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Alfonso Celotto

 

  1. Premessa storica
  2. “…vogliamo la riforma della burocrazia e degli ordinamenti giudiziari e la semplificazione della legislazione!”

Questa frase di impressionante attualità risale addirittura al 1919 essendo un passaggio dell’Appello ai liberi e ai forti di Don Sturzo.

E ci fa capire quale problema antico sia la semplificazione. Tanto che potremmo anche risalire all’antichità, citando il famoso verso di Dante “Cesare fui e son Iustinïano, che, … d’entro le leggi trassi il troppo e ‘l vano” (Paradiso, VI, 12).

Cosa aveva fatto Giustiniano nel 533 d.C. se non una semplificazione?

Ma restiamo in Italia e in anni, anzi decenni, non troppo lontani, ripartendo dagli anni del Partito popolare.

Proprio dopo la I guerra mondiale si sviluppo un ampio dibattito sul modernizzare lo Stato, soprattutto semplificandolo.

Il Governo Nitti avviò una serie di Commissioni per la semplificazione, come la Commissione centrale presso il Ministero del tesoro. presieduta dal ministro del tesoro Carlo Schanzer, e le Commissioni speciali presso ciascun ministero per le proposte relative alla semplificazione dei pubblici servizi ed alla riduzione del personale.

Così si avviò una operazione di riforma del pubblico impiego, anche per lo sfoltimento degli organici, per dispensare o collocare a riposo i dipendenti che <non corrispondano per capacità, diligenza, assiduità o condotta, alle esigenze dell’ufficio> (art. 55 del Regio decreto-legge 23 ottobre 1919, n. 1971). Ma i risultati furono scarsi, sia per le pressioni politiche sia per quelle sociali. Si pensi che vennero dispensati in tutto meno di cinquemila dipendenti su cinquecentomila, cioè nemmeno l’uno per cento.

Poi fu il Governo Bonomi a tentare una ampia semplificazione della amministrazione, con la legge 13 agosto 1921, n. 1080, “Provvedimenti per la riforma dell’amministrazione dello Stato, la semplificazione dei servizi e la riduzione del personale”, che prevedeva tra le altre cose la soppressione di tutti gli uffici speciali per la guerra ancora esistenti, affidando i lavori a una commissione di cinque ministri. Anche qui con scarso successo. Non a caso Luigi Einaudi sul <Corriere della sera> dell’11 febbraio 1922 pubblicò un duro editoriale dal titolo L’insuccesso fatale della riforma burocratica.

Ma eravamo alle porte della dittatura.

Il fascismo non aveva grande esperienza burocratica e cercò di “militarizzare” lo Stato, come con la Riforma De Stefani del pubblico impiego.

Presto lo stesso Mussolini si accorse delle paludi burocratiche. Dopo essersi definito, con compiacimento <imperatore degli impiegati>, ritenendo la burocrazia un <motore gigantesco> a servizio della nazione (1923), gli bastarono un paio di anni per accorgersi come funzionava davvero il sistema.

Bastano queste parole. Potrei raccontare <una serie di episodi sintomaticissimi, curiosi, paradossali, inqualificabili […] in quelli che si possono definire i gangli nervosi delle Amministrazioni dello Stato>. Perciò <è necessario che tutti, dal primo all’ultimo, non facciano sabotaggio ai ruotismi della burocrazia, perché in tre anni di governo ho constatato che parecchie volte i provvedimenti che erano urgenti… morivano. e stagnavano sui tavoli di molti burocrati, che perpetrano questa specie di sabotaggio della Nazione. Tutto questo deve finire per tutti> (Discorso alla Camera del 19 giugno 1925 sul disegno di legge relativo dispensa dal servizio dei funzionari dello Stato).

Eppure, nemmeno Mussolini ci riuscì. Il metodo di lavoro non cambiò, per quanto la politica del governo fosse importata a un decisionismo fortemente accentrato.

Nel 1928 venne istituito un Comitato di esperti per la riforma generale dei metodi di lavoro e di controllo delle amministrazioni dello Stato guidato dall’ex ministro De Stefani che già allora ammetteva: potranno mutare le leggi e gli ordinamenti, <ma la velocità dello Stato non potrà mutare gran che se non muterà, ove occorra, lo spirito degli uomini che lo servono>.

