Giustizia amministrativa

Articoli e note

GIAMPIERO BUONOMO
(Consigliere parlamentare nel Senato della Repubblica)

L'ULTIMA TAPPA DELLA GIURISPRUDENZA SUGLI INTERNA CORPORIS
LA SENTENZA CALDEROLI
(pubblicato nella Gazzetta giuridica Giuffrè-ItaliaOggi - fascicolo n. 44 dell'11 dicembre 1998 - anno VI )

La storia della democrazia dei moderni è anche storia delle guarentigie conquistate dai parlamenti nei confronti dei monarchi e dei rispettivi esecutivi (v. Moio, "Interna corporis acta": garanzia o privilegio?, in Nuovi studi politici, 1996, p. 125): eppure, da un ceppo comune quale è la tutela dell'autonomia delle istituzioni parlamentari, si dipanano molteplici ramificazioni - corrispondenti ad un numero di fattispecie pari forse al numero stesso dei parlamenti esistenti - ponendosi il confine dell’area di libertà della rappresentanza politica in un rapporto logicamente interrelato con le condizioni generali dei diritti politici in ciascun paese.

Rispetto anche ad ordinamenti di più antica e consolidata fedeltà democratica, l'area di immunità che riguarda il Parlamento italiano si è affermata in una delle più ampie accezioni possibili, fino a legittimare il dubbio che questa sfera di libertà si atteggi come privilegio di un ceto politico: storicamente, il baluardo di questa accezione ampia è stata la posizione del regolamento parlamentare nella gerarchia delle fonti. La sua collocazione naturale è quella di fonte di rango sub-costituzionale, per rendere le procedure legislative in esso contenute inattaccabili dal disegno di legge a cui si devono applicare: ciò allo scopo di evitare quel surrettizio cambiamento delle "regole del gioco" a partita già in corso, nel quale si sostanzia in nuce la dittatura delle maggioranze e perciò il rovesciamento di ogni regola formale delle democrazie moderne.

Ciò non ha mai impedito ad ordinamenti costituzionali stranieri di normare con legge aspetti dell'organizzazione delle Camere diversi da quello legislativo (legge degli Stati uniti d'America 23 gennaio 1995, n. 104-1), né ha impedito di configurare un sindacato giurisdizionale delle stesse norme regolamentari sul procedimento legislativo (l'articolo 61 della Costituzionale della V Repubblica francese, per esempio, affida al Consiglio costituzionale un controllo obbligatorio e preventivo nei confronti di ogni norma regolamentare delle Camere, prima della sua entrata in vigore).

In verità, rispetto a queste esperienze straniere il punto di partenza della giurisprudenza costituzionale italiana è sempre stato particolarmente arretrato: lo ha recentemente riconosciuto la Corte stessa, nella sentenza 17 ottobre-2 novembre 1996 n. 379, ammettendo che "una troppo rigida accezione dell'autonomia parlamentare potrebbe essere ritenuta inappagante" e che "vi sono ordinamenti, che appartengono ad esperienze costituzionali non discoste dalla nostra, nei quali lo statuto costituzionale dei parlamentari e' tutelabile innanzi agli organi di giustizia costituzionale. Una simile prospettiva non si e' ancora concretizzata nella esperienza del nostro ordinamento, anche se la giurisprudenza di questa Corte si è mostrata da sempre sensibile alle vicende che comportino la compressione di diritti politici". Come conseguenza, non solo i diritti politici delle minoranze, ma in generale la posizione giuridica di tutti coloro che vengono in contatto con l'ordinamento interno delle Camere, risulta storicamente meno tutelata in Italia che altrove.

