ADRIANA
CAROSELLI
(Avvocato)
La concessione di servizio pubblico nel quadro di riforma dei servizi pubblici locali
La sostanziale – per quanto forse momentanea – recente conferma dell’art. 35 L. 448/01, verificatasi a seguito della mancata approvazione dell’emendamento alla legge finanziaria per il 2003, induce ad una nuova lettura del testo normativo, nel tentativo di comprendere e chiarire i molteplici punti ancora in discussione.
Infatti, a distanza di oltre un anno dalla sua approvazione, la lettura del complesso disposto normativo appare tutt’altro che agevole, pena la mancata approvazione del previsto regolamento d’attuazione, ma anche la pendenza del giudizio di legittimità costituzionale, così come della procedura d’infrazione comunitaria.
E se forse sono gli aspetti più prettamente applicativi a suscitare maggiore attenzione, in quanto preludio all’affermazione di un diverso sistema di mercato, non meno sembra sopirsi l’interesse intorno a problematiche di più ampio respiro che, in quanto sottese al testo normativo, sono destinate a rivelare in fondo la reale essenza della riforma.
In particolare, giova riflettere sul significato (ma anche sulla coerenza) dell’intervenuta abolizione dell’istituto della concessione di servizio pubblico all’interno della normativa generale in materia di gestione di servizi pubblici locali.
L’istituto, infatti, non figura più tra le forme di gestione dei servizi pubblici locali, riferendosi il 5 comma dell’art. 113 T.U.E.L., relativo all’attività di erogazione dei servizi a rilevanza industriale, alla figura del conferimento della titolarità del servizio, mentre sia il 4 comma dello stesso articolo (concernente l’attività di manutenzione delle reti/impianti/altre dotazioni patrimoniali), che l’art. 113 bis (sulla gestione dei servizi privi di rilevanza industriale) prevedono più genericamente la figura dell’affidamento, ora dell’attività, ora del servizio pubblico.
Nel nuovo sistema di mercato delineato dall’art. 35, l’istituto concessorio pare destinato quindi a lasciare il posto alla figura dell’affidamento o appalto, rischiando però in tal modo di alterare la tradizionale distinzione tra concessione di servizio pubblico e appalto pubblico di servizi.
La diversa formulazione normativa che,
nell’un caso (nel 5 comma dell’art. 113) prevede la perdita in capo all’ente
pubblico della titolarità del servizio, mentre nell’altro ( 4 comma art
E’ noto come il sistema di mercato per i servizi pubblici a rilevanza industriale, introdotto dall’art. 35, costituisca una forma più attenuata di concorrenza, rispetto al testo del disegno di legge approvato dalla Camera [1], essendo stata limitata l’applicazione dei principi concorrenziali alla fase dell’affidamento del servizio da parte dell’ente pubblico (pur sempre geneticamente titolare dell’attività) a soggetti terzi, in contraria tendenza con la scelta iniziale, avallata dalla stessa Autorità Garante per la Concorrenza e per il Mercato [2], improntata invece ad una sostanziale liberalizzazione del settore.
Seguendo la posizione comunitaria (in vero, già recepita dall’ordinamento interno, seppure limitatamente ad alcune discipline di settore) [3], il legislatore ha infatti pur scisso il regime giuridico in base alla tipologia di servizio gestito ed implementato il mercato ai principi di trasparenza e parità concorrenziale, privando l’ente locale della gestione diretta e relegando lo stesso al ruolo di regolatore e controllore del mercato, ma non sembra aver voluto compiere poi il passo successivo, abbandonare cioè il regime della riserva.
Ne deriva che la riforma attuata dall’art.35, significatamene per i servizi a rilevanza industriale, pur decisamente innovativa rispetto al quadro normativo previgente, in fondo basato sul sistema dell’affidamento diretto, non sembra averne però sovvertito le fondamenta, introducendo – come è noto – un sistema concorrenziale per l’accesso al mercato.
E infatti, anche nel sistema a regime non è consentito agli operatori economici di accedere indiscriminatamente al mercato, essendo ancora una volta il potere pubblico a dover conferire al terzo tale facoltà.
Contrariamente all’impostazione precedente, nel nuovo impianto normativo il potere pubblico non si limita però ad attribuire al gestore, prescelto a seguito di procedura concorrenziale, la sola facoltà di esercizio, ma la stessa titolarità del servizio pubblico.
