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Sommario: 1. Introduzione – 2. La “legalizzazione” dei protocolli di legalità – 3. Problemi di compatibilità comunitaria e non solo – 4. Considerazioni conclusive

  1. Introduzione

La crescente diffusione dei protocolli di legalità nell’ambito dei rapporti tra stazioni appaltanti e appaltatori ha indotto la dottrina a interrogarsi sulla natura giuridica di questi accordi[1] e sugli effetti che possono produrre nella gestione della fase pubblicistica delle procedure di gara e nella fase negoziale di esecuzione del contratto.

Gli interpreti hanno subito colto l’elevato grado di pervasività di questi accordi e la capacità degli stessi di produrre effetti espulsivi automatici nell’ambito della fase di evidenza pubblica.

Il sistema dà luogo a un meccanismo che, da una parte, finisce per sottrarre alla stazione appaltanti la doverosa ponderazione delle singole fattispecie, prive peraltro di accertamento definitivo e dunque insuscettibili di provocare in linea di principio automatismi escludenti.  D’altra parte, finisce per comprimere irrimediabilmente la libertà di impresa senza alcuna garanzia procedimentale in ordine alla completezza dell’istruttoria e al rispetto dei principi di proporzionalità e di contraddittorio preventivo.

Su altro versante, la risoluzione contrattuale disposta nei confronti dell’impresa aggiudicataria dall’appalto, quale conseguenza della violazione delle disposizioni contenute nei protocolli di legalità, incide non soltanto sull’esecuzione delle prestazioni oggetto dello specifico appalto, ma è tale da riverberare effetti pregiudizievoli anche per il futuro, mettendo a repentaglio la possibilità di quell’impresa di prendere parte a nuove procedure di gara.

Tali evidenze rendono necessarie alcune riflessioni sullo sviluppo di questi strumenti di prevenzione di carattere pattizio ideati dal legislatore nella lotta ai fenomeni corruttivi e criminali connessi all’affidamento e alla gestione dei contratti pubblici.

  1. La “legalizzazione” dei protocolli di legalità

I protocolli di legalità sono stati forieri di prassi e procedure dotate di un certo grado di autonomia ed originalità rispetto a quelle previste dalla legislazione vigente e, come si cercherà di mettere in luce nel prosieguo, l’assenza di una rigorosa tipizzazione normativa delle clausole che possono essere inserite ha consentito lo sviluppo di prassi disomogenee e finanche contrastanti con i precetti espressi dalle disposizioni normative vigenti.

Ciò ha determinato l’insorgere di un sistema sanzionatorio di natura convenzionale affidato a determinazioni disomogenee e disallineate rispetto alla normativa europea e nazionale.

La scelta di potenziare gli strumenti di prevenzione risale ad alcune determinazioni adottate sul finire degli anni Novanta dalle principali organizzazioni internazionali (ONU, Consiglio d’Europa – GRECO, OCSE, Unione europea) che hanno fissato regole, strumenti e raccomandazioni dirette agli Stati sul contrasto ai fenomeni corruttivi[2]. Gran parte della recente attività legislativa europea e nazionale in materia è stata sollecitata e conformata ai vincoli, agli standard e alle misure di prevenzione ideati in contesti sovranazionali[3].

Le odierne riflessioni evidenzieranno come gli obiettivi enunciati non sono stati perseguiti con mezzi proporzionati e rispettosi delle garanzie costituzionali.

Partendo dalla loro genesi, i protocolli di legalità in Italia hanno tratto origine dalla prassi amministrativa nel settore delle cd. “grandi opere”, con la finalità di garantire maggiore trasparenza ai processi decisionali pubblici ed evitare l’infiltrazione delle organizzazioni criminali di stampo mafioso e la proliferazione di fenomeni corruttivi[4].

Dopo alcune prime pronunce del Consiglio di Stato, chiamato a occuparsi della natura giuridica e della precettività delle previsioni contenute nei protocolli di legalità[5], il legislatore nazionale introdusse l’art. 176, comma 3, lett. e), D. Lgs. n. 163/2006. Si stabilì che i soggetti aggiudicatori di opere strategiche potevano stipulare appositi accordi con gli organi competenti in materia di sicurezza, prevenzione e repressione della criminalità, finalizzati alla verifica ex ante del programma di esecuzione dei lavori in vista del successivo monitoraggio di tutte le fasi di esecuzione delle opere e dei soggetti che le realizzano. Tali accordi, già nel sistema prefigurato dal vecchio codice dei contratti pubblici, dovevano prevedere l’adozione di protocolli di legalità che comportassero clausole specifiche di impegno, da parte dell’impresa aggiudicataria, a denunciare eventuali tentativi di estorsione, con la possibilità di valutare il comportamento dell’aggiudicatario ai fini della successiva ammissione a procedure ristrette della medesima stazione appaltante in caso di mancata osservanza di tali prescrizioni. Gli accordi erano considerati vincolanti per i soggetti aggiudicatori e per l’impresa aggiudicataria, tenuta a trasferire i relativi obblighi a carico delle imprese interessate a qualunque titolo alla realizzazione dei lavori.

L’art. 176, comma 3, lett. e), D. Lgs. n. 163/2006 indicava specificatamente la funzione dei protocolli di legalità nell’ordinamento nazionale: rafforzare la tutela della legalità e prevenire le infiltrazioni delle organizzazioni criminali nelle procedure di affidamento di contratti pubblici[6].

La norma chiariva, altresì, che i protocolli di legalità erano atti idonei a obbligare le imprese partecipanti alle gare per l’affidamento dei contratti pubblici a tenere in futuro (ossia, in prevalenza, durante l’ese­cuzione del contratto sotto pena di risoluzione del vincolo negoziale stretto con l’amministrazione) determinate condotte finalizzate ad assicurare una tutela anticipata contro i tentativi di infiltrazione della criminalità organizzata.

