A cura di ENRICO FOLLIERI*
professore straordinario di diritto amministrativo, Università telematica Pegaso-Napoli
Emilio Bonaudi, il giurista della concretezza**
Sommario: 1. La vita. – 2. Le opere. – 3. Dei provvedimenti di urgenza del Sindaco. – 4. Della sospensione degli atti amministrativi. – 5. Il problema della giustizia amministrativa nell’ora presente. – 6. La tutela degli interessi collettivi. – 7. Comune, Provincia, istituzioni pubbliche di beneficenza nel diritto positivo italiano. – 8. Gli scritti di diritto costituzionale. – 9. Dei limiti della libertà individuale. – 10. Dei limiti della libertà individuale. Parte IV. Confronto con i diritti di libertà trattati nei principi di diritto pubblico. – 11. I principi di diritto pubblico. – 12. Profilo della personalità.
- La vita.
Emilio Bonaudi nasce a Firenze il 26 ottobre 1873, figlio unico di Demetrio e Maria Marenco. Il padre, funzionario dell’amministrazione finanziaria, dopo alcuni trasferimenti[1], giunge a Torino ove Emilio Bonaudi si iscrive alla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Torino nel 1892 e si laurea il 6 luglio 1896[2], con il massimo dei voti.
Tutte le fonti consultate evidenziano che Emilio Bonaudi ha esercitato con successo la professione di avvocato, specializzandosi nel diritto amministrativo[3] e, contemporaneamente, si è dedicato alla “scienza giuridica”[4], pubblicando un notevole numero di monografie in diritto amministrativo, in diritto del lavoro e sindacale, in diritto finanziario, costituzionale ed ecclesiastico, eseguendo ricerche in differenti campi del diritto pubblico, tanto che conseguì l’abilitazione alla libera docenza in diritto amministrativo presso l’Università di Torino nel 1909 e fu incaricato di detto insegnamento presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Torino dal 1910 al 1915.
Frattanto, si unisce in matrimonio il 27 maggio 1902 con Carolina Costamagna, da Cuneo[5].
È passato, poi, ad insegnare istituzioni di diritto pubblico e della legislazione scolastica presso l’Istituto Superiore di magistero, negli anni 1923-24 e 1924-25, sostituendo Vittorio Brondi in quest’ultimo anno.
Nel 1926, dopo che nel concorso bandito nel 1924 per la cattedra di diritto amministrativo nell’Università di Macerata era risultato secondo, partecipa al concorso per la cattedra di diritto amministrativo bandito presso la Facoltà giuridica della libera Università di Camerino e, risultato vincitore, è nominato professore “non stabile”[6] ed insegna diritto amministrativo presso detta Facoltà; in questa sede accademica ha tenuto, dal 1925 al 1927, anche l’incarico di insegnamento di diritto internazionale ed è stato Preside dal 1926 fino al 1928, quando passa all’Università di Perugia ad insegnare diritto costituzionale presso la Facoltà di Scienze Politiche, divenendo ordinario nel 1929[7].
Nel 1932 rientra a Torino, chiamato alla cattedra di istituzioni di diritto pubblico presso l’istituto Superiore di Economia e Commercio, poi divenuto Facoltà di Economia e Commercio.
Nel 1948 è collocato a riposo per raggiunti limiti di età e nel 1949 è nominato emerito, in seguito a voto unanime della Facoltà, con decreto presidenziale del 29 settembre 1949.
In effetti, Emilio Bonaudi ha abbandonato l’attività accademica e forense nel 1943 perché, nel 1942, avendo già problemi di vista, ha subito un trauma conseguente ad un bombardamento aereo, divenendo completamento cieco.
Il 29 gennaio 1954 muore in Torino.
- Le opere.
Mi riferirò esclusivamente alle opere di diritto amministrativo e di diritto costituzionale e non a quelle di diritto del lavoro e sindacale, diritto finanziario e diritto ecclesiastico che pur testimoniano la solida cultura e gli ampi orizzonti di studio di Bonaudi[8].
Sono essenzialmente due gli ambiti di indagine e ricerca del Nostro per il diritto amministrativo: il diritto degli enti locali e la giustizia amministrativa, intesa in senso ampio, comprensiva della base sostanziale necessaria per affrontare i problemi processuali.
Nel periodo che va dal 1908 al 1911, si concentra la produzione più importante di Bonaudi sulla giustizia amministrativa, pubblicando due monografie: nel 1908. “Della sospensione degli atti amministrativi” e nel 1911, “La tutela degli interessi collettivi”[9]; in questo arco di tempo, hanno rilievo, per lo stesso ambito disciplinare, due articoli: “Sulla competenza della Giunta Provinciale Amministrativa in materia di consorzi stradali”[10] e soprattutto “Il problema della giustizia amministrativa nell’ora presente”[11].
Più generali sono, invece, i temi di diritto costituzionale in cui Bonaudi ha prodotto anche volumi manualistici, oltre che specifiche pubblicazioni sul governo e sui limiti della libertà individuale.
Le pubblicazioni di Bonaudi hanno una prosa fluida, scorrevole e di piacevole lettura, con la materia distribuita in paragrafi, in genere brevi, con intitolazione chiara che dà un’idea precisa del contenuto di ognuno di essi.
Le principali opere di diritto amministrativo e diritto costituzionale sono, in ordine cronologico:
– Dei provvedimenti d’urgenza del Sindaco, F.lli Bocca, Torino 1907, 372 pagine;
– Della sospensione degli atti amministrativi, F.lli Bocca, Ed. Torino 1908, 148 pagine;
– Sulla competenza della Giunta provinciale amministrativa in materia di consorzi stradali, Soc. Editrice Libraria, Milano Estr. da Riv. di diritto pubblico n. 9, pt. 2, 1910, 415-424; – Il problema della giustizia amministrativa nell’ora presente in Riv. Ital. per le Scienze giuridiche, 1910, 89-120;
– La tutela degli interessi collettivi, F.lli Bocca, Torino 1911, 182 pagine;
– Comune, Provincia, istituzioni pubbliche di beneficenza nel diritto positivo italiano, F.lli Bocca, Torino 1922, 556 pagine;
– L’ordinamento costituzionale nella nuova concezione dello Stato, Tip. Commerciale, Perugia 1929, 61 pagine;
– Il territorio dello Stato (a proposito della Città del Vaticano), Cedam, Padova 1930 in Studi di diritto pubblico in onore di Ranelletti, 39 pagine;
– Dei limiti della libertà individuale, La Nuova Italia Editrice, Perugia-Venezia 1930, 212 pagine;
– Il governo rappresentativo ed i gabinetti di coalizione in Studi in onore di Federico Cammeo, Cedam, Padova 1932, 19 pagine;
– L’azione dello Stato in materia scolastica attraverso i tempi in Annali dell’istituto superiore di Magistero di Torino, Ed. “L’Erma”, Torino 1934, 23 pagine;
– Lezioni di istituzioni di diritto pubblico, Gruppo Universitario fascista, Torino 1935 (A. scol. 1934-1935), 445 pagine;
– con Gian Piero Bognetti, voce Podestà in Enciclopedia italiana Treccani, 1935;
– Principi di diritto pubblico, UTET, Torino 1936, 621 pagine;
– con Emilio Albertario, voce Sindaco in Enciclopedia Italiana Treccani, 1936;
– Il potere politico e la divisione dei poteri in Scritti giuridici in onore di S. Romano, I, Padova 1940, 511 e ss.;
– Istituzioni di diritto pubblico GUF, Torino 1942, 376 pagine, a cui succedettero varie edizioni, tra cui una del 1946.
- Dei provvedimenti di urgenza del Sindaco.
La monografia con la quale Bonaudi esordisce è del 1907 e ha ad oggetto “Dei provvedimenti di urgenza del Sindaco”[12] di cui sarà pubblicata una seconda edizione, riveduta ed ampliata, sempre dallo stesso editore nel 1920[13].
L’Autore premette il rilievo dell’atto amministrativo nel diritto pubblico che si “manifesta soltanto in un regime di governo giuridico e che la sua efficacia non può essere sentita se non quando il potere amministrativo viene di fatto sottomesso alla legge”[14] e introduce la discrezionalità perché “non può disconoscersi che l’attività della pubblica amministrazione non sempre può essere sottoposta con sufficiente garanzia a quelle norme che – in un regime di governo giuridico – dovrebbero assicurare la perfetta legalità e giustizia”[15]. Spiega, quindi, che ciò può dipendere dal fatto che la legge non può prevedere tutti i casi che si presentano in concreto, rendendosi necessaria l’integrazione ad opera della pubblica amministrazione attraverso i regolamenti, ma anche quando “il potere esecutivo ha imposto una norma a sé stesso”[16],possono presentarsi lacune e ipotesi non disciplinate, per cui deve “necessariamente accordarsi una certa libertà direttiva e d’azione all’organo od al funzionario che opera in nome dell’ente pubblico”[17].
È la costruzione del concetto di discrezionalità che si ritrova agli albori della dottrina amministrativistica in Gian Domenico Romagnosi[18].
Fra gli atti amministrativi “d’imperio” vengono collocati i provvedimenti di urgenza che “non solo vengono posti in essere dalla pubblica amministrazione con maggiore libertà, ma per mezzo di essi viene altresì resa più facile l’eventuale offesa ai diritti ed agli interessi individuali, i quali non possono trovare sempre una sufficiente ed adeguata difesa contro l’arbitrio o l’abuso dell’autorità”[19].
Bonaudi si dibatte tra due opposte esigenze: l’indispensabile attribuzione alla amministrazione del potere discrezionale per intervenire, in circostanze contingibili e straordinarie (rebus ipsis dictantibus et necessitate exigente) e la tutela dei diritti e degli interessi dei privati[20].
A questa problematica riguardante tutti i provvedimenti di urgenza, quelli emanati dal Sindaco nelle materie indicate dall’allora vigente art. 153 della L. com. e prov.[21] relative alla “edilità” e polizia locale e di igiene, presentano l’ulteriore questione “sull’estensione dei poteri che al Sindaco competono”, data la sua duplice qualità di “capo dell’amministrazione comunale e di ufficiale del Governo; alla quale si connette l’altra… sulla natura delle funzioni degli enti locali e dei rapporti di diritto che possono sorgere in dipendenza degli atti che, nell’una e nell’altra qualità, possono venire compiuti dal Sindaco”[22].
Bonaudi affronta il tema centrale del volume esaminando: la posizione del Sindaco quale ufficiale di governo e quale capo dell’amministrazione comunale; le materie che possono formare oggetto dei provvedimenti d’urgenza del Sindaco (polizia, edilità ed opere pubbliche, igiene e sanità pubblica, igiene del suolo e dell’abitato, casi d’abitazione); i requisiti, la forma e gli effetti degli atti di urgenza nonchè i “rimedi”. L’opera, oltre a copiosi richiami di dottrina, riporta ampia giurisprudenza.
- Della sospensione degli atti amministrativi.
La monografia del 1908 sulla sospensione degli atti amministrativi ha ad oggetto la “sospensione della dichiarazione di volontà in rapporto agli atti amministrativi”[23], per cui esula dalla trattazione la sospensione prodotta da “cause e fatti materiali” e da “fatti accidentali”[24].
Bonaudi tratta innanzitutto i profili attinenti alla sospensione sul piano sostanziale: la condizione come causa di sospensione e applicabilità agli atti amministrativi nelle diverse declinazioni note al diritto civile (potestativa, meramente potestativa, propria e impropria o conditio juris); il termine in ordine all’attuazione delle condizioni; le tipologie di atti amministrativi che incidono sulla sospensione della “esistenza ovvero l’efficacia e l’eseguibilità della dichiarazione di volontà degli enti pubblici”[25] (autorizzazioni, divieti e proibizioni, approvazioni ed omologazioni, visti, atti preliminari alle concessioni, pareri); gli atti amministrativi che, pur completi nei loro elementi ed eseguibili, sono temporaneamente sospesi ed inefficaci per atto dell’autorità amministrativa che li ha adottati, per il ricorrere di speciali contingenze; la possibilità per il potere legislativo di sospendere l’esecuzione degli atti amministrativi che non può disporre il giudice ordinario; la sospensione degli atti amministrativi da parte del potere esecutivo che, in via generale, non può sospendere le leggi, anche se, eccezionalmente, è avvenuto con decreti leggi o con la proclamazione degli stati di assedio che devono essere ratificati dalle Camere per divenire legittimi.
L’Autore esamina, quindi, la sospensione sul piano della “giustizia amministrativa”: quella che “ha luogo in via di amministrazione attiva” (dall’autorità che ha emanato l’atto e dall’“autorità superiore”) e “quella che ha luogo in sede contenziosa e in via giurisdizionale”[26].
Per “il ricorso contenzioso”, si sottolinea il carattere eccezionale della sospensione dell’atto impugnato, a differenza del potere attribuito in sede di amministrazione attiva, individuandosi nella “competenza di organi speciali i quali sono, nell’esercizio di siffatte funzioni, all’infuori della cerchia dell’amministrazione attiva”[27].
Il legislatore ha lasciato al “prudente arbitrio dell’organo investito del ricorso”, la valutazione delle gravi ragioni che possono disporre la sospensione dell’atto amministrativo, tranne alcune ipotesi in cui il legislatore ha stabilito espressamente effetto sospensivo al ricorso[28] e che vengono esposte puntualmente[29].
Bonaudi ritiene che le “gravi ragioni” debbano essere valutate caso per caso ed in relazione alle peculiari circostanze di fatto che determinarono il provvedimento ed alle speciali conseguenze che possono derivarne in concreto, per cui è “difficile e pressoché impossibile stabilire a priori delle norme e come la giurisprudenza della IV Sezione del Consiglio di Stato abbia sempre proceduto con una casistica la quale, per quanto numerosa, non permette di tracciare una direttiva sicura per conoscere dell’effetto sospensivo delle domande nei singoli casi”[30], anche se il giudice amministrativo, oltre che l’interesse pubblico, deve considerare anche l’interesse privato “ogni qualvolta i vantaggi derivanti alla pubblica amministrazione ed alla collettività dall’esecuzione dell’atto, sono soverchiati dal danno che ne risentirebbe il privato”[31].
Nel volume si approfondisce l’irreparabilità del danno derivante dall’esecuzione dell’atto e in cui si esplicano le gravi ragioni richieste dalla norma, sottolineando che il danno non deve essere irreparabile nel vero senso della parola, ma va commisurato alle concrete circostanze di fatto[32].
Bonaudi qualifica la domanda di sospensione in sede contenziosa come incidentale ed accessoria e ne trae le conseguenze in ordine a diverse questioni di carattere processuale, tracciando distinzioni con riferimento ad alcuni istituti che sembrano simili (dilazioni, proroghe) ed affrontando le problematiche sul termine e l’esclusione della sospensione per alcuni atti amministrativi.
La monografia si colloca tra il diritto sostanziale ed il diritto processuale amministrativo, in una visione realistica delle questioni che evidenziano la difficoltà di poter prevedere l’esito della domanda cautelare in sede contenziosa, mentre, per il resto, la scelta discrezionale dell’amministrazione è sovrana, sia nei ricorsi amministrativi in opposizione o gerarchici, sia nella sospensione sul piano sostanziale la cui disciplina viene confrontata con gli istituti di diritto civile.
Alcuni profili sono ancor oggi attuali, come la valutazione rimessa al giudice sull’interesse pubblico e quello privato, apprezzati nella concreta fattispecie, per stabilire il c.d. periculum in mora.
- Il problema della giustizia amministrativa nell’ora presente.
È un saggio pubblicato nella Rivista italiana di scienze giuridiche del 1910[33], ma assume rilievo poiché è la prolusione al corso di Diritto amministrativo pronunziata il 4 dicembre 1909 nella Università di Torino.
Bonaudi, come è solito nei suoi lavori, parte dal dato sociologico e storico e rileva che, all’attualità, non può esservi “libertà civile” “senza un sistema di governo che assicuri la tutela giuridica dell’individuo di fronte alla pubblica amministrazione”. La libertà civile non può essere una “vana parola”[34].
Non nasconde la difficoltà, per lo Stato italiano, di dover portare all’unificazione sistemi legislativi diversi che da secoli reggevano gli Stati preunitari e evidenzia che i vari problemi furono esaminati sotto l’aspetto politico, non giuridico[35].
La riforma del 1889 e 1890 con l’istituzione della Sezione IV del Consiglio di Stato e delle Giunte Provinciali amministrative hanno posto rimedio alla legge del 1865, all. E che, con l’unità della giurisdizione innanzi al giudice ordinario, aveva lasciato senza tutela gli interessi che, in precedenza, erano conosciuti dagli aboliti Tribunali del contenzioso amministrativo.
Per Bonaudi occorre assicurare “il trionfo della giustizia nell’amministrazione della cosa pubblica”[36], elencando le ragioni sociali ed ordinamentali che lo impongono: prima “lo Stato appariva piuttosto con la veste dell’autorità rivestita dell’impero che non – come in oggi – con quella del tutore degli interessi sociali e dell’amministratore dei servizi a vantaggio della collettività”[37]. Il diritto non può sottrarsi alla influenza dell’indirizzo democratico che sugli Stati a regime parlamentare vanno assumendo le pubbliche amministrazioni.