Tale schema, senz’altro punto di arrivo di un difficile confronto parlamentare, pare però stridere, ora con la posizione comunitaria, ora con la tradizione interna, inducendo l’interprete ad interrogarsi circa il significato di tale nuova terminologia normativa, al fine di comprendere la natura del rapporto che viene ad istaurarsi tra ente pubblico e gestore.
Quanto all’ordinamento comunitario, è noto come [4] il progresso tecnologico e l’evoluzione della domanda, riducendo nel tempo i presupposti di un mercato monopolistico o comunque ad accesso limitato nel settore che, secondo la nostra tradizione, corrisponde ai servizi pubblici, hanno fatto sì che si affermasse a livello sovra nazionale l’obiettivo della liberalizzazione, almeno per i servizi di carattere industriale o commerciale.
Ne è derivata la progressiva attrazione a livello comunitario degli obiettivi di interesse economico generale e l’assunzione da parte della Comunità di un ruolo di regolazione nel settore, in osservanza del quale gli Stati membri hanno visto sovvertire nel tempo i propri impianti normativi.
L’accoglimento cioè dell’obiettivo della liberalizzazione, almeno per alcuni settori di servizio pubblico, ha comportato il progressivo abbandono di un regime derogatorio e privilegiato negli ordinamenti interni, fino ad allora fondati sul riconoscimento in capo al potere pubblico della titolarità esclusiva dell’attività di servizio pubblico, ora giustificata invece solo in ragione della necessità di tutelare superiori interessi collettivi.
Come conseguenza di tale mutato orientamento, nell’ordinamento comunitario l’istituto della concessione di servizio pubblico è andata pertanto riducendosi ai soli casi di permanenza di un regime derogatorio (peraltro legittimo solo se compatibile con il Trattato) avendo altrimenti ceduto il posto al provvedimento autorizzatorio, ad un atto, cioè, che presuppone la teorica titolarità dell’attività in capo al gestore, indipendentemente dalla qualifica giuridica da questi rivestita, il quale viene ammesso all’esercizio della stessa se in possesso di quei requisiti, tecnici e professionali, ritenuti necessari per la salvaguardia della collettività.
Nell’impianto comunitario, cioè, lo schema : riserva dell’attività (titolarità) in capo all’ente pubblico – conferimento dell’esercizio a terzi – provvedimento concessorio, almeno per i servizi a rilevanza industriale, è stata sostituita dallo schema: liberalizzazione dell’attività – riconoscimento della titolarità dell’attività in capo ad ogni operatore – possibilità di esercizio tramite provvedimento autorizzatorio.
Ora, tale impianto normativo, pur recepito in alcune discipline di settore, non sembra corrispondere allo schema sotteso all’art. 35 L. 448/01.
Infatti, in tale sede l’ente pubblico è stato sì spogliato del potere di gestire il servizio, ma a tale previsione non ha fatto seguito il riconoscimento della possibilità per ogni operatore di accedere al mercato, anche se ora a questi viene “trasferito” , non più il solo esercizio, ma la titolarità del servizio, tramite la sottoscrizione di un atto (presumibilmente) dalla natura negoziale, come il contratto di servizio.
Ma quale è il significato di tale mutata posizione normativa?
Il quesito potrebbe condurre a due tesi contrapposte.
Si potrebbe sostenere infatti che, non avendo più l’ente pubblico la possibilità di gestire direttamente servizi pubblici a rilevanza industriale, di fatto, all’esito della gara – della procedura concorsuale finalizzata alla semplice individuazione dell’operatore economico che dia maggiori garanzie di serietà professionale – questi non conferisca, ma forse riconosca (?), in capo a questi il diritto di esercitare tale attività.
La tesi, senz’altro suggestiva e suggerita dal tentativo di leggere la riforma alla luce dell’orientamento comunitario, non si sottrae però a più di un’obiezione.
Infatti, se così fosse, non si comprenderebbe perché mai il legislatore non abbia fatto riferimento al provvedimento autorizzatorio - conclusione questa che forse non avrebbe neppure sottratto all’ente locale poteri maggiori di quanto l’art.35, interdicendo la gestione diretta, sembra di fatto aver riconosciuto allo stesso - , ma, ancor di più, sembra contrastare poi con un sistema di mercato di tipo monopolistico.