Mentre la Corte di Karlsruhe ha costellato delle sue pronunce tutte le principali vicende parlamentari tedesche dell’ultimo ventennio (dagli euromissili alla riunificazione, dalle missioni militari all’estero al diritto d’asilo) e mentre la giurisprudenza d'Oltralpe nel giudizio in via principale ha ulteriormente dilatato i margini di sindacato giurisdizionale al detournement de procedure (Cons. cost., 13 Janv. 1994, décis. n. 93-329 DC), la conclusione della Corte costituzionale italiana, ancora nella citata sentenza, resta interlocutoria: "Lo statuto di garanzia delle assemblee parlamentari risulta infatti definito, e al tempo stesso delimitato quanto alla sua operatività, da un unitario e sistematico insieme di disposizioni costituzionali, fra le quali campeggiano gli artt. 64 e 72. Essi riservano ai regolamenti parlamentari, votati a maggioranza assoluta da ciascuna Camera, l'organizzazione interna e, rispettivamente, la disciplina del procedimento legislativo per la parte non direttamente regolata dalla Costituzione."

Certo, a circa quarant'anni dalla sentenza della Corte costituzionale n. 9 del 1959, risulta sempre meno sostenibile l’originaria opinione che riteneva "preclusa la possibilità di interpretare le disposizioni dei regolamenti parlamentari in modo difforme dalle Camere e, conseguentemente, anche quella di verificare la costituzionalità di una norma di legge in riferimento alla sua conformità al regolamento" (v. Dal Canto, Corte costituzionale e autonomia del Parlamento, in Foro italiano, 1997, parte I, p. 371). Resta però nei fatti una sostanziale inattaccabilità in via principale della norma regolamentare, per il difetto di legittimazione dei soggetti politici interessati (in primo luogo i parlamentari di minoranza, ma anche i dipendenti che intendessero contestare l'esercizio dell'autodichia); del resto, un perverso contenzioso interpretativo paralizzerebbe l’operazione ermeneutica che - nell’eventuale giudizio in via incidentale - volesse ricercare un parametro costituzionale, alla stregua del quale interpretare i regolamenti parlamentari.

Non è affatto indifferente che, tra le possibili interpretazioni, il fondamento di una facoltà del singolo parlamentare sia rinvenuto nella Costituzione (che lo assisterebbe delle relative forme di tutela) oppure nell'ordinamento parlamentare stesso: basta vedere, in proposito, come il potere di emendamento sia stato fatto discendere esclusivamente (v. Bertolini, Emendamento, deliberazione parlamentare e iniziativa, in Quaderni dell'Associazione per gli studi e le ricerche parlamentari, 1994, n. 5, Giappichelli, p. 213) dalla potestà di regolamentazione del procedimento legislativo (attribuita alle Camere dall'articolo 72 primo comma Cost.), con un'interpretazione chiaramente rivolta a sottrarne la riconducibilità al potere di iniziativa dei disegni di legge (che, in base all'articolo 71 della Costituzione, conferisce un diritto politico direttamente ai soggetti ivi indicati); ne conseguirebbe nel primo caso un ambito di insindacabilità assoluta, mentre nel secondo caso il vitium in procedendo colpirebbe la stessa regolarità del procedimento legislativo e sarebbe opponibile in sede di giudizio di legittimità costituzionale del testo normativo così approvato.

La prassi parlamentare naturalmente sostiene la prima interpretazione, con la conseguenza di casi sempre meno rari di non messa ai voti di emendamenti: ciò avviene non più soltanto per le declaratorie di inammissibilità o di improponibilità delle Presidenze, ma oramai anche per lo spirare dei tempi contingentati o perfino per il decorso del termine massimo di esame di un decreto-legge (raggiungendo le vette di virtuosismo rappresentate dalla "ghigliottina" introdotta dalla prassi del Senato in questa legislatura, ovvero dalla "segnalazione" dei Gruppi circa gli emendamenti da porre in votazione ai sensi del nuovo articolo 85-bis del Regolamento della Camera). Se si pensa invece alla citata giurisprudenza con cui il Consiglio costituzionale francese entrò nel merito della declaratoria d'irricevibilità di emendamenti, ai sensi dell'articolo 40 della Costituzione - e, seppur confermando la decisione presidenziale del caso concreto, per il futuro pronosticò l’accoglimento di ricorsi riguardanti emendamenti aventi carattere determinante sulla procedura legislativa, escludendo solo i casi in cui difetta la sua previa contestazione (v. Oliva, Revision de la loi Falloux, in Recueil Dalloz sirey, 1995, p. 292 e segg.) - ci si rende conto di quanto sia fallace l’illusione che l’accezione più ampia dell'insindacabilità delle Camere difenda per ciò stesso i margini di libertà politica di un regime democratico.