Il popolo, non solo sceglie i propri rappresentanti con il voto, ma interviene “nella soluzione delle questioni amministrative che lo interessano più da vicino”[38]. A tanto contribuiscono l’azione popolare, anche se in casi tassativi, e il referendum, rafforzando la volontà di vedere rispettata dalla pubblica amministrazione le norme che “presiedono alla sua azione e che coincidono con l’interesse del cittadino”[39].
Considerato il Conseil d’Etàt e la sua evoluzione nell’ordinamento francese, Bonaudi riflette sulla crisi della pubblica amministrazione (favoritismi, corruzione, inosservanza dei doveri di ufficio, influenza di clientele e di partiti, costituzione di associazioni e leghe dei funzionari i quali pretendono che lo Stato scenda a patti con loro etc.) che rende ancora attuale “il grido di Silvio Spaventa” di “giustizia nell’amministrazione”[40].
Gli ordinamenti amministrativi devono “perfezionarsi” con “gli istituti destinati ad assicurare la giustizia nei rapporti fra l’ente pubblico e il cittadino”[41]. Non si può dire di aver raggiunto un’elaborazione dei principi giuridici che assicurino la giustizia nell’amministrazione.
Il diritto amministrativo, pur avendo conseguito notevole incremento negli studi, è “tuttora in pieno periodo di formazione”[42], tanto che non sono ancora chiari i criteri di delimitazione con il diritto costituzionale, la Scienza dell’amministrazione e il diritto finanziario e, per la giustizia amministrativa, esistono “divergenze profonde” sulla: distinzione tra gli atti di impero e gli atti di gestione; natura giuridica del rapporto di impiego pubblico; “responsabilità dell’amministrazione per il fatto proprio o per quello dei suoi funzionari”[43]; natura giurisdizionale o amministrativa degli organi della giustizia amministrativa, nonostante il “carattere giurisdizionale loro legislativamente riconosciuto”[44]; efficacia o meno del giudicato alle decisioni degli organi della giustizia amministrativa. La risoluzione di queste problematiche richiede, a monte, di approfondire le tematiche che sono il presupposto del giudizio amministrativo: classificazione e validità degli atti amministrativi; distinzione fra “diritti e interessi”; nozione dell’eccesso di potere nelle sue varie forme; caratteri del provvedimento definitivo, “poteri degli enti autarchici” e altro.
Bonaudi passa in rapida rassegna i pubblicisti italiani, Filangeri e Romagnosi, e gli amministrativisti Orlando, Brondi, Ranelletti, Cammeo, Romano e Vacchelli , evidenziando che si è formata una Scuola Nazionale di pubblicisti che “hanno superato la scuola francese nell’elaborazione sistematica, mantenendosi nello stesso tempo lontani dalle esagerate astrazioni e dalle nebulosità della scuola tedesca”[45].
Gli istituti della giustizia amministrativa meritano la stessa attenzione di quelli di diritto sostanziale, con la necessità di un’elaborazione sistematica secondo il metodo deduttivo propugnato da Orlando, coniugato con quello induttivo da applicare sull’opera della giurisprudenza che saggia sul campo “le teoriche ponendole a contatto con le esigenze della pratica, rivelandone di volta in volta i difetti e preparando così il terreno al loro perfezionamento”[46].
Lamenta, quindi, Bonaudi le incertezze nella normativa sulla procedura per i ricorsi che spesso sono inammissibili o improcedibili, sugli atti amministrativi (requisiti, validità etc.) e sugli atti impugnabili, conseguenza anche della possibilità di ricorrere alla Giunta Provinciale Amministrativa, senza il ministero di un avvocato.
La giustizia amministrativa è la sede in cui si decide dei conflitti tra la libertà dell’individuo e l’autorità dell’ente pubblico ed il giudice deve svolgere un “doppio ufficio”: 1) diretto, per “reintegrare gli interessi disconosciuti, le libertà offese” e “definire…. i limiti dell’attività della pubblica amministrazione”; 2) indiretto, per “porre in rilievo i difetti e le lacune che nell’ordinamento amministrativo si riscontrano e che alimentano i conflitti fra cittadino e pubblica amministrazione”[47].
Il “doppio ufficio” induce gli organi di giustizia amministrativa a “dare prevalenza non lieve al criterio di equità”, compiendo “un ufficio analogo a quello del Pretore nel diritto romano”[48].
Bonaudi si chiede perché il sindacato sugli atti amministrativi non sia stato attribuito al giudice ordinario, anziché creare nuovi organi, che ha fatto sorgere la questione “certamente grave” “della distinzione fra le due giurisdizioni”[49] perché giurisdizionale è da definire la funzione esercitata dagli organi della giustizia amministrativa che non sono il “rifiorire degli antichi Tribunali del contenzioso” poiché è “una specializzazione della magistratura giudicante”[50].
Bonaudi accenna alle novità introdotte dalla riforma del 1907 evidenziando le criticità della ripartizione delle competenze tra la IV e la neo istituita Sez. V, nella previsione di un termine di 180 giorni (prima non c’era il termine) per la proposizione del ricorso al Re in via straordinaria e, soprattutto, della indipendenza delle “persone” che compongono gli organi della giustizia amministrativa.
Per quest’ultimo profilo, Bonaudi ritiene che, nella magistratura ordinaria, l’essenziale elemento dell’indipendenza del giudice è stato risolto, a differenza della Sezione IV del Consiglio di Stato che “deve essere giudice degli atti del potere esecutivo”, ma è composta di funzionari “la cui proposta è affidata al Ministero dell’Interno” e la nomina alla deliberazione del Consiglio dei Ministri[51].
Alla mancanza di “guarentigia” per la nomina, si aggiunge che “il frequente passaggio dalle Sezioni consultive alle Sezioni giurisdizionali, in forza del mutamento annuale (che, attuandosi per decreto reale, si opera in realtà dal Ministro dello Interno), impedisce ai consiglieri di spogliarsi completamente del carattere di funzionari dell’amministrazione per acquisire quello di giudice”[52].
Ancora meno soddisfacente è, quanto alla indipendenza, la Giunta Provinciale amministrativa in sede giurisdizionale, “essendo questa composta di due funzionari burocratici e di due consiglieri elettivi, il Prefetto quale presidente può riuscire arbitro di ogni decisione, violandosi così il principio che il giudice deve essere affatto distinto ed indipendente dalle parti contendenti”[53].
Bonaudi conclude la prolusione rilevando che le sue considerazioni non sono il frutto di un “eccessivo pessimismo”, ma della “franchezza” che è richiesta dalla scienza ed esprime la speranza che “la nostra scienza, nel suo rapido progresso, colmerà in breve le lacune, correggerà i difetti e porterà gli istituti della giustizia amministrativa a quell’altezza che è richiesta dalla loro funzione nella società”[54].
È una valutazione a tutto campo della giustizia amministrativa a venti anni dall’inizio del funzionamento della IV Sezione del Consiglio di Stato.
Bonaudi coglie il ministero del giudice che ha carattere pretorio e creativo nella formazione dei concetti fondanti sia del diritto sostanziale che di quello processuale, per la incertezza dei principi e della normativa. Critica, inoltre, la regola del riparto della giurisdizione tra il giudice ordinario e quello amministrativo, di cui evidenzia le difficoltà applicative e, soprattutto, punta il dito su un elemento essenziale per l’esercizio di ogni giurisdizione: l’indipendenza e la terzietà di chi giudica[55].
I rilievi incisivi e fondati sulla composizione della Giunta Provinciale Amministrativa hanno dovuto attendere l’avvento della Repubblica e la sentenza della Corte costituzionale n. 30 del 1967 che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale delle disposizioni sulla nomina dei membri della Giunta Provinciale Amministrativa per carenza di imparzialità e di indipendenza in violazione degli artt. 101, secondo comma, e 108, secondo comma, della Costituzione[56].
La constatazione dell’assenza di indipendenza e terzietà del Consiglio di Stato, quanto alla nomina e allo “interscambio” tra i componenti delle sezioni consultive e giurisdizionali, ha trovato parziale soluzione nelle normative che si sono succedute, ma è ancora attuale per molti aspetti che ho esposto in altra occasione e, a tutt’oggi, è questione irrisolta[57].
- La tutela degli interessi collettivi.
Nel 1911, Bonaudi pubblica “La tutela degli interessi collettivi” per i tipi dei “Fratelli Bocca Editori” di Torino[58] in cui affronta una questione che stava emergendo all’epoca in campo socio-economico, ma che non aveva assunto ancora in diritto quella rilevanza cui doveva assurgere diverso tempo dopo.
La sensibilità al tema è stata sviluppata in Bonaudi per l’attenzione alle problematiche sociali dell’aggregazione per classi degli operai e del “capitale” e della impostazione settoriale di queste associazioni, espressione di interessi collettivi, ma non generali nei confronti dei quali possono entrare in conflitto, definiti “collettività speciali, o categorie, o classi di individui”[59].
Questi interessi collettivi speciali “talvolta sono costituiti semplicemente dalla somma e dalla risultante dei singoli interessi individuali dei loro componenti, tale altra, invece, pur comprendendoli, non si identificano con essi, non sempre coincidono o quanto meno s’armonizzano con gli interessi del corpo sociale considerato nella sua generalità”[60].
Nell’ipotesi di conflitto degli interessi collettivi speciali con altri interessi pur essi collettivi speciali o con l’interesse generale dello Stato o di altra collettività generale, Bonaudi si domanda se vi siano mezzi di tutela “d’indole strettamente giuridica”[61] e li individua innanzitutto, nella previsione legislativa che, in alcuni casi, l’amministrazione “debba farsi carico delle aspirazioni e delle osservazioni loro, consentendo che possano essere sentite sia sotto la forma più semplice di pareri preventivi, sia con quella più efficace di far partecipare le loro rappresentanze in taluni corpi consultivi speciali appartenenti alla pubblica amministrazione”[62].
Queste forme di partecipazione, ammesse in pochi casi, non eliminano, però, “i difetti inerenti all’azione amministrativa” e non possono costituire “una sufficiente guarentigia”[63], per cui occorre valutare se sia possibile la tutela innanzi al giudice amministrativo dopo che sia intervenuto il provvedimento della pubblica amministrazione ritenuto lesivo.
Bonaudi richiama la legge sul contenzioso amministrativo che consente il ricorso soltanto per “un interesse d’individui o di enti morali giuridici”, e si chiede se gli interessi collettivi speciali possano trovare tutela quando non esista un centro formale di imputazione che rappresenti tali interessi.
La previsione legislativa del ricorso da parte del singolo o di un ente dotato di personalità giuridica porta all’articolazione del volume in due parti: “L’azione individuale” (pagg. 1-88) e “L’azione degli enti” (pagg. 89-182).
Bonaudi, considerando la legittimazione del singolo, rileva che se gli interessi coincidono con quelli di cui è titolare un individuo la “loro tutela può avvenire, per quanto indirettamente ed in via occasionale[64], allorquando l’individuo o l’ente stesso si facciano ad impugnare per proprio conto il provvedimento amministrativo” in quanto non si può ammettere “almeno dal punto di vista astratto, che la pubblica amministrazione voglia deliberatamente dare esecuzione ad un atto riconosciuto illegittimo o dannoso”[65].
Bonaudi, quindi, indaga se vi sia tutela degli interessi collettivi, se non si verifichino le ipotesi individuate, e segnala giurisprudenza della Sezione IV del Consiglio di Stato del primo decennio del 1900 che aveva dichiarato improcedibile il ricorso promosso da un’associazione fra industriali e commercianti, priva di personalità giuridica, avente lo scopo di tutelare gli interessi dell’industria alla quale i consociati erano addetti, potendo ricorrere i singoli commercianti o industriali[66], contraddetta da altri orientamenti della Sezione IV che escludeva che un singolo operaio potesse impugnare le nomine governative di capi mastri nelle miniere della Sardegna e della Sicilia, come rappresentanti della “classe” nel Consiglio Superiore del Lavoro, riconoscendo la legittimazione alle “sole associazioni operaie”[67].
Il contrasto giurisprudenziale e il richiamo ad altre decisioni che suscitavano perplessità[68] spingono la ricerca verso la individuazione di “quali possibilità può esservi di applicare”, a vantaggio degli interessi collettivi speciali, le “disposizioni che regolano l’esercizio del ricorso amministrativo”[69] e, quindi, se gli interessi collettivi speciali o di classe possano essere sussunte sotto l’interesse di individui o di “enti morali giuridici”.
Intanto, l’Autore affronta la problematica, ancora oggi in attesa di una sistemazione soddisfacente, della “individualizzazione” degli interessi tutelati innanzi al giudice amministrativo perché: a) l’interesse non è esplicitamente riconosciuto, a differenza del diritto soggettivo, da una norma di diritto positivo, ma “è desunto da un complesso di fatti apprezzabili variamente e con criteri di valutazione soggettiva” e si sostanzia in un vantaggio personale conseguibile da una determinata linea di condotta di altro soggetto giuridico, la pubblica amministrazione[70]; b) l’interesse assume intensità e gradazioni diverse, per cui bisogna accertarne la misura per stabilire se meriti di essere preso in considerazione; c) la sfera degli interessi è più vasta, rispetto ai diritti soggettivi, essendo sufficiente la violazione di “una norma di diritto obiettivo che si ritiene dannosa, ed inoltre non è sempre facile scorgere su chi debba principalmente ricadere il danno, che si pretende derivato dall’atto amministrativo”[71].
Il discorso è condotto in contrapposizione ai caratteri del diritto soggettivo con la conclusione che, mentre per il diritto vale il brocardo “fiat iustitia pereat mundus”, “per l’interesse vale il principio opposto e cioè che l’interesse particolare intanto può farsi valere, in quanto esso sia non soltanto lecito, ma conciliabile con l’interesse pubblico il quale, in confronto di quello, deve avere sempre la prevalenza”[72].
L’interesse collettivo può giovarsi della tutela dell’interesse fatto valere dal singolo qualora l’amministrazione, di fronte ad una sentenza di accoglimento, decida di estendere il giudicato anche ai soggetti estranei al giudizio, ma si tratta di un obbligo “morale e politico” non giuridico, per cui il ricorso individuale non può tutelare giuridicamente gli interessi collettivi. Deve, comunque, trattarsi di ricorso per legittimità – che attiene alla violazione del diritto oggettivo – e non per merito nel quale vi è uno “speciale esame della fattispecie, in cui si devono vagliare le istanze del ricorrente in base a ragioni di convenienza e di opportunità le quali, variando da caso a caso”, attengono specificamente all’interessato[73].
Un diverso approccio può riguardare gli atti amministrativi che hanno una “portata più ampia, indirizzandosi alla generalità dei cittadini od anche solo a speciali categorie di persone, ma con carattere di norma generale”[74].
E, quindi, è presa in esame la questione sulla impugnabilità dei regolamenti, riportando criticamente le diverse tesi che li ritengono non impugnabili[75] e concludendo per la loro impugnabilità[76] sin dalla loro adozione, senza necessità che vengano assunti provvedimenti di attuazione.
Secondo Bonaudi, l’annullamento del regolamento riguarda “tutte quelle categorie di persone che il regolamento contempla”[77], ma non si ha una efficacia della sentenza oltre l’interesse individuale del ricorrente perché non è un “mezzo giuridico adeguato per la tutela dell’interesse collettivo”, anche se “offre una maggiore possibilità di richiamare l’attenzione dell’amministrazione sull’atto viziato”[78].
Bonaudi espone alcuni casi nei quali, in via di eccezione, la tutela esercitata dal cittadino, per disposizione normativa, si estende a tutti i soggetti appartenenti a quella speciale categoria[79] e conclude affermando che, in generale, la tutela dell’interesse collettivo può operarsi “soltanto indirettamente e occasionalmente e solo quando siffatto interesse coincide con l’interesse individuale” e, anche in questo caso, le decisioni “non possono avere forza obbligatoria per l’autorità amministrativa”, facendo stato tra le parti del processo[80].
Nella parte relativa all’azione degli enti, Bonaudi passa in rassegna gli enti aventi personalità giuridica che esprimono degli interessi collettivi speciali e considera: le istituzioni per la tutela di interessi professionali, tra cui le Camere di Commercio alle quali va riconosciuto il potere di ricorrere contro i provvedimenti amministrativi lesivi degli interessi dei commercianti e degli industriali (ma non del singolo commerciante o industriale); gli Ordini di chi esercita le professioni liberali, costituiti in Collegi con personalità giuridica, il cui prototipo è costituito dall’Ordine degli avvocati e procuratori: ma la giurisprudenza ha negato la possibilità di ricorrere per tutelare gli interessi collettivi delle rispettive categorie professionali anche se Bonaudi (con lungimiranza) ha rilevato che “non è troppo ardita la previsione che in epoca non lontana le associazioni professionali siano gli organi naturali di rappresentanza legale degli interessi collettivi di classe”[81].
