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Articoli e note
n. 10-2002.

 LUIGI OLIVERI

Le leggi di principio e coordinamento della finanza pubblica

Nell'articolo 13, comma 7, del disegno di legge finanziaria per il 2003 si riscontra una norma dal significato invero piuttosto oscuro.

Tale norma stabilisce espressamente che le disposizioni di cui ai commi 1, 2 e 5, del medesimo articolo “costituiscono, per le regioni, norme di principio e di coordinamento”.

I commi 1, 2 e 5 introducono criteri di garanzia della trasparenza dell'azione amministrativa nelle acquisizioni di beni e servizi, estendendo anche sotto la soglia comunitaria le procedure di cui ai decreti legislativi 358/1992 e 157/1995 e restringendo il campo di applicazione della trattativa privata, anche al fine di esercitare un maggiore controllo sulla spesa pubblica. Non a caso, proprio per la trattativa privata, si prevede l'obbligo della preventiva comunicazione alla sezione regionale della Corte dei conti.

Si tratta, dunque, di misure di razionalizzazione delle procedure di acquisizione di beni e servizi, il cui scopo evidente consiste nell'estensione di procedure di gara pubbliche, per ottenere prezzi maggiormente concorrenziali, o di spingere gli enti ad utilizzare le convenzioni della Consip.

Il legislatore nello scrivere queste disposizioni deve essersi reso conto, però, che qualcosa non quadra rispetto alla loro coerenza con il nuovo assetto della Costituzione, derivante dalla riforma introdotta dalla legge 3/2001.

In effetti, a ben vedere, c'è il problema di verificare se la legislazione dello Stato possa intervenire rispetto alla materia delle acquisizioni di beni o servizi, con l'intento non di attuare norme di matrice europea (funzione cui, comunque, potrebbero attendere anche le regioni mediante le proprie leggi), ma di specificare, restringere il campo di applicazione di norme già vigenti, nell'ambito di materie che tuttavia non sono ascrivibili né alla potestà legislativa esclusiva, né a quella concorrente, dello Stato.

Giova ricordare che l'articolo 117 della Costituzione non contempla, nei commi 2 e 3, la materia delle acquisizioni di forniture e servizi.

Il che deve lasciare concludere per la sussistenza di una potestà legislativa regionale piena ed esclusiva in tale ambito.

Ma, se esiste una tale potestà della legge regionale piena ed esclusiva, quale matrice costituzionale sta alla base della qualificazione delle norme dei commi 1, 2 e 5 dell'articolo 13 del disegno di legge finanziaria quali “norme di principio e di coordinamento”?

Leggendo con attenzione la Parte II del Titolo V della Costituzione non si rinviene da nessuna parte la categoria delle leggi dello Stato di principio e coordinamento della normativa regionale. Solo nelle materie di legislazione concorrente la Costituzione riserva alla potestà legislativa dello Stato la determinazione dei principi fondamentali.

Appare, però, arduo far rientrare l'articolo 13, comma 7, del disegno di legge entro tale categoria di leggi statali. Sia perchè, come rilevato prima, la materia delle acquisizioni di beni e servizi non appartiene alla potestà legislativa concorrente dello Stato; sia perchè, comunque, la previsione di leggi “di coordinamento” della potestà legislativa regionale è del tutto inesistente.

A meno che, il legislatore non si riferisca al “coordinamento della finanza pubblica”, come materia di potestà legislativa concorrente Stato-regioni, che, dunque, legittimerebbe lo Stato a dettare disposizioni di principio “di finanza pubblica”, costituenti un vincolo per la normativa di dettaglio, in tale materia, da parte delle regioni.

Se questa fosse l'interpretazione corretta (rispetto a questo tema risulteranno determinanti le decisioni della Corte costituzionale sui ricorsi presentati dalle regioni avverso la legge 448/2001), allora, paradossalmente, la riforma della parte II del Titolo V della Costituzione non solo non avrebbe mutato di molto l'assetto dei rapporti tra legislazione statale e regionale, ma avrebbe addirittura introdotto vincoli per la potestà legislativa regionale per taluni aspetti anche più ristretti di quelli operanti nel precedente regime costituzionale.

Infatti, l'applicazione estensiva del “coordinamento della finanza pubblica” come materia trasversale di potestà legislativa concorrente, permetterebbe allo Stato di dettare norme di principio sostanzialmente senza limitazione alcuna, su tutti gli ambiti normativi spettanti alle regioni.

L'operazione normativa contenuta nel disegno di legge finanziaria è molto sottile. Infatti, non si fa alcun riferimento né all'interesse nazionale (limite alla legislazione regionale che, secondo alcuni autori [1], sussisterebbe tuttora), né a formule di invasività della potestà legislativa statale in quella regionale, quali la cedevolezza delle norme. Queste categorie interpretative appaiono, in effetti, molto labili e, comunque, si prestano a forti probabilità di successo delle regioni, in caso di contenzioso.