Si potrebbe allora argomentare che, nonostante la formulazione letterale della norma, l’impianto giuridico precedente non sia mutato, posto che è ancora una volta – si diceva – l’ente locale ad attribuire e “riassorbire” al termine dell’affidamento la titolarità del servizio.
Tale conclusione induce però a domandarsi il motivo dell’avvenuta soppressione della figura della concessione, potendosi opinare invece che, al di là del nomen iuris o dello strumento giuridico utilizzato (contratto di servizio), l’atto si atteggi ancora come autoritativo, di tipo ampliativo, mediante il quale l’ente pubblico, titolare del relativo potere per disposto normativo, trasferisce a terzi, la titolarità, ma in fondo, la facoltà di erogare il servizio alla collettità, consentendo pur sempre a questi di acquisire una “posizione di mercato” [5] che, se non riservata direttamente all’Amministrazione, senz’altro, è da questa regolata e comunque interdetta ad altri gestori.
Peraltro non pare assumere valore determinante neppure l’avvenuta abrogazione degli artt.265 – 267 del T.U. sulla Finanza Locale n.1175/31, nè la prevista sostituzione nell’art. 42 (riguardante le competenze del Consiglio Comunale), co. 2, lett.e), del D.Lgs.267/2000, delle parole “assunzione diretta”, con il termine “organizzazione”.
L’esame sostanziale della norma sembra cioè indurre ad un’analogia tra la situazione giuridica soggettiva che viene ad instaurarsi tra l’ente pubblico ed il soggetto gestore ed il rapporto concessorio.
Si potrebbe allora argomentare che la prevista soppressione dell’istituto concessorio non venga ad assumere nel contesto normativo, un significato assorbente, non sia cioè determinante ai fini della qualificazione del rapporto ente pubblico – terzo, e quindi non costituisca un indice rivelatore del nuovo assetto di mercato.
Si potrebbe, infatti, ritenere che il legislatore interno, sulla scia di quello comunitario, abbia semplicemente inteso in qualche modo prescindere dal titolo giuridico legittimante l’esercizio dell’attività da parte del gestore, rafforzando l’idea di un rapporto latu sensu contrattuale, comunque indice di un mutamento culturale nell’ordinamento nazionale, al cui interno sembra sempre più affermarsi una visione negoziale del diritto amministrativo.
L’esame della posizione della dottrina e della giurisprudenza interna, così come dell’ordinamento comunitario, sembrano infatti condurre l’interprete verso tale conclusione.
E’ noto come la dottrina tradizionale, nel tentativo spesso affannoso di distinguere l’istituto della concessione di servizio pubblico dalla figura dell’appalto pubblico di servizi, si sia soffermata a valutare la sussistenza o meno nella fattispecie in esame di determinati requisiti, indici rivelatori della natura giuridica del rapporto intercorrente tra terzo ed ente appaltante.
In particolare, ai fini dell’individuazione dell’istituto concessorio, è stato fatto riferimento ad una molteplicità di criteri o requisiti, quali:
- la natura unilaterale del provvedimento concessorio, a fronte del carattere negoziale dell’appalto,
- il carattere surrogatorio dell’attività del concessionario, investito di compiti istituzionali dell’Amministrazione, a fronte della natura prettamente economica dell’attività svolta dall’appaltatore,
- l’effetto accrescitivo della concessione, risultando la sfera giuridica del concessionario dotata di una capacità estranea ad essa,
- il trasferimento di pubbliche potestà in capo al concessionario che verrebbe investito di prerogative e poteri autoritativi , a fronte della natura squisitamente civilistica delle prerogative facenti capo all’appaltatore [6].
Il progressivo utilizzo nella gestione di servizi pubblici di titoli giuridici anche di natura convenzionale, ha nel tempo indotto la dottrina, ma anche la giurisprudenza, a ricercare un approccio più pragmatico al problema, ora prescindendo dai canoni tipici del diritto amministrativo.
In effetti, soprattutto nelle riflessioni della giurisprudenza, si è ritenuto di poter individuare il discrimen tra concessione di servizio pubblico ed appalto di servizi in base alla destinatarietà delle prestazioni richieste al terzo, le quali, nella concessione, vengono direttamente erogate alla collettività dietro forme di contribuzione da parte di questa, mentre, nel secondo caso, sono dirette a soddisfare essenzialmente bisogni della struttura organizzativa dell’ente appaltante, sul quale grava l’onere di pagare il corrispettivo [7].