Il problema era chiaro e felicemente sintetizzato: un problema culturale, di approccio, prima ancora che giuridico. E sarà risolto all’italiana, cioè con il graduale obbligo di iscrizione al partito fascista. Come se una tessera potesse cambiare il funzionamento della macchina dello Stato.

Furono anche compiute delle importanti semplificazioni legislative, con la raccolta di una serie di testi unici, con caratteristiche di organicità e coerenza interna, tanto da essere rimasti in vigore per decine di anni, anche in epoca repubblicana. Si pensi alla legge bancaria del 1936, ai testi unici di pubblica sicurezza, sulla pesca e sul catasto (1931), a quello sulle acque e la bonifica (1933) al testo unico comunale e provinciale e a quello sulla Corte dei conti, accanto ai nuovi Codici civile e penale (tuttora in vigore).

Intanto cresceva il numero degli enti pubblici, istituiti a decine ogni anno, in nuovi settori di competenza: patronati, consorzi di bonifica, casse mutue, casse di assicurazione, enti lirici, enti fieristici, consorzi agrari. E con essi il numero dei dipendenti, arrivando a 630.000 nel 1933, quasi 800.000 nel 1938, 1.380.000 nel 1943, con incrementi più rilevanti – potremmo dire, ovviamente – nel settore militare.

Un mondo burocratico fatto di piccoli uomini di poca autorità in camicia nera, senza illusioni, stanchi, come emerge limpidamente nelle pagine dei romanzi che raccontano quegli anni, quali Quer pasticciaccio brutto di Gadda e Cristo si è fermato a Eboli di Levi.

  1. Con la Seconda guerra mondiale crollò il regime e anche l’amministrazione. Dopo l’8 settembre 1943, l’Italia si trovò spezzata in due: non era tempo di parlare di semplificazione.

Dopo la liberazione del 25 aprile, l’Italia tornò a unificarsi sotto un governo unico, guidato prima da Parri, poi da De Gasperi. E si iniziò a pensare alla nuova Costituzione, al problema della monarchia e una nuova macchina dello Stato per la ricostruzione giuridica e materiale del Paese.

Subito il Governo Bonomi nel 1944 avviò una Commissione per la riforma dell’amministrazione, chiaro segnale dell’urgenza del problema.

Lo stesso ministro del tesoro Corbino scrisse un duro articolo – accompagnato da vivaci polemiche – dal titolo significativo: Bisogna Produrre. Faceva rilevare che <l’inerzia degli uffici inceppava la ripresa economica del Paese>, che gli impiegati lavoravano al massimo quattro ore al giorno e che la corruzione era molto diffusa, essendo il reddito dei dipendenti <integrato da illeciti seppure inafferrabili interventi privati, che gravano sulla vita del paese per cifre non indifferenti>, stimate nel venticinque per cento della spesa pubblica.

Poi nel giugno 1946 venne scelta la Repubblica e iniziarono i lavori dell’Assemblea costituente. Ma non erano i costituenti a dover risolvere il problema della burocrazia e della semplificazione, occupandosi di quelli che furono definiti i “rami alti” dell’ordinamento.

La neonata Repubblica italiana iniziò con le migliori intenzioni per la semplificazione addirittura con la creazione di apposito “Ministero per la riforma burocratica” guidato prima da Raffaele Pio Petrilli nel VI Governo De Gasperi (1950) e poi da Salvatore Scoca nel Governo Pella (1953). Accanto al ministro venne creato anche l’ufficio per la riforma dell’Amministrazione.

Si iniziò a lavorare sulla meccanizzazione degli uffici, dopo una indagine dalla quale risultava che in molti uffici ancora si lavorava con le Hollerith, macchine tabulatrici di fine Ottocento.

Addirittura, nel 1955 il presidente del Consiglio Scelba avviò un concorso di idee, con premi in danaro fino a cinquecentomila lire, per gli impiegati che avessero dato <suggerimenti per il miglioramento dei servizi e in particolare per una effettiva economia di tempo e di mezzi, nonché per una maggiore facilitazione del pubblico ad usufruire delle prestazioni delle pubbliche amministrazioni>. Vennero poi introdotte le prime fotocopiatrici, visori per microfilm, registratori magnetici, con tutta una serie di circolari, direttive, istruzioni operative, per superare tutti i problemi pratici sull’addestramento del personale e sulla individuazione di quali categorie di impiegati potesse utilizzare queste nuove apparecchiature.

