Ilaria Francucci
L’incontro di studi tenutosi il 18 maggio 2022, nell’ambito del ciclo di seminari organizzati dal curriculum di diritto amministrativo europeo dell’ambiente del dottorato in Diritto Pubblico, Comparato e Internazionale, ha ospitato l’Avv. Andrea Farì, Professore a contratto dell’Università Roma Tre. I temi affrontati nel corso del seminario hanno riguardato le ricadute dell’innovazione per l’ambiente da un punto di vista giuridico.
Il concetto dell’innovazione è complesso da definire ma ci impone nuovi e interessanti angoli prospettici dai quali guardare al diritto dell’ambiente. Si potrebbe dire, innanzitutto, che per innovazione non si intenda tanto qualcosa di nuovo quanto, invece, una spinta verso soluzioni e strumenti nuovi. Peraltro, dal punto di vista ambientale si può avere innovazione sia sul versante giuridico, ma anche su quello tecnologico, sociale e culturale. La prima difficoltà che si incontra, quindi, è proprio quella di cercare di dare una certa specificità a tale concetto. Ad esempio, da un punto di vista giuridico, lo stesso diritto ambientale è stato fin dall’origine innovativo, perché ha consentito di introdurre nell’ordinamento nuovi istituti e strumenti ma ha anche imposto di ripensare categorie giuridiche esistenti, mettendo in discussione il ruolo stesso del diritto.
C’è, però, anche un’innovazione di carattere tecnologico consistente in quegli strumenti, impianti e processi che mirano a migliorare le tecnologie esistenti e in alcuni casi a sostituirle del tutto. In questo contesto, chiaramente, emerge la cosiddetta digitalizzazione introdotta nei sistemi organizzativi e comunicativi. Sappiamo che ormai in tutte le amministrazioni pubbliche c’è una funzione dedicata proprio alla digitalizzazione, per lo più attribuita ad un direttore generale. Tuttavia, non è questo il tipo di innovazione che in questa sede ci interessa. L’attenzione deve, infatti, soffermarsi sulla specifica sottocategoria di applicazione industriale, che riguarda strumenti, servizi o impianti volti ad ottenere una maggiore compatibilità ambientale dei processi tecnologici. In questo contesto, quindi, appare più appropriato trattare di innovazione tecnologica di carattere industriale in favore dell’ambiente. Si pensi, ad esempio, agli accumulatori industriali di energia oppure ai particolari metodi di trattamento dei rifiuti. In realtà, non si fa riferimento soltanto agli impianti nuovi, ma anche a quelli di riconversione, cioè a nuove modalità di svolgimento di attività esistenti, che devono essere rese meno impattanti dal punto di vista ambientale. Si pensi, a tal proposito, ai processi che favoriscono il passaggio dal biogas al biometano. Occorre chiedersi, allora, che tipo di rapporto ci sia tra questo tipo di innovazione tecnologica e la tutela ambientale, in che modo si intersechino tra loro da un punto di vista giuridico. Innanzitutto, si può dire che l’innovazione applicata all’ambiente diviene inevitabilmente un fattore di sviluppo, anzi essa è, proprio per la sua natura, strettamente legata a tale concetto, costituendone una il fattore dell’altro. Ad ogni modo, lo sviluppo non è soltanto la crescita economica; sappiamo, infatti, che nelle forme di misurazione del benessere e del livello di sviluppo di una società, agli elementi meramente economici, si affiancano anche altri elementi, tra cui appunto i parametri ambientali.
Peraltro, l’ONU così come l’Unione Europea hanno avviato programmi per individuare un tipo di misuratore di questo benessere, ma anche le scienze, in particolare quelle economiche, hanno studiato questo tema. Comunque, il dato è che non sempre chi investe in ricerca e sviluppo consegue obiettivi di crescita economica, ma dal punto della tutela ambientale si può dire che si ottiene un certo tipo di sviluppo sicuramente positivo e vantaggioso sotto altri parametri, che possono anche non coincidere con quelli di carattere economico.
Dal punto di vista normativo, vi è una profonda differenza di rilevanza tra gli atti di carattere generale e quegli strumenti di dettaglio riferiti al caso concreto. Nella prima categoria sicuramente vi rientrano il “Green Deal”, il “Next generation EU” così come il “PNRR” nell’ambito nazionale.
Il “Green Deal”, ad esempio, chiarisce che serve un’innovazione radicale, la quale deve essere anche accessibile, caratterizzata da “intersettorialità” cioè da trasversalità, con una interoperabilità delle tecnologie innovative. Peraltro, nel “Next Generation EU” viene specificato che a tal fine potrebbero non bastare gli strumenti tradizionali. Dinanzi a questo scenario, scendendo al livello degli strumenti nazionali, non sempre l’ordinamento giuridico interno si è dimostrato pronto a recepire queste indicazioni programmatiche.