L'usbergo così calato sulle Camere italiane, lungi dal tutelarle, si è rivelato, in realtà, controproducente per la stessa immagine dell'istituzione parlamentare: in difetto di volontà politica, perciò, proprio alla Corte costituzionale è toccato di iniziare il percorso di avvicinamento agli altri regimi più evoluti, che si ispirano al nostro stesso modello costituzionale. Paradossalmente, tutto cominciò proprio con la sentenza 6 maggio 1985 n. 154, che all'epoca parve porre una pietra tombale sulla questione dichiarando l'esistenza di un principio di "indipendenza guarentigiata nei confronti di qualsiasi altro potere, cui pertanto deve ritenersi precluso ogni sindacato degli atti di autonomia normativa ex articolo 64, primo comma, Cost."; con essa, la Corte costituzionale spostava in realtà il fondamento dell'insindacabilità degli interna corporis acta dalla natura dell'atto alla posizione dell'organo nel sistema istituzionale, con la connessa esigenza di assicurare la sua indipendenza dagli altri organi. Ne conseguì però che tale delimitazione, valida per gli altri poteri, non poteva riguardare il giudizio che la Corte costituzionale esprime in sede di conflitto di attribuzioni tra poteri dello Stato.

Occorre anzitutto sgombrare il campo dal timore che la Corte possa per questa via arrogarsi il giudizio sul merito politico di un atto del Parlamento (v. Niccolai, Il conflitto di attribuzione e la politica, in Giurisprudenza costituzionale, 1996, p. 74): nel ricordare che l'atto oggetto della sentenza 18 gennaio 1996, n. 7 "contiene valutazioni del Senato che, proprio perché espressione della politicità dei giudizi a quest'ultimo spettanti, si sottraggono, in questa sede, a qualsiasi controllo attinente al profilo teleologico", la Corte costituzionale ha già escluso essa stessa il pericolo di sconfinamenti di questo tipo.

Nel contempo, con la medesima sentenza n. 7 del 1996 si rimuove il criterio della non giustiziabilità delle norme di diritto parlamentare, dichiarando implicitamente che il quadro costituzionale di riferimento del governo parlamentare (fissato negli articoli 92, 94 e 95 della Costituzione) avrebbe potuto comportare non soltanto la competenza della Corte a giudicare sulla regolarità di un procedimento parlamentare (nella fattispecie, la sfiducia individuale nei confronti del ministro Mancuso), ma anche la competenza a sindacare direttamente della costituzionalità delle norme poste dai regolamenti parlamentari (nella fattispecie, l'articolo 115 del Regolamento della Camera) sui quali quel procedimento si fondava (v. Manzella, La sentenza costituzionale sul caso Mancuso: una decisione nel solco della tradizione parlamentare nazionale; in Gazzetta giuridica Giuffrè ItaliaOggi n. 3/96). Si operava cioè una valutazione che, se avesse dato esito negativo, avrebbe dovuto comportare una questione di costituzionalità sollevata dalla Corte innanzi a sé stessa per dichiarare l'incostituzionalità dell'articolo 115 Reg. Cam.: se poi ciò nei fatti non avvenne, resta vero che a tale determinazione per la prima volta si pervenne non con un apodittico rifiuto di entrare nel merito, ma mediante uno scrupoloso scrutinio degli elementi della prassi alla stregua dei parametri di costituzionalità, per giungere alla conclusione che "i regolamenti parlamentari e le prassi applicative (...) nel caso in esame rappresentano l'inveramento storico di principi contenuti nello schema definito dagli artt. 92, 94 e 95 della Costituzione".