Ma la burocrazia è sempre tardigrada e misoneista, nel senso che si adatta lentamente alle novità. Lo disse anche Amintore Fanfani nel 1961, andando a Palazzo Chigi quale presidente del Consiglio: <Trovo conferma [di] quanto lenta e arrugginita sia la nostra amministrazione>.

Intanto, nel 1956 venne avviata la grande operazione di soppressione e semplificazione degli enti inutili, ad opera della legge 14 dicembre 1956, n. 1404: “Soppressione e messa in liquidazione di enti di diritto pubblico e di altri enti sotto qualsiasi forma costituiti, soggetti a vigilanza dello Stato e comunque interessanti la finanza statale”.

La presenza di troppi enti complicava i procedimenti e le cose da fare, con sovrapposizione di competenze, riunioni, concerti, avvisi comuni. Ma c’erano anche troppi di dipendenti da utilizzare bene, inquadrare adeguatamente, formare. Dal milione di pubblici dipendenti del 1948, si era arrivati nel 1963 a quasi un milione e mezzo, che vennero riordinati con il Testo unico del pubblico impiego n. 3 del 1957.

Del resto, i ministri e i sottosegretari stentavano a controllare le direzioni generali e quindi si ingrandirono le segreterie particolari e gli uffici di gabinetto, per avere più personale a disposizione che seguisse gli affari ministeriali. Ma in questo modo si complicarono ancora di più i procedimenti, in quanto dopo l’istruttoria delle direzioni generali, se ne avviava un’altra del gabinetto del ministro, allungando di molto i tempi. In pratica era come se il ministro costituisse un ministero parallelo all’interno del ministero con il suo gabinetto e le sue segreterie. Per controllare il lavoro dei ministeriali. Il classico problema della scissione fra politica e amministrazione, con duplicazione di procedimenti, controlli, provvedimenti e tempi che si allungano.

Bisognava fare qualcosa. Quindi, come al solito, vennero istituite Commissioni di studio e gruppi di lavoro.

La più importante fu la Commissione Medici (da nome del suo presidente Giuseppe Medici, ministro per la riforma della pubblica amministrazione nel Governo Fanfani). Così nel 1963 venne prodotta una ponderosa relazione, che denunciava il carattere antiquato delle strutture, la cattiva organizzazione, la duplicazione di competenze, la scarsa efficienza presentava una serie di proposte anche interessanti, ma mai arrivate a produrre risultati concreti.

Già in quegli anni nell’opinione pubblica la burocrazia era sinonimo di casta. Si pensi che nel 1963 una delle riviste più autorevoli dell’epoca, <Il Mondo>, diretta da Mario Pannunzio, dedicò una dura inchiesta al mondo dei direttori generali dei ministeri, dal titolo eloquente: La casta dei bramini.

Una riforma era indispensabile. Lo scrisse anche Pietro Nenni nei suoi diari, nel 1966: <La riforma dello Stato, della finanza locale, del sistema previdenziale, è ormai il maggiore problema del paese>.

Si avviò allora una riforma dei procedimenti amministrativi, attraverso una serie di semplificazioni di settore, con una legge delega n. 249 del 1968. Si prevedeva che: “Il Governo della Repubblica è delegato ad emanare entro il 30 giugno 1972 uno o più decreti aventi valore di legge ordinaria per disciplinare i singoli procedimenti amministrativi nei vari settori. … Si dovrà sempre tendere alla semplificazione ed allo snellimento delle procedure, in modo da rendere quanto più possibile sollecita ed economica l’azione amministrativa, e a tal fine dovrà realizzarsi, tra l’altro, l’eliminazione delle duplicazioni di competenze, dei concerti non necessari e dei pareri, dei controlli e degli adempimenti in genere, che non siano essenziali per una adeguata valutazione del pubblico interesse o per la consistente tutela degli interessi dei cittadini”.