A maggior ragione, i Comitati e le associazioni di fatto, se manca la “erezione in ente”, non possono far valere in giudizio gli interessi collettivi per i quali si sono riuniti.
Bonaudi, comunque, dopo una nutrita casistica, nella convinzione che gli interessi collettivi speciali non possono rimanere privi di tutela, enuclea dalla legislazione italiana e francese una tendenza a dare corpo e tutela agli interessi collettivi sostituendo l’azione della collettività a quella dei singoli. Infatti, l’interesse individuale è il più delle volte di natura economica o patrimoniale, ed è transeunte, legato, al massimo, alla vita del singolo, mentre “gli interessi collettivi si svolgono in una sfera più vasta e possono avere un contenuto eccedente il fine egoistico-economico per assurgere a fini d’indole morale” e “le collettività, considerate come entità in sé, indipendentemente dai singoli che concorrono a costituirle, hanno o possono avere una durata indefinita, eccedente il periodo normale della vita umana e possono, di conseguenza, avere interessi di indole permanente”[82].
La diversità quantitativa, ma soprattutto qualitativa, degli interessi collettivi per i quali, all’epoca, Bonaudi cerca con difficoltà una base di diritto positivo per affermarne la (sicura) tutela giuridica, spinge l’Autore ad un invito rivolto alla giurisprudenza del giudice amministrativo affinchè apra le porte della legittimazione processuale ai portatori degli interessi collettivi[83] ed al legislatore per il riconoscimento della loro tutela.
Questa ricerca di Bonaudi è stata pressoché ignorata dalla dottrina amministrativistica, salvo significative eccezioni[84], anche se, a partire dagli anni settanta del secolo scorso, vi è stata una particolare attenzione a questo tema[85].
Il rilievo è anche di un costituzionalista che, occupandosi dell’argomento, ha constatato quanto sia poco conosciuto dalla più recente dottrina il lavoro di Bonaudi, nonostante la sua impostazione “sorprendentemente moderna”[86].
Maggiore considerazione e interesse ha suscitato l’opera presso i processualcivilisti che hanno definito le riflessioni di Bonaudi sugli interessi collettivi, dimensione superindividuale di nuovi interessi emergenti, a dir poco moderna[87]; uno studio che, sebbene del 1911, già dimostra, per un verso, una “spiccata sensibilità per la tematica” e, per altro verso, “quanto impervia fosse la strada che occorra… percorrere per superare la logica della tutela esclusivamente individuale”[88].
Questa monografia si eleva rispetto agli altri lavori di Bonaudi che ha avvertito, precocemente, la rilevanza sociologica ed economica degli interessi settoriali che si coagulano in una collettività di soggetti e che non possono essere ignorati dall’ordinamento che deve assicurare loro una tutela che non può essere soddisfatta con quella individuale dei soggetti che si aggregano per la diversità, qualitativa e quantitativa, degli interessi una volta che confluiscono in un’organizzazione più vasta.
La tutela a cui ha pensato Bonaudi è quella innanzi al giudice amministrativo che muoveva i primi passi[89] in un processo non ancora ben strutturato e nell’incertezza delle soluzioni possibili, tutte da sperimentare sul campo.
La tutela degli interessi collettivi speciali passava necessariamente per l’analisi delle situazioni legittimanti stabilite dal dato normativo: l’interesse individuale e quello degli enti dotati di personalità giuridica. La ricerca è stata costretta in questa morsa che non dava spazio a organizzazioni, aggregazioni ed enti di fatto i quali solo attraverso l’azione del singolo o di un ente personificato potevano ottenere soddisfazione dei superiori interessi collettivi non rappresentati, se non in via di fatto, qualora l’amministrazione avesse deciso di estendere un’eventuale sentenza di annullamento “in via politica o morale” a coloro che versavano nella stessa situazione del ricorrente vittorioso, sempre che l’interesse collettivo fosse costituito da una mera somma degli interessi individuali componenti il gruppo, e non fosse assurto ad un livello che, superando i singoli interessi egoistici ed economici, avesse assunto una consistenza qualitativamente diversa[90].
Bonaudi ha avuto chiara la problematica di fondo degli interessi collettivi, ne ha individuato la nozione, ha avvertito la necessità che dovessero essere tutelati, ma non poteva giungere all’effettiva tutela perché non erano maturi né i tempi, né il processo amministrativo.
Bonaudi ha avuto una grande sensibilità ed è stato un antesignano di una questione che si è imposta ai giuristi dopo oltre un cinquantennio.
- Comune, Provincia, istituzioni pubbliche di beneficenza nel diritto positivo italiano.
Questa opera è stata preceduta da alcuni scritti sui provvedimenti di polizia e sulla finanza locale, pubblicati nella “Riforma sociale” negli anni 1903-1910[91], che hanno costituito la base per l’approfondimento degli studi sull’amministrazione locale e, soprattutto, comunale culminati nel “Comune, Provincia, istituzioni pubbliche di beneficenza nel diritto positivo italiano”[92], ponderoso volume di 566 pagine.
La rivista di dottrina e giurisprudenza amministrativa, “Il Municipio Italiano”, nei fascicoli nn. 23-24 del 15-31 dicembre 1921 (ma pubblicati nel 1922) segnala nel Bollettino bibliografico (pag. 198), l’opera di Bonaudi rilevando che “Comune, Provincia, istituzioni pubbliche di beneficenza nel diritto positivo italiano”, oltre ad un’esposizione sistematica, tratta la materia “con un unico intendimento ed un’unica finalità” teorica-pratica[93] ove “la citazione bibliografica è assai abbondante e, come avverte lo stesso Autore, essa è limitata agli scritti di autori italiani”[94]. Questa opera è “reputata fra le più complete ed informate”, dirà Consacchi nella commemorazione tenuta nel 1954[95].
Successive nel tempo, ma su tematiche tipiche dell’ente locale, Bonaudi ha redatto due voci enciclopediche: una, “Podestà”, con Gian Piero Bagnetti[96] e l’altra, “Sindaco”, con Emilio Albertario[97].
- Gli scritti di diritto costituzionale.
Gli studi di Bonaudi si sono rivolti anche al diritto costituzionale e, più in generale, al diritto pubblico.
È del 1929, un saggio su “L’ordinamento costituzionale nella nuova concezione dello Stato”[98] e, dell’anno successivo, “Il territorio dello Stato (a proposito della Città del Vaticano)”[99]. In quest’ultimo lavoro, Bonaudi sostiene che il “territorio” dovesse essere messo in relazione non con “terra”, ma con il termine latino di “terreo” o “territo” che spiega l’attività di conquista e di difesa dello spazio-territorio, ritenuto vitale per la collettività[100]. Rileva che il territorio è un elemento necessario che serve per l’esistenza dello Stato[101] e, in modo originale, che la posizione del territorio muta per lo Stato a seconda del punto di vista, interno o internazionale: all’interno, il territorio può essere visto come un diritto di proprietà, ma all’esterno, è un diritto della personalità dello Stato[102].
Dello stesso anno è il lavoro monografico “Dei limiti della libertà individuale”[103].
Bonaudi ha pubblicato i saggi: “Il Governo rappresentativo ed i gabinetti di coalizione”[104]; “L’azione dello Stato in materia scolastica attraverso i tempi”[105]; “Il potere politico e la divisione dei poteri”[106].
Quindi, diverse edizioni sul diritto pubblico nel periodo che va dal 1935 al 1946: “Lezioni di istituzioni di diritto pubblico”[107]; “Principi di diritto pubblico”[108]; “Istituzioni di diritto pubblico”[109].
Queste opere sono prevalentemente dirette agli studenti, tranne “I principi di diritto pubblico” in cui l’Autore avverte di aver così denominato il lavoro “perché, più che all’esposizione in compendio dell’ordinamento positivo del diritto pubblico italiano, esso è diretto a porre in rilievo i caratteri fondamentali del diritto pubblico in genere” e, frutto dei tempi (1936), “soprattutto vuole prospettare gli orientamenti e gli sviluppi che il diritto pubblico ha assunto in questi ultimi tempi, allontanandosi, sotto l’influenza dei nuovi fattori politici e sociali, da quella che era la concezione politica e la dottrina giuridica dominante, sotto l’impero dei principi liberali e democratici, che si ispiravano al dogma della sovranità popolare”[110].
- Dei limiti della libertà individuale. Parti I, II e III.
La monografia “Dei limiti della libertà individuale” edito da “La Nuova Italia Editrice”, Perugia-Venezia, nel 1930, anno VIII dell’era fascista, è stata pubblicata quando Bonaudi era “professore stabile di diritto costituzionale nella Facoltà fascista di scienze politiche” e, da un lato, segna lo spartiacque tra gli studi di diritto amministrativo e quelli di diritto costituzionale, e, dall’altro lato, è a cavallo delle due discipline.
È un lavoro centrato sui limiti delle libertà individuali, costituzionalmente garantite, e, nello stesso tempo, l’impostazione fortemente positivistica porta Bonaudi ad esaminare aspetti in gran parte di diritto amministrativo poiché espone problematiche sull’atto politico, sugli interventi degli atti amministrativi del potere esecutivo limitativi della libertà individuale, sulla sindacabilità di tali atti e così via.
Si può dire che la materia, ad oggetto costituzionalistico, è affrontata anche con il bagaglio acquisito dall’amministrativista.
Il volume è uno spartiacque anche tra “due” Bonaudi: il primo, positivista ed attento alla tutela dei diritti di libertà dei singoli e dei gruppi collettivi, il secondo, sempre positivista, ma intriso della concezione dello Stato fascista ai cui fini generali, incarnati nell’azione del Governo, vengono subordinati tutti gli altri interessi, individuali e collettivi speciali, nonchè i diritti di libertà.
Il volume è preceduto dalla “Avvertenza” in cui si precisano tre cose: – con lo studio “in relazione al nuovo ordinamento costituzionale dello Stato fascista, vengono presi in esame taluni problemi relativi ai limiti della libertà individuale”; – lo scritto è “stampato da oltre un anno, ma solo oggi, per circostanze affatto indipendenti dalla volontà dell’autore, esso vede la luce”; – il ringraziamento al prof. Sergio Panunzio “Commissario del Governo presso la Facoltà fascista di Scienze Politiche dell’Università di Perugia, al cui benevolo interessamento debbo la pubblicazione di questo mio saggio sotto gli auspici della Facoltà stessa”.
Il ritardo nella pubblicazione è da attribuire, probabilmente, dato il periodo storico, al tema trattato e alle perplessità che emergono nel libro per gli accenni alla lotta all’urbanesimo, alla legge 31 gennaio 1926 n. 108 sui c.d. “fuorusciti”, all’istituzione del servizio speciale di investigazione politica e alla vigilanza sulle associazioni e corporazioni mantenute con il contributo dei lavoratori. In queste ultime pagine del libro (da pag. 191 a 203), Bonaudi evidenzia che “l’ingerenza dello Stato nella sfera dell’attività individuale assume un aspetto che merita di essere attentamente considerato, in quanto può essere suscettiva di notevoli sviluppi, in ordine alla limitazione della libertà individuale”[111]. L’Autore si riferisce, in particolare, alla vigilanza sulle associazioni e corporazioni dei lavoratori, ma, nella “Conclusione”[112], per le riforme legislative attuate “in questi ultimi tempi”, non solo per le novità sulla vigilanza riguardante le associazioni dei lavoratori, richiama “l’attenzione degli studiosi del diritto pubblico sui nuovi indirizzi che, di fronte all’assetto sociale e politico degli Stati moderni, assumono taluni dei problemi fondamentali, fra i quali, non ultimo, è quello che si attiene al regime della libertà individuale”.
Evidentemente, la posizione è sembrata critica verso le limitazioni, sempre più incisive, che il fascismo stabiliva nei confronti delle libertà individuali e l’opera è stata guardata con sospetto, superato solo con l’intervento di un autorevole esponente del regime, il prof. Sergio Panunzio, a cui Bonaudi rivolge parole di gratitudine.
Il lavoro di 212 pagine, compreso l’indice sistematico di 9 pagine, è diviso in quattro parti, ma non vi è un titolo per ciascuna di esse, mentre i 155 paragrafi (li si può denominare così) che lo compongono, generalmente brevi, recano nell’indice sistematico, per ognuno, la questione trattata, per cui si può avere immediata contezza dei temi della pubblicazione.
La prima parte (pagg. 1-26 di 21 paragrafi) si può definire di delimitazione dell’ambito di indagine, di precisazione su alcuni concetti di base e di esposizione del metodo.
Bonaudi osserva che la libertà individuale è tema che facilmente può indurre a considerazioni filosofiche, sociologiche e politiche, ma il giurista deve indagare come è disciplinata dal diritto positivo statale, senza farsi influenzare dalla scuola del diritto naturale che ritiene la libertà un diritto innato dell’individuo: la libertà, invece, è un diritto “solo ed in quanto l’ordinamento stesso lo ritenga degno di riconoscimento e di protezione”[113].
Nello stesso tempo, non si può prescindere dallo stato naturale nel quale la libertà individuale preesiste alla disciplina giuridica e consiste “nella facoltà di agire ed operare secondo la volontà propria di ciascun individuo” che “non può né deve porsi in contrasto con la volontà prevalente della collettività, personificata nello Stato”[114].
Nel rapporto con lo Stato, questi stabilisce dei limiti alla libertà individuale (che non trova “titolo” nella legge perché la libertà è estrinsecazione naturale dell’esistenza umana) intervenendo in quattro diversi modi con: divieti; affermazione di liceità, pur “dichiarandosi indifferente di fronte ad essi”; riconoscimento che è socialmente utile, rispettandola ed assicurandone “il rispetto anche in confronto agli altri consociati”; dichiarazione che è necessaria ai fini della “collettività personificata nello Stato e renderla, come tale obbligatoria”[115]. Nel primo e nel quarto caso, “non può ammettersi libertà”[116], mentre l’attività socialmente indifferente e quella socialmente utile (seconda e terza ipotesi) è libera. Per la terza, però, vi è l’ingerenza dello Stato diretta a disciplinarne l’esercizio, per cui è “sensibilmente minore la sfera di libertà”[117], ma entro i limiti stabiliti è “protetta in modo specifico e si è trasformata in diritto”[118].
L’attività socialmente indifferente (secondo caso) rimane “semplicemente un’attività lecita, nella quale lo Stato non si ingerisce ed alla quale egli non accorda altro rispetto che quello nascente dall’ordine naturale delle cose”[119]; soltanto questa attività è libera, ma non è un diritto, bensì “uno stato di fatto” che può subire limitazioni e, quindi, cessare o diminuire qualora lo Stato la vieti o la assoggetti a determinati vincoli se la ravvisi socialmente utile o la imponga, se ritenuta necessaria e, quindi, obbligatoria.
La libertà individuale ed i suoi limiti dipendono dall’ordinamento giuridico ed è assicurata se lo Stato ritenga l’attività indifferente ai suoi fini, ma non è un diritto che, invece, si costituisce quando si passi ad una presa in considerazione da parte del diritto positivo, sempre che non la vieti o la renda obbligatoria; il che dipende dai tempi e dalle contingenze, per cui è difficile determinare la sfera dell’attività indifferente che dà luogo “in confronto allo Stato, alla libertà individuale”[120].
Bonaudi esamina alcune tesi diffuse dalla rivoluzione francese e che contrappongono i diritti di libertà individuali allo Stato, come rivendicazione e reazione contro i regimi assoluti, e ritiene che siano minate da un doppio errore: la libertà individuale non è un diritto originario che può essere invocato contro l’autorità del potere sovrano e il diritto, attribuito dall’ordinamento giuridico, non può essere contrapposto allo Stato, in caso di violazione, perché è lo Stato stesso che lo riconosce, per cui non è possibile un conflitto fra i diritti individuali alla libertà e lo Stato[121].
“La libertà individuale esiste in quanto lo Stato la riconosce e la tutela, e la sua estensione ed i suoi limiti sono determinati dallo Stato stesso”[122].
In conseguenza, in base all’ordinamento giuridico occorre determinare i principi ai quali si conforma nei riguardi della libertà individuale ed il metodo da seguire è quello dell’esame del diritto positivo statale e non quello di formulare astratte teoriche sulla libertà per confrontarle poi con l’ordinamento giuridico per verificare la conformità.
Bonaudi precisa che la sua indagine non riguarda tutto il campo della libertà individuale, ma è circoscritto alla parte relativa ai limiti e distingue tra libertà civile e libertà politica, significando che la prima si svolge in diversi ambiti (economici, religiosi, scientifici etc.) ed è normalmente esercitata in una zona indifferente per lo Stato, mentre la libertà politica è svolta per fini collettivi in cooperazione e coordinazione con lo Stato per cui non può essere “indifferente” e lo Stato può intervenire limitandola o vietandola se in contrasto con le proprie finalità.