E’ chiaro che in questo caso lo schema procedimentale delineato dalla Corte costituzionale aggira il difetto di legittimazione dei soggetti interessati dal diritto parlamentare, abbandonando (almeno in prima battuta) il canale del giudizio di costituzionalità per assoggettare l’ordinamento delle Camere ad un diverso scrutinio: a partire dalla sentenza n. 1150 del 1988 - che postula il controllo in sede di conflitto tra il potere giudiziario e l'apprezzamento della Camera di appartenenza di un parlamentare, in ordine alla sindacabilità delle espressioni o dichiarazioni che si assumano eccedenti la sua funzione - è emerso che l’immunità non copre tutti i comportamenti dei membri delle Camere, ma solo quelli strettamente funzionali all'esercizio indipendente delle attribuzioni proprie del potere legislativo, mentre ricadono sotto il dominio delle regole del diritto comune i comportamenti estranei alla ratio giustificativa dell'autonomia costituzionale delle Camere. E’ però solo nella fondamentale sentenza 17 ottobre-2 novembre 1996, n. 379, che la Corte costituzionale faceva di quello schema procedimentale una metodologia generale, che trascende lo stesso ambito dell’articolo 68 della Costituzione per informare tutti i rapporti tra poteri che abbiano come parte le istituzioni parlamentari: vi si dichiarava apertis verbis che "il confine tra i due distinti valori (autonomia della Camere, da un lato, e legalità-giurisdizione, dall'altro) è posto sotto la tutela di questa Corte, che può essere investita, in sede di conflitto di attribuzione, dal potere che si ritenga leso o menomato dall'attività dell'altro".

Pur seguendo il solco già tracciato nella sua precedente giurisprudenza - secondo cui la formula di cui al primo comma dell'art. 64 della Costituzione non riguarda soltanto l'autonomia normativa, ma si estende al momento applicativo delle norme regolamentari (includendo la scelta delle misure atte ad assicurarne l'osservanza e comportando la sottrazione a qualsiasi giurisdizione degli strumenti intesi a garantire il rispetto del diritto parlamentare) - la Corte sentiva per la prima volta in maniera sistematica l’esigenza di definire i contorni della sfera di autonomia garantita alle Camere in base agli artt. 64, 72 e 68 Cost., mediante la considerazione del regime costituzionale dei beni coinvolti nelle singole fattispecie. Si potrà forse discutere circa l'affermazione dell’insuscettibilità "del diritto di voto in Parlamento e, più in generale, dei diritti connessi allo status di parlamentare di esser sottoposti alla tutela della autorità giudiziaria ordinaria, civile o penale"; certo è però che la non interferenza dell'autorità giudiziaria civile o penale è affermata con la massima cogenza soltanto in rapporto a comportamenti aventi una natura squisitamente funzionale alla garanzia del libero agire del Parlamento nell'ambito suo proprio.

Tali sono i comportamenti dei membri delle Camere che trovino nel diritto parlamentare la loro esaustiva qualificazione, nel senso che non esista alcun elemento del fatto che richieda il ricorso a norme qualificatorie anche solo parzialmente esterne al regolamento parlamentare. Non si ritorna però in tal modo - per il tramite del requisito dell’esclusività della capacita' qualificatoria del regolamento parlamentare - al dogma dell’insindacabilità della disciplina da esso posta sull'organizzazione interna, sui procedimenti parlamentari e sullo svolgimento dei lavori di ciascuna Camera. Sono infatti per la Corte "da ritenere del tutto estranei al peculiare regime di insindacabilità degli atti o dei comportamenti "interni" le attività poste in essere in violazione dei diritti della persona, le quali conservano integro il loro regime e postulano il sindacato del giudice civile, o anche penale quando la loro tutela sia rafforzata dalla legge con norme incriminatrici". Il coinvolgimento di beni personali di altri membri delle Camere, o di beni che comunque appartengano a terzi, impedisce di considerare una fattispecie come per intero sussumibile sotto la disciplina del regolamento parlamentare, ma esula dalla sua capacita' classificatoria: in tal caso "deve prevalere la "grande regola" dello Stato di diritto ed il conseguente regime giurisdizionale al quale sono normalmente sottoposti, nel nostro sistema costituzionale, tutti i beni giuridici e tutti i diritti (artt. 24, 112 e 113 della Costituzione)".

