Giustizia amministrativa

Articoli e note

Giovanni Cassata
(Presidente della Sez. Centrale del Comitato reg.le di Controllo)
 
«Atti» degli enti locali soggetti a controllo.
Una questione da considerare
 

L’art. 130 della Costituzione dispone, al primo comma, che un organo della Regione, costituito nei modi stabiliti da legge della Repubblica, esercita ...il controllo di legittimità sugli atti delle Province, dei Comuni e degli altri enti locali».

La norma, strettamente connessa con quella del precedente art. 128, secondo cui «le Province e i Comuni sono enti autonomi nell’ambito dei principi fissati da leggi generali della Repubblica, che ne determina le funzioni», si pone a cerniera del principio di autonomia, conseguenziale al riconoscimento della natura originaria degli aggregati sociali territoriali, con quello della unità dello Stato, e quindi delle linee generali del suo ordinamento giuridico, che si trovano congiuntamente espressi nell’art. 5.

Essa venne a suo tempo ad incidere su un sistema normativo che si era informato, invece, alla concezione degli enti locali come mere articolazioni dell’apparato statale, quali sul piano funzionale essi continuano ad essere in via secondaria, secondo il disposto dell’art. 129, e che con la sua forza di inerzia ne ha ostacolato a lungo, ritardandola e condizionandola, l’attuazione.

In tale originaria prospettiva l’ordinamento prevedeva una fitta rete di controlli di legittimità e di merito, che la Costituzione in parte alleggerì direttamente rendendo questi ultimi, col secondo comma dello stesso art. 130, possibili solo in casi determinati dalla legge ed esercitabili, in caso di riscontro negativo, soltanto con la formulazione di una motivata richiesta di riesame da parte dello stesso ente deliberante.

La gran parte dei controlli di legittimità veniva esercitata dalla Giunta Provinciale Amministrativa e dai Prefetti ed aveva ad oggetto tutte le deliberazioni dei Consigli e delle Giunte (incluse da ultimo, per espressa disposizione, quelle di carattere meramente esecutivo, dapprima escluse) con le quali si esercitava la quasi totalità dei poteri di amministrazione attiva degli enti.

Altri controlli, di legittimità e di merito, in dottrina qualificati come atipici o aggiuntivi, erano esercitati da organi diversi.

All’attuazione dei principi sanciti dall’art. 130 il legislatore statale ha posto poi mano, in via dichiaratamente provvisoria e parziale, con l’emanazione della legge 10 febbraio 1953 n. 62 sulla costituzione e il funzionamento degli organi regionali, i cui art. 59 e 60 attribuivano ai costituendi Comitati Regionali di Controllo, nei confronti delle province e dei Comuni, i controlli di legittimità fino ad allora di competenza, secondo le disposizioni vigenti, della G.P.A. e dei Prefetti (che tuttavia dovevano in via transitoria continuare ad espletare le relative funzioni) ed i controlli di merito, da espletarsi, però, acnhe nella fase trasitoria , nei nuovi indicati modi unicamente consentiti, di competenza della prima.

E’ seguita, infine la legge 8 giugno 1990 n. 142 sull’ordinamento delle autonomie locali, il cui art. 45 ha stabilito che sono soggette al controllo preventivo di legittimità (da parte dei Comitati Regionali, di cui si occupa l’articolo precedente) le deliberazioni che la legge riserva ai consigli comunali e provinciali, nonchè quelle che i consigli e le giunte intendono, di propria iniziativa, sottoporre al comitato e quelle che, in determinati casi, possono essergli sottoposte da un certo numero di consiglieri. Con l’art. 15 del D.L. 13 maggio 1991 n. 152 conv. in L. 12 luglio 1991 n. 203 è stata inoltre attribuita ai prefetti la facoltà di chiedere lo stesso controllo, per ragioni attinenti alla lotta contro la delinquenza organizzata, sulle delibere di giunta adottate in materia di acquisti, alienazioni, appalti e contratti in genere.

La differenza di riferimento, della norma costituzionale agli «atti» degli enti e della norma ordinaria attuativa alle «deliberazioni», diede luogo a dubbi interpretativi in ordine alla estensione del campo dei controlli attribuiti al nuovo organo costitutivo nel frattempo nelle varie regioni a statuto ordinario a seguito dell’entrata in funzione delle stesse, con particolare riguardo, da un canto, agli atti per cui erano previsti controlli c.d. atipici o aggiuntivi e, dall’altro, ai provvedimenti degli organi monocratici.