È inevitabile, a questo punto, fare riferimento al concetto di transizione ecologica e al ruolo che l’innovazione può avere in tale processo. Se riflettiamo, il concetto di transizione ecologica non si traduce solo in quella energetica né solo in quella tecnologica. Si presenta, invece, come una transizione tra modelli organizzativi della società in senso ecologico e ci spinge quindi a chiederci quali siano i tipi di organizzazione idonei per raggiungere questa transizione. Nelle fasi di passaggio, le organizzazioni devono essere adattative, cioè in grado di comprendere i propri comportamenti e di adattarsi ma, per avere questo tipo di organizzazioni, è necessario dotarsi di efficaci meccanismi di feed back, cioè di controllo e di informazione. Questi strumenti, in sostanza, consentono di capire se le decisioni prese siano state effettivamente funzionali allo scopo, mediante una raccolta di informazioni che possono essere riutilizzate nei processi di decisione e di controllo. L’innovazione, in questo quadro, sicuramente favorisce questo processo di transizione ma il problema rimane il fatto che queste caratteristiche risultano ancora non del tutto introiettate nei sistemi esistenti. Gli ordinamenti interni sembrerebbero non pronti a consentirci questo passo in avanti.
Più nel dettaglio, quindi, si tratta di capire che cosa accade quando l’innovazione si cala in un procedimento decisionale cioè in un procedimento amministrativo. Quando, ad esempio, c’è un impianto innovativo da sviluppare il procedimento amministrativo incontra grandi difficoltà. Innanzitutto, il più delle volte si scontra con l’opposizione delle stesse comunità territoriali in cui va a produrre i suoi effetti diretti. Ad oggi, infatti, l’innovazione tecnologica desta un certo sospetto a livello territoriale anche quando si traduce in iniziative di miglioramento ambientale. Il problema di questa incongruenza potrebbe individuarsi proprio nella incapacità dell’amministrazione di far funzionare adeguatamente i meccanismi di partecipazione pubblica ai procedimenti amministrativi.
La partecipazione ha, da una parte, lo scopo di consentire al soggetto destinatario di presentare osservazioni e considerazioni per incidere sulla decisione, dall’altra, quello di consentire alla pubblica amministrazione di assumere tutta una serie di informazioni che altrimenti non potrebbe ottenere, aumentando il più possibile il “set di informazioni”. Tuttavia, il più delle volte la pubblica amministrazione non riesce ad apprendere alcunché di nuovo da questo meccanismo, il quale diviene semplicemente un mezzo dal quale partire per integrare la motivazione, evitando dunque eventuali ricorsi al giudice amministrativo da parte del privato. Peraltro, bisogna anche tener conto del fatto che nella maggior parte dei casi le osservazioni presentate risultano essere contro la stessa realizzazione dell’impianto.
C’è, però, anche un altro tipo di opposizione di carattere politico, la quale spinge l’amministrazione, in particolare quella locale, a non introdurre un nuovo impianto proprio per evitare di perdere il proprio riscontro elettorale, in quell’ottica, purtroppo del tutto negativa, che induce a dire “non durante il mio mandato” e a procrastinare senza alcuna soluzione.
A frenare l’innovazione c’è anche un altro tipo di opposizione derivante da quelle agenzie tecniche, quali ad esempio l’Ispra o l’Arpa, le quali finiscono per appiattirsi sulla prassi, a fronte dell’inesistenza di fattispecie normative che regolino il nuovo caso concreto. In questo tipo di istruttorie, purtroppo, nessuno autorizza l’impianto proprio perché non si riesce a trovare una norma che regoli un caso simile. L’amministrazione tecnica, quindi, si appiattisce su sé stessa, frenando il processo innovativo in modo irreparabile. È chiaro, tuttavia, che non si può pensare di avere una norma per ogni innovazione tecnologica.
Questo blocco ci impone una nuova riflessione sul ruolo stesso che il diritto può avere e potrà avere in futuro su questi processi innovativi. Tale frenata, che l’amministrazione il più delle volte sembra porre all’introduzione di nuovi processi tecnologici, non facilita sicuramente l’applicazione concreta dell’innovazione. Forse, sarebbe il caso di riaprire quelle questioni che oggi sembrano chiuse, proprio in relazione alla produzione di normazione in materia ambientale, dal momento che potrebbe essere proprio il tipo di norme a non facilitare il superamento di questo blocco. Ad oggi, infatti, per quanto possano sicuramente individuarsi molteplici sostegni economici in questo senso, non c’è alcun binario preferenziale percorribile dal punto di vista amministrativo per le iniziative innovative tecnologiche. L’innovazione continua ad essere vista come un’eccezione anche nel tipo di procedimenti e non si tiene conto, ancora una volta, che il tempo della tecnica non può, proprio per la sua natura sostanziale, stare al passo più lento della normazione e, soprattutto, dell’amministrazione. Si potrebbe concludere, forse, che l’ordinamento giuridico ha rivolto all’organizzazione in funzione dello sviluppo dell’innovazione meno attenzioni di quanto avrebbe dovuto, per perseguire obiettivi che comunque si è posto.