È impressionante questo articolo di legge. Sembra scritto oggi e non cinquant’anni fa…

Comunque, in base alla delega del 1968, vennero emanati una serie di decreti legislativi di semplificazione e snellimento, esattamente per:

  • i procedimenti in materia di ricorsi amministrativi (dPR 24 novembre 1971, n. 1199);
  • i trattamenti di attività e di quiescenza dei dipendenti dello Stato, comprese le aziende autonome (dPR 30 giugno 1972, n. 423);
  • i procedimenti amministrativi in materia di brevetti per invenzioni industriali (dPR 30 giugno 1972, n. 540);
  • le procedure in materia di amministrazione e contabilità generale dello Stato (dPR 30 giugno 1972, n. 627).

Poi si è provata la semplificazione con alcune leggi isolate, come per la “Semplificazione delle procedure catastali” (l. 679 del 1969) e la “Riduzione dei termini e semplificazione del procedimento elettorale (l. n. 136 del 1976)”; cui seguirà la “Semplificazione e snellimento delle procedure in materia di stipendi, pensioni ed altri assegni” (l. n. 428 del 1985).

  1. Il 16 novembre 1979 è una data importante per le riforme. È Ministro per l’organizzazione della pubblica amministrazione nel Governo Cossiga, Massimo Severo Giannini. Che non è soltanto uno dei massimi professori di diritto amministrativo, ma conosce l’amministrazione fin dai tempi dell’Assemblea costituente. Il gruppo di lavoro che dirige produce il Rapporto sui principali problemi della Amministrazione dello Stato (che resterà per tutti il Rapporto Giannini).

Una analisi lucida e limpida, con una conclusione lapidaria:

“…revisioni di tecniche, riordinamenti, ristrutturazioni, riforme di pubbliche amministrazioni, da sole non basteranno; occorrerà che siano accompagnate da modernizzazione delle leggi regolative dell’azione amministrativa: sono due le condizioni per riportare la pace tra pubbliche amministrazioni e cittadini. La pace, non la fiducia, perché questa non dipende da leggi, e non si avrà finché non sia cancellata da una diuturna opera illuminata di uomini l’odierna figura dello Stato: per i cittadini esso non è un amico sicuro e autorevole, ma una creatura ambigua. irragionevole, lontana…

La situazione è, sì, gravissima, ma non è irreversibile.

Si confida che la saggezza del Parlamento possa dare la spinta che occorre per iniziare a risalire”.

La burocrazia non è solo un problema di organizzazione. È un problema di fiducia tra Stato e cittadini, anzi di pace. Lo Stato è sentito da tutti noi come un nemico. Da sfuggire, ingannare, evitare.

L’amministrazione è in crisi, una crisi da cui si esce con riforme profonde, epocali e non con la <pratica dei disegnini di legge per riparare ossicini fratturati o supposti tali> (sono ancora parole di Giannini).

Un’amministrazione impreparata, lenta, confusa.

Sulla base del Rapporto Giannini vennero avviate commissioni di lavoro, poi fu approvata la legge sul nuovo assetto retributivo-funzionale (n. 312 del 1980) e la nuova forma di contrattazione nel pubblico impiego (legge n. 93 del 1983). Leggi anche bene impostate, ma rimaste inattuate, o attuate male.

Intanto i dipendenti pubblici avevano superato ampiamente i due milioni.

Parallelamente si succedevano ministri della funzione pubblica che si impegnavano in riforme portate avanti in buona fede e con sincero impegno.

Ma alla fine i risultati erano ben pochi.

La solita “riformite”, cioè l’ansia di proporre riforme senza alcun risultato di reale semplificazione.

Alla fine degli anni Ottanta si è provata una grande operazione di semplificazione della legislazione, con la cosiddetta delegificazione. Anche qui l’idea era semplice e funzionale: visto che ci sono troppe materie disciplinate per legge anche su argomenti di secondaria importanza (come, ad es., l’attività di panificazione) è opportuno de-legificare queste materie, cioè toglierle dalla competenza della legge e assegnarle alla competenza regolamentare (con il procedimento, non agevole, fissato dall’art. 17, comma 2 della legge nl. 400 del 1988). L’operazione però ebbe scarso esito, anche per quanto era complicato il procedimento di delegificazione.