Prevalse, però, tanto nella dottrina quanto nella giurisprudenza, e soprattutto in quella della Corte Costituzionale (cfr. per la loro rilevanza diretta o indiretta le sent. 80/63, 139/72, 164/72, 62/73, 178/73, 38/79, 39/79, 149/81, 161/81, 270/81 e l’ord. 654/88) l’avviso che la previsione dell’art. 130 della Costituzione dovesse intendersi riferita ai soli controlli generali e tipici in precedenza esercitati dai prefetti e dalla G.P.A., come letteralmente disponeva l’art. 59 della legge 62/53, e che al di fuori di tale campo restavano salve le disposizioni sui controlli atipici.

In particolare con l’ordinanza del 1988 la Corte investita dal T.A.R. della Calabria della questione di legittimità dell’art. 59 della L. 10 febbraio 1953 n. 62, dell’art. 3 della L. 9 giugno 1947 n. 530 e della L.r. calabra 27 dicembre 1973 in rapporto al disposto dell’art. 130 della Costituzione sotto il profilo della non inclusione tra quelli assoggettati al controllo del CO.RE.CO. degli atti degli organi monocratici dell’ente (nella fattispecie sub iudice, ordinanze sindacali di demolizione e acquisizione di costruzioni abusive), dichiarò la stessa inammissibile per manifesta infondatezza sui rilievi, in parte recepiti dalle precedenti decisioni: 1) che il detto art. 130 «attribuendo agli organi regionali il controllo di legittimità..., mostra, anche letteralmente, di aver riferimento ai soli controlli generali e tipici, in precedenza esercitati dai prefetti e dalle giunte p.a.; 2) che la stessa disposizione, pertanto, «non abbraccia tutti i possibili controlli sugli enti locali»; 3) che «l’unica fonte normativa competente a disciplinare la materia dei controlli sugli enti locali è la legge dello Stato, e ciò anche in relazione alla estensione di tali controlli, non rinvenendosi al riguardo limite alcuno nell’invocato parametro costituzionale»; e 4) che tali principi risultavano «confermati anche alla luce di quanto dispone l’art. 128 della Costituzione, dovendosi ritenere che l’entità dei controlli cui un ente è soggetto contribuisce in modo determinante a definire la portata della sua autonomia».

E poichè soggette a controllo da parte dei prefetti e delle giunte p.a. erano tutte le delibere dei consigli e delle giunte, che praticamente coprivano l’intero campo delle attività provvedimentali degli enti, i limiti della competenza dell’organo previsto dalla norma costituzionale venivano pertanto a risultare definitivi degli stessi confini di tale campo e tali rimasero, limitatamente ai controlli di legittimità, essendo stati con la stessa aboliti quelli di merito, con l’entrata in vigore della legge di riforma delle autonomie dell’8 giugno 1990 n. 142; ma in parte lo rimasero solo virtualmente, perchè con questa, mentre si confermava la necessità dei controlli su tutte le delibere dei consigli, per quelle delle giunte, alle quali veniva nel contempo trasferita la competenza generale e residuale già attribuita ai primi, se ne prevedeva solo l’eventualità: ad iniziativa, per qualsiasi oggetto, dello stesso organo deliberante o a richiesta, per alcuni oggetti di particolare rilievo - quelli stessi per cui la successiva legge 203/91 doveva poi prevedere eguale facoltà di richiesta da parte dei prefetti per motivi di lotta alla criminalità organizzata - di qualificate componenti dello stesso, e ancora a richiesta di componenti qualificate dell’organo in ordine a qualsiasi oggetto, ma solo per denunziare vizi di incompetenza o contrasti con atti fondamentali del consiglio.

Un radicale ridimensionamento del campo degli atti soggetti a controllo è fatto oggetto, di una nuova legge in corso di emanazione (disegno di legge n. 2564 al momento della redazione di queste note all’esame della Camera dei Deputati di seguito all’approvazione da parte del Senato) che ne esclude in assoluto le delibere di giunta, vi include, delle consiliari, solo quelle ricadenti su determinati oggetti e non prevede alcun caso di controllo facoltativo.