Dopo l’introduzione della norma citata, il Consiglio di Stato tornò ad occuparsi della portata obbligatoria delle clausole contenute nei protocolli di legalità, pervenendo alla conclusione per cui tali accordi potessero configurarsi come un “sistema di condizioni” la cui accettazione è condizione per la partecipazione alle gare. Ed è l’accettazione delle clausole che fa sorgere il vincolo all’adozione di determinati comportamenti attivi od omissivi, pena l’estromissione dalla gara o la risoluzione del contratto per inadempimento alle obbligazioni assunte pattiziamente[7].

Sulla medesima scia interpretativa si collocò anche l’allora AVCP (ora ANAC). L’Autorità chiarì che le amministrazioni erano tenute a inserire nei bandi di gara l’obbligo per i concorrenti di accettare le clausole dei protocolli e che l’adempimento di tale obbligo poteva costituire condizione essenziale per partecipare alla gara. La mancata accettazione delle clausole contenute nei protocolli di legalità avrebbe condotto all’esclu­sione del concorrente dalla gara. Si chiarì che la legittimità dei provvedimenti espulsivi poteva fondarsi su norme imperative di ordine pubblico[8].

Con riferimento al citato art. 176, comma 3, lett. e), D. Lgs. n. 163/2006 il Consiglio di Stato e l’AVCP avevano quindi avuto occasione di affermare che costituiscono legittime cause di esclusione da una gara d’appalto pubblica sia la mancata accettazione[9], in sede di offerta, delle clausole contenute nei protocolli di legalità da parte dei concorrenti; sia il mancato rispetto delle medesime clausole in fase di esecuzione del contratto con possibilità di risoluzione del vincolo negoziale da parte dell’amministrazione[10].

La definizione contenutistica dei protocolli, inizialmente contenuta nel vecchio codice dei contratti pubblici – seppur limitatamente riferita al settore delle grandi opere – non è stata riproposta nel vigente D. Lgs. n. 50/2016 ove manca qualsivoglia tipizzazione giuridica volta a delimitare i confini delle obbligazioni oggetto delle “clausole specifiche di impegno” inserite all’interno dei protocolli di legalità.

L’evoluzione normativa più recente ha poi segnato un punto di svolta, determinando il passaggio da un sistema che lasciava alla stazione appaltante la possibilità di avvalersi di uno strumento di natura pattizia, a un meccanismo che invece ne impone l’utilizzo per fini escludenti[11].

La formulazione della nuova previsione ha destato non poche perplessità negli interpreti, che si sono interrogati sulla compatibilità della novella normativa con il principio di tassatività delle clausole di esclusione, quale corollario del principio di legalità, espressamente codificato dall’articolo 83, comma 6, del codice dei contratti pubblici.

In relazione alle disposizioni in esame, è stata sollevata la questione della possibile introduzione di una causa automatica di esclusione, non essendo consentita, giusta il tenore letterale della norma, una preventiva ponderazione dei fatti (identificati dagli stessi protocolli quali circostanze escludenti) da parte della stazione appaltante, né l’adozione di misure di self-cleaning da parte dell’operatore economico.

Una prima risposta l’ha fornita l’ANAC, con la delibera n. 1120 del 22 dicembre 2020[12], precisando che tale previsione non fa altro che affiancarsi a quella già contenuta nell’articolo 1, comma 17, della legge 190/2012, insistendo su ambiti di applicazione diversi. La prima, infatti, introduce una previsione facoltativa nell’ambito della normativa volta alla prevenzione e al contrasto dei fenomeni di criminalità organizzata; la seconda si inserisce nell’ambito delle disposizioni volte alla prevenzione e alla repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione, introducendo una previsione obbligatoria.

Sin qui il discorso dell’ovvio.

Quanto invece al più complesso problema di compatibilità con l’articolo 83, comma 8, del codice dei contratti pubblici, che sancisce il principio di tassatività delle cause di esclusione[13], l’Autorità si è limitata a richiamare quanto espresso dal Consiglio di Stato,[14] ritenendo che la previsione della specifica potestà di esclusione di cui all’art. 1, comma 17, legge 190/2012 non contrasti con il principio in esame, dal momento che l’articolo 46, comma 1-bis, del D. Lgs. n. 163/2006 (oggi ripreso all’articolo 83, comma 8, del D. Lgs. 50/2016) considera legittima l’adozione di provvedimenti espulsivi disposti in base alle leggi vigenti, nel cui novero va ascritta anche la legge n. 190/2012.

Per vero, lo stesso Consiglio di Stato aveva precisato che il richiamo operato dalla legge n. 190/2012 alle esclusioni applicative delle previsioni dei protocolli di legalità o patti di integrità si presenta del tutto indeterminato: il risultato è quello di far apparire la norma di legge recante tale richiamo come una sorta di precetto in bianco[15]. Da qui la necessità di sottoporre le regole dei c.d. protocolli di legalità o patti d’integrità a un’interpretazione rigorosa, all’insegna dell’attento rispetto della lettera e, soprattutto, della ratio che le contraddistingue[16] e, in ogni caso, in coerenza con il principio di proporzionalità e con il principio di tassatività delle cause di esclusione).

Più  recenti pronunce del Consiglio di Stato[17] hanno poi chiarito che le clausole del patto etico e di integrità sono idonee a rafforzare gli oneri informativi già gravanti sui concorrenti in virtù delle disposizioni di legge che impongono, così come costantemente interpretate dalla giurisprudenza amministrativa, di informare la stazione appaltante di ogni fatto, specie se di rilevanza penale, in grado di incidere sulla valutazione di integrità ed affidabilità del concorrente in sede di verifica dei requisiti di partecipazione.

In sostanza, l’accettazione del patto etico da parte dei concorrenti comporta l’ampliamento dei loro obblighi nei confronti della stazione appaltante da un duplice punto di vista: temporale, nel senso che gli impegni assunti dalle imprese rilevano sin dalla fase precedente alla stipula del contratto di appalto; contenutistico, perché si richiede all’impresa di impegnarsi, non solo alla corretta esecuzione del contratto di appalto, ma ad un comportamento leale e trasparente, sottraendosi a qualsiasi tentativo di corruzione o condizionamento dell’aggiudicazione del contratto[18].