Poi è stata varata la legge generale sul procedimento amministrativo, per garantire tempi e modi del procedimento, stabilendo i tempi di durata del procedimento e creando la conferenza di servizi per semplificare le decisioni, di cui abbiamo già parlato (legge n. 241 del 1990). E sono stati nuovamente riformati comuni e province (legge n. 142 del 1990). Poi è stato privatizzato, solo sulla carta, il pubblico impiego, con una serie di decreti legislativi. A partire dal n. 29 del 1993, anche con innovazioni interessanti, come l’URP, cioè l’Ufficio relazioni con il pubblico, che avrebbe dovuto garantire un miglior contatto fra cittadini e amministrazioni.

Nel Governo Ciampi è stato ministro della funzione pubblica Sabino Cassese, uno dei massimi esperti di amministrazione, il quale ha varato un programma di riforme ambizioso, impostando un radicale rovesciamento di impostazione, con la amministrazione al servizio dei cittadini.

È stata ripresa e attuata l’idea della “autocertificazione”, già contenuta in una legge del 1968, rimasta dimenticata, per evitare ai cittadini di chiedere certificati su ogni cosa. È stato avviato un censimento dei procedimenti amministrativi e sono stati approvati una settantina di regolamenti di semplificazione. È stato modificato il sistema dei controlli, provando a passare di gestione, cioè sui risultati, e non più solo sulle singole pratiche. Ma anche il Governo Ciampi e i progetti del ministro Cassese durarono pochi mesi.

L’opera di semplificazione è stata ripresa poi nel 1997 dal ministro Bassanini, con una ulteriore campagna di riordino, sia normativo che amministrativo. È stata prevista la legge annuale di semplificazione, lo Sportello unico, di cui abbiamo già parlato, e sono stati introdotti nuovi strumenti per la qualità della legislazione, come la AIR e la VIR (strumenti di analisi per la verifica di fattibilità delle leggi), secondo le tradizioni anglosassoni.

Eppure, in Italia AIR e VIR sono diventate solo l’ennesimo modulo burocratico che si allega a un disegno di legge, senza che non lo legga nessuno o quasi.

Sempre con le Leggi Bassanini si è avviata una revisione di tutti i procedimenti amministrativi con la finalità della “soppressione dei procedimenti che comportino, per l’amministrazione e per i cittadini, costi più elevati dei benefici conseguibili” (art. 20 legge n. 59 del 1997). Anche qui con risultati scarsi.

Parallelamente è stata prevista una relazione annuale del Governo al Parlamento sullo stato della semplificazione. E si è creata una apposita struttura per la semplificazione, prima come nucleo, poi come dipartimento e poi addirittura come ministero, nel IV Governo Berlusconi, che ha avuto il Ministero per la semplificazione normativa retto da Roberto Calderoli, il quale avviò il taglia-leggi con tutte le relative abrogazioni (art. 14 l. n. 246 del 2005)

Poi sono arrivati il ministro Brunetta, il ministro Frattini, il ministro Patroni Griffi, la ministra Madia e la ministra Bongiorno e ancora Brunetta. Ognuno con le sue buone intenzioni, anche se alla fine le riforme davvero attuate sono state limitate e non sistematiche. Per usare le parole di Giannini si è continuato a <riparare ossicini>.

E intanto è stato riformato l’assetto delle Regioni con la riforma costituzionale del 2001, con il modello della sussidiarietà. Sono state più volte bloccate le assunzioni nel pubblico impiego, sono stati aumentati i controlli per evitare le troppe malattie o per combattere i “furbetti” del cartellino, cioè quelli che timbrano e poi non vanno a lavorare.

Sempre nel nome della semplificazione, parola “di moda” da anni, se non da secoli.

Ma in genere dimenticando quello che disse Carnelutti nel 1956: «La semplificazione dell’ordinamento è un compito che presenta gravissime difficoltà; ed è inutile cercare di superarle se non si hanno delle idee chiare. Insomma, bisogna sapersi orientare, anzi che procedere a tentoni» (Certezza, autonomia, libertà, diritto, «Il diritto dell’economia», 1956, p. 1193)

E invece si continua a procedere a tentoni. Spesso concentrandosi su obiettivi marginali.

Come alcune delle attività avviate nell’ambito della Agenza per la semplificazione. Si pensi al Tavolo tecnico per standardizzare la modulistica e individuare dei suggerimenti per l’adozione a tutti gli enti interessati, che ha adottato, ad es., il modulo di Segnalazione certificata di inizio attività di tintolavanderia / lavanderia self-service a gettoni, adottato il 6 luglio 2017, il modulo di Segnalazione certificata di inizio attività per l’esercizio di somministrazione di alimenti e bevande all’interno di associazioni e circoli aderenti a enti o organizzazioni nazionali aventi finalità assistenziali e che hanno natura di enti non commerciali (17 aprile 2019) e il modulo di Segnalazione certificata di inizio attività di autoscuole (25 luglio 2019), per poi farli approvare in Conferenza unificata.