L’evoluzione della disciplina della materia nella Regione Siciliana, che è dotata al riguardo di competenza esclusiva, si è svolta in parallelo a quella statale con alternanza di anticipazioni e seguitamenti e con differenziazioni, pur nell’ambito di eguali principi di fondo, anche notevoli.

Già con l’emanazione del nuovo ordinamento dei suoi enti locali (O.R.E.L., approvato con decr. Pres. Reg. 29 ottobre 1956 n. 6 e poi trasfuso nella L.r. 15 marzo 1963 n. 16, art. 30 ss. e art. 78 ss.) il legislatore siciliano provvide, infatti, ad istituire nuovi organi, le commissioni provinciali di controllo di nomina del Presidente della Regione, cui, in concordanza col D.P.R. 19 luglio 1956 n. 977 recante norme di attuazione dello Statuto, che devoleva agli stessi le competenze in materia dei prefetti e della G.P.A., era demandato il controllo di tutte le delibere dei consigli e delle giunte.

A seguito, poi, della legge di riforma 142/90, e in pratica concomitanza col recepimento di gran parte delle sue norme con la L.r. 11 dicembre 1991 n. 11, lo stesso legislatore emanò per disciplinare i controlli - per i quali contestualmente istituiva, in sostituzione delle C.P.C., un Co.Re.Co. articolato in dieci sezioni - la L.r. 3/1991 n. 44 che esclude anch’essa quelli di merito, sottopone obbligatoriamente a quelli preventivi di legittimità tutte le delibere dei consigli e tutte le delibere di giunta adottata in quasi tutte le materie in ordine alle quali la legge statale prevede il controllo a richiesta e prevede la possibilità del controllo per qualsiasi altro atto delle giunte che non vi sia obbligatoriamente assoggettato, sia ad iniziativa dell’organo deliberante, sia, per gli stessi motivi indicati dalla legge statale, a richiesta di componenti qualificate del collegio.

Tale disciplina non è stata fatta oggetto di formali e dirette modifiche, ma ha in via indiretta e di fatto notevolmente inciso su di essa in senso riduttivo il trasferimento all’organo monocratico di vertice di buona parte delle competenze di giunta e di qualcuna di quelle consiliari disposto con la L.r. 7 agosto 1992 n. 7 che, precedendo la corrispondente L.s. 25 marzo 1993 n. 81, ha istituito la elezione diretta dei sindaci e dei presidenti delle province, in parte mediante attribuzioni specifiche, in parte con l’attribuzione agli stessi della competenza generale e residuale in origine attribuita ai consigli e poi trasferita alla giunta, anche qui precedendo la normativa statale, con la L.r. 21 febbraio 1976 n. 1, per i comuni, e con la L.r. 6 marzo 1986 n. 9, per le province. E’ da ritenersi probabile, inoltre, che un intervento formalmente riformatore farà seguito in sede regionale a quello in gestazione del legislatore statale.

Senza che avesse dato luogo a pronunce giurisprudenziali o a prese di posizione dottrinali, la questione venuta con la legge del 1992 obiettivamente a porsi della persistenza o della cessazione nell’ordinamento regionale siciliano dell’assoggettamento a controllo degli atti collegiali passati alla competenza dell’organo monocratico, in ragione, alternativamente, della possibilità di fare riferimento, sotto il profilo della ratio, alla immutata natura sostanziale degli stessi o, mantenendosi nei limiti della esegesi letterale, alla perdita della loro qualificazione, secondo la prevalente accezione del termine, come «deliberazioni», è stata pragmaticamente risolta, senza conosciute eccezioni e quindi con apparente formazione di diritto c.d. vivente, nel secondo senso; con la conseguenza che tali atti non sono stati più controllati.

La evoluzione della disciplina della materia e quella ulteriore che si profila come imminente sembra a questo punto tale da rendere necessaria una meditata verifica della sua rispondenza al precetto costituzionale.

La rispondenza dovrebbe essere evidentemente negata se ci si attenesse alla sola lettera della norma di riferimento, giacchè la stessa, prevedendo semplicemente il controllo «sugli atti» delle province e dei comuni, di per sè non ne esclude nessuno, ma non appare discutibile che sia invece esatta la meno rigida interpretazione che si è visto essersi subito persuasivamente affermata e poi consolidata sulla base di considerazioni storiche e sistematiche nel senso della identificazione degli «atti» in questione con quelli che secondo la normativa vigente all’entrata in vigore della Costituzione erano soggetti a controlli generali e tipici.