Non v'è, invece, dubbio che lo Stato disponga di potestà legislativa concorrente nell'esercizio delle funzioni di coordinamento della finanza pubblica.

Pertanto, l'intervento con legge dello Stato, quale è la finanziaria, in ambiti legislativi delle regioni se esercitato come funzione di coordinamento della finanza sposta il problema dalla verifica della potestà dello Stato di legiferare in materia, al problema di merito, concernente lo spettro d'azione di tali leggi di principio di coordinamento della finanza.

Appare, in effetti, sostenibile che lo Stato detti principi e norme di coordinamento anche in materie riservate alla potestà legislativa delle regioni, quando ciò sia funzionale o, comunque, accessorio a manovre di finanza complessivamente riguardanti la Repubblica.

E', però, altrettanto ovvio che la qualificazione delle leggi come norme di coordinamento della finanza pubblica potrebbe essere lo strumento per comprimere o deprimere, addirittura, la portata della riforma della Costituzione, che a questo punto di federale non avrebbe più alcunchè.

Soprattutto, poi, se, come nel caso di specie dell'articolo 13 del disegno di legge finanziaria, le norme della legge statale, pur qualificate come principio, in realtà sono poi estremamente analitiche e tali da disciplinare integralmente le fattispecie prese in considerazione.

Non pare, infatti, assolutamente che i commi 1, 2 e 5 del citato articolo 13 siano norme scritte come principi generali: si tratta di disposizioni dettagliate, la cui qualificazione come principi non consentirebbe, comunque, alle regioni di modificarle in modo rilevante con le proprie leggi (né di superarle del tutto in base al rapporto di cedevolezza).

Insomma, è netta la sensazione che il disegno di legge finanziaria sia in “controtendenza” rispetto alla riforma impostata dalla legge costituzionale 3/2001. Infatti, attraverso misure restrittive sui bilanci delle amministrazioni comunali, provinciali e regionali, ed interventi di coordinamento che comprimono la potestà legislativa delle regioni la legge finanziaria interviene in modo estremamente pervasivo a limitare gli spazi per l'affermata, ma concretamente ancora non attuata, maggiore autonomia locale.

La previsione di cui all'articolo 119, comma 1, della Costituzione, secondo la quale comuni, province, città metropolitane e regioni hanno autonomia finanziaria di entrata e di spesa, viene, nella sostanza, posta nel nulla.

Sulla potestà impositiva, era apparso, ai più, chiaro che le amministrazioni locali, vigente l'articolo 23 della Costituzione, non potessero intervenire più di tanto.

Il disegno di legge finanziaria, comunque, va oltre, ponendo limiti visibili, forti alla capacità di spesa. Limiti che, con ogni evidenza, si riflettono poi sugli obiettivi gestionali, dal momento che amministrare vuol dire spendere risorse. Se queste sono limitate dallo Stato, necessariamente gli obiettivi degli altri enti si rideterminano al ribasso. Così, il federalismo, ma anche l'autonomia rimango, però, solo sulla carta.

La legge finanziaria per il 2003 assesta, in effetti, dei colpi molto forti al “federalismo”. Un anno fa, all'epoca della prima legge finanziaria post-riforma costituzionale, si sarebbe potuto ritenere che il legislatore statale non fosse ancora “maturo” per attuare un federalismo entrato in vigore quando l'iter per l'emanazione della legge finanziaria per il 2002 era già avviato.

A distanza di un anno, non si può negare che, invece, dietro al disegno di legge finanziaria per il 2003 vi possa essere l'intento preciso di mettere le briglie al federalismo. Scelta, questa, che forse appare obbligata nell'attuale situazione economica che probabilmente richiede un controllo sulla spesa del settore pubblico allargato necessariamente “centralista”.

Se si tratta, però, di una scelta di fondo del legislatore, appare opportuno uscire dall'equivoco. Se la riforma della Costituzione risulta non utile, non applicabile o, comunque, da correggere è necessario intervenire in fretta di nuovo sulla Costituzione. Soprattutto per evitare una situazione di incertezza normativa, come quella attuale, nella quale si è in presenza di una riforma non attuata e forse non attuabile, e molti restano a guardare. Mentre alcuni danno corso ad applicazioni anche troppo disinvolte, vedi il caso dell'eliminazione dei segretari comunali mediante lo statuto o le leggi regionali sugli appalti che distorcono la concorrenza, senza che un ordinamento certo possa intervenire con i necessari anticorpi.

In effetti, paradossalmente, mentre lo Stato tende in modo anche surrettizio a limitare la portata della riforma della Costituzione, limitando la potestà normativa delle regioni, si affermano interpretazioni dell'autonomia, soprattutto degli enti locali, francamente eccessivamente schierate proprio sul fronte opposto di un ampio e totale assetto federale, nel quale gli enti locali hanno pari dignità con Stato e regioni, tanto che le proprie potestà normative non solo sarebbero poste sullo stesso livello di quello legislativo, ma che addirittura i principi costituzionali limitanti la potestà statutaria sarebbero solo i macro principi di convivenza civile, mentre altrettali limiti di altra natura (in particolare sull'assetto ordinamentale ed organizzativo) alla potestà normativa degli enti locali non esisterebbero[2].

