertà meramente economiche del privato, rispetto alla quali sarebbe precluso l’intervento dell’Amministrazione, la quale può incidere soltanto sulla portata pubblicistica dell’interesse del privato (l’azione amministrativa lesiva dell’interesse legittimo non potrebbe – secondo un canone di normalità eziologica – essere ritenuta causativa del danno richiesto in termini di mancato utile d’impresa); ove sia leso un interesse che, l’ordinamento non ritiene più meritevole, il principio di “solidarietà generazionale” imporrebbe l’utilizzo delle risorse per preservare il futuro e non per garantire interessi del passato (non più rilevanti); dovrebbero essere evitate duplicazioni di danno e non andrebbero ristorate al privato le conseguenze delle esternalità negative e cioè le mere diseconomie.
6 – Sul possibile contrasto con l’art. 81, co. 3 Cost.
Per il caso in cui l’Adunanza plenaria ritenga che la responsabilità dell’Amministrazione non possa essere qualificata in termini di responsabilità contrattuale, la Corte ritiene di evidenziare una possibile frizione con l’art. 81, co. 3 Cost., nella parte in cui dispone che ogni legge che importi nuovi o maggiori oneri provveda ai mezzi per farvi fronte.
La risarcibilità dei danni imprevedibili, invero, comportando una sostanziale impossibilità di calcolare i costi dell’azione pubblica, finirebbe per impedirne una programmazione.
In disparte l’argomento letterale – la disposizione di riferisce alla “legge” – il quale parrebbe già ostativo di una estensione del campo di applicazione della norma anche all’Amministrazione, è utile rilevare come la ratio della previsione costituzionale sembrerebbe quella di evitare che la fisiologica iniziativa pubblica si svolga nell’ottica della sostenibilità. Più complesso, invece, sarebbe ritenere il precetto riferito anche a situazioni patologiche, qual è l’illecito, che costituiscono riflessi negativi, non programmati, dell’azione pubblica.
Giungendo a conclusioni difformi, peraltro, si potrebbero porre frizioni tanto con il principio di uguaglianza di cui all’art. 3 Cost., in quanto l’Amministrazione godrebbe di un trattamento più favorevole degli altri soggetti dell’ordinamento per il solo fatto di essere pubblica, nonché con il principio di buon andamento di cui all’art. 97 Cost.: una limitazione dell’obbligazione risarcitoria avrebbe come possibile conseguenza una deresponsabilizzazione dell’apparato pubblico, con evidenti ricadute in termini di efficienza.
7 – Qualche riflessione conclusiva.
Una delle tematiche centrali affrontate dal provvedimento in commento attiene sicuramente alla natura della responsabilità dell’Amministrazione da lesione di interessi legittimi: nella prospettiva del Consiglio sposare la tesi della natura contrattuale significa ridimensionare le conseguenze dell’illecito, limitando il quantum debeatur alle sole conseguenze prevedibili in virtù dell’art. 1225 c.c.
Sul tema giova porsi due interrogativi: su un primo versante bisogna chiedersi se davvero nel caso attenzionato dalla pronuncia ricorrano i presupposti per evocare l’art. 1218 c.c.; dall’altro, più in generale, è opportuno domandarsi quale sia lo spazio per l’operatività del regime della responsabilità da inadempimento rispetto alla P.A.
Orbene, è noto come il presupposto logico giuridico dell’art. 1218 c.c. consista nella preesistenza di una obbligazione primaria: il danneggiante ed il danneggiato, prima ancora di essere tali, sono legati da un vincolo giuridico specifico, la cui violazione determina la nascita di una obbligazione secondaria di natura risarcitoria. C’è un diritto soggettivo di credito, il quale costituisce una sintesi tra una posizione di forza e una di libertà: il soggetto è libero di decidere se avvalersi o meno del potere conferitigli; una volta esercitato, però, il diritto è in grado di realizzare pienamente l’interesse.[26]C’è una obbligazione e cioè un dovere specifico di cooperazione a contenuto patrimoniale.
Ciò premesso, una società energetica che ottiene in colpevole ritardo dall’Amministrazione le autorizzazioni necessarie per accedere ad un regime di incentivazioni e che per questo vede preclusa la stessa possibilità di fruirne, che tipo di danno può lamentare? I pregiudizi che la società ha subito trovano davvero la loro causa nell’inadempimento di una obbligazione primaria? L’impressione di chi scrive è che il fatto stesso di richiamare l’art. 1218 c.c. in una tale fattispecie rappresenti un fuor d’opera. La società, infatti, si duole della ingiusta compromissione del bene della vita anelato, causata da un cattivo esercizio del potere: ad essere leso non è l’interesse che l’art. 1174 c.c. considera quale elemento teleologico dell’obbligazione, ma l’interesse sostanziale connesso all’interesse legittimo.
Se c’è interesse legittimo, allora non c’è diritto di credito; se non c’è il diritto di credito, non ci può essere obbligazione da violare.