Anche attenendosi senz’altro a tale interpretazione, però, una rispondenza piena dovrebbe essere negata, perchè si è visto che in un modo o nell’altro una parte di tali atti sono stati sottratti al controllo e una ulteriore parte addirittura preponderante è sul punto di esserlo.

Resta dunque da vedere se una tale riduzione della portata del precetto costituzionale nel suo momento attuativo possa ritenersi giustificata dall’altro principio informatore che è stato, con tutto il peso della sua autorevolezza, ravvisato in esso dal giudice delle leggi ed esposto come motivo aggiuntivo nella citata ordinanza di inammissibilità del 1988: quello cioè, si ripete, che «la legge dello Stato»... «è competente a disciplinare la materia dei controlli... «in relazione anche all’estensione di tali controlli, non rinvenendosi al riguardo limite alcuno nell’invocato parametro costituzionale»... «anche alla luce di quanto dispone l’art. 128 Cost., dovendosi ritenere che l’entità dei controlli cui un ente è soggetto contribuisce in modo determinante a definire la portata della sua autonomia».

In ordine a quest’ultima affermazione sembra, però, che vi sia da distinguere tra i controlli di merito, che al tempo di quella pronuncia venivano ancora esercitati nel modo rimasto consentito e per i quali lo stesso art. 130 espressamente demandava al legislatore ordinario di determinare i casi di applicazione, e i controlli di legittimità, che, consistendo in accertamenti di diritto con conseguenze necessarie, senza alcuno spazio per apprezzamenti discrezionali, non possono per loro natura in nessun modo comportare limitazioni dell’autonomia degli enti che non siano già stabilite dalla legge.

L’unico intralcio che il loro espletamento arreca alla attività degli enti si esaurisce, invero, nel breve intervallo, racchiuso entro termini perentori, che per esso si determina tra il perfezionamento delle delibere e l’acquisto, quando esse risultino conformi a legge o quando il riscontro non abbia potuto per qualsiasi motivo essere effettuato, dalla loro esecutività; e va peraltro notato che lo stesso può, quando ricorrano ragioni di urgenza, essere evitato dallo stesso ente con una prevista declaratoria di immediata esecutività, cui consegue anche l’abbreviazione del termine assegnato per la proposta verifica.

Se dunque la soggezione ai controlli può essere stata vissuta dagli enti come un impaccio, la causa di questo, a parte i casi eccezionali di annullamenti erronei, va individuata nella normativa, certamente estesa e penetrante e purtroppo spesso cangiante e non sempre chiara e coerente, con cui i poteri centrali intervengono nella disciplina sostanziale delle loro attività; e si deve per contro osservare che, una volta escluso in ogni forma il sindacato del merito, il controllo si risolve nell’esercizio di una funzione di garanzia - cui il legislatore ha dato espresso rilievo laddove ha previsto la possibilità del suo esercizio, al di fuori dei casi in cui ne è stabilito l’obbligo ad istanza dello stesso organo deliberante - in quanto evita o attenua in via preventiva il rischio che atti illegittimi possano andare ad effetto con esposizione, a parte il turbamento dell’ordine giuridico, di coinvolgimento degli enti e degli amministratori in contenziosi giudiziari e responsabilità per danno; e se ciò è vero se ne deve trarre la conclusione che il rimedio a mezzo di una drastica riduzione dei controlli (per di più aggravata nel disegno di legge in corso di approvazione da una quasi paralizzante restrizione dei termini e dei modi di espletamento) non appare il più appropriato a rimuovere correttamente in radice gli inconvenienti che si presentano agli enti come impedimenti allo loro autonomia e per contro comporta una grave menomazione della funzione di garanzia, con conseguente incremento delle probabilità di produzione ed esecuzione di atti illegittimi.

Con ciò non si vuol dire che il mantenimento dei controlli sia in sè una necessità assoluta dell’ordinamento, ma solo mettere a fuoco i termini entro cui in rapporto al precetto costituzionale vigente, da intendersi per principio indiscusso come affermazione di valori sostanziali, si pone l’ipotesi, se non dell’abolizione, di una più o meno incisiva riduzione ad opera del legislatore ordinario del loro originario campo di applicazione.