Le limitazioni della libertà sono stabilite innanzitutto nella norma giuridica in via generale e, poi, vengono tradotte in atto nei casi concreti in esecuzione della norma, per cui occorre preliminarmente stabilire in quale misura esse siano consentite dall’ordinamento giuridico, tenendo presente che, nei rapporti tra individuo e Stato, la volontà individuale deve cedere a quella statale che “è superiore alla prima sia quantitativamente che qualitativamente”[123].
Nella seconda parte (pagg. 26-41, paragrafi 22-35), Bonaudi si domanda a quale potere è attribuita la possibilità di limitare la libertà individuale e rileva che lo può fare ciascuno dei tre poteri, ma occorre considerare il “momento originario e non i suoi atti di esecuzione”[124] e quindi la norma giuridica e gli atti che la pongono. La prima fonte è nelle leggi fondamentali dello Stato, Statuti e Costituzioni, anche se stabiliscono le guarentigie della libertà individuale più che i limiti di essa che vanno individuati nelle leggi ordinarie. Sono sicuramente limitatrici delle libertà le leggi penali che prefigurano le attività illecite e, se le individuano in modo espresso, non pongono problemi in ordine ai limiti. Ne sorgono, invece, quando le limitazioni sono subordinate all’accertamento di determinate condizioni di fatto che possono essere oggetto di interpretazioni non univoche come motivi di ordine pubblico, di ordine politico, di sicurezza pubblica, di pubblica quiete etc. Questi accertamenti possono essere richiesti dalle norme penali, ma anche dalle norme attributive di poteri all’autorità amministrativa e possono essere disciplinati, con maggiore o minore discrezionalità, e subordinati a controlli di garanzia a seconda del periodo storico e del tipo di Stato (feudale, patrimoniale, di polizia, costituzionale moderno etc.).
Negli Stati liberi, il principio di uguaglianza non consente limitazioni in considerazione della classe o del ceto sociale cui appartiene l’individuo, come affermato dall’art. 25 dello Statuto albertino.
I limiti alla libertà individuale, poi, possono cambiare per i cittadini dello stesso Stato se vi è, anziché un sistema accentrato, un sistema decentrato che non assicura l’uniformità in tutte le parti del territorio.
Le limitazioni alla libertà personale, all’infuori di una norma che le determini a priori, possono intervenire quando si verifichi il c.d. stato di necessità (vengono portati, come esempi, il terremoto di Messina e Reggio Calabria ed i moti rivoluzionari), con conseguente attribuzione all’amministrazione di una sfera di discrezionalità, non potendo essere stabiliti preventivamente i limiti.
Bonaudi evidenzia diversi livelli normativi di limiti della libertà individuale: a) disposizioni di carattere generale preventive poste da leggi formali, ma anche solo materiali, come gli atti amministrativi regolamentari che pure garantiscono i cittadini perché sono preventivi e devono rispettare le leggi formali; b) provvedimenti concreti in attuazione delle disposizioni di carattere generale, quando ricorrano le condizioni prescritte dalla norma giuridica, che si distinguono in tre sottospecie: semplici atti di esecuzione, frutto di discrezionalità, ordinanze emanate in stato di necessità che possono essere praeter o contra legem e non vi è garanzia preventiva.
La terza parte (pagg. 41-155, paragrafi 36-116) è quella più ampia ed è dedicata all’esposizione delle garanzie della libertà individuale e come i tre poteri possano limitare la libertà individuale, con particolare attenzione agli atti del potere esecutivo.
La libertà è garantita verso i terzi e nei confronti dello Stato che, però, può modificare la norma limitando la libertà. Sono così stati concepiti dei correttivi per impedire che lo Stato modifichi le norme attributive della libertà, adottando Costituzioni o Statuti che, storicamente, sono intervenuti in due modi: impegno derivante dall’incontro della volontà dei cittadini e di chi esercita il potere sovrano, come avvenuto nell’ordinamento inglese[125] ovvero con un’autolimitazione dello Stato che spontaneamente – anche se spesso sotto la spinta della pressione popolare – dichiara diritti di libertà a favore dei cittadini, come accaduto nell’Europa continentale.
Un tale freno, osserva Bonaudi, funziona se l’organo che esercita il potere legislativo non possa modificare con una legge ordinaria lo Statuto, ma solo con una speciale procedura oppure se è previsto un apposito organo costituente per intervenire sulle leggi fondamentali.
L’Autore rivolge lo sguardo all’Italia e rileva che lo Statuto albertino, sebbene rechi nel preambolo che è una “legge fondamentale perpetua ed irrevocabile della Monarchia”, in effetti non può essere tale sia perché è contrario ad ogni concezione scientifica “il ritenere che vi possano essere istituzioni umane e quindi ordinamenti politici destinati ad una perpetua immutabilità”[126], per cui perpetuità ed irrevocabilità vanno intese in senso relativo alle “condizioni politiche e sociali del momento storico, e considerando le cause che lo avevano determinato e le finalità alle quali era diretto”, sia perché può essere formalmente modificato da una legge ordinaria, salvo che alcuni principi che rappresentano la vera affermazione politica (monarchia rappresentativa, con potere legislativo attribuito ad una Camera elettiva e ad un Senato di nomina regia) siano ritenuti l’essenza non modificabile della legge fondamentale.
Quanto alle libertà, nello statuto vi sono enunciazioni che hanno un particolare rilievo (art. 24: godimento dei diritti civili e politici e accesso alle cariche civili e militari per tutti; art. 26: riserva legislativa per i casi di arresto e traduzione in giudizio; art. 27: inviolabilità del domicilio; art. 28: libertà di stampa; art. 29: inviolabilità del diritto del debito pubblico e inviolabilità dell’impegno dello Stato verso i creditori), ma sono tutte limitate a mò di eccezioni o di esercizio dal rinvio alle leggi ordinarie[127].
Per Bonaudi, la legge può disciplinare la libertà individuale con misure più restrittive “sempre che concorrano circostanze le quali siano la loro giustificante”[128] che devono avere due requisiti: materiale, conformità alle esigenze sociali del momento storico, ma che, se stabilite dal potere legislativo, non sono discutibili dal punto di vista giuridico; formale, emanate dall’organo competente e nelle debite forme.
La limitazione della libertà individuale è conseguenza necessaria della preminenza dello Stato e dell’ente pubblico sui privati e può essere stabilita da ognuno dei tre poteri, anche se in modo diverso, essendo specchio della funzione esercitata[129].
Bonaudi, quindi, centra l’attenzione sugli atti del potere esecutivo, divenuto il vero propulsore di ogni attività in cui si realizza la sovranità dello Stato, ripercorrendo le tappe che hanno portato a questa situazione, a partire dalla rivoluzione francese[130], e rileva che limitazioni alla libertà personale possono essere poste dal potere esecutivo e non possono “essere circoscritte entro i confini di. una semplice esecuzione della legge”[131].
Il nodo della questione è, allora, la determinazione della sfera legittima di attività del potere esecutivo in materia dei limiti alla libertà individuale.
L’Autore prende allora in esame: la normativa di pubblica sicurezza e le misure che può adottare l’amministrazione che, nel concreto, può portare a disuguaglianze e diversità di risultati; la possibilità che la legge conferisca espressamente al potere esecutivo di provvedere, con regolamento, ad un’ulteriore specificazione di quanto si dispone in via generale (regolamenti di esecuzione) o di disciplinare discrezionalmente la materia (regolamenti autonomi) o di delegare la disciplina in base a principi predeterminati (regolamenti delegati); al di fuori dei regolamenti, la previsione legislativa che consente al potere esecutivo di “provvedere come esso reputi più conveniente e cioè sia di disciplinare a priori la propria attività, e cioè autolimitandola, come avviene ogni qual volta l’autorità amministrativa creda opportuno di intervenire con provvedimenti di ordine generale, sia invece adottando provvedimenti specifici caso per caso”[132].
Bonaudi si domanda se una “materia nuova” debba disciplinarla inizialmente la legge o può farla il potere esecutivo e riporta l’opinione di Ranelletti[133] secondo cui qualunque norma giuridica si risolve sempre in una limitazione della libertà personale, con la conseguenza che dovrebbe affermarsi che rientri nella competenza degli organi legislativi; Bonaudi è di diverso avviso: bisogna distinguere se le norme dettate dall’esecutivo nella nuova materia si conformino ai principi di diritto positivo ovvero siano in contrasto; nel primo caso, il Governo può provvedere, nel secondo no.
Quanto ai motivi che consentono la posizione di limiti da parte del potere esecutivo, essi riguardano fini di convivenza sociale che non possono valutarsi in assoluto, né ridurli a categorie certe perché dipendono dai tempi, dalle circostanze contingenti e dagli ordinamenti politici.
Le norme che limitano la libertà fanno riferimento a motivi politici, ordine pubblico, sicurezza pubblica che sono concetti che esprimono “tutta l’elasticità di interpretazione alla quale possono andare soggetti”[134] e che varia a seconda del regime democratico o assoluto[135].
La complessità dei motivi c.d. politici rende difficile stabilire “se un provvedimento dell’autorità pubblica costituisca un semplice atto amministrativo, ovvero assurga a maggiore importanza per divenire quello che si suole designare atto politico”[136].
Bonaudi affronta la questione dell’atto politico che è insindacabile innanzi al giudice amministrativo per espressa disposizione normativa e non è soggetto a nessun controllo formale[137] e esamina ampiamente[138] le diverse tesi di dottrina e di giurisprudenza, sia amministrativa che ordinaria, richiamando l’opinione del relatore sul disegno di legge istitutivo della Sezione IV del Consiglio di Stato e sottolineando l’indeterminatezza del concetto e le limitazioni che ne derivano alla libertà personale che “possono apparire di gran lunga più gravi che non quelle provocate da altre cause”[139]. La conclusione cui giunge Bonaudi è che l’atto politico si collega ad una funzione necessaria dello Stato, al pari di quella amministrativa sottoposta al sindacato giudiziario, anche se si appuntano nei medesimi organi, rendendo difficile la distinzione in via preventiva, per cui l’atto politico va individuato nel concreto.
La monografia prende in considerazione i presupposti su cui si basano i provvedimenti di pubblica sicurezza che incidono sui diritti di libertà ed esamina i concetti elastici di: ordine pubblico e le sue violazioni tra le previsioni del codice penale e le misure amministrative di competenza della pubblica amministrazione[140]; ordine pubblico; sicurezza pubblica. Vengono, quindi, evidenziate le diversità nell’apprezzamento di questi presupposti nei diversi tipi di Stati (Stato di polizia, Stato di diritto liberale, Stato autoritario fascista).
- Dei limiti della libertà individuale. Parte IV. Confronto con i diritti di libertà trattati nei principi di diritto pubblico.
La quarta parte (pagg. 156-203, paragrafi 117-155) ha ad oggetto i limiti alla libertà individuale nello Stato fascista.
Bonaudi evidenzia che la concezione dello Stato fascista si contrappone a quella liberale perché quest’ultima considera i diritti di libertà “nella loro astrattezza”[141], prescindendo dai limiti; il fascismo antepone ad ogni interesse particolare quello dello Stato, pone l’individuo in una posizione di subordinazione e riconosce “alla libertà individuale non tanto una ragion d’essere per sé stante, quanto piuttosto un attributo o facoltà, mercè i quali la libertà stessa deve essere valorizzata, in armonia con gli interessi della collettività”[142]. La necessaria interdipendenza fra l’interesse individuale e quello sociale conduce all’uomo sociale quale componente di una collettività che non può prescindere, nell’esercizio dei suoi diritti individuali, da quelli che sono anche i suoi doveri sociali.
Buonaudi, rimarcato che la vera determinazione dei diritti dei cittadini deve ricercarsi non solo nella Costituzione, ma anche nel complesso della legislazione positiva, rileva che le dichiarazioni costituzionali sono un necessario orientamento nell’interpretazione dubbia ed in favore delle libertà e ricorda l’esperienza statunitense e francese, sottolineando che nello Stato di diritto il potere non è più esercitato nell’interesse del sovrano, ma del popolo. Negli Stati moderni, lo sviluppo dello spirito associativo ed il moltiplicarsi dei servizi pubblici hanno determinato una limitazione della libertà individuale sovrapponendosi al concetto meramente economico quello politico del socialismo.
I nazionalismi, in contrapposizione ed evoluzione, si sono accentuati dopo la (prima) guerra mondiale e molte delle idee professate dalla dottrina nazionalista hanno costituito il fondamento dello Stato fascista che ha preso atto che tra lo Stato e l’individuo vi sono gradi intermedi di gruppi e di enti “mercè i quali si formano successivamente sfere di interessi ognora più vasti, che finiscono poi in una sfera superiore, la quale tende a coincidere con quella dello Stato”[143].
Queste entità intermedie, con cui l’individuo viene in contatto, ancor prima degli atti dello Stato, limitano la libertà a cominciare dall’ambiente domestico (patria potestà e minore), dalla Scuola (poteri del docente e del dirigente scolastico) e dal lavoro (datore di lavoro, orario etc.), passando alle associazioni e agli enti di cui volontariamente si decide di far parte, per non parlare di chi entra in un ordine religioso con le sue regole di privazione o in un partito politico o in associazioni di ricreazione e di svaghi (bande musicali, circoli sportivi), comprendendo anche le istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza, gli ospizi e gli istituti di carità, gli enti autarchici dell’amministrazione locale, gli enti parastatali e così via.
Un livello di ulteriore limitazione è rappresentato dal servizio militare di leva e dagli obblighi tributari.
In questa società così complessa e limitativa della libertà, lo Stato fascista tutela libertà e proprietà individuale, pone la realizzazione delle esigenze associative della vita moderna e, attraverso il sindacalismo nazionale, crea il nuovo tipo di Stato corporativo.
La trasformazione di fondo del sistema, rispetto allo Stato liberale, è profonda. Lo Stato liberale non si inserisce nell’attività del singolo che è lasciato libero purchè non leda le altrui (pari) libertà, né nei conflitti sociali e collettivi, intervenendo solo se si ricorra a mezzi illeciti o il conflitto si trasformi assumendo contenuto politico, con possibile ripercussione (violenta o illecita) sulla vita dello Stato.
Il fascismo, invece, non è passivo (anche) di fronte ai conflitti economici, perseguendo finalità superiori alle quali la società “deve tendere con il concorso armonico di tutte le forze che vivono nello Stato”[144]. La concezione fascista dello Stato non poteva che respingere “come antisociale e quindi come antistatale, l’opinione che gli individui possano ritenersi indifferenti a quanto non abbia riferimento diretto al loro vantaggio personale, e proclamarsi invece che l’individuo, appunto perché vive nella società statale e da questa ne ritrae benefici e vantaggi, deve analogamente avere doveri ed obblighi verso la medesima”[145].
Da qui l’intervento della legislazione fascista anche sul regime individualistico della proprietà, limitando la libertà del proprietario di disporre “a proprio piacimento”[146], allo scopo di conseguire finalità sociali. Sono stati adottati provvedimenti per una maggiore produttività del terreno e per aumentare l’estensione delle terre coltivate, con “incoraggiamenti dello Stato all’iniziative private, mediante p.e. contributi e sussidi”, ma anche imponendo “ai singoli proprietari determinati comportamenti, la inosservanza dei quali produce sanzioni coattive”[147].
Il nuovo orientamento dello Stato viene colto in altri provvedimenti come la facoltà attribuita ai Prefetti e prevista in un disegno di legge approvato dal Consiglio dei Ministri il 2 dicembre 1928, di emanare ordinanze che possono vietare ai singoli di stabilirsi in una città, per combattere il fenomeno dell’urbanesimo. In proposito, Bonaudi osserva che questa “limitazione della libertà potrebbe sembrare meno conforme ai principi ai quali s’informa il nostro diritto positivo”[148], ma giustifica questa limitazione date “le finalità alle quali tendono i provvedimenti contro l’urbanesimo, in quanto rientrano in uno schema generale di azione statale, diretta a rinvigorire il complesso della vita nazionale, in rapporto all’incremento demografico”[149].
Bonaudi rileva che, con lo Stato fascista, le misure di prevenzione hanno assunto una speciale importanza e indica alcuni provvedimenti legislativi.
La legge 25 novembre 1926 n. 2008 che, sul piano della repressione, ha aggravato le pene e ripristinato la pena di morte e, in via di prevenzione, ha escluso che l’attività individuale possa porsi in contrasto con il fine dello Stato che “in ogni momento storico, si concreta nell’azione di governo”[150] e le associazioni e gli enti che “in regime liberale, potevano ritenersi autorizzati o leciti, in regime fascista lo saranno soltanto se essi siano giudicati tali che la loro azione sia ritenuta conciliabile con le finalità statali”[151]. Ne consegue che è previsto lo scioglimento delle associazioni o enti che svolgano attività contraria “all’ordine nazionale dello Stato” e, se non vengono sciolti o vengono ricostituiti, si incorre nelle maglie del codice penale.