Sulla base delle premesse suesposte, l’Autorità si è espressa per  la compatibilità delle previsioni esaminate con il principio di tassatività delle clausole di esclusione, nei limiti di quanto precisato dalla Corte di Giustizia[19] e dalla giurisprudenza nazionale in merito al necessario rispetto del principio di proporzionalità, precisando altresì che tale principio debba essere osservato sia nella fase di predisposizione dei patti di integrità, che non potranno contenere disposizioni eccedenti la finalità di evitare illeciti condizionamenti nelle procedure di gara (considerata legittima dalla Corte di Giustizia), sia in fase applicativa, laddove la stazione appaltante dovrà valutare l’idoneità della condotta a giustificare l’esclusione dalla gara. La sanzione espulsiva dovrà essere adottata in ottemperanza ai canoni del procedimento amministrativo, che richiedono la garanzia del contraddittorio e l’obbligo di idonea motivazione delle scelte adottate.

L’ANAC ha inoltre chiarito che l’esclusione conseguente al mancato rispetto degli obblighi assunti con la sottoscrizione del protocollo di legalità opera limitatamente alla gara in corso di svolgimento. Soltanto nel caso in cui la condotta posta in essere dall’operatore economico integri anche altre fattispecie di esclusione, quali ad esempio quelle previste dall’articolo 80, comma 5, lettera f-bis) oppure lettera c-bis) del codice dei contratti pubblici, detta condotta assumerà rilevanza ostativa ai fini della partecipazione a future procedure di aggiudicazione, nei modi e tempi previsti dalle disposizioni di riferimento. In tali eventualità l’operatore economico potrà avvalersi delle misure di self-cleaning per sterilizzare gli effetti conseguenti alla realizzazione della condotta illecita, avendo tali misure effetti pro futuro[20]. Tale ricostruzione è stata confermata dal Consiglio di Stato[21], che ha riconosciuto una sorta di sovrapposizione tra le cause di esclusione per la violazione del patto etico in sé considerate e le cause di esclusione dell’art. 80, comma 5, lett. f-bis) e lett. c) (oggi c-bis) del codice dei contratti pubblici.

È dunque da considerarsi contrastante con le stesse indicazioni dell’ANAC la prassi ampiamente diffusa di inserire nei patti di integrità quale causa di immediata esclusione il ricorrere di vicende del tutto avulse dalla procedura in corso. Con questo genere di clausole, infatti, si prescinde da comportamenti accertati direttamente dal committente e si introducono ipotesi espulsive connesse a fatti e condotte verificatesi in epoca precedente alla sottoscrizione del patto che ne prevede la rilevanza[22].

  1. Problemi di compatibilità europea e non solo

I maggiori dubbi sulla tenuta di queste clausole si addensano attorno a due questioni centrali.

Da un lato, occorre chiedersi se questi sistemi espulsivi a base pattizia siano compatibili con il principio di proporzionalità di matrice europea[23] – così come interpretato dalla CGUE – e dall’altro se siano conformi alle norme imperative domestiche che, insistendo sulla medesima fattispecie, lasciano invece alla stazione appaltante il potere – dovere di valutare l’opportunità di disporre l’esclusione o la risoluzione contrattuale dell’impresa che sia incorsa nella violazione dei comportamenti cui si è convenzionalmente obbligata.

Rispetto al primo interrogativo, va innanzitutto constatato in via generale che la giurisprudenza europea non è mai stata incline ad avallare l’introduzione di meccanismi di automatica esclusione dalle procedure di gara, ribadendo a più riprese, da una parte, la necessaria ponderazione, ad opera dell’autorità procedente, della rilevanza delle singole fattispecie concrete in relazione alla ratio delle correlate previsioni escludenti; dall’altra, ribadendo altresì il necessario rispetto del principio del contraddittorio.

Già nel 2008, la Corte di Giustizia aveva ritenuto incompatibile con il diritto europeo l’automatica esclusione del concorrente nel caso di offerta anormalmente bassa[24].

Allo stesso modo si era già espresso il giudice europeo in relazione alle ipotesi, all’epoca previste dall’art. 90, comma 8, del vecchio codice dei contratti pubblici, comportanti l’esclusione dalla gara degli operatori in qualche modo coinvolti, anche semplicemente a mezzo dei propri dipendenti, nella precedente fase di progettazione.

Anche in questo caso, non è stata ritenuta conforme ai principi comunitari in materia di pubblici affidamenti l’esclusione automatica in assenza della prova concreta che la presenza del progettista avesse avuto l’effetto di falsare lo svolgimento della procedura di gara[25].

Sul solco del medesimo orientamento, il giudice europeo[26] ha ritenuto non conforme al principio di proporzionalità l’esclusione automatica dell’impresa che non abbia sottoscritto la dichiarazione di non trovarsi in situazione di controllo o di collegamento (formale e/o sostanziale) con altri concorrenti e che non si sia accordata e non si accorderà con altri partecipanti alla gara, in ragione del fatto che “una siffatta esclusione automatica costituisce una presunzione irrefragabile d’interferenza reciproca nelle rispettive offerte, per uno stesso appalto, di imprese legate da una situazione di controllo o di collegamento. Essa esclude in tal modo la possibilità per tali candidati o offerenti di dimostrare l’indipendenza delle loro offerte ed è quindi in contrasto con l’interesse dell’Unione a che sia garantita la partecipazione più ampia possibile di offerenti ad una gara d’appalto”.

Una simile previsione, vieppiù se inserita all’interno dei patti di integrità (come nella fattispecie da ultimo esaminata), rappresenta un automatismo escludente incompatibile con il diritto europeo nella misura in cui preclude agli operatori economici, incorsi in una delle suddette violazioni, di dimostrare, mediante adeguato contraddittorio con la stazione appaltante, di non aver subìto menomazioni della propria autonomia decisionale in sede di predisposizione dell’offerta.