La grande svolta così realizzata nella giurisprudenza della Corte ha aperto prospettive finora insondate nella materia dell’ordinamento parlamentare: la prima conseguenza è stata l’estensione - con la sentenza n.375 del 1997 - della giurisprudenza di sindacato sul diniego dell’autorizzazione a procedere, anche ad un atto non nominato nei regolamenti parlamentari quale la declaratoria di insindacabilità ai sensi dell’art. 68 primo comma Cost.; la Corte, precisato che in questa sede non è chiamata a giudicare sul merito della scelta parlamentare, rivendicava a sé la potestà di accertare "se vi sia stato corretto esercizio del potere parlamentare, o se la valutazione dei presupposti per la sua applicazione risulti inconciliabile con la previsione costituzionale, determinando invasione o interferenza con le attribuzioni giudiziarie". E’ questo tipo di accertamento, effettuato con la sentenza 7-18 luglio 1998 n. 289, che ha portato al più recente (e, per certi versi, clamoroso) sviluppo, cioè l’annullamento della deliberazione adottata dalla Camera dei deputati il 31 gennaio 1966, nella parte in cui si riferisce al procedimento civile intrapreso davanti al tribunale di Bergamo nei confronti del deputato Roberto Calderoli.

Il dictum contenuto in tale ultima sentenza assume anch’esso una valenza nettamente superiore al caso di specie: oggetto del sindacato, infatti, è per la prima volta un atto non tipizzato - quale la declaratoria di insindacabilità ai sensi dell'articolo 68, primo comma della Costituzione - con il quale una delle Assemblee parlamentari, essendo stata soppressa l’autorizzazione a procedere dalla legge costituzionale n. 3 del 1993, invoca l'ambito di immunità residuante per le opinioni espresse ed i voti dati. Gli effetti della dichiarazione d’insindacabilità - non limitata alla durata della legislatura - comportano innegabili riflessi sull’esercizio della giurisdizione e sulla tutela di quei beni costituzionalmente rilevanti cui la Corte aveva fatto riferimento l’anno prima: coerentemente perciò stavolta la Corte ha appuntato i suoi poteri di annullamento direttamente sulla dichiarazione di una Camera.

La differenza formale, rispetto alla pregressa autorizzazione a procedere, non è da poco: se questa era prevista in Costituzione (articolo 68, secondo comma previgente), quella non è più neanche ricavabile da dati normativi in vigore, stante la mancata conversione (e, alla fine, la mancata reiterazione) dei decreti-legge in materia. In altri termini, si tratta solo un atto che (oramai sempre più spesso su sollecitazione di parte) si inserisce nella vicenda processuale de quo per sottoporre al giudice un (autorevole) avviso - quasi fosse parere pro veritate - circa la sussistenza di un ambito di insindacabilità per i fatti su cui procede. Una tale dichiarazione di scienza (con cui un'Assemblea parlamentare ritiene di qualificare un comportamento come rientrante nell'articolo 68 primo comma della Costituzione) è priva persino del corollario della dichiarazione della volontà (la vindicatio potestatis in senso proprio), se è vero che, perché la Camera si costituisca in giudizio di conflitto di attribuzioni dinanzi alla Corte costituzionale, la prassi prevede - spesso in un diverso momento - il conferimento di apposito mandato dall’Assemblea alla Presidenza.