La legge c.d. sui “fuorusciti” del 31 gennaio 1926 n. 108, stabilisce che, se un cittadino italiano commette all’estero fatti diretti a turbare l’ordine pubblico italiano che possano portare danno agli interessi italiani o offendere il buon nome e il prestigio dell’Italia, si può disporre la perdita della cittadinanza, eventualmente accompagnata dal sequestro dei beni per un tempo determinato e, nei casi più gravi, la confisca.
Bonaudi considera la singolarità del sequestro e della confisca, non legati alla perdita della cittadinanza, che assumono il carattere di sanzione afflittiva: è una vera pena amministrativa.
Altra normativa di limitazione della libertà è il D.L. 6 novembre 1926 n. 1203 che istituisce il servizio speciale di investigazione politica “avente per scopo la difesa dell’ordine nazionale dello Stato”[152] che è servizio parallelo e distinto da quello dell’autorità ordinaria di pubblica sicurezza. L’investigazione politica è volta a vigilare sulle attività antistatali che, per il “loro modo clandestino, non potrebbero essere facilmente identificate coi mezzi ordinari”[153]. Bonaudi, pur perplesso, giustifica anche queste limitazioni che riguardano l’attività di manifestazione del pensiero e dell’iniziativa politica perché vanno ritenuti “in armonia al nuovo indirizzo della funzione statale”[154].
L’ultimo provvedimento riportato nella monografia è il D.L. 25 gennaio 1924 n. 64 che sottopone alla vigilanza dell’autorità politica della Provincia le associazioni o corporazioni di qualsiasi natura, mantenute col contributo dei lavoratori. La vigilanza comporta ispezioni, inchieste sino alla revoca ed annullamento degli atti adottati nonchè lo scioglimento dei consigli di amministrazione, con la nomina di un commissario anche per liquidare il patrimonio.
Lo scopo è di impedire che queste associazioni di lavoratori indirizzino la loro attività a fini politici, anziché previdenziali ed assistenziali.
Qui il Nostro si mostra quasi scandalizzato perché l’ingerenza dello Stato va ad interessare la sfera dell’attività privata “in una forma sconosciuta, per il passato, nella nostra legislazione”[155].
Infatti, questa vigilanza riguarda associazioni e corporazioni di “qualsiasi natura”, per cui anche quelle non riconosciute e di fatto che “dovrebbero, secondo le norme di diritto comunemente vigenti, essere esenti dal sindacato amministrativo, ne sono soggette al punto che i loro atti che, come tali, non possono qualificarsi altrimenti che atti privati, siccome dimananti da enti privi di una personalità di diritto pubblico non solo, ma di una personalità qualsiasi, vengono sottoposti a trattamento analogo a quello stabilito per gli atti amministrativi, quale si è appunto la revoca o l’annullamento”[156].
La conclusione di Bonaudi è che gli studiosi di diritto pubblico debbano prestare attenzione alle riforme legislative che vanno man mano assumendosi per i “nuovi indirizzi che, di fronte all’assetto sociale e politico degli Stati moderni, assumono taluni dei problemi fondamentali, fra i quali, non ultimo è quello che si attiene al regime della libertà individuale[157].
Sulla libertà individuale, Bonaudi ritorna nei Principi di diritto pubblico[158], opera a carattere manualistico, a cui dedica le pagine da 558 a 573.
L’Autore inizia la trattazione dell’argomento, partendo dal punto di vista del regime fascista sulla libertà individuale, dopo una brevissima precisazione sulla problematica, e ripercorre sinteticamente i punti salienti della ricerca svolta nel 1930, ribadendo che la “volontà individuale debba cedere alla volontà statale”[159] e che “la libertà individuale deve trovare un limite, ogni qual volta la medesima può essere di pregiudizio o di ostacolo” alla funzione dello Stato di “realizzare i fini della società politica che in esso si personifica”[160], per cui le limitazioni alla libertà personale possono “essere molteplici e di varia natura”[161].
Giustifica, quindi, le limitazioni ai diritti di libertà, anche quelli affermati dagli artt. 24 e seguenti dello Statuto albertino, come conseguenza logica del regime e passa in rassegna le relative disposizioni dello Statuto modificate dalla normativa ordinaria. L’art. 24: l’uguaglianza dei cittadini non è più tale per il titolo di preminenza riconosciuto per gli iscritti al partito nazionale fascista, anche nell’assunzione ai pubblici impieghi; l’art. 28: la libertà di stampa che è stata limitata; l’art. 29: l’inviolabilità della proprietà privata su cui erano in corso studi per la riforma della normativa sull’espropriazione per pubblica utilità che avrebbero introdotto le modificazioni ispirate ai principi affermati dalla Carta del Lavoro; l’art. 32: il diritto di riunione è soggetto a incisive misure repressive (penali) e preventive (amministrative), così come la costituzione di associazione, enti, istituzioni o partiti.
Sono limitazioni in linea con lo Stato fascista in cui l’attività individuale non può “in omaggio ai principi astratti della libertà, porsi in contrasto con quello che è il suo fine e che, in ogni momento storico, si concreta nell’azione di governo”[162].
È compito del potere esecutivo verificare, nel concreto e con ampia discrezionalità, caso per caso, il superamento dei limiti alla libertà individuale stabiliti dalla legge.
In funzione del regime fascista dello Stato, ogni limitazione ha una sua logica e, alla fine, una sua legittimità e si dissolvono le perplessità e le velate critiche espresse nella monografia sui limiti della libertà individuale. Anche la legge sui “fuorusciti” si inserisce nell’ottica del sistema e viene riportata senza alcun apprezzamento sfavorevole[163]; lo stesso è a dirsi per il servizio speciale di investigazione politica, funzionale alla difesa dell’ordine nazionale dello Stato[164]; per la vigilanza dell’autorità politica della provincia sulle associazioni o corporazioni di qualsiasi natura, mantenute col contributo dei lavoratori, ora si apprezzano le ragioni ispiratrici del provvedimento e si evidenzia l’opportunità di adottarlo a tutela della pubblica fiducia e dei lavoratori[165].
Dal 1930, in cui è stata pubblicata la monografia, al 1936, quando hanno visto la luce i principi di diritto pubblico, sono cambiate quanto meno due cose: il regime dello Stato fascista si è consolidato e gli oppositori politici sono pochi e ridotti al silenzio, se non espatriati; Bonaudi si è adeguato al sistema e, condivisa la concezione dello Stato fascista, trova legittimo e giustificabile ogni limite alla libertà individuale purché funzionale alla realizzazione dei fini dello Stato incarnati nell’azione del governo.
Già nella monografia sui limiti della libertà individuale si stenta a riconoscere l’Autore che: trattando dei provvedimenti di urgenza, si dà carico delle esigenze del cittadino di avere una “sufficiente ed adeguata difesa contro l’arbitrio o l’abuso dell’autorità”[166]; nella sospensione degli atti amministrativi, ritiene che il giudice amministrativo, oltre all’interesse pubblico, deve considerare anche l’interesse privato “ogni qualvolta i vantaggi derivanti alla pubblica amministrazione ed alla collettività dall’esecuzione dell’atto, sono soverchiati dal danno che ne risentirebbe il privato”[167]; nella prolusione su “Il problema della giustizia amministrativa nell’ora presente”, ove, nell’evidenziare che la giustizia amministrativa è la sede in cui si decide dei conflitti tra la libertà dell’individuo e l’autorità dell’ente pubblico, individua nella funzione del giudice un “doppio ufficio”, tra cui quello “diretto” a “reintegrare gli interessi disconosciuti, le libertà offese” e “definire… i limiti dell’attività della pubblica amministrazione”[168] perché la libertà civile non può essere una “vana parola”[169]; nella monografia sugli interessi collettivi, è alla ricerca di mezzi per tutelare gruppi espressione di “collettività speciali, o categorie, o classi di individui”[170].
Ancor più netto è il distacco dalle precedenti impostazioni, la parte sulla libertà individuale esposta nei “Principi di diritto pubblico”. Bonaudi soppianta nella sua visione del diritto pubblico le idee liberali dello Stato di diritto con una concezione statalistica assorbente che consente di ritenere possibile non solo la limitazione dei diritti di libertà, statutariamente riconosciuti, ma anche il loro totale svuotamento.
Buonaudi, dopo l’avvento del fascismo, non è più il giurista delle garanzie dei diritti e degli interessi dei cittadini e dei gruppi.
Non ci si può meravigliare più di tanto perché la concezione fascista dello Stato, se condivisa, non può che portare alle conclusioni cui è giunto Bonaudi.
Del resto, vi sono momenti e circostanze che rendono i diritti, anche quelli di libertà enunciati nelle Costituzioni, recessivi.
Ne è una testimonianza la recente esperienza della pandemia da COVID 19 che, in nome della tutela della salute dei cittadini, ha visto fortemente limitare, se non sopprimere, importanti diritti sanciti dalla Costituzione della Repubblica italiana del 1948 che è rigida, essendo previsti una particolare e complessa procedura per la sua revisione (art. 138 Cost.) ed un apposito giudice, la Corte costituzionale, per decidere sulla legittimità costituzionale delle leggi e degli atti aventi forza di legge, dello Stato e delle Regioni (art. 134 Cost.).
Ebbene, a volte addirittura con decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri, si è impedito, ancorchè per periodi di tempo limitati, il diritto di “ogni cittadino” di “circolare e soggiornare liberamente in qualsiasi parte del territorio nazionale” anche se la Costituzione fa salve “le limitazioni che la legge stabilisce in via generale per motivi di sanità o di sicurezza” (art. 16 Cost.), ma qui si è imposto addirittura di rimanere nella propria abitazione in violazione dell’art. 13 della Costituzione che declama l’inviolabilità della libertà personale “se non per atto motivato dell’autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge” (e in via preventiva).
Si è compresso il diritto di riunione (art. 17 Cost.); si è inibita la libertà di iniziativa economica, con la chiusura obbligatoria di molte attività commerciali e artigianali (art. 41 Cost.); addirittura si è violato il principio fondamentale del diritto al lavoro (artt. 1 e 4 Cost.), inibendolo a chi non fosse munito di green pass.
L’attività dello Stato limitativa dei diritti di libertà è stata ritenuta corretta da una parte preponderante dei partiti politici e dei cittadini per far fronte ad una pandemia molto pericolosa per la salute umana; quindi, per un fine di grande rilevanza per la società intera.
Si potrebbe individuare, un domani, un’altra ragione per conculcare le libertà, come ritenuto, mutatis mutandis, da Bonaudi, se vi è un’ampia convergenza delle forze politiche?
La questione è molto delicata.
È da tenere presente che la tutela e la garanzia dei diritti di libertà non sono una conquista irreversibile, anche se declamati solennemente in una Costituzione rigida, poiché necessitano di continue cure e attenzioni e non bisogna mai abbassare la guardia.
- I principi di diritto pubblico.
L’opera è del 1936, di 621 pagine, articolata in introduzione, 10 capi e 897 paragrafi, normalmente brevi, con titoli che rendono con chiarezza l’argomento trattato.
L’“Introduzione” è divisa in quattro parti: I Nozione del diritto, II Il diritto pubblico, III Caratteri specifici del diritto pubblico e IV Il diritto pubblico nel dopo-guerra. Rileva particolarmente il metodo di studio che Bonaudi individua: il diritto pubblico deve adattarsi “alle esigenze che premono sulla società in un determinato momento storico”, per cui non si può “astrarre dalle medesime, ove si voglia studiare il diritto pubblico di uno Stato ed afferrarne, oltrechè le linee esteriori, anche la sua intima essenza”[171]. È necessario considerare l’ordinamento giuridico “quale esso è nella realtà concreta, e che non potrebbe desumersi nella sua pienezza dal semplice esame della struttura organica dei suoi istituti”[172].
Il metodo, pertanto, sarà sì quello deduttivo che, per Bonaudi, è quello prevalente nel diritto privato nel quale si registra una relativa stabilità ed uniformità di disciplina e di principi in più Stati[173], ma, soprattutto, quello induttivo perché “i concetti astratti di nazione, di società, di Stato, di sovranità, di Governo, di poteri, di organi, di funzioni, di libertà politica e civile, tradotti nella realtà concreta di un determinato ordinamento positivo, possono essere valutati nella loro giusta portata, o nella corrispondenza effettiva ai postulati astratti”. Ciò comporta un certo “provincialismo” del diritto pubblico, in quanto “ogni Stato modella il proprio ordinamento giuridico in relazione a quelli che sono i fattori complessi della società particolare che in esso si organizza: di qui la varietà dell’ordinamento stesso che è in rapporto altresì al regime politico”[174].
Bonaudi segue, quindi, il metodo che ritiene utile per il diritto pubblico e, per ogni istituto, traccia le nozioni (astratte) di fondo e le cala nella realtà ordinamentale dello Stato italiano con ricostruzione storica degli istituti, confrontata con gli ordinamenti stranieri dove hanno avuto concrete applicazioni.
Il volume si articola in dieci “capi”.
Il primo “capo” tratta “lo Stato”, esponendo innanzitutto le “generalità”, poi la “affermazione dello Stato” con i vari “tipi”, lo Stato nazionale di fronte alle forze sociali, spirituali ed economiche, lo Stato corporativo e la differenziazione dagli altri enti, la discrezionalità ed i rapporti giuridici dello Stato.
Il secondo (Il Governo e la sua funzione di coordinamento) ha ad oggetto la divisione dei poteri, partendo dalla dottrina di Montesquieu ed esponendo le teorie della separazione, dell’equilibrio, della distinzione e della coordinazione; quindi, passa alla funzione di coordinamento del potere legislativo, del potere giudiziario e del potere esecutivo, evidenziando che spetta a quest’ultimo la vigilanza sul potere giudiziario e l’indirizzo su quello legislativo.
Il terzo (Dal Capo dello Stato al Presidente del Consiglio) si occupa, nella Sezione prima, del Capo dello Stato e, dopo le “generalità”, sottolinea la funzione moderatrice della monarchia, il suo adattamento ai tempi, con l’esecutivo affidato ai ministeri e il dicastero del Governo nonchè i rapporti con le assemblee legislative nell’ambito delle Costituzioni.
Nella Sezione seconda del capo terzo vi è “La Corona nell’ordinamento costituzionale italiano”, di cui si declinano le attribuzioni secondo lo Statuto Albertino e nella comparazione con il regime dell’ex impero turco. Il sistema bicamerale e la legge salica vengono considerate guarentigie del regime dinastico e viene illustrata la partecipazione della Corona ai tre poteri dello Stato e la concessione sovrana della grazia nonchè gli istituti della grazia, dell’amnistia e dell’indulto. Si approfondiscono, poi, i sistemi di assunzione alla “suprema carica dello Stato”, la ereditarietà, la legge salica, la funzione regia e il suo esercizio, la tutela e la reggenza, la luogotenenza, le prerogative regie, lo stato giuridico personale ed il regime dei beni nonchè la famiglia reale e le prerogative dei suoi membri.
La Sezione terza tratta del Presidente del Consiglio (Governo di gabinetto, attribuzioni, crisi delle assemblee e i gabinetti di coalizione), accompagnata da una ricostruzione storica e dal riferimento all’Inghilterra.
Il Capo quarto (Il “governo del popolo” e la prevalenza del potere legislativo) è diviso in quattro Sezioni: I) la rappresentanza politica, II) il Senato, III) la Camera dei Deputati, IV) il procedimento elettorale.
Il quinto è sulla “prevalenza del potere esecutivo” nei confronti degli altri poteri dello Stato nelle “dottrine moderne” (Duguit, Hauriou), con confronto tra il sistema italiano e quelli francese e inglese. Attenzione particolare è dedicata al potere governativo in occasione di eventi straordinari e, soprattutto, durante la guerra.
Il sesto è centrato sul Governo e le sue molteplici attività.
Il settimo riguarda il Capo del Governo (origine e caratteri, con richiami storici e comparati con la Costituzione nordamericana, il cancelliere nell’ex impero germanico e le Costituzioni tedesca e francese) e la singolarità del primo ministro nell’ordinamento fascista quale capo anche del partito e per i rapporti di “emancipazione” dal Parlamento, con la “scomparsa del Governo parlamentare e del Governo di gabinetto” (par. 616) nonchè per le altre “particolarità”.
L’ottavo concerne la funzione normativa del potere esecutivo regolamentare, calata nella “generalità” della normazione e nei rapporti di gerarchia con le leggi costituzionali ed ordinarie, con esame dei: decreti-legge; “decreti per delegazione legislativa”; “potestà di ordinanza”; potestà regolamentare e distinzione tra i regolamenti di esecuzione, indipendenti o autonomi, di organizzazione, delegati e l’estensione della facoltà del potere esecutivo di emanare norme giuridiche con la L. 31 gennaio 1926 n. 100. Vengono indicati gli organi della funzione normativa regolamentare, passando, poi, alle “norme corporative”.