L’automatismo escludente, riguardato poi sotto l’angolo visuale del diritto domestico, risulta ancora una volta distonico rispetto a situazioni nelle quali è riconosciuta alla stazione appaltante un’ampia potestà discrezionale in ordine a circostanze in astratto maggiormente idonee a mettere in crisi l’affidabilità dell’operatore.

Si pensi ai casi in cui venga contestato all’operatore economico un illecito penale – diverso dalle fattispecie di cui al primo comma dell’art. 80 D. Lgs. n. 50/2016 – in presenza del quale non si verifica un automatismo espulsivo. In tali circostanze, l’amministrazione è infatti tenuta a dimostrare “con mezzi adeguati” la riconducibilità delle contestazioni alla nozione di grave illecito professionale, nonché la rilevanza delle stesse ai fini del giudizio di moralità. Nelle ipotesi in cui vengano in rilievo vicende penali astrattamente riconducibili ai reati di cui al primo comma dell’art. 80, ma ancora in fase di accertamento, la stazione appaltante è dunque chiamata a svolgere altresì un’indagine prognostica sui possibili esiti del procedimento penale e, ove ritenga che il materiale probatorio non sia adeguato a ritenere sussistente l’illecito contestato, dovrebbe necessariamente astenersi dall’escludere il concorrente[27]. Può dirsi nel complesso che l’amministrazione goda di un margine di discrezionalità (qui intesa in senso atecnico) estremamente ampio nel verificare l’affidabilità professionale del futuro contraente, grazie anche all’elaborazione giurisprudenziale che ha interessato la nozione di illecito professionale di cui all’art. 80, comma 5 del codice dei contratti pubblici[28].

Intanto può dirsi coerente con il sistema una portata così ampia della nozione di illecito professionale, in quanto non è messa in discussione la facoltà dell’amministrazione di valutarne la rilevanza caso per caso ai fini dell’esclusione del concorrente. Su altro lato, molti sono i dubbi che permangono circa la portata propriamente sanzionatoria delle decisioni di esclusione, tarate su questa previsione.

Si pensi alla tematica degli illeciti in corso di accertamento e all’attività di fatto para-giurisdizionale che opera la stazione appaltante in quella sede, nello svolgere un giudizio prognostico sull’accusa mossa al malcapitato operatore economico. Questa attività appare, di fatto, priva delle garanzie proprie dell’accusa penale e dell’equo processo. Su tutte un richiamo è possibile operarlo con riferimento alla mancanza di un sindacato pieno operato in tale sede dal giudice amministrativo.

Riconducendo tale attività valutativa alla discrezionalità amministrativa o tecnica, il giudice può sindacare la decisione solo muovendosi nell’ambito della legittimità della decisione, eventualmente cogliendo gli indizi di un eccesso di potere. Negare l’elemento della cd. “full jurisdiction”[29], equivale ad un deficit di tutela del procedimento. La decisione, pur connotandosi dei caratteri propri del potere giudiziario, rimane, invece, tutta all’interno dell’amministrazione, in barba alla tripartizione dei poteri.[30]

Tornando alla questione degli automatismi escludenti, vi è poi da dire che, nella prassi, i protocolli sanciscono l’automatica risoluzione contrattuale nel caso in cui venga disposta misura cautelare o sia intervenuto rinvio a giudizio per taluno dei delitti di cui agli artt. 317, 318, 319, 319 bis, 319 ter, 319 quater, 320, 322, 322bis, 346bis, 353, 353bis, c.p., o ancora venga prevista l’automatica risoluzione in caso di comunicazioni antimafia[31].

La prassi si è ulteriormente consolidata in ragione dell’inserimento di clausole di questo tipo anche in diverse gare Consip, con previsioni il cui contenuto è stato efficacemente sintetizzato da una recente sentenza del Tar Lazio[32].

Nella pronuncia si spiega che sulla base di queste clausole inserite nei patti di legalità “laddove uno dei dirigenti o dei componenti la compagine sociale dell’operatore economico viene attinto da una misura cautelare (o da un decreto che dispone il rinvio a giudizio) per uno dei reati tassativi indicati nel Patto, si attualizza inesorabilmente la fattispecie dell’esclusione dalla gara[33].

Tali automatismi, oltre a essere di per sé in contrasto con il sistema per le ragioni suesposte, introducono ulteriori elementi di contraddittorietà nella disciplina di riferimento. Basti pensare che, se da una parte non è sufficiente una condanna per gli stessi reati sopra indicati a legittimare l’esclusione dalla gara, poiché a questa si può dar corso solo in caso di condanna definitiva, dall’altra sarebbe invece sufficiente l’aver subìto una misura cautelare o la richiesta di rinvio a giudizio a legittimare un provvedimento espulsivo. Il sistema, a tutto concedere, può conservare una propria coerenza solo considerando come fattore imprescindibile la circostanza che le sole condanne definitive possano determinare automatismi escludenti, mentre le altre circostanze debbano necessariamente assoggettarsi alla valutazione caso per caso della loro rilevanza, rimessa all’amministrazione procedente. Considerazioni analoghe possono farsi con riferimento alle clausole dei patti comportanti la risoluzione automatica del rapporto in corso; basti pensare che la disciplina vigente, da oltre trent’anni, persino al ricorrere dell’interdittiva antimafia, ha sempre consentito alle stazioni appaltanti la valutazione in concreto in ordine alla possibilità di proseguire nel rapporto di appalto. Anche nel caso delle clausole c.d. risolutive contenute nei patti di integrità non può che concludersi che le stesse, pena la loro nullità, debbano consentire l’esercizio di un potere valutativo che il sistema assegna all’amministrazione per la valutazione di ipotesi di ben più grave portata[34].

Invero, le anomalie riscontrate altro non sono che la conseguenza di una distorta percezione in ordine alla natura e alla funzione dei patti di integrità che, lungi dal dover prevedere ipotesi escludenti e/o risolutive riferite alle qualità soggettive dei concorrenti/contraenti o agli eventi a essi riferiti e indipendenti dal loro comportamento, dovrebbero invece assicurare un comportamento virtuoso riferito alla specifica gara e allo specifico contratto cui il patto si riferisce. La giurisprudenza domestica sembra aver colto tale prospettiva, ritenendo che nei patti di integrità debbano essere inserite esclusivamente obbligazioni strettamente connesse alla specifica procedura cui l’operatore economico partecipa e per la quale sottoscrive il patto poiché, diversamente opinando, si ingenererebbe un’indebita sovrapposizione con le cause di esclusione direttamente poste dalla legge[35].