Difficile individuare qualcosa di più lontano dal potere inibitorio del previgente diniego di autorizzazione a procedere, trattandosi di un atto inidoneo sotto il profilo processuale a frenare l'esercizio dell'azione penale da parte del giudice che ritenga di versare in un ambito non coperto dall'insindacabilità: è un atto connesso all’autodeterminazione interna delle Camere, il cui comportamento sarebbe sussumibile, "interamente e senza residui", sotto le norme dell'ordinamento parlamentare; eppure lo schema procedimentale identificato dalla Corte, imperniato sul conflitto tra poteri come chiave per accedere agli interna corporis, non poteva che abbattere anche quest'ultimo steccato e, affrontando nel merito la questione, sindacare la legittimità dell’atto fino all'esercizio del potere di annullamento.

A fronte di tali sviluppi, anche il requisito oggettivo del conflitto va perciò dilatandosi: storicamente, il conflitto promosso nei confronti delle Camere ha riguardato l'articolo 68 della Costituzione, essendo questa disposizione stata invocata in passato per argomentare l'esistenza e la latitudine dell'autonomia garantita al Parlamento. Già la sentenza n. 379 del 1996 esemplificò i casi in cui l'attività posta in essere nelle Camere può formare oggetto di attività inquisitiva del pubblico ministero e di accertamento da parte del giudice, riferendosi ad "episodi di lesioni, minacce, furti ai danni di parlamentari, corruzione, ecc."; ma è evidente che - se ci si riferisce ai diritti della persona - anche i requisiti soggettivi del conflitto non sono più tanto scontati: in altri termini, non si tratta più soltanto dei comportamenti posti in essere dai membri del Parlamento uti singuli, ma anche di quanto da loro compiuto nell’ambito di funzioni e responsabilità rivestite nell’ambito dell’ordinamento interno e della potestà di autorganizzazione delle Camere.

L'effetto di affermazione dello Stato di diritto è così nettamente maggiore, visto che ad investire la Corte non è più un giudice a quo che, agnostico sulla questione incidentale, ne debba ravvisare soltanto la rilevanza e la non manifesta infondatezza; al contrario, qui si tratta di un confronto tra Parlamento e soggetti latori di un’istanza di universalità della legge, rispetto ai quali l’ordinamento settoriale deve quanto meno giustificare volta a volta, sulla base dei valori costituzionali, la sua natura derogatoria.

In via pretoria si sta giungendo in tal modo a conseguire quanto, in maniera assai più lineare, avviene in un regime costituzionale non meno attento del nostro alla separazione dei poteri e all'indipendenza del Legislativo, quello degli Stati Uniti d'America, che ha disciplinato in via diretta l'introduzione nell'ordinamento parlamentare delle norme dettate per la generalità dei cittadini: la legge 23 gennaio 1995, n. 104-1 (in Senate manual, Washington 1995, p. 519) prevede l'istituzione di un Office of compliance (i cui cinque direttori sono nominati congiuntamente dal Presidente della Camera e dai Capigruppo di maggioranza e di minoranza dei due rami), incaricato di riferire sul grado di applicabilità al Congresso delle disposizioni esterne in materia di condizioni di impiego e di accesso ai pubblici servizi; il rapporto così redatto è sottoposto alle Commissioni parlamentari competenti, le quali descriveranno le modalità di applicazione al Legislativo delle leggi in materia oppure il motivo per il quale una previsione di legge non si applica all'ordinamento interno.

Se si pensa che, tra le norme cui al Congresso si applica tale procedura, si riscontrano le leggi sui diritti civili, sulle corrette relazioni di lavoro, sui disabili, contro le discriminazioni d'età, per la sicurezza e la salute sul lavoro, si comprende come le recenti statuizioni della Corte costituzionale italiana stanno finalmente imboccando la strada di un reale adeguamento dell'ordinamento parlamentare nostrano agli standards di quelli più evoluti: l'equilibrio razionale e misurato tra le istanze dello Stato di diritto, che le citate sentenze affermano, si fonda sul punto irrinunciabile dei diritti della persona, soprattutto quelli la cui tutela sia rafforzata dalla legge con norme incriminatrici.