Nessun rilievo, poi, è da ritenersi che possa al riguardo essere attribuito alla richiamata previsione di intervento del legislatore statale che si rinviene nel primo comma dell’art. 130 della Costituzione, perchè la stessa chiaramente si riferisce solo alla competenza dello stesso per la determinazione dei modi di costituzione dei nuovi organi di controllo regionale e non attiene in alcun modo all’oggetto dei riscontri a questi demandati.

Ben più che un dubbio sembra dunque in definitiva che debba essere avanzato sulla ravvisabilità nella esaminata evoluzione normativa di una piena coerenza col dettato costituzionale e di un corrispondente rispetto dei limiti di disponibilità che questo comporta.

La questione che poteva sembrare chiusa con l’ordinanza della Corte Costituzionale del 1988 richiede dunque un riesame aggiornato, da farsi tenendo soprattutto presente che a ben vedere essa trascende la problematica dei controlli e si pone a verifica della rispondenza dell’esperienza politico-giuridica che viene in atto vissuta nel Paese alle esigenze di uno Stato di diritto o, per contro, ravvisandosi nel caso particolare il sintomo di una situazione generale, dell’esistenza di una crisi della consapevolezza e della reale accettazione della funzione del diritto.

Il diritto (positivo) è certo strumento, e non fine, della vita di una collettività umana organizzata e come tale deve essere continuamente (ma non effimeramente) adattato alle esigenze esistenziali dettate dal variare delle condizioni storiche ed economiche entro cui opera e dalle sue maturazioni culturali; ma come ogni strumento è caratterizzato da modalità di funzionamento da cui chi lo produce e chi lo usa non può prescindere senza snaturarlo o guastarlo.

E’ un programma di relazioni intersoggettive tipiche affidato per la sua realizzazione ad un gioco di azioni e reazioni prestabilite in modo da potere funzionare in modo il più possibile prevedibile (come accade con le abitudini), a continue scelte inventive e spregiudicate e lasciando per converso al di fuori dell’ordinario il più ampio spazio di libertà.

Ius, è stato detto, est realis ac personalis hominis ad hominem proportio, quae servata servat, corrupta corrumpit societatem.

Gli istituti giuridici debbono dunque essere creati per potere essere e per essere di fatto osservati e al di fuori di tale prospettiva non si pongono altre alternative che quella, talvolta impostata dagli eventi storici, del rivolgimento rivoluzionario, che scardina un ordinamento per sostituirlo con uno nuovo, o quella del travisamento sul piano applicativo del genuino senso della norma, che, falsando le convenute regole del gioco, si risolve appunto in corruzione del tessuto sociale.

Tornando, infine alla problematica dei controlli sembra opportuna un’ultima considerazione in ordine all’opinione, da più parti espressa e con notevole favore accolta, che quelli di legittimità siano da ritenersi superati perchè utilmente già in parte sostituiti, e per il resto da sostituirsi, dai controlli in gestione, assai meglio dei primi idonei ad assicurare una ottimale prestazione dei servizi che gli enti locali, sotto tale profilo assimilati alle aziende, sono tenuti a prestare alle comunità di cui sono espressione.

Tale opinione non appare condivisibile per il rilievo che i controlli di gestione, che in sostanza prendono il posto di quelli tradizionali di merito, differenziandosene però essenzialmente perchè non integrati da poteri di sostituzione o di annullamento, svolgono funzioni e perseguono fini del tutto diversi da quelli di legittimità.

Mentre i primi, infatti, sono ordinati ad assicurare, per via dei suggerimenti che se ne traggono per gli enti stessi e per i poteri, di razionalità e di economicità dell’azione amministrativa, (l’osservanza, in altri termini, della regola del massimo risultato col minimo mezzo, peraltro appropriata ad ogni attività umana), i secondi sono ordinati ad assicurare, intesi i due termini come endiade, la corretta ed uniforme applicazione della legge; ed è chiaro che una gestione economicamente buona potrebbe essere conseguita in violazione della legge e che per converso una gestione legittima potrebbe non essere la più conveniente.

La eventuale abolizione dei controlli di legittimità potrebbe dunque essere, in sede competente, razionalmente disposta solo sulla base di una (quanto più possibile approfondita e ponderata) valutazione negativa della loro utilità, in sè e per sè considerata.