Se si consente dunque ai protocolli di legalità di dar vita a “obbligazioni anticorruzione” e “obbligazioni antimafia”, la sanzione espulsiva e/o risolutiva dovrebbe quantomeno riguardare l’accertamento di fatti successivi alla sottoscrizione del protocollo, quale atto destinato a imporre specifici doveri al contraente la cui dinamica temporale non può che essere coerente con quella propria della disciplina civilistica dell’inadempimento.

  1. Considerazioni conclusive.

Patti di integrità, prassi applicative e pregiudizi ideologici hanno ancora una volta dato vita a una miscela esplosiva.

Sotto il profilo sistematico, le questioni cui si è fatto cenno assumono rilevanza sotto più profili: innanzitutto quello della metamorfosi impressa a circostanze suscettibili di ponderazione ai fini di una possibile esclusione dalla gara, ed oggi, capaci invece di determinare un automatismo espulsivo.

In secondo luogo, la distorsione provocata dal trasferimento di clausole volte ad imporre determinati comportamenti virtuosi, in sede di esecuzione del rapporto di appalto, dalla naturale sede contrattuale all’impropria sede concorsuale. Un obbligo che dovrebbe assumere rilevanza quale misura del comportamento da tenersi in fase di esecuzione del contratto, e alla cui osservanza si è tenuti per il futuro, finisce per retroagire ad un momento antecedente alla sottoscrizione del patto, in spregio al principio per il quale nessuno può subire conseguenze pregiudizievoli per fatti occorsi in violazione di regole non ancora vigenti ed in una fase antecedente all’insorgere dell’obbligo correlato. Con il che, ancora, il patto di integrità, da strumento per il monitoraggio del comportamento dell’appaltatore in sede di esecuzione, non solo arretra sino alla fase prodromica della procedura concorsuale, quanto agli effetti, ma restituisce rilevanza postuma a vicende verificatesi al di fuori della dinamica del contratto e dunque in fase addirittura antecedente alla partecipazione alla gara. Il tutto aggravato, ed è questo forse l’ultimo profilo problematico, dalla circostanza che trattasi di ipotesi e fattispecie “sdoganate” solo recentemente nella contrattualistica pubblica dalla previsione dell’art. 80 comma 5 del nuovo codice. Ovverosia in una norma che attribuisce alla stazione appaltante il compito di apprezzare i mezzi probatori e la rilevanza degli eventi rispetto alla moralità professionale dell’operatore.

Viceversa, la prassi diffusa nelle stazioni appaltanti nazionali codifica nei patti di integrità sistemi automatici di esclusione che mal si conciliano con il rispetto del principio di legalità dell’azione amministrativa, della garanzia del contraddittorio e della natura sostanzialmente penale delle conseguenze che ne derivano, che invece imporrebbero ben altre garanzie anche in omaggio ai principi dettati dalla CEDU.[36] Del resto la giurisprudenza europea ha ricondotto alla nozione di “accusa penale”[37] numerose situazioni capaci di avere una portata afflittiva per il destinatario. La Corte europea, per esprimersi in questo senso, fa riferimento ai cd. criteri di Engel,[38] che parametrano: la qualificazione giuridico- formale dell’illecito o della misura nel diritto interno; la connotazione oggettiva ed intrinseca dell’infrazione e della relativa sanzione; la severità dell’impianto sanzionatorio. Partendo da questo punto di vista è innegabile che i provvedimenti di esclusione dalle gare pubbliche e di risoluzione dei contratti di appalto presentino una non trascurabile componente sanzionatoria, che dovrebbe quindi, a sua volta, portare in grembo le garanzie dell’art. 6 della Convenzione[39], e che nella prassi appaiono sostanzialmente tradite.

Orbene, la complessità delle questioni qui semplicemente enunciate non può non condurre ad un giudizio rigoroso quanto meno sotto il profilo della incompatibilità di un qualsivoglia automatismo escludente con i principi del diritto europeo, rendendo indispensabili nuove e più attente riflessioni sulle modalità di predisposizione di clausole e sulla necessità di armonizzarle in un sistema normativo che dovrebbe tendere alla chiarezza e all’uniformità per garantire il corretto funzionamento del mercato.

Dario Capotorto

[1] Sul tema cfr. S. Vinti, I protocolli di legalità nelle procedure di evidenza pubblica e il giudice amministrativo come nuovo protagonista nelle politiche anticorruzione, in GiustAmm.it, 2016, fasc. 2, 14; F. Saitta, Informative antimafia e protocolli di legalità, tra vecchio e nuovo, in Riv. trim. app., 2014, 425; G. Iudica, Spigolature critiche sui patti d’integrità, in. Riv. trim. app., 2020, 172; G. Martellino, I Patti d’Integrità in materia di contratti pubblici alla luce della recente giurisprudenza comunitaria e dell’evoluzione normativa, in Appaltiecontratti.it, 2016; S. Spartà, Protocolli di legalità. Sviluppo dei modelli nel tempo, in L. Galesi (a cura di) Appalti pubblici e sindacato. Buone pratiche contro mafia e illegalità, Roma, 2015.

[2] Nel Rapporto diretto da R. Garofoli, La corruzione in Italia – Per una politica di prevenzione. Analisi del fenomeno, profili internazionali e proposte di riforma. Rapporto della Commissione per lo studio e l’elaborazione di misure per la prevenzione della corruzione, 2012, viene segnalato che “le indicazioni provenienti dagli organismi e dalle organizzazioni internazionali evidenziano l’esigenza che siano adottati misure e programmi, innanzitutto, orientati a implementare una funzione di prevenzione” (p. 29). Sul tema si veda anche N. Parisi, La prevenzione della corruzione nel modello internazionale ed europeo, in G. Benacchio – M. Cozzio (a cura di), Azioni collettive, strumenti di integrità e trasparenza per il contrasto della corruzione nel settore pubblico e privato, Trento, Università degli Studi di Trento, 2019, 57 ss.