Sono sicuramente iniziative meritorie per cercare di semplificare un po’ la vita dei cittadini. Ma si tratta pur sempre di gocce nel mare, anzi nell’oceano, della burocrazia.

Per non parlare del “Glossario contenente l’elenco non esaustivo delle principali opere edilizie realizzabili in regime di attività edilizia libera, per le quali non è necessario chiedere un permesso né presentare una comunicazione”, adottato con decreto del ministro delle infrastrutture e dei trasporti di concerto con il ministro per la semplificazione e la pubblica amministrazione del 2 marzo 2018, per garantire l’omogeneità del regime giuridico applicato e una terminologia univoca e uniforme su tutto il territorio nazionale.

Sono vere semplificazioni o spunti per i racconti di Gogol, Kafka e Borges?

  1. Il Disegno di Legge 1192 S.

Questo DDL si inserisce nella lunga traccia di interventi per la semplificazione con l’auspicio che possa finalmente risolvere i tanti guasti alla certezza del diritto, alla conoscibilità delle norme e alla vita dei cittadini, senza limitarsi a “riparare ossicini” con la smania della “riformite”.

Siamo sul versante della semplificazione normativa, che teniamo distinta dalla semplificazione amministrativa.

Art. 1 – Legge annuale

La legge di semplificazione annuale può essere uno strumento utile di manutenzione e snellimento dell’ordinamento.

Negli ultimi anni abbiamo conosciuto le leggi periodiche specializzate (o cicliche), emerse recentemente sul modello della legge finanziaria annuale, al fine di fare il punto su un determinato settore e programmare i successivi interventi: si pensi ai casi della legge finanziaria (poi di stabilità, ora legge di bilancio), della legge di delegazione europea e la legge europea, della legge di semplificazione, della legge annuale per il mercato e la concorrenza.

Due sono i problemi:

  • rispettare la periodicità;
  • non renderle contenitori della più svariata mercanzia.

Per entrambi questi obiettivi occorrerebbe una modifica: prevedendo una sessione parlamentare dedicata o almeno tempi certi di approvazione e comunque una forma di controllo rinforzato sulla omogeneità dello strumento. Entrambi sono obiettivi non agevoli.

Art. 4 – VIG

La valutazione di impatto generazionale (VIG) consiste nell’analisi preventiva dei disegni di legge del Governo in relazione agli effetti ambientali o sociali ricadenti sui giovani e sulle generazioni future. La VIG costituisce uno strumento informativo riguardante l’equità intergenerazionale degli effetti ambientali o sociali indotti dai provvedimenti.

Mi pare uno strumento importante perché la tutela delle generazioni future è acefala, dopo la novella dell’art. 9 Cost. Si pongono problemi di legittimazione a ricorrere e di tipo di tutela da riconoscere, anche perché spesso gli obblighi verso le generazioni future si configurano quasi più come obblighi morali prima ancora che come obblighi giuridici.

Dal punto di vista della titolarità alla tutela, non si può certo pensare che siano legittimate a ricorrere le stesse generazioni future, in quanto non ancora esistenti. Per risolvere questo problema – apparentemente insolubile – in molti Stati si è attivato un difensore civico o un comitato pubblico per la tutela dei diritti delle generazioni future (è quanto accade in Finlandia, in Israele, Ungheria, Francia, UK, Canada).

Dal punto di vista contenutistico, è difficile individuare in via generale quali siano le misure che in generale possono essere adeguate a tutelare i diritti delle generazioni future, ad es. per salvaguardare l’ambiente o non aggravare il debito pubblico. Si ritiene che le misure vadano considerate caso per caso (ad es. rispetto alla singola opera pubblica da costruire) e comportino essenzialmente e innanzitutto un onere procedimentale di istruttoria. In altri termini, una adeguata valutazione degli interessi delle generazioni future passa necessariamente attraverso una istruttoria nelle quale emergano le posizioni delle generazioni future e se ne faccia adeguata ponderazione rispetto al bilanciamento con gli altri principi e valori che emergono nella valutazione della decisione politica da assumere.