Questa interpretazione spinge la riforma verso spinte federaliste oggettivamente eccessive, tanto da ritenere che gli enti locali siano autorità superiorem non recognoscentes, incorrendo nell'evidente equivoco di assegnare all'autonomia locale lo stesso rilievo della sovranità nazionale. Sicchè gli statuti locali avrebbero assunto natura di norme costituzionalmente garantite, non più poste in relazione di gerarchia con le leggi, di pari forza giuridica e tali da permettere agli enti locali di creare un proprio ordinamento sovrano, più che autonomo.

Su questa strada, la citata dottrina ha disegnato una matrice, che individua le fonti tipiche dell'ordinamento tracciandole lungo linee orizzontali, ed dividendo per colonne gli enti. In tal modo, vorrebbe evidenziare la medesima portata normativa di leggi e statuti/regolamenti.

Ma tale modo di intendere non tiene conto di due elementi fondamentali di natura giuridica, nonché di un ancora più importante elemento fattuale.

Sotto i primi due aspetti, la Costituzione non ha riservato a statuti e regolamenti alcuna materia normativa, assegnando, al contrario, la generalità della disciplina normativa alle leggi statali e regionali. Non si vede, dunque, come statuti e regolamenti locali, in mancanza di una esplicita riserva in loro favore di materie sulle quali dettare norme, possano essere intesi in posizione di competenza con le leggi. Poiché l'ordinamento è dalle leggi regolato, la misura della portata normativa di statuti e regolamenti non può che essere definita dalle leggi stesse.

In secondo luogo, dal punto di vista giuridico, gli enti locali non sono enti sovrani. In realtà non esiste un foedus in base al quale essi avrebbero rinunciato a proprie funzioni originarie (politica estera, politica economica, salvaguardia dell'ordine pubblico, difesa nazionale, ordinamento amministrativo), per attribuirlo allo Stato, riservando per sé alcune funzioni indipendenti.

La riforma costituzionale ha dato luogo ad un risultato esattamente contrario: è lo Stato, che in applicazione del principio della sussidiarietà, ha preso atto della pari dignità degli enti che costituiscono la Repubblica, nella diversità delle loro funzioni, senza riconoscere agli enti locali alcuna posizione di sovranità, senza eliminare all'ente Stato il ruolo di ente di governo generale degli interessi collettivi di più ampio rilievo, che proprio per il principio della sussidiarietà non potrebbero essere gestiti dagli enti locali. I quali, sempre in virtù della sussidiarietà, per loro natura esercitano funzioni amministrative, come prevede l'articolo 118, comma 1 della Costituzione. Il che significa che non esercitano altre funzioni, meno che mai quella legislativa, né possono adottare nell'ambito delle funzioni amministrative, in via originaria, atti generali di pari livello a quello primario, altrimenti inciderebbero sulla potestà legislativa generale di Stato e regioni.

Per altro, come elemento fattuale occorre considerare che proprio il legislatore dello Stato tende a ridurre gli ambiti e gli spazi normativi delle regioni, così come degli enti locali.

Proprio l'articolo 13 del disegno di legge finanziaria ne è testimonianza, quando per esempio, considera le disposizioni dei commi 1, 2 e 5 come principi solo per le regioni, ma non per gli enti locali, i quali, dunque, sono tenuti ad applicare direttamente le previsioni dell'articolo. O, soprattutto, quando esclude dal campo di applicazione di tale norma gli enti con meno di 5.000 abitanti, compiendo un'azione normativa tesa ad invadere il campo dell'ordinamento delle autonomie locali, che non essendo menzionato nei commi 1 e 2 dell'articolo 117 della Costituzione dovrebbe ritenersi riservato alle regioni. Ma tale norma rivela che il legislatore, di fatto, nega agli enti locali una propria autonomia organizzativa, disponendo con norma imperativa e non di principio in merito all'applicabilità della norma in argomento.

Se per la potestà legislativa concorrente dello Stato è così vasta da poter limitare, dunque, le autonomie, non resta che chiedersi come essa si concili con il complessivo disegno di riforma delle autonomie, che se non appare di certo rispondente ai canoni interpretativi di chi tende a conclusioni apposte – il federalismo di stati sovrani. Più che di enti autonomi – pare aver inteso assegnare alle autonomie una posizione di autogoverno che presuppone una regia politico-economica, ma non una pervasività così forte, da parte dello Stato.

 

[1] M. Luciani, Le nuove competenze legislative delle regioni a statuto ordinario. Prime osservazioni sui principali nodi problematici della l. cost. n. 3 del 2001, in www.associazionedeicostituzionalisti.it.

[2] In tal senso V. Papadia, in Comuni d'Italia 9/2002.

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