[3] Si segnalano, a titolo di esempio: la Convenzione delle Nazioni Unite Against Corruption adottata a Merida nel 2003, la Criminal Law Convention on Corruption adottata dal Consiglio d’Europa il 27 gennaio 1999 e ratificata dall’Italia con L. 28 giugno 2012, n. 110, nell’ambito della quale è stato costituito il Groupe d’Etatst contre la Corruption (G.R.E.C.O.) di cui l’Italia fa parte dal 2007, la Convenzione OCSE sulla lotta alla corruzione di pubblici ufficiali stranieri nelle operazioni economiche internazionali approvata il 17 dicembre 1999 e ratificata dall’Italia con L. 29 settembre 2000, n. 300. Per dare attuazione a quest’ultima, l’Italia ha adottato il D. Lgs. 8 giugno 2001, n. 231, che ha introdotto nell’ordinamento nazionale, tra l’altro, la responsabilità amministrativa delle società per i reati di corruzione.

[4] Come ricorda F. Saitta, Informative antimafia e protocolli di legalità, tra vecchio e nuovo, cit., 425, i protocolli di legalità traggono origine dal patto di integrità sviluppato negli anni ’90 del secolo scorso da Transparency International Italia per aiutare il governo italiano nella lotta alla corruzione nel settore degli appalti pubblici. Sono strumenti rivolti a compensare meccanismi legislativi a volte incompleti e/o funzioni di controllo e repressione spesso lente e inefficaci.

[5] Cfr. Cons. St., Sez. V, n. 4789 del 28 giugno 2004; Cons. St., Sez. V, n. 343 dell’8 febbraio 2005; Cons. St., Sez. V, n. 1053 del 6 marzo 2006.

[6] In tema si vedano B. G. Mattarella, La legge anticorruzione. Prevenzione e repressione della corruzione, Torino, 2013; S. Foà, Le novità della legge anticorruzione, in Urb. e app., 2013, 3, 293.

[7] Così ex multis Cons. St., Sez. V, n. 4267 dell’8 settembre 2008.

[8] Ovverosia l’art. 1, comma 17, l. n. 190 del 2012 che ha esteso l’applicazione dei patti d’integrità ad ogni appalto pubblico disponendo che “le stazioni appaltanti possono prevedere negli avvisi, bandi di gara o lettere d’invito che il mancato rispetto delle clausole contenute nei protocolli di legalità o nei patti d’integrità costituisce causa d’esclusione dalla gara”.

[9] Sulla questione afferente alla mancata accettazione preventiva dei protocolli di legalità, parte della dottrina e della giurisprudenza (TAR Lazio, Roma, Sez. II, 9 agosto 2017, n. 9274) ha ritenuto che la sottoscrizione non fosse necessaria, in quanto i protocolli di legalità sarebbero equiparati agli altri atti amministrativi facenti parte della lex specialis di gara. In questo modo, i protocolli di legalità verrebbero a formare un tessuto connettivo unico con la normativa di gara, non essendo necessaria la loro sottoscrizione (si veda in questo senso S. Vinti, I protocolli di legalità nelle procedure di evidenza pubblica e il giudice amministrativo come nuovo protagonista nelle politiche anticorruzione, in Giustamm., 2, 2016).

Altra parte della dottrina ritiene invece che i patti d’integrità formino un corpus separato dal bando di gara, configurando obblighi ulteriori sia rispetto alla fase di affidamento, sia a quella di esecuzione (si veda in tal senso G, Iudica, Spigolature critiche sui patti di integrità, in Riv. Trim. App., 2020, 4, 1727 e ss.). In merito alla possibilità di comminare una sanzione espulsiva nel caso di mancata accettazione preventiva delle clausole contenute nei patti di integrità si è infine pronunciata la Corte di Giustizia dell’Unione Europea che, nell’esprimersi sulle questioni pregiudiziali sollevate dal Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana, ha affermato che non vi sono cause ostative che vietino agli Stati membri di inserire nei loro ordinamenti, quale condizione di ammissibilità alla gara, l’accettazione degli impegni contenuti nel c.d. protocolli di legalità da parte dei partecipanti ad una pubblica gara e, più in generale, in accordi tra le amministrazioni aggiudicatrici e le imprese partecipanti volti a contrastare le infiltrazioni della criminalità organizzata nel settore degli affidamenti di contratti pubblici. La Corte ha comunque precisato che gli impegni assunti nei protocolli e negli accordi in questione non devono eccedere quanto necessario per raggiungere l’obiettivo perseguito, conformemente al principio di proporzionalità che, al pari della parità di trattamento, non discriminazione e trasparenza, costituisce un principio generale del diritto dell’Unione.

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[10] P. Carbone, La normativa antimafia e contratti pubblici, in Riv. Trim. App, 2012.

[11] Cfr. art. 83 bis, comma 3, D. Lgs. n. 159/2011: «Le stazioni appaltanti prevedono negli avvisi, bandi di gara o lettere di invito che il mancato rispetto dei protocolli di legalità costituisce causa di esclusione dalla gara o di risoluzione del contratto».

[12] La risposta è stata fornita in riscontro alla nota acquisita al prot. Autorità n. 86990 del 17/11/2020, con cui il Responsabile della prevenzione della corruzione e trasparenza del Ministero della Difesa ha chiesto chiarimenti.

[13] Cfr. art. 83, comma 8, D. Lgs. n. 50/2016: «I bandi e le lettere di invito non possono contenere ulteriori prescrizioni a pena di esclusione rispetto a quelle previste dal presente codice e da altre disposizioni di legge vigenti. Dette prescrizioni sono comunque nulle».

[14] Cons. St, sez. V, n. 4042 del 31 agosto 2015.