Il rapporto pubblicistico è caratterizzato dall’esercizio del potere autoritativo da un lato e dall’interesse legittimo dall’altro. Il potere autoritativo dell’Amministrazione è una situazione giuridica soggettiva attiva, al pari dell’interesse legittimo: lo schema della relazione obbligatoria, in cui ad una situazione attiva ne corrisponde una passiva, non è applicabile.[27]
Né, a ben vedere, è possibile sostenere che l’obbligazione primaria violata sia quella posta dall’art.2 della legge n. 241 del 1990 (nella parte in cui fissa il dovere della Amministrazione di concludere il procedimento con un provvedimento espresso nei termini di legge): ove così fosse e il privato fosse portatore di un diritto soggettivo alla conclusione tempestiva del procedimento, non sarebbe necessario effettuare un giudizio di spettanza sul bene finale agognato; la stessa lesione del bene tempo rappresenterebbe il danno evento e sarebbe sufficiente dimostrare il danno conseguenza. Come si è evidenziato, tuttavia, il C.g.a. mostra di non condividere affatto tale ricostruzione.
Mancando un vincolo obbligatorio preesistente, allora l’unico regime invocabile dalla società non può che essere quello dell’art. 2043 c.c.
D’altro canto, gli arresti richiamati a sostegno della tesi della natura contrattuale della responsabilità della P.A. hanno un dato in comune: si tratta di ipotesi in cui si è ritenuto di scindere il profilo autoritativo da quello comportamentale, in cui il danno lamentato è stato ritenuto conseguenza della violazione dei doveri di correttezza e buona fede e non del cattivo esercizio del potere. La pronuncia n. 8236 del 2020 delle Sezioni Unite della Cassazione, ad esempio, ha riguardato un caso in cui il privato si lamentava del pregiudizio subito a causa del comportamento ondivago perpetrato dall’Amministrazione, ritenuto lesivo di un affidamento ragionevolmente riposto.
Appare chiara la differenza rispetto al caso in esame: la società non lamenta la violazione di un affidamento di buona fede, ma la lesione dell’interesse finale ad ottenere una posizione di vantaggio, causata da un ritardato ed illegittimo esercizio del potere.
Circa l’effettiva portata della responsabilità da inadempimento nel rapporto tra privato e Amministrazione, in disparte i casi in cui quest’ultima agisca in posizione paritaria ed assuma obblighi di natura patrimoniale, qualche dubbio potrebbe porsi circa la reale compatibilità della teoria del contatto sociale rispetto all’ambito procedimentale. La primaria conseguenza di una tale affermazione sarebbe quella di ritenere gravata la P.A. da obblighi primari di protezione, quale soggetto sulla cui professionalità il privato ripone fiducia. Le pretese procedimentali si atteggerebbero quali diritti soggettivi, la cui compromissione sarebbe autonomamente tutelabile. L’art. 21octies, co. 2 della legge n. 241 del 1990, però, sembra andare nella direzione opposta: la dequotazione dei vizi procedimentali sembrerebbe contrastare con l’idea di un obbligo giuridico di protezione. Può davvero il privato dirsi portatore di un diritto di credito ad essere protetti se l’Amministrazione può agire bene nonostante la violazione di norme sul procedimento? Le disposizioni della legge n. 241 del 1990, peraltro, possono realmente essere ritenute il fondamento di obblighi di protezione? Trattasi di regole il cui obiettivo primario è disciplinare l’azione amministrativa, la quale – in omaggio ai principi di imparzialità e buon andamento di cui all’art. 97 Cost. – deve svolgersi con il più ampio coinvolgimento del privato: l’Amministrazione agisce bene solo contemperando l’interesse pubblico con gli ulteriori interessi involti. L’art. 1 della legge n. 241 del 1990 detta i principi che devono ispirare l’azione amministrativa ed è il sintomo di quanto detto, specie nella sua attuale formulazione (cfr. l’art. 1, co. 2bis, l.n.241/1990).
Non si può non osservare, infine, che se il procedimento amministrativo rappresenta la “forma della funzione pubblica“,[28] il potere nel suo farsi, i comportamenti che conculcano le pretese procedimentali non possono che avere una connotazione pubblicistica: come tali, non dovrebbero poter ledere diritti soggettivi, ma interessi legittimi o, comunque, facoltà strumentali alla tutela di questi ultimi. Come ammoniva Mortara, a ben vedere, “dove c’è potere non ci può essere diritto”.
Nonostante la locuzione “diritto soggettivi pubblici“, anche nel pensiero di Benvenuti la partecipazione del cittadino dovrebbe essere garantita in vista della “definizione del rapporto sostanziale“: qualunque epiteto si voglia usare, non viene meno il carattere degli interessi procedimentali di pretese comunque strumentali al raggiungimento o alla conservazione del bene della vita finale.