Con il nono è la volta della “giurisdizione” in cui Bonaudi espone l’essenza ed i caratteri della funzione giudiziaria e passa in rassegna la giurisdizione ordinaria, quella amministrativa e quelle speciali, con cenni agli organi che esercitano le rispettive giurisdizioni.
Il capo decimo su “Il diritto pubblico dello Stato fascista” si estende per circa 130 pagine[175] e trovano collocazione: “generalità” sulla concezione fascista dei rapporti sociali e della funzione dello Stato e l’influenza sull’orientamento del diritto pubblico italiano; il fascismo (origine e altri profili); i partiti nell’ordinamento giuridico dello Stato; il partito nazionale fascista; la milizia; la “Carta del Lavoro”; il Gran Consiglio del fascismo; il Consiglio Nazionale delle Corporazioni; la libertà individuale.
Infine, il capo si chiude con le “considerazioni riassuntive” che evidenziano le ragioni storiche, sociali ed economiche che hanno determinato il passaggio da uno Stato di diritto e liberale ad uno Stato autoritario e “forte” del quale non solo si giustificano le ragioni, ma lo si ritiene essenziale nell’attuale momento storico.
È un panegirico del fascismo e del suo regime.
- Profilo della personalità.
Lo svolgimento di due lavori, quello di professore universitario e di avvocato, non è una novità per l’epoca, data la modesta condizione economica dei professori in Italia, come evidenziato da Von Jhering[176] e da F.C. Von Savigny[177]. Anzi, può dirsi essere la regola, sebbene la situazione non fosse ritenuta soddisfacente: “al professore che non può vivere della cattedra è il pratico che deve dare da mangiare e, per farlo, gli deve portare via tutto il tempo”[178].
Emilio Bonaudi ha scelto di esercitare la libera avvocatura, invece di trovare una soluzione di lavoro presso la pubblica amministrazione, da accoppiare all’attività di professore universitario, al quale si sentiva vocato per passione e interesse per gli studi e la ricerca. A differenza di altri eminenti autori[179], la produzione scientifica di Emilio Bonaudi ne ha risentito poco, avendo pubblicato in diversi campi del diritto e soprattutto in diritto amministrativo, come evidenziato dalla Commissione giudicatrice del concorso bandito dall’Università di Camerino[180].
Anzi, il contatto con l’esperienza forense ha agito sinergicamente con la ricerca scientifica, dando concretezza ai suoi studi che hanno il pregio di affrontare problemi effettivi, indicando soluzioni, anche pratiche, tanto che sono stati molto apprezzati i suoi pareri, spesso richiesti dalle amministrazioni pubbliche[181].
Il grande avvocato non ha fatto ombra al teorico ed ha vivificato la materia che Egli ha affrontato seguendo il metodo orlandiano di cui ha sposato l’impostazione in un tempo nel quale la dottrina amministrativistica era dibattuta tra la scuola eclettica e quella c.d. privatistica.
La prima[182] utilizza i metodi, i principi e le acquisizioni anche delle altre scienze, in particolare, la sociologia, l’economia politica, la statistica, la scienza politica, la filosofia, quella che oggi si denomina Scienza dell’Amministrazione[183], la morale etc.; la seconda ritiene che il diritto sia il diritto civile i cui principi vanno applicati al diritto amministrativo, con le modifiche ed integrazioni rese necessarie dalla specialità della materia[184].
La scuola c.d. privatistica ha il merito di aver liberato il diritto amministrativo dalla commistione con le altre scienze umanistiche e dall’impostazione esegetica, per ricondurlo in binari strettamente giuridici, ma ha sacrificato l’autonomia della materia.
Emilio Bonaudi assegna ai giuristi il compito “di attendere con criterio sistematico e scientifico alla costruzione di quelli istituti, sotto l’egida dei quali l’amministrazione pubblica possa, con giustizia, assolvere il proprio compito verso la società”[185].
Il metodo giuridico, per Bonaudi, deve fondarsi sull’elaborazione sistematica che, però, non può abusare nelle generalizzazioni: “il progresso scientifico moderno devesi in gran parte alla prevalenza del metodo deduttivo e sperimentale che, dal campo delle scienze fisiche e naturali si trapiantò in quello delle scienze morali e giuridiche, determinando con la divisione del lavoro e la specializzazione delle ricerche una tacita collaborazione degli studiosi nella costruzione delle dottrine”[186].
Essenziale è anche il metodo induttivo che deve avvalersi della pratica e della giurisprudenza perché la scienza del diritto non può fare a meno della realtà, delle manifestazioni concrete della vita reale[187].
L’utilizzo per lo studio del diritto pubblico sia del metodo deduttivo che di quello induttivo sarà evidenziato anche in scritti più maturi, nella introduzione ai “Principi di diritto pubblico” del 1936[188]. Bonaudi è decisamente un positivista che studia, elabora il diritto posto dallo Stato, rifuggendo dai condizionamenti ideologici che si basano su principi razionali presupposti e, in specie, dal giusnaturalismo e dai diritti naturali[189].
Bonaudi vince il concorso di professore di diritto amministrativo nell’Università di Camerino nel 1926, all’età di 53 anni, e la Commissione giudicatrice richiama i “precedenti concorsi ai quali il dr. Bonaudi prese parte” e che avevano rilevato che la sua ormai vasta produzione scientifica “rivela salda cultura giuridica, diligenza di indagine, precisione di concetti, ampia conoscenza della legislazione e della dottrina, chiarezza di esposizione”[190].
Nella commemorazione celebrata al Dipartimento di Economia e Commercio dell’Università di Torino, si è evidenziata la “originalità di pensiero”, l’“acume giuridico” e la “felice sintesi” che portò Bonaudi “ad accoppiare la ricerca scientifica alla difesa giudiziaria”[191].
Alla personalità del grande avvocato[192] e dello “scienziato”, si aggiunge la sua “serenità ed elevatezza di spirito”, sempre aperto “alla fede, all’altruismo ed all’onestà”[193].
Il pensiero di Bonaudi e le sue costruzioni giuridiche possono dividersi in due fasi, cronologicamente ben delineate. Una prima versata più nella ricerca e pubblicazioni di diritto amministrativo e che arriva sino all’avvento del fascismo, in cui vi è un’attenzione al cittadino, alla tutela delle libertà e degli interessi anche collettivi in una visione liberale e dello Stato di diritto.
Una seconda fase, successiva alla prima guerra mondiale, nella quale Bonaudi ritiene superato lo Stato liberale fondato sulla libertà, dedica i suoi studi soprattutto al diritto costituzionale e pubblico in generale, e giustifica e sostiene uno Stato autoritario e “forte”, collocandosi nella schiera dei giuristi fiancheggiatori del fascismo[194].
Abstract
L’Autore espone la vita e le opere di Emilio Bonaudi, tracciando un ritratto della sua personalità di studioso che la dottrina amministrativistica successiva ha trascurato.
The Author exhibits the life and works of Emilio Bonaudi, drawing a portrait of his personality as a scholar that subsequent administrative legal theory has neglected.
* Ringrazio Carlo Emanuele Gallo e Paolo Patrito per le notizie e la documentazione inviatami, tratta dagli archivi dell’Università di Torino.
** Il lavoro è frutto di una ricerca su “I Maestri del diritto amministrativo tra ‘800 e ‘900” svolta presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Foggia, coordinata dalla prof.ssa Vera Fanti.
[1] Nella Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia n. 99 del 26 aprile 1880 sono pubblicati nomine, promozioni e disposizioni del personale dell’amministrazione finanziaria dal 7 marzo all’11 aprile 1880 e vi è la indicazione che Demetrio Bonaudi, “segretario di 3° classe nell’intendenza di Ancona, traslocato in quella di Cuneo”. Nel calendario generale del Regno d’Italia del 1889, a cura del Ministero dell’Interno, alla pag. 730, nella Provincia di Torino sub “Intendenza di Finanza”, vi è Demetrio Bonaudi, “Segretario di 1° classe”.
[2] Cfr. Archivio storico dell’Università di Torino, “Gli studenti dell’Università di Torino”. Bonaudi è immatricolato con il n. 21.
[3] Cfr. Bonaudi Emilio in Noviss. dig. ital., Torino 1958, vol. II, 499; Emilio Bonaudi, nella commemorazione del Preside della Facoltà di Economia e Commercio, Giorgio Cansacchi, è ricordato, tra l’altro, per aver svolto la professione forense nel campo del diritto amministrativo “acquistando ben presto larga rinomanza nelle corti giudiziarie e numerosa ed eletta clientela” in Università degli Studi di Torino, Annuario per l’A.A. 1953/54, anno 550° dalla fondazione, Torino 1954, 327. M. Fioravanti in Dizionario Biografico dei Giuristi Italiani (XII-XX secolo) diretto da Italo Birocchi, Ennio Cortese, Antonello Mattone, Marco Nicola Miletti, Bologna 2013, 285, voce “Bonaudi, Emilio” evidenzia che “si dedicò anche alla professione forense”.
[4] G. Cansacchi, Commemorazione, op. cit., 327.
[5] Dalla loro unione non sono nati figli.
[6] Professore “non stabile” corrisponde alla figura del professore “straordinario”, come si designavano i vincitori del concorso per professore ordinario, prima di divenire, dopo tre anni, professore ordinario, a seguito di superamento della “prova”. Oggi lo straordinariato è stato eliminato, vigendo un altro sistema di reclutamento dei professori universitari.
[7] Professore “stabile”, secondo la terminologia dell’epoca.
[8] Puntuali le annotazioni e i bevi interventi di Bonaudi su “Riforma sociale”, rivista edita dal 1896 al 1935; gli scritti di Bonaudi appaiono dal 1903 al 1910 e riguardano diverse materie, tra cui rilevanti sono quelli sugli infortuni sul lavoro: “Sul risarcimento dei danni derivanti da infortuni sul lavoro” 1901, 1128; “Il campo di applicazione della legge sugli infortuni del lavoro” 1902, 188; di interesse anche “Per la riforma della legge sui probiviri industriali” 1904, 453 e “Il diritto di organizzazione e gli impiegati dello Stato” 1902.
[9] Tutte e due le opere sono state edite da F.lli Bocca ed. Torino.
[10] In Riv. di dir. pubbl. 1910, 415.
[11] In Riv. Ital. per le Scienze giur. 1910, 89 e ss. G. Consacchi, op. cit., 327, riferisce che questo articolo “suscitò notevole interesse ed ampi dibattiti”.
[12] Edita dai F.lli Bocca ed. Torino, di 372 pagine.
[13] La seconda edizione è di 422 pagine oltre l’indice di 9 pagine, in totale 431; qui si tiene presente la seconda edizione.
[14] E. Bonaudi, Dei provvedimenti d’urgenza del Sindaco, II ed., Torino 1920, 2.
[15] E. Bonaudi, op. ult. cit., 4.
[16] E. Bonaudi, op. ult. loc. cit.
[17] E. Bonaudi, op. ult. cit., 4.
[18] G.D. Romagnosi, Principi fondamentali di diritto amministrativo onde tesserne le istituzioni, Prato 1837, 14. È una impostazione diffusa che si ritrova anche in L. Meucci, Instituzioni di diritto amministrativo, I, Torino, IV ed., 1898, 305; cfr. E. Follieri, Rilettura di Lorenzo Meucci, Milano 2020, 49 e ss.
[19] E. Bonaudi, op. ult. cit., 5.
[20] E. Bonaudi, op. ult. cit., 17 e ss. ove si evidenzia che “gli atti d’indole discrezionale possono facilmente esorbitare dai confini in cui dovrebbe restringersi l’opera della pubblica amministrazione; che se ciò può avvenire nei casi di attività normale ed ordinaria, a maggior ragione può accadere nei casi contingibili ed urgenti in quanto che, in siffatte circostanze, il potere discrezionale delle pubbliche amministrazioni riceve una maggiore estensione” (pag. 17-18). L’A. si domanda: “quali guarentigie può invocare il cittadino?”. Bonaudi constata che vi è il divieto per l’Autorità giudiziaria ordinaria di modificare o revocare l’atto amministrativo e rileva che quest’ultimo “può essere viziato di ingiustizia ovvero di illegittimità; la prima si riferisce, per così dire al merito del provvedimento, cosicchè dovrà questo ritenersi giusto od ingiusto a seconda che se ne sia o non fatta conveniente ed opportuna applicazione al caso concreto; la seconda riguarda invece l’osservanza delle norme che sono stabilite in astratto per l’esistenza o la validità del provvedimento stesso; perciò può accadere che un provvedimento, considerato nella sostanza e nelle applicazioni al caso concreto, sia giusto pur essendo illegittimo, e per contro può essere emanato con l’osservanza di tutte le forme e nondimeno riuscire ingiusto nell’applicazione” (pag. 18). Bonaudi, quindi, rileva: “E’ evidente che le guarentigie possono più facilmente attuarsi nel capo della legittimità che in quello della giustizia del provvedimento, non solo perché quest’ultima è riserbata alla cognizione della sola autorità amministrativa” (pag. 19), ma anche per la mancanza del parametro presente, invece, per la legittimità e che è costituito “da precetti astratti e generali applicabili ai casi singoli” (pag. 19). Per Bonaudi, i privati devono essere tutelati contro i provvedimenti d’urgenza con denuncia “alla superiore autorità gerarchica, affinchè ne operi la revoca o ne modifichi la portata, ovvero di ricorrere a quegli organi che, per disposizione di legge, sono destinati a conoscere dei gravami contro gli atti dell’autorità amministrativa… Infine, è pure ammessa la facoltà di ricorrere all’autorità giudiziaria ordinaria per ottenerne in sede giurisdizionale quelle declaratorie che, in omaggio alla separazione dei poteri, le sono consentite” (pag. 21).
Oltre alla difesa in via amministrativa e giurisdizionale, Bonaudi ritiene che, in linea con l’evoluzione dello “Stato giuridico”, l’amministrazione dovrebbe sempre più autovincolare la sua azione con disposizioni generali per limitare il potere discrezionale: “l’autolimitazione non può certamente escludere la possibilità di provvedimenti illegittimi ed arbitrari e perciò essa non può considerarsi come guarentigia di valore assoluto, ma è pur tuttavia un freno che nel diritto moderno deve essere tenuto in debito conto” (pag. 22).
[21] T.U. 4 febbraio 1915, n. 148, derivante dall’art. 151 del T.U. 21 maggio 1908 n. 269.
[22] E. Bonaudi, op. ult. cit., 7.
[23] E. Bonaudi, Della sospensione degli atti amministrativi, Torino 1908, 2. L’opera è di 148 pagine.
[24] E. Bonaudi, op. ult. loc. cit., che, ad esempio delle “cause e fatti materiali”, indica la infermità o la morte, mentre per “fatti accidentali”, la distruzione o smarrimento di “atto pubblico, scrittura privata, lettera ecc., o di qualsivoglia documento contenente una dichiarazione di volontà” che impediscono di portare a conoscenza degli interessati o dei terzi la manifestazione di volontà che pure è intervenuta ovvero la distruzione di un oggetto o di un immobile che impediscono il raggiungimento dell’effetto stabilito dalla dichiarazione di volontà che abbia, come elemento essenziale, l’esistenza dell’oggetto o dell’immobile.
[25] E. Bonaudi, op. ult. cit., 34.
[26] E. Bonaudi, op. ult. cit., 65.
[27] E. Bonaudi, op. ult. cit., 81, prosegue l’A.: “e, inoltre, a parte ogni giudizio che si voglia portare sull’indole e sulla portata delle loro decisioni e sul loro carattere giurisdizionale, esercitano collegialmente, ed a seconda dei casi, funzioni tutorie, consultive o giudicatrici, ma sono privi di quella potestà d’iniziativa o di azione, propria dell’amministrazione attiva e che le consente di ritornare sui propri atti e di modificarli”.
[28] E. Bonaudi, op. ult. loc. cit.
[29] E. Bonaudi, op. ult. cit., 97 e ss.
[30] E. Bonaudi, op. ult. cit., 84.
[31] E. Bonaudi, op. ult. loc. cit.
[32] E. Bonaudi, op. ult. cit., 89 e ss. L’opera procede ad un’analisi delle “gravi ragioni” sotto diversi profili non solo di ordine economico e finanziario, tra cui la sospensione per “motivi di ordine amministrativo o d’interesse sociale”, con attenzione rivolta all’atto politico e alla sua non impugnabilità, 93-96.
[33] Pagg. 89-120.
[34] E. Bonaudi, Il problema della giustizia amministrativa nell’ora presente in Riv. Ital. Sc. Giur. 1910, 90.
[35] E. Bonaudi, op. ult. cit., 91 afferma che “politica soprattutto fu la campagna iniziata per ottenere la giustizia nell’amministrazione, della quale fu antesignano e campione Silvio Spaventa”.
[36] E. Bonaudi, op. ult. cit., 93.
[37] E. Bonaudi, op. ult. cit., 94.
[38] E. Bonaudi, op. ult. loc. cit.
[39] E. Bonaudi, op. ult. loc. cit.
[40] E. Bonaudi, op. ult. cit., 96.
