ALESSANDRO PAGANO
(Consigliere del T.A.R. Campania)
La pregiudiziale penale al
procedimento disciplinare nella legge
n. 97/2001 alla stregua dell’esame degli
atti parlamentari.
La legge 27 marzo 2001 n. 97, recante "Norme sul rapporto fra procedimento penale e procedimento disciplinare ed effetti del giudicato penale nei confronti dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche" (in G.U. 5 aprile 2001 n. 80), contiene rilevanti motivi di approfondimento sotto l’aspetto politico-sociale.
La normativa in esame appare, infatti, nodo cruciale fra esigenze "garantistiche" che sempre connotano i giudizi sanzionatori e le più late esigenze di tutela dell'ordinamento, inteso in senso ampio, comprendente innanzitutto la pubblica amministrazione.
Due, emblematicamente, sono i punti di emersione che la legge n. 97/2001 registra.
Da un lato, le pronunce della Corte Costituzionale che hanno bandito qualsiasi automatismo fra sentenza penale e procedimento disciplinare, dall’altro, la marea montante dei giudizi di tangentopoli, con riflessi minanti il rapporto fra apparati pubblici e cittadino.
Il primo riferimento è alle sentenze della Corte n. 971 del 1988 e 197 del 1993 con le quali è stato censurato qualsiasi "meccanismo automatico di destituzione o di decadenza dall’impiego del pubblico dipendente condannato con sentenza passata in giudicato. In tali casi si è affermato il principio secondo il quale gli effetti della condanna penale sono valutati autonomamente dall’amministrazione competente ai fini della individuazione della sanzione disciplinare da irrogare sulla base della gravità del comportamento del dipendente".
Lo studio degli atti preparatori della legge in esame (da cui sono tratti i brani in corsivo) evidenzia appunto che la stesura del testo, poi divenuto quello promulgato, rileva contestualmente la consapevolezza del grave danno che una amministrazione pubblica non percepita come non imparziale determina nei cittadini, unitamente al rilievo, ben saldo nei legiferanti, che la p.A. sia incapace di autorigenerarsi.
Gli interventi succedutisi in sede di elaborazione della legge 97/2001 sono infatti caratterizzati dalla evidente preoccupazione dei parlamentari per una amministrazione pubblica che appare gravemente vulnerata dai processi penali che hanno coinvolto suoi dipendenti, anche di grado elevato e che risulta incapace, tuttavia, di attivare gli anticorpi necessari per espungere dal suo interno i funzionari macchiatisi di gravi di illeciti penali specificamente contro la stessa amministrazione di appartenenza.
In questo contesto, profonda impressione sui legiferanti ha suscitato la lettura del cd rapporto Cassese: "[sarebbe] opportuno .. che tutti noi tornassimo a leggere con attenzione – e che venisse divulgato fra la gente - quanto contenuto nel rapporto del comitato di studio sulla prevenzione della corruzione, presieduto dal professor Cassese, specialmente nelle sue premesse, dove viene esplicitato come il fenomeno della corruzione nella pubblica amministrazione incida, quale conseguenza primaria, a medio e lungo periodo sul sistema politico stesso e più esattamente sul credito e sul consenso dato dalla popolazione alla classe ed alle istituzioni politiche nel loro complesso e a ogni livello. Non ci si stupisca poi se la percentuale del votanti cala progressivamente ad ogni consultazione elettorale".
Il concetto espresso è quanto mai delicato, atteso che salda, agli occhi del legislatore, la credibilità delle istituzioni amministrative con la partecipazione concreta dei cittadini-elettori agli organismi parlamentari.
Compito nodale della attività legislativa intrapresa è, pertanto, la "tutela effettiva della immagine della pubblica amministrazione, compromessa dalla constatazione che più volte si è riprodotta della permanenza, nello stesso posto, nella stessa mansione o funzione, di persone che avevano riportato condanne, producendo al tempo stesso una deformazione della trasparenza, dell’immagine della pubblica amministrazione e un ulteriore calo di credibilità dello stesso assetto normativo e legislativo."
Impietosa, in quel contesto, è la radiografia della p.A. cui si addebita, come già si è osservato, la incapacità e la non volontà di rigenerarsi, ponendo in essere, per contro, una reazione di autoprotezione: "Si aggiunga poi il serbatoio stesso del materiale umano impiegato nelle pubbliche amministrazioni, che è bene che non senta, non veda e non parli, per non dire dei criteri di reclutamento e delle assunzioni sui quali sorvoliamo pietosamente, per capire perfettamente come certe azioni di disturbo, come quelle introdotte da questo provvedimento, nessuno abbia voluto intraprenderle e neppure ne abbia voluto la titolarità".