[15] Secondo l’ANAC (parere 19 marzo 2014, n. 48; parere 21 maggio 2014, n. 113) l’accettazione dei patti d’integrità quale possibile causa d’esclusione è consentita in quanto tali mezzi sono posti a tutela “di interessi di rango sovraordinato e gli obblighi in tal modo assunti discendono dall’applicazione di norme imperative di ordine pubblico”. Sembra quindi trattarsi non di un interesse pubblico specifico del procedimento, ma di un interesse superiore, concernente l’integrità amministrativa. Ciò potrebbe giustificare una norma che non preveda ipotesi specifiche di esclusione dovendo l’amministrazione riportarsi a clausole non espressamente contemplate.

[16] V. B. Spampinato, Sulla crisi della legalità e di certezza nel diritto in campo amministrativo, in Federalismi, 11, 2017, p. 4.

[17] Cons. St., sez V, n. 6458 del 26 ottobre 2020.

[18] Cons. St., Sezione V,  n. 722 del 5 febbraio 2018.

[19] La Corte di Giustizia europea con sentenza del 22 ottobre 2015 nella causa C-425/14, ha ritenuto che «le norme fondamentali e i principi generali del Trattato FUE (Funzionamento dell´Unione Europea, ndr), segnatamente i principi di parità di trattamento e di non discriminazione nonché l´obbligo di trasparenza che ne deriva, devono essere interpretati nel senso che essi non ostano a una disposizione di diritto nazionale in forza della quale un´amministrazione aggiudicatrice possa prevedere che un candidato o un offerente sia escluso automaticamente da una procedura di gara relativa a un appalto pubblico per non aver depositato, unitamente alla sua offerta, un´accettazione scritta degli impegni e delle dichiarazioni contenuti in un protocollo di legalità, come quello di cui trattasi nel procedimento principale, finalizzato a contrastare le infiltrazioni della criminalità organizzata nel settore degli appalti pubblici». Ciò premesso, la Corte ha precisato che gli impegni assunti nei protocolli e negli accordi in questione non devono eccedere quanto necessario per raggiungere l’obiettivo perseguito, conformemente al principio di proporzionalità che, al pari della parità di trattamento, non discriminazione e trasparenza, costituisce un principio generale del diritto dell’Unione.

[20] Cfr. Cons. St., sez. V, n. 2260 del 6 aprile 2020.

[21] Cfr. Cons. St. n. 6458/2020.

[22] Infine, con riferimento alla possibile operatività, nel caso di specie, delle misure previste dall’articolo 32 del d.l. 24 giugno 2014 n. 90, è stato evidenziato che l’operatività della disposizione in parola è limitata al momento successivo all’aggiudicazione, al fine di consentire la prosecuzione del contratto in corso di svolgimento. La norma citata prevede, infatti, che nell’ipotesi in cui l’autorità giudiziaria proceda per i delitti di cui agli articoli 317 c.p., 318 c.p., 319 c.p., 319-bis c.p., 319-ter c.p., 319-quater c.p., 320 c.p., 322, c.p., 322-bis, c.p. 346-bis, c.p., 353 c.p. e 353-bis c.p., ovvero, in presenza di rilevate situazioni anomale e comunque sintomatiche di condotte illecite o eventi criminali attribuibili ad un’impresa aggiudicataria di un appalto per la realizzazione di opere pubbliche, servizi o forniture il Presidente dell’ANAC propone al Prefetto competente, alternativamente: a) di ordinare la rinnovazione degli organi sociali mediante la sostituzione del soggetto coinvolto e, ove l’impresa non si adegui nei termini stabiliti, di provvedere alla straordinaria e temporanea gestione dell’impresa appaltatrice limitatamente alla completa esecuzione del contratto d’appalto; b) di provvedere direttamente alla straordinaria e temporanea gestione dell’impresa appaltatrice limitatamente alla completa esecuzione del contratto di appalto. Il dato letterale e la finalità sottesa alla previsione in esame non ne consentono l’applicazione in caso di violazione degli impegni assunti con il patto di integrità che intervenga nella fase di partecipazione alla gara.

[23] D. u, Galletta, Principio di proporzionalità e sindacato giurisdizionale nel diritto amministrativo, Milano, 1998, 88.

[24] Corte Giust. UE, Grande sezione, sentenza del 15 maggio 2008, nei procedimenti riuniti C -47/06 e C 148/06.

[25] Corte Giust. UE, sentenza 3 marzo 2005, C-21/03 e 34/03; in termini: Cons. St., sez. V, 15 gennaio 2008, n. 36; sez. IV, 3 maggio 2011, n. 2647.

[26] Cfr. Corte giust. UE, Sez. X, 22 ottobre 2015, 22 ottobre 2015, n. C- 425/14.

[27] La giurisprudenza ampiamente prevalente evoca la nozione di ‘discrezionalità amministrativa’ per qualificare il potere di valutazione esercitato dall’amministrazione aggiudicatrice quando indaga sull’incidenza degli illeciti sull’affidabilità e integrità del contraente. Ciò, sebbene l’indagine si esaurisca nella sussunzione di un fatto asseritamente provato in una fattispecie definita dalla norma con l’impiego di una clausola generale. Si tratta infatti di ricondurre il comportamento contestato alla nozione di “grave illecito professionale”. L’operazione intellettiva non prevede alcuna ponderazione dell’interesse pubblico nel contemperamento con interessi contrapposti o concorrenti, secondo lo schema classico della discrezionalità amministrativa. Occorre invece svolgere un’attività ascrittiva di ‘sussunzione’ del fatto nella fattispecie normativa; un’attività, dunque, interpretativa con cui attribuire un significato concreto a un enunciato normativo, declinando caso per caso la condotta dell’operatore economico per valutare se possa dirsi colpevole di gravi illeciti professionali.