[41] E. Bonaudi, op. ult. cit., 96-97.
[42] E. Bonaudi, op. ult. cit., 97.
[43] E. Bonaudi, op. ult. cit., 98.
[44] E. Bonaudi, op. ult. cit., 99. Con la legge 7 marzo 1907 n. 62 fu istituita la Sezione V del Consiglio di Stato e riconosciuta la natura giurisdizionale alle decisioni della IV e V Sezione.
[45] E. Bonaudi, op. ult. cit., 102.
[46] E. Bonaudi, op. ult. cit., 104 che prosegue: “Non è pertanto esagerazione il dire che il progresso del diritto amministrativo, sia dal punto di vista della dottrina che da quello della legislazione, lo possiamo in non piccola parte attribuire al risveglio delle discussioni originatesi avanti gli organi della giustizia amministrativa”, come avvenuto per gli “altri rami delle discipline giuridiche”.
[47] E. Bonaudi, op. ult. cit., 108-109.
[48] E. Bonaudi, op. ult. cit., 109 che rileva come il Consiglio di Stato fosse ben conscio di questa funzione pretoria “prima ancora che fosse chiamato ad assumere le funzioni contenziose”, richiamando il parere del 15 novembre 1884 e l’opinione di F. Cammeo, espressa nel Commentario, p. 637.
[49] E. Bonaudi, op. ult. loc. cit.
[50] E. Bonaudi, op. ult. cit., 110.
[51] E. Bonaudi, op. ult. cit., 116.
[52] E. Bonaudi, op. ult. loc. cit. il quale sottolinea che la critica è “oggettiva, al sistema, non alle persone” perché “nel ventennio in cui le sezioni contenziose hanno funzionato ebbe sempre a rifulgere l’imparzialità e l’indipendenza di quel supremo collegio” (117). Queste affermazioni di Bonaudi sembrano il frutto della preoccupazione dell’avvocato di non indignare i “suoi” giudici.
[53] E. Bonaudi, op. ult. cit., 118 che considera i due componenti elettivi, espressione dei partiti e i “funzionari” scelti per tutelare gli interessi dell’amministrazione, con l’handicap che non devono essere esperti di diritto perché il sistema “non pone alcun limite alla scelta dei membri, mancando persino il correttivo di una determinazione a priori di requisiti speciali di capacità per essere assunti a così delicato ufficio”.
[54] E. Bonaudi, op. ult. cit., 120.
[55] G. Cansacchi, Commemorazione, op. cit., 327 ha sottolineato che la prolusione di Bonaudi “suscitò notevole interesse ed ampi dibattiti”.
[56] La Corte costituzionale, con la sentenza n. 33 del 1968, dichiarò l’incostituzionalità della composizione della Giunta giurisdizionale amministrativa della Valle d’Aosta e, con la sentenza n. 49 del 1968, furono dichiarate incostituzionali le sezioni dei Tribunali amministrativi regionali per il contenzioso elettorale: cfr. G. Urbano, Profili ricostruttivi e critici sull’indipendenza del giudice amministrativo in La giurisprudenza della Corte costituzionale sul processo amministrativo a cura di Enrico Follieri, Bari 2018, 7 e ss., in part. 23 e ss.
[57] E. Follieri, Per l’indipendenza del Consiglio di Stato in Il diritto amministrativo in trasformazione a cura di Nino Longobardi, Torino 2016, 63 e ss., in www.giustamm.it n. 11/2016 e in Dir. Proc. Amm. 2016, 1234 e ss.
[58] 182 pagine.
[59] E. Bonaudi, La tutela degli interessi collettivi, Torino 1911, 5.
[60] E. Bonaudi, op. ult. cit., 5.
[61] E. Bonaudi, op. ult. cit., 10.
[62] E. Bonaudi, op. ult. cit., 12.
[63] E. Bonaudi, op. ult. cit., 13 ne spiega così le ragioni “al loro parere segue d’ordinario un’ulteriore elaborazione, in forza della quale l’atto primitivo, su cui veniva emesso il parere, può apparire modificato e trasformato al punto da alterarsi la portata dei provvedimenti che l’atto stesso era destinato a disciplinare”.
[64] L’enfasi è nel testo.
[65] E. Bonaudi, op. ult. cit., 14 che prosegue: “la vittoria riportata dal ricorrente, coll’annullamento o la riforma dell’atto, importerà, per necessaria conseguenza, l’obbligo nell’amministrazione di uniformarsi alla decisione in tutti quei casi in cui interessi identici si trovino in contrasto con il provvedimento”.
[66] Cons. Stato, Sez. IV, 24 maggio 1907, in Giur. Ital. 1907, III, 310; così pure: Cons. Stato, Sez. IV, 31 dicembre 1906 in Giur. Ital. 1907, III, 137 e Cons. Stato, Sez. IV 29 dicembre 1905 in Giust. amm. 1905, I, 639.
[67] E. Bonaudi, op. ult. cit., 16.
[68] E. Bonaudi, op. ult. loc. cit., “lo stesso Consiglio di Stato ritenne infine che un’associazione, sorta per la tutela di determinati interessi di una classe, possa ricorrere non solo in quanto sia costituita in ente, ma limitatamente a quegli interessi che appaiono interessi diretti dell’associazione, cosicché la medesima non avrebbe veste per tutelare in sede di ricorso tutti quegli altri che, pur essendo riferibili alla classe, ossia alla generalità degli individui che la compongono, non rientrino però nella cerchia di quelli che, dall’atto costitutivo o dallo statuto dell’associazione, risultino propri di questi”. Bonaudi critica questa “interpretazione che verrebbe a limitare sensibilmente la capacità processuale”.
[69] E. Bonaudi, op. ult. cit., 17 che pone la questione sotto forma interrogativa.
[70] E. Bonaudi, op. ult. cit., 30-31.
[71] E. Bonaudi, op. ult. loc. cit.
[72] E. Bonaudi, op. ult. loc. cit.
[73] E. Bonaudi, op. ult. cit., 35.
[74] E. Bonaudi, op. ult. cit., 34-35.
[75] La non impugnabilità era basata su due argomenti: a) dal punto di vista materiale sono atti legislativi, anche se, dal punto di vista formale, sono atti amministrativi; b) sono norme di ordine generale e non possono “ledere attualmente gli interessi degli individui” (p. 38) se non si adottano provvedimenti concreti; di per sé, il regolamento non è lesivo.
[76] E. Bonaudi, op. ult. cit., 39-40: l’impugnativa dei regolamenti è ammessa in ogni caso perché la legge ammette il ricorso contro atti e provvedimenti amministrativi e non distingue e sono tali anche i regolamenti perché emanati dal potere esecutivo. L’A. espone la giurisprudenza, rilevando che sul punto è contraddittoria.
[77] E. Bonaudi, op. ult. cit., 43.
[78] E. Bonaudi, op. ult. cit., 45.
[79] Deliberazione del Consiglio Comunale o del Consiglio Provinciale per aumento ed eccedenza di sovraimposta comunale e, rispettivamente, provinciale; esercizio di usi civici, quando si impugni un provvedimento adottato dall’ente pubblico per disciplinarne il godimento; impugnativa di atto amministrativo indivisibile in E. Bonaudi, op. ult. cit., 46-52.
[80] E. Bonaudi, op. ult. cit., 52. Il volume espone i caratteri dell’azione popolare e le ipotesi legislative in cui è ammessa per valutare se possa esperirsi per la tutela degli interessi legittimi innanzi al giudice amministrativo e lo esclude perché, pur avendo le sue decisioni natura giurisdizionale, conosce degli “interessi” e non dei diritti, 53-65.
[81] E. Bonaudi, op. ult. cit., 125.
[82] E. Bonaudi, op. ult. cit., 177.
[83] E. Bonaudi, op. ult. cit., 181: potrebbe riconoscersi legittimazione ad un’organizzazione “per parte di chi personifica di fatto l’associazione”; 182: “il giudice non può, senza commettere un diniego di giustizia, rifiutarsi di statuire sotto pretesto di silenzio, di oscurità o di insufficienza della legge”, egli deve interpretare la legge uniformandola alla “necessità dei tempi”.
[84] A. Angiuli, Interessi collettivi e tutela giurisdizionale Napoli 1986, ove: a pag. 23 richiama l’opera per la “chiara esposizione della problematica” (nota 20) in ordine alla identificazione dei soggetti eventualmente legittimati a promuovere la tutela processuale degli interessi c.d. “di categoria” o “di classe”; a pag. 157 evidenzia che Bonaudi pone l’accento sulla convergenza dell’interesse dell’ente esponenziale con quello dei singoli (nota 14); a pag. 160 riporta la definizione degli interessi collettivi di Bonaudi (nota 25), “somma” o “risultante di interessi individuali, come “qualcosa di sostanzialmente identico, ma di maggiore estensione”; a pag. 168, nota 44, sul significato attribuito alle espressioni “uti universi” e “uti singulis e uti cives”, cita Bonaudi; a pag. 250, nota 65, segnala che Bonaudi è critico verso l’orientamento della Sez. IV del Consiglio di Stato che aveva escluso, con decisione del 21 dicembre 1906, la legittimazione di un Comune a chiedere la tutela di interessi esulanti dalle sue finalità istituzionali.
[85] Tra gli altri vi sono stati due importanti convegni a Pavia, l’11-12 giugno 1974, Le azioni a tutela degli interessi collettivi, Padova 1976 e a Varenna il 22-24 settembre 1977, Rilevanza e tutela degli interessi diffusi: modi e forme di individuazione e protezione degli interessi della collettività, Milano 1978. Diverse le pubblicazioni monografiche, anche se centrate più sugli interessi diffusi: R. Federici, Gli interessi diffusi. Il problema della loro tutela nel diritto amministrativo Padova 1984; M. Cresti, Contributo allo studio della tutela degli interessi diffusi, Milano 1992; R. Rota, Gli interessi diffusi nell’azione della pubblica amministrazione Milano 1998; R. Lombardi, La tutela delle posizioni giuridiche meta-individuali nel processo amministrativo Torino 2008; A. Fabri, Le azioni collettive nei confronti della pubblica amministrazione nella sistematica delle azioni non individuali Napoli 2011 in Quaderni, 11, di Diritto e processo amministrativo e altre.
[86] B. Caravita, Interessi diffusi e collettivi (Problemi di tutela) in Dir. e soc. 1982, 167 e ss.
[87] G. Tarzia, Le associazioni di categoria nei processi civili con rilevanza collettiva in Riv. Dir. Proc. civile 1987, 774 e ss. che sottolinea l’impostazione di Bonaudi tesa a considerare la natura individualistica degli interessi tipicamente tutelati dal processo e la conseguente necessità di interrogarsi sulla rispondenza dei concetti giuridici tradizionali alle concrete esigenze di tutela. Bonaudi si è reso conto della necessità – rileva Tarzia – del riconoscimento giuridico degli emergenti interessi materiali e collettivi, ma non riesce ancora a staccarsi dalla tradizionale impostazione individualistica che lo porta ad escludere la tutelabilità dell’interesse collettivo nei confronti della pubblica amministrazione.
[88] R. Donzelli, La tutela giurisdizionale degli interessi collettivi, Napoli 2008, 16 che prosegue: “opera degna della massima attenzione da parte della dottrina attuale che intenda tracciare il travagliato percorso che gli interessi collettivi da più di un secolo hanno intrapreso per assurgere al rango di interessi rilevanti”.
[89] L’opera di Bonaudi è del 1911, l’istituzione della Sezione IV del 1889, l’inizio dell’attività del 1890 e nel 1907, con la creazione della V Sezione, si è affermata la natura giurisdizionale delle decisioni. R. Donzelli, op. ult. cit., 21 rileva che il Bonaudi affronta la problematica in un momento in cui il processo amministrativo era ben lungi dal conseguimento di una stabile sistemazione dommatica.
[90] Cfr. R. Donzelli, op. ult. cit., 24.
[91] Cfr. G. Consacchi, op. cit., 327.
[92] Edito nel 1922 dai F.lli Bocca ed. Torino.
[93] Nella rivista “Il Municipio italiano”, si rileva che “Non mancano lavori che trattano distintamente degli enti autarchici come il Comune del prof. Romano; le funzioni del Comune italiano di Borsi; I controlli dell’amministrazione comunale del Forti; La Provincia nell’amministrazione dello Stato dell’Amendola; La beneficenza legale del Brondi; Le istituzioni pubbliche di beneficenza del Longo” ma l’opera di Bonaudi è “grandemente utile oltrechè importante” (198).
[94] La nota bibliografica prosegue così: “taluni anche di scarsa importanza. Ciò è di singolare rilievo e a dire dello stesso Autore, sembra un’opportuna reazione all’ormai troppa abusata tendenza di trascurare, per soverchia ammirazione di quanto ci viene da oltr’Alpe, il frutto degli studi fatti in Italia e che anche nel campo del diritto pubblico hanno portato un notevole contributo al progresso delle discipline giuridiche. D’altra parte, secondo lo stesso Autore, questo criterio non deve considerarsi come frutto di esclusivismo e di nazionalismo scientifico, ma come un tentativo di raccolta di materiale elaborato sulle fonti del nostro diritto e che può essere di utilità soprattutto nel campo del diritto amministrativo, in cui le teorie e gli istituti debbono rafforzarsi al saggio dell’esperienza e della pratica” (198).
[95] G. Consacchi, op. cit., 327.
[96] In Enciclopedia italiana Treccani Roma 1935.
[97] In Enciclopedia italiana Treccani Roma 1936.
[98] Tip. Commerciale, Perugia 1929.
[99] In Studi di diritto pubblico in onore di Ranelletti Padova 1930.
[100] E. Bonaudi, Il territorio dello Stato (a proposito della Città del Vaticano) in Studi di diritto pubblico in onore di Ranelletti, Padova 1930, 28-29.
[101] Come il cibo per l’uomo: E. Bonaudi, op. ult. cit. 43.
[102] Cfr. le considerazioni di I. Ciolli, Il territorio dello Stato e la rappresentanza territoriale in Riv. Dir. Cost. 2003, 63 e ss. e part. 82: “in fondo si produce la stessa distinzione che intercorre tra sovranità interna ed esterna dello Stato”.
[103] La Nuova Italia Editrice, Perugia-Venezia 1930 di 212 pagine.
[104] In Studi in onore di Federico Cammeo, Padova 1931.
[105] In Annali dell’Istituto superiore di Magistero di Torino, Ed. “L’Erma” Torino 1934.
[106] In Scritti giuridici in onore di S. Romano, I, Padova 1940.
[107] Ed. Gruppo Universitario fascista di 445 pagine, forse 1935.
[108] Ed. UTET Torino 1936 di 621 pagine.
[109] Ed. Gruppo Universitario fascista, Torino 1942 di 376 pagine a cui succedettero altre edizioni tra cui una nel 1946.
[110] E. Bonaudi, Principi di diritto pubblico, Torino 1936, 1.
[111] E. Bonaudi, Dei limiti della libertà individuale, Perugia-Venezia 1930, 203.
[112] E. Bonaudi, op. ult. cit., par. 155, 203.
[113] E. Bonaudi, Dei limiti della libertà individuale, op. cit., 1.
[114] E. Bonaudi, op. ult. cit., 3.
[115] E. Bonaudi, op. ult. cit., 5, 6.
[116] E. Bonaudi, op. ult. cit., 7. Per la prima ipotesi, si può incorrere anche in fattispecie di reato e, comunque, si è in presenza di attività illecita; per la quarta, vengono addotti come esempio il servizio militare o “altri servizi pubblici”.
[117] E. Bonaudi, op. ult. cit., 8.
[118] E. Bonaudi, op. ult. loc. cit.
[119] E. Bonaudi, op. ult. loc. cit.
[120] E. Bonaudi, op. ult. cit., 13.
[121] E. Bonaudi, op. cit., 15 osserva che: “vi possono essere Stati in cui l’ordinamento giuridico assegna alla sfera di libertà individuale la maggiore estensione e Stati in cui questa può essere ridotta a minimi termini”; “allorquando si parla di libertà individuale, contrapponendola all’autorità dello Stato, si finisce per raffigurare una libertà diversa da quella che lo Stato riconosce e tutela”; “non è possibile configurare diritti di libertà, in contrasto con quelli riconosciuti dall’ordinamento giuridico. Se si invocano diritti di libertà contro lo Stato essi non sono già diritti ma semplici aspirazioni; e se nasce un conflitto, questo non può essere che fra una pretesa extralegale e l’ordinamento giuridico esistente: ed allora tale pretesa non solo non può invocare una tutela giuridica, ma non può nemmeno qualificarsi come una pretesa di libertà, in quanto che la libertà, per essere tale, deve essere in corrispondenza con l’ordinamento giuridico dello Stato” (16).
[122] E. Bonaudi, op. ult. cit., 16.