La relazione VIG appare utile per non limitare le valutazioni al “qui e ora”, tenendo in adeguato conto anche i diritti delle generazioni future.

Due rilievi:

  • Forse va pensata anche una apposita Autorità indipendente, con potere di ricorso addirittura alla Corte costituzionale avverso le leggi (ma occorrerebbe una novella costituzionale).
  • La VIG non deve operare solo per effetti “sociali e ambientali”, ma anche di impatto economico.

Artt. 7 e seguenti – Codici

I codici di settore sono meritori ma non bastano. In Italia ne abbiamo una ventina oltre ai codici “classici”.

  1. Codice postale e delle telecomunicazioni
  2. Codice della strada
  3. Codice del processo tributario
  4. Codice in materia di protezione dei dati personali
  5. Codice delle comunicazioni elettroniche
  6. Codice dei beni culturali e del paesaggio
  7. Codice della proprietà industriale
  8. Codice dell’amministrazione digitale
  9. Codice della nautica da diporto
  10. Codice del consumo
  11. Codice delle assicurazioni private
  12. Norme in materia ambientale (c.d. codice)
  13. Codice dei contratti pubblici
  14. Codice delle pari opportunità
  15. Codice dell’ordinamento militare
  16. Codice del processo amministrativo
  17. Codice del turismo
  18. Codice antimafia
  19. Codice di giustizia contabile
  20. Codice del Terzo settore
  21. Codice della protezione civile
  22. Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza

Sono sicuramente utili, ma presentano un paio di problemi significativi:

  • Non sono omnicomprensivi e non sono protetti da interventi successivi, nel senso che non sono protetti da interventi normativi successivi. Occorrerebbe una specie di riserva di codice, per obbligare tutti gli interventi normativi successivi nel settore a entrare nel codice.
  • Restano sporadici e asistematici, rispetto a un modello di normazione fatto di micro-interventi sparsi. Non dico che andrebbe operato il tentativo della ricodificatone generale alla francese, ma almeno andrebbe posta una normativa di incentivazione ai codici.

            Ultima questione esula da questo DDL, sulla semplificazione amministrativa, altrettanto importante per la vita dei cittadini.

L’amministrazione è ancora fondata sul modello ottocentesco, fatto di protocolli, copie di archivio, lettere di trasmissione, senza controlli efficaci, senza garanzie di produttività, anche oggi nell’epoca del digitale, dei social network, dei mezzi di comunicazione immediati.

Le pubbliche amministrazioni, nella grande maggioranza dei casi, approcciano il tema del digitale in modo episodico e non organico. Sicuramente non strategico e non prioritario. La trasformazione digitale è ben lontana dall’essere realizzata.

I processi di digitalizzazione sono quasi sempre “iniziati” e mai “conclusi”, i diritti digitali dei cittadini e delle imprese sono rispetta-ti di rado e solo per alcuni servizi, mancano pianificazione e stanziamenti specifici per completare lo switch off (il passaggio completo alla modalità digitale). Esiste una chiara e diffusa conoscenza dei progetti strategici portati avanti dal Governo, ma anche l’adesione alle infrastrutture immateriali previste dal piano triennale, come SPID (Sistema Pubblico d’Identità Digitale) o PagoPA (la piattaforma dei pagamenti elettronici per la PA), sembra essere il più delle volte un atto compiuto con la logica dell’adempimento simbolico piuttosto che un deciso cambio di paradigma che porti alla trasformazione completa dei servizi.

Oggi il Digitale può essere una soluzione.

Il sogno è quello di avere sul nostro telefonino una sola “app” in cui fare tutto ciò che occorre con la pubblica amministrazione in pochi minuti, semplice come è semplice comprare qualcosa su Amazon, senza dover scrivere a mille enti diversi e farci identificare con dati anagrafici, codice fiscale, partita IVA, codice univoco, ecc. ecc.

Per non rischiare di morire seppelliti di carte, carte bollate, timbri e protocolli, forse mandati via PEC e comunque in duplice copia. Cioè, con le carte a posto. Ma intanto sarà morto anche lo Stato democratico fondato sulla legalità e sulla burocrazia.