Concessione e appalto vengono quindi a distinguersi in base alla finalità della prestazione erogata, per certi versi in ossequio alla teoria oggettivo-funzionale del servizio pubblico.
Ma c’è di più.
Anche l’esame della posizione comunitaria pare condurre, seppur con diverse argomentazioni, alle medesime conclusioni.
Come chiarito anche di recente dalla Commissione Europea[8] - conscia della difficoltà di ancorare al solo elemento formale, cioè al titolo giuridico, la distinzione tra i due istituti, tenuto conto delle differenti impostazioni culturali dei vari Stati membri - in realtà le concessioni di servizi vengono a distinguersi dagli appalti pubblici di servizi, non per l’oggetto – concernendo i primi l’attività di servizio pubblico ed i secondi di pubblico servizio – ma “..essenzialmente in virtù del fatto che in un contratto di concessione la controprestazione dell’attività svolta consiste nell’ottenimento, da parte del concessionario, del diritto di svolgere tale attività, ovvero in detto diritto accompagnato da un prezzo. In tale prospettiva il rischio della gestione del servizio viene sopportato dal concessionario e non dall’amministrazione concedente”.
Ora, così come non può dubitarsi che il gestore di servizi a rilevanza industriale, attributario della titolarità del servizio pubblico, sia chiamato ad erogare le proprie prestazioni a favore della collettività, la quale è tenuta per lo più a versare un corrispettivo per ottenere tale prestazione o servizio (si pensi agli unici due servizi a rilevanza industriale già citati dal legislatore, vale a dire al servizio idrico integrato e al trasporto pubblico locale), è altrettanto indubbio che con l’aggiudicazione il gestore ottenga il diritto a svolgere l’attività (nel caso, quale integrazione del corrispettivo, accompagnato da una forma di contribuzione da parte dell’ente locale) e ne venga a sopportare il rischio della gestione.
Ne deriva che, sia l’approccio interno che quello comunitario inducono cioè ad assimilare il rapporto ente locale/terzo gestore, così come definito dall’art.35 L.448/01, ad un rapporto concessorio.
A non diversa conclusione sembra infine potersi pervenire relativamente alla gestione dei servizi privi di rilevanza industriale, per i quali l’affidamento a terzi tramite gara – non assistito questa volta dal conferimento dell’attività - si pone peraltro come fattispecie derogatoria alla regola dell’affidamento diretto.
In definitiva, e con tutte le riserve del caso, si potrebbe arguire che il venir meno della figura della concessione di servizio pubblico, all’interno degli articoli del D.Lgs.267/2000 dedicati alla gestione dei servizi pubblici locali, non abbia comportato uno slittamento del rapporto tra ente pubblico e terzo dalla concessione di servizio pubblico ad appalto di servizi, né uno svilimento dell’attività di servizio pubblico ad attività di servizio, ma non sia neppure priva di significato.
La posizione normativa pare infatti testimoniare invece il lento affermarsi di un mutamento culturale nell’ordinamento interno, pare cioè attestare in qualche modo il progressivo allineamento dell’ordinamento nazionale all’ordinamento comunitario.
[1] Per tutti, M. Dugato, “I servizi degli enti locali”, su Giornale di diritto amministrativo, n. 2/02.
[2] Parere dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato sul D.D.L. 699 del 2001 “Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato”.
[3] Si veda: D.Lgs.79/99 sul mercato interno dell’energia elettrica, o il D.Lgs.164/2000 sul mercato interno del gas naturale.
[4] N. Rangone, I servizi pubblici, ed.Il Mulino, 1999.
[5] G. Greco, Appalti pubblici di servizi e concessioni di servizi pubblici, a cura di F. Mastragostino, ed. Cedam.
[6] Sul punto V. anche circolare della Presidenza del Consiglio dei Ministri – Dipartimento delle Politiche Comunitarie – 01/03/2002, n. 3944.
[7] Cons. Stato, V, 30 aprile 2002, n. 2294, ma anche G. Greco, op. cit.
[8] V. comunicazione interpretativa della Commissione sulle concessioni nel diritto comunitario, adottata in data 12/04/2000, ma anche nota del 26/06/2002, con cui è stata avviata la prima fase della procedura d’infrazione nei confronti del Governo Italiano in ragione delle previsioni dell’art. 35 L. 448/01.