[123] E. Bonaudi, op. ult. cit., 24: “Se lo Stato, organizzazione politica della società, deve realizzare le finalità di questa, non è possibile che gli interessi individuali debbano prevalere sugli interessi collettivi: non è quindi ammessibile che la libertà individuale debba andare oltre quei limiti, al di là dei quali essa invade il campo di interessi prevalenti e che lo Stato deve proteggere. Stabilire quali siano questi interessi prevalenti e superiori, quali siano gli interessi sociali che debbono essere presi in considerazione dallo Stato per limitare l’attività individuale, è compito estraneo alla scienza giuridica”.
[124] E. Bonaudi, op. ult. cit., 27.
[125] E. Bonaudi, op. ult. cit., 43: il sovrano si impegna solennemente nei confronti dei “sudditi”, a seguito di periodi di lotta tra la Corona e la rappresentanza dei cittadini – baroni e parlamento – come accaduto nell’ordinamento inglese e si richiamano la Magna Charta di Giovanni Senza Terra del 1215, la Carta delle Foreste di Edoardo I dell’11 ottobre 1227, lo statuto “de tallagio non concedendo” nel 1297, la Petizione dei diritti di Carlo I nel 1679, il Bill dei diritti di Guglielmo e Maria D’Orange del 13 febbraio 1689 e l’act of settlement di Guglielmo III del 12 giugno 1701.
[126] E. Bonaudi, op. ult. cit., 47.
[127] E. Bonaudi, op. ult. cit., 49-50 ove sono riportati gli artt. 24, 26, 27, 28, 29, 31 e 32 dello Statuto albertino e la previsione limitativa che accompagna ogni enunciazione: “salvo le eccezioni determinate dalle leggi” (art. 24); “nei casi previsti dalla legge” (art. 26); “se non in forza della legge” (art. 27); “ma una legge ne reprime gli abusi” (art. 28); esproprio “conformemente alle leggi” (art. 29); “uniformandosi alle leggi” (art. 32). Per il debito pubblico e l’impegno dello Stato (art. 31), non vi è rimando alle leggi ma, osserva Bonaudi, ciò nonostante “lo Stato procedette più volte alla conversione, in debiti perpetui, dei debiti a scadenza e, mediante l’imposta di ricchezza mobile ai possessori di redditi provenienti dal titolo del debito pubblico, addivenne, in sostanza, alla riduzione degli interessi” (50).
[128] E. Bonaudi, op. ult. cit., 53.
[129] E. Bonaudi, op. ult. cit., 56.-69 rileva che il potere legislativo formula precetti di ordine generale per casi che si verificheranno in futuro e, come tale, non crea ingiustizia individuale; il potere giudiziario attua nel concreto il diritto obiettivo, senza discrezionalità amministrativa, ma solo tecnica, con eccezioni quando esercita la giurisdizione volontaria (sono riportati alcune ipotesi normativamente disciplinate), mentre nella giurisdizione penale, vi è discrezionalità nella quantificazione della pena e nell’applicazione delle misure amministrative di sicurezza. L’Autore sottolinea che né la legge, né la sentenza sono suscettive di “coazione diretta ed immediata” (66) perché chi esegue è il potere esecutivo, anche se in diverse epoche storiche, la funzione giudiziaria aveva attribuzioni più estese e cita, ad esempio, il popolo ebreo e i corpi collegiali nei governi c.d. paterni o di polizia.
[130] E. Bonaudi, op. ult. cit., 70-76, per il quale la rivoluzione francese aveva posto al centro dello Stato l’assemblea elettiva legislativa, ma la soluzione non poteva reggere “al cimento della realtà” (71) e, sotto l’influenza delle dottrine tedesche, si è giunti allo Stato di diritto, ove il potere esecutivo ha acquistato una sempre maggiore rilevanza per lo iato che vi è tra la norma astratta e generale dettata dal potere legislativo e l’attuazione delle politiche espresse nei precetti legislativi, con riferimento precipuo all’attività sociale dello Stato che richiede opera continuativa e concreta che non può essere disciplinata totalmente della legge ed assume necessariamente carattere discrezionale. La funzione esecutiva dello Stato riguarda, altresì: i rapporti internazionali (alleanza, commercio, guerra, pace etc.); gli indirizzi della politica con “opera quotidiana di valutazione degli avvenimenti e con l’ausilio della diplomazia” (73) che dal governo riceve ordini; l’attività interna che, specie per le situazioni di necessità e di urgenza, non consente di ricorrere al potere legislativo. Le assemblee legislative male si prestano “alla prontezza dell’azione” (74) e allo svolgimento di un’attività continuativa, diretta alla realizzazione dei fini dello Stato.
[131] E. Bonaudi, op. ult. cit., 75.
[132] E. Bonaudi, op. ult. cit., 81.
[133] O. Ranelletti, La potestà legislativa del governo in Riv. Diritto Pubblico 1926, parte I, 166.
[134] E. Bonaudi, op. ult. cit., 91.
[135] E. Bonaudi, op. ult. cit., 96 ribadisce che “se la libertà umana deve essere sottoposta a limiti, ciò può avvenire soltanto in correlazione ai fini che lo Stato persegue”.
[136] E. Bonaudi, op. ult. cit., 96.
[137] E. Bonaudi, op. ult. cit., 97 osserva che quando manca una norma giuridica, il potere esecutivo ha tre possibilità: a) provocare la creazione della norma da parte del potere legislativo; b) emanare un decreto legge; c) adottare un provvedimento amministrativo, conferendogli “il carattere di atto emanato nell’esercizio del potere politico”. In tutti e tre i casi, il governo sottrae l’atto al sindacato giurisdizionale; vi è solo il potere legislativo che, per le prime due ipotesi, controlla in via preventiva il disegno di legge e, in via successiva, il decreto legge. Invece, l’atto politico non è soggetto a nessun formale controllo, né a sindacato giudiziario (98).
[138] L’argomento occupa le pagine da 96 a 131.
[139] E. Bonaudi, op. ult. cit., 98.
[140] E. Bonaudi, op. ult. cit., 151-155, tiene a rilevare la differenza tra la funzione giudiziaria penale, anche nel caso delle misure amministrative di sicurezza, e quella amministrativa: i giudici intervengono su un fatto avvenuto e in via repressiva; l’amministrazione considera fatti futuri in via preventiva “e come tali incerti e variabili sia nel loro sviluppo che nelle loro conseguenze e perciò deve essere attuata discrezionalmente con criteri di convenienza e di opportunità anziché di giustizia” (151).
[141] E. Bonaudi, op. ult. cit., 158.
[142] E. Bonaudi, op. ult. cit., 159.
[143] E. Bonaudi, op. ult. cit., 174.
[144] E. Bonaudi, op. ult. cit., 182.
[145] E. Bonaudi, op. ult. cit., 183 il quale incalza: “La proprietà individuale non è già un jus utendi ed abutendi, per cui l’individuo possa lasciare impunemente incolta o trascurare la terra che egli possiede e che è destinata a fruttificare non solo per lui, ma per procacciare alimenti a quanti fanno parte della collettività: la proprietà diventa una funzione sociale ed il relativo esercizio deve avvenire in accordo con le finalità sociali”.
[146] E. Bonaudi, op. ult. cit., 183.
[147] E. Bonaudi, op. ult. cit., 183 che così prosegue: “sia nei riguardi della proprietà, quale p.e. la sostituzione nella coltivazione del fondo, che viene affidata ad associazioni od enti, sia nei confronti della persona del proprietario, che può essere colpita da misure di polizia restrittive della libertà individuale, quale p.e. il confino” (184).
[148] E. Bonaudi, op. ult. cit., 184.
[149] E. Bonaudi, op. ult. loc. cit.
[150] E. Bonaudi, op. ult. cit., 187.
[151] E. Bonaudi, op. ult. loc. cit.
[152] E. Bonaudi, op. ult. cit., 198.
[153] E. Bonaudi, op. ult. cit., 199.
[154] E. Bonaudi, op. ult. loc. cit.
[155] E. Bonaudi, op. ult. cit., 202.
[156] E. Bonaudi, op. ult. loc. cit.
[157] E. Bonaudi, op. ult. cit., 203.
[158] Edito da UTET nel 1936 su cui infra al paragrafo successivo.
[159] E. Bonaudi, Principi di diritto pubblico Torino 1936, 561.
[160] E. Bonaudi, op. ult. cit., 562.
[161] E. Bonaudi, op. ult. cit., 563.
[162] E. Bonaudi, op. ult. cit., 568.
[163] E. Bonaudi, op. ult. cit., 571.
[164] E. Bonaudi, op. ult. cit., 571-572.
[165] E. Bonaudi, op. ult. cit., 572-573: il decreto legge “costituisce un documento del nuovo spirito al quale si ispira la funzione statale la quale, abbandonando l’antico agnosticismo nei confronti delle competizioni economiche, assegna alla pubblica autorità il compito di intervenire laddove si rende necessaria la tutela delle classi lavoratrici, per sottrarle all’influenza di forze in contrasto con quelle dello Stato, e di far rientrare nell’orbita di quest’ultimo le forze produttrici, opera culminata poi, come si è già accennato con l’inquadramento delle forze stesse nelle organizzazioni sindacali, e col gettare le basi dello Stato corporativo” (572). Ancora: “Tenute presenti le circostanze di fatto che provocarono siffatto provvedimento, e cioè l’avere, sotto l’influenza soprattutto dei partiti antinazionali, rivolto a scopi politici quegli organismi assistenziali e di previdenza che avrebbero dovuto circoscrivere la loro attività all’ambito degli interessi economici, ci si rende facilmente conto del largo potere discrezionale conferito in siffatta materia all’autorità politica la quale, per intervenire a difesa di siffatti interessi, non occorre sia sollecitata da denuncia o richiesta di coloro che debbono considerarsi direttamente interessati, ma agisce d’ufficio, di sua iniziativa, ognora che essa ritenga che vi siano fondati sospetti di abuso della pubblica fiducia” (573).
[166] E. Bonaudi, Dei provvedimenti di urgenza del Sindaco, op. cit., 17.
[167] E. Bonaudi, Della sospensione degli atti amministrativi, op. cit., 50.
[168] E. Bonaudi, Il problema della giustizia amministrativa etc., op. cit., 108.
[169] E. Bonaudi, op. ult. cit., 90.
[170] E. Bonaudi, La tutela degli interessi collettivi, op. cit., 5.
[171] E. Bonaudi, op. ult. cit., 20.
[172] E. Bonaudi, op. ult. cit., 21.
[173] E. Bonaudi, op. ult. cit., 20 indica così le ragioni che fa prevalere nel diritto privato il metodo deduttivo: “per gli istituti di diritto privato l’ordinamento giuridico è determinato in considerazione di finalità che sono sostanzialmente conformi ai bisogni individuali di un determinato momento storico e di una determinato civiltà, indipendentemente dall’appartenenza dei singoli ad un determinato Stato, cosicchè i relativi istituti finiscono di accordarsi nelle linee fondamentali, assumendo sempre più caratteri uniformi”.
[174] E. Bonaudi, op. ult. cit., 20 che intende per regime politico “l’indirizzo che informa tutta l’attività dello Stato e che è alla sua volta in relazione alle finalità alle quali si ispira il regime stesso”.
[175] E. Bonaudi, op. ult. cit., 573-597.
[176] Von Jhering, Serio e faceto nella giurisprudenza, trad. italiana Firenze 1954, 384.
[177] F.C. Von Savigny rilevava che la decadenza dell’insegnamento giuridico nelle Università italiane dipendeva dalla circostanza che i professori erano costretti a svolgere altro lavoro, oltre quello dell’insegnamento e della ricerca, per poter vivere in maniera decorosa. La notizia è riportata da G. Cianferotti, Storia della letteratura amministrativa italiana, I, Dall’Unità alla fine dell’ottocento – Autonomie locali – Amministrazione e costituzione, Milano 1998, 50, il quale rileva che i professori erano “consiglieri nei ministeri, pedagoghi di principi, titolari di innumeri impieghi di Stato e soprattutto avvocati” per cui l’insegnamento universitario era “un aspetto affatto secondario delle svariate attività professionali”.
[178] Von Jhering, op. ult. cit., 384 che prosegue: “l’inconciliabilità delle due professioni ha fatto si che egregi maestri siano stati costretti a lasciare l’insegnamento per dedicarsi all’avvocatura”.
[179] L. Meucci che è stato un “grande” del diritto amministrativo ha svolto l’attività di avvocato parallelamente a quella di professore universitario, ma la sua principale attività di lavoro, che lo ha molto assorbito, è stata la professione che ha svolto brillantemente, divenendo avvocato capo del Comune di Roma nel cui ufficio è stato per molti anni, tanto che le sue opere giuridiche sono soltanto 6, anche se di grande spessore. Cfr. E. Follieri, Rilettura di Lorenzo Meucci, Milano 2020, 1 e ss.
[180] La Commissione giudicatrice del concorso alla cattedra di diritto amministrativo della Libera Università di Camerino, riunitasi nei giorni 9, 10, 12, 13, 14 e 15 gennaio 1926 in una sala dell’Istituto superiore di magistero di Roma, era composta dai professori: Oreste Ranelletti, Presidente; Federico Cammeo, Umberto Borsi, Edoardo Tommasone e Luigi Genuardi segretario. Al concorso avevano partecipato, oltre al Nostro: Mario Bracci, Eugenio Cipriani, Ettore De Pompeis, Michele La Torre, Silvio Lessona e Alfonso Tesauro; quest’ultimo faceva pervenire nel giorno anteriore alla “prima riunione, la dichiarazione di recesso”, per cui la Commissione limitava “il suo giudizio agli altri sei concorrenti”; cfr. gli atti pubblicati nel Bollettino Ufficiale del Ministero della pubblica istruzione, II – Atti di amministrazione 18 marzo 1926 n. 11; pagg. 1023-1027. Nel giudizio su Bonaudi, la commissione riferisce “delle molte sue pubblicazioni” (1024).
[181] L’apprezzamento e la stima di Bonaudi per la sua qualificata e professionale attività emerge dalla richiesta di un suo parere, dopo che erano stati consultati altri giuristi, per una questione sulla natura, pubblica o privata, delle Suole elementari dell’Ospizio e Scuole di San Giovanni Battista in Valle di Adorno. A Bonaudi era stato richiesto anche di “vagliare la possibilità e la convenienza di far dichiarare come pubbliche le scuole elementari” (Amm. 03, verbale della seduta del 24 ottobre 1915 del Consiglio di Amministrazione dell’Ospizio in Segreteria – Santuario San Giovanni http://santuariosangiovanni.it).
[182] O. Abbamonte, Potere pubblico e privata autonomia. Giovanni Manna e la scienza amministrativa nel Mezzogiorno, Napoli 1991, 50 e ss.; A. Sandulli, Costruire lo Stato. La scienza del diritto amministrativo in Italia (1840-1945) in Per la storia del pensiero giuridico moderno n. 84, Milano 2009, 26 e ss.
[183] Cfr. L. Meucci, Instituzioni di diritto amministrativo, I, Torino, IV ed., 1898, 4 e ss.
[184] Alla “scuola civilistica” vengono annoverati, tra gli altri, Giovanni Manna e Giovanni De Gioannis Gianquinto: cfr. G. Rebuffa, La formazione del diritto amministrativo in Italia, Bologna 1981, 25. Viene indicato anche Lorenzo Meucci (l’ultimo dei preorlandiani secondo G. Azzariti, Dalla discrezionalità al potere, Padova 1989, 308) che avrebbe assunto il diritto privato come insieme di principi che riguardano pienamente anche i rapporti giuridici dello Stato e della pubblica amministrazione (G. Rebuffa, op. ult. loc. cit.); per una visione diversa del “pubblicista” Meucci, cfr. E. Follieri, op. cit., passim e conclusivamente 97 e ss.
[185] E. Bonaudi, Il problema della giustizia amministrativa nel loro presente, prolusione al corso libero di diritto amministrativo nell’Università di Torino del 4 dicembre 1909, op. cit., 92.
[186] E. Bonaudi, op. ult. cit., 103.
[187] E. Bonaudi, op. ult. cit., 104 e 106.
[188] E. Bonaudi, Principi di diritto pubblico., op. cit., 20.
[189] E. Bonaudi, Dei limiti della libertà individuale, op. cit., 2: lo Stato “è la fonte unica di ogni diritto”.
[190] Bollettino Ufficiale del Ministero della Pubblica Istruzione, cit. 1024.
[191] G. Cansacchi, op. cit., 327.
[192] G. Cansacchi, op. cit., 328 rileva: “L’opera scientifica del Bonaudi, pur inquadrata in una corretta dommatica, fu essenzialmente rivolta ad affrontare e risolvere problemi pratici, ad illustrare e dirimere dubbi giurisprudenziali. Egli era e rimase anche salendo in cattedra, un grande, valente avvocato; negli anni del suo insegnamento torinese, il suo studio legale accentrò le più importanti e difficili cause amministrative del Piemonte ed anche di altre Regioni viciniori”.
[193] G. Cansacchi, op. cit., 328.
[194] Bonaudi si iscrive al partito nazionale fascista il 1° gennaio 1926.