ALESSANDRO PAGANO
(Consigliere
del T.A.R. Campania-Napoli)
Il riparto della giurisdizione
in tema di pubblico impiego
e lo stratagemma 17
«Se l’avversario ci incalza con una controprova, spesso ci potremo salvare con una sottile distinzione a cui magari prima non abbiamo pensato, se la cosa in questione consente un doppio significato oppure un doppio caso».
Incalzato dalla verve del professore Virga, ho messo mano a L’arte di ottenere ragione esposta in 38 stratagemmi di Schopenhauer, trovando, in quello premesso, il canone con cui approntare una controreplica: non c’è dubbio, infatti, che l’articolo 45 D.Lgs. 80/98, offra più di un doppio significato.
Ho però desistito dall’utilizzarlo constatando, a ben riflettere, che recava un numero cabalisticamente rilevante, che mi avrebbe ulteriormente esposto agli strali del mio contraddittore.
In verità, ho desistito per una ragione sostanziale.
Apparirà paradossale, ma la sagace replica, si compone di quelle che riconosco come argomentazioni mie.
Altro infatti è concordare sul carattere disagevole del testo offerto dal legislatore (o ancora riflettere sulla presenza di aspetti del rapporto di lavoro che si connotano così specificamente che richiederebbero l’intervento del giudice dell’amministrazione), altro è ricercare e proporre criteri univoci per ripartire le controversie, una volta che il legislatore ha stabilito che non c’è specificità in quel rapporto, per cui lo stesso deve essere delibato dal giudice del diritto privato.
Sono peraltro convinto che il passaggio della giurisdizione al giudice ordinario non giovi, almeno allo stato attuale, a nessuno: concreta invece una perdita secca del patrimonio di professionalità che il giudice amministrativo ha acquisito nel settore, mentre la fase di trapasso appare così incerta. (Per dirla tutta, come ha mostrato il pres. Giacchetti, non ci sono da temere solo dei fontanazzi, ma una vera e propria Seveso giuridica).
Con rammarico leggo che il professore Virga ritiene i giudici amministrativi attualmente caratterizzati da un sentimento di smobilitazione verso tale contenzioso.
Senza voler assumere una difesa di ufficio della categoria, mi limito ad osservare che non può essere certo la farraginosa interpretabilità di un ordinanza ministeriale ad indurre ad atteggiamenti disfattisti.
Chi riversa genuina passione nell’amministrare la giustizia, è (o dovrebbe essere) immune da tali insofferenze.
Per contro, pronunce recenti, come la Plenaria sulle mansioni superiori, mostrano, come la giustizia amministrativa, nelle sue massime espressioni, si continui ad interrogare su snodi essenziali del lavoro presso la P.A. (quali appunto l’applicazione dell’art. 2103 C.C. ai lavoratori pubblici).
Il problema, invero, è diverso, ed è costituito --sempre e solo-- dalla celerità del processo.
Lo stesso panorama di interventi dei giudici amministrativi che darebbero l’impressione di voler ammainare la bandiera mi sembrano ispirati, leggendoli contestualmente, come l’articolo di replica ci consente di fare, da una profonda consapevolezza di tale problema: quello cioè che se il legislatore ha scelto per il cambio della giurisdizione, bisogna operare affinché questa scelta sia da subito chiara.
Sviluppando l’efficace espressione del professore Virga, possiamo ritenere che non siamo in presenza di una fuga dopo un armistizio, come si paventa, ma al contrario, del tentativo di evitare un’impervia lotta, per arrivare ad un faticoso concordato giurisprudenziale.
Scelta chiara da subito, senza neanche aspettare il pronunciamento della suprema Corte.
Riprendo anche qui l’esempio "clinico" del professore Virga, per ricordare come un processualammistrativista ha affermato (con una informatio ad aures) che il riparto della giurisdizione, consegnato alla Corte di Cassazione, equivale ad una gestazione seguita nel suo iter da un ginecologo ed affidata, nel momento culminante, a specialista di altra branca medica.
Se il ripartire per blocchi la giurisdizione, come si è soliti ripetere, è concetto di una qualche specificità giuridica, bisognerà pure realizzarlo, eliminando in radice il problema della ricerca del giudice.
Non va dimenticato, infine, che il dibattito gentilmente ospitato dalla rivista Giust.it è frutto anche di una riflessione sul campo ove, contestualmente alla doverosa difesa del «bene della vita» per cui il ricorrente agisce, gli avvocati richiedono insistentemente precise indicazioni ai giudici, in punto giurisdizione, lamentandosi di dover proporre una doppia impugnazione, per evitare decadenze o altro.
In termini conclusivi: Ma, insomma, è mai possibile che si versi tuttora, come prima del 1923, in una situazione per cui per ogni controversia occorrono due giudizi, uno per stabilire chi deve giudicarne, e l’altro, finalmente per decidere il merito? (Guicciardi E., «Causa petendi» e «petitum»: verso la soluzione della crisi, Giurisprudenza It., 1949, III, 145).