Ma un conto è il potere esercitato dall’autorità amministrativa allorquando questa decida ciò che sia da ritenere più conforme all’interesse pubblico (discrezionalità amministrativa in senso proprio); altro è la valutazione compiuta dalla stazione appaltante sulla diligenza professionale dell’operatore economico, in presenza di vicende penali non ancora accertate con sentenza irrevocabile. In quest’ultimo caso, la stazione appaltante esercita un potere che travalica le proprie funzioni tradizionali, poiché la verifica delle condizioni per l’applicazione della causa di esclusione di cui all’art. 80, comma 5, lett. c), d. Lg. n. 50/2016, passa innanzitutto attraverso l’analisi prognostica di cosa potrà inferirsi da elementi indiziari e se da quegli elementi l’autorità giudiziaria potrà inferirne il compimento di illeciti: si tratta, dunque, di anticipare indagini e valutazioni che, nella logica della divisione dei poteri, competono al potere giudiziario e non a quello amministrativo.

[28] Cfr. S. Vinti, L’eterogenesi dei fini tradisce lo scopo ultimo e l’oggetto stesso della disciplina sui contratti pubblici, in Federalismi.it, 2020.

[29] Per tutti, F. Goisis, La full jurisdiction nel contesto della giustizia amministrativa: concetto, funzione e nodi irrisolti, in Diritto Processuale amministrativo, 2015, 2, 546 ss.

[30] Sul tema sia consentito richiamare D. Capotorto, Il sindacato giurisdizionale sulle valutazioni Amministrative in tema di integrità morale degli operatori economici per illeciti in corso di accertamento: la tripartizione dei poteri in “corto circuito” tra discrezionalità amministrativa, discrezionalità tecnica e discrezionalità giudiziale, in Diritto processuale amministrativo, 2021, 568.

[31] Ipotesi su cui si è innestata la recente sentenza del TAR Toscana 12 gennaio 2021, n. 20. La pronuncia ha declinato la propria giurisdizione su un ricorso proposto da un consorzio stabile avverso l’atto di risoluzione del contratto di appalto, assunto applicando la disposizione contrattuale ai sensi della quale “Nel caso in cui sopraggiunti accertamenti antimafia, di cui al d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159, in pendenza di esecuzione dell’appalto, diano esito positivo, il presente Contratto si risolverà di diritto, salvo quanto previsto all’art. 94, comma 3, d.lgs. 159 del 2011”.

Il Collegio ha ritenuto che l’effetto risolutivo della clausola contrattuale “non costituisce in alcun modo esercizio di poteri pubblicistici di autotutela, trattandosi ben diversamente dell’esercizio di poteri negoziali” esercitati dalla stazione appaltante “quale parte contrattuale in posizione paritetica con l’altro contraente” ed ha, conseguentemente, affermato l’inammissibilità del ricorso per difetto di giurisdizione, affermando che spetta al Giudice Ordinario conoscere delle “vicende negoziali successive alla stipula del contratto”.

[32] Cfr. TAR Lazio, sez. II, 1 luglio 2021, n. 7806.

[33] Cfr. TAR Lazio, n. 7806/2021 cit.

[34] Si consideri infatti che l’art. 94, c. 3, D. Lgs. n. 159/2011, sancisce espressamente che: «3. I soggetti di cui all’articolo 83, commi 1 e 2, non procedono alle revoche o ai recessi di cui al comma precedente nel caso in cui l’opera sia in corso di ultimazione ovvero, in caso di fornitura di beni e servizi ritenuta essenziale per il perseguimento dell’interesse pubblico, qualora il soggetto che la fornisce non sia sostituibile in tempi rapidi».

[35] Cfr. in tal senso Cons. St. n. 722/2018, ove è stato correttamente evidenziato che nell’ipotesi in cui il patto di integrità imponesse un impegno di lealtà, trasparenza e correttezza riferito anche ad appalti precedentemente eseguiti, si verificherebbe un’indebita sovrapposizione con le cause di esclusione relative alla pregressa condotta dell’impresa (nello stesso senso Cons. St. n. 2580/2018; Tar Sicilia, Palermo, sez. I, n. 1296 del 20 aprile 2021 e Tar Calabria, Catanzaro, sez. I, n. 258 del 7 febbraio 2019.

[36] Sull’incidenza del diritto CEDU nel diritto amministrativo, cfr. C.E. Gallo, La Convenzione europea per i diritti dell’uomo nella giurisprudenza dei giudici amministrativi, in Dir. amm., 1996, 499 ss; G. Greco, La Convenzione europea dei diritti dell’uomo e il diritto amministrativo in Italia, in Riv. it. dir. pubbl. com., 2000, 25 ss.; F. Manganaro, Il potere amministrativo nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, in Dir. proc. amm., 2010, 2, 428 ss.; M. Allena, La rilevanza dell’art. 6, par. 1, CEDU per il procedimento e il processo amministrativo, ivi, 2012, 2, 569 ss.; Id, Art. 6 CEDU. Procedimento e processo amministrativo, Napoli, 2012; E. Follieri, Sulla possibile influenza della giurisprudenza della Corte Europea di Strasburgo sulla giustizia amministrativa, in Dir. proc. amm., 2014, 3, 685 ss.; A. Carbone, Rapporti tra ordinamenti e rilevanza della CEDU nel diritto amministrativo (a margine del problema dell’intangibilità del giudicato), ivi, 2016, 2, 456 ss.; C. Feliziani, Effettività della tutela nel processo o nel procedimento? Convergenze e divergenze tra il sistema italiano di giustizia amministrativa e la Convenzione europea dei diritti dell’uomo, ivi, 2019, 3, 758.

[37]  Per un’ampia ricostruzione della giurisprudenza della Corte europea formatasi sull’interpretazione dell’art. 6 CEDU, cfr. i lavori di M. Allena e F. Goisis, citati nel presente contributo.

[38]  C. eur. Dir. uomo, 8 giugno 1976, ricorsi nn. 5100/71, 5101/71, 5102/71, Engel e altri c. Paesi Bassi, par. 82 e ss.

[39] Ove si stabilisce, al primo paragrafo, che “ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un tribunale indipendente e imparziale, costituito per legge, il quale sia chiamato a pronunciarsi sulle controversie sui suoi diritti e doveri di carattere civile o sulla fondatezza di ogni accusa penale formulata nei suoi confronti”.