Più specificamente, si è sottolineato il "verificarsi di clamorosi episodi che hanno scosso l’opinione pubblica. Essa veniva a conoscenza di molti casi nei quali i pubblici funzionari trovavano il modo per essere reitegrati nei propri posti di responsabilità, o ivi mantenuti- responsabilità talvolta anche elevate e delicate- pur essendo stati condannati o pur avendo patteggiato la pena per corruzione o altri reati contro la pubblica amministrazione".
"Da molto tempo, del resto, la Corte dei Conti nelle sue relazioni al Parlamento segnala tale fenomeno e ultimamente non sono mancati anche ministri i quali hanno ammesso non solo che i controlli interni alle amministrazioni per lo più non funzionano, ma che la lotta alla corruzione è indebolita dalla carenza di strumenti disciplinari, anche di fronte a pronunce gravi del giudice penale. Fra tutte voglio citare le dichiarazioni rese dal ministro Visco alla commissione affari costituzionali del Senato. Il ministro, riferendosi al delicatissimo settore di sua competenza, ha in primo luogo riportato alcuni dati, francamente impressionanti, ossia che tra il 1995 ed il 1997 sono stati 90 i dipendenti civili dell’amministrazione finanziaria condannati – condannati, si badi non inquisiti- per corruzione, concussione e peculato e che, sempre nello stesso periodo, nella guardia di finanza sono stati avviati ben 836 processi nei confronti di ufficiali e sottufficiali. Come si vede, tra condanne e processi, sono circa mille in tre anni, poco meno di uno al giorno, comprese le feste comandate. A fronte di tale fenomeno, che certo non può non suscitare allarme, il ministro si è dichiarato impotente ed ha osservato che risulta più facile licenziare un dipendente per scarso rendimento piuttosto che un corrotto"
Questo, dunque, il quadro di riferimento tenuto presente in sede legislativa: quadro che consente una immediata ricognizione dei molteplici problemi in campo all’attenzione del Parlamento: tutela della p.A. e della sua immagine; recupero, in chiave di trasparenza, del rapporto con il corpo elettorale ed i cittadini; attivazione di meccanismi autoprotettivi delle istituzioni attraverso un corretto utilizzo del procedimento disciplinare.
Specificamente, rispetto ai problemi qui riepilogati, si aggiunge ancora il convergente problema della contrattualizzazione del rapporto di lavoro con la p.A., e la tematica, al dire il vero molto dibattuta in sede di formulazione della legge in esame, del rilievo della sentenza c.d. patteggiata.
E’ ben facile, infatti, comprendere come ogni modifica ordinamentale che attenga al "valore" della sentenza patteggiata inneschi conseguenze sulla concreta "vitalità" deflattiva di questo rito alternativo.
Dalla ricognizione svolta è possibile cogliere come le molteplici istanze espresse, talune di rilevante spessore, abbiano trovato composizione con particolare riferimento ai rapporti fra procedimento penale e procedimento disciplinare.
Trattasi del tema principale della legge e certamente quello di minore intellegibilità, atteso che la riforma attuata, su tale punto, opera modificando alcune norme del codice di procedura penale.
La legge 97/2001 si presenta, infatti, come un corpus nettamente separato fra norme del codice di procedura penale novellate e disposizioni autonome di immediata leggibilità.
Affrontando il testo legislativo si rileva quindi come gli effetti della sentenza penale nel giudizio disciplinare siano di disagevole lettura, dovendo ricorrere al codice di procedura penale, da emendare, mentre le altre disposizioni, al di là dei problemi intrinseci che sollevano, facendo corpo a sé, siano di immediata percezione.
In particolare, rispetto al tema oggetto della presente indagine, attinente ai rapporti fra processo penale e procedimento disciplinare, si osserva che il legislatore (lo si è già accennato) è partito dalla considerazione, vivamente rimarcata in tutto l’iter parlamentare, che i procedimenti disciplinari, da instaurare a seguito di pronuncia del giudice penale, sostanzialmente non funzionino.
Già la proposta di legge n. 2602/1996 mette a fuoco questa urgenza affermando che "esigenze di moralizzazione della pubblica amministrazione impongono l’adozione di ogni più opportuna misura volta ad evitare che dipendenti nei confronti dei quali sia intervenuta sentenza penale di condanna passata in giudicato possano confidare in una sostanziale indulgenza per i fatti accertati sulla scorta di una difforme valutazione degli stessi in sede disciplinare".
Si coglie qui appieno il punto saliente della riforma: ordinare proprio i rapporti fra esiti penali e valutazione in sede disciplinare.
In sintesi, pur scevra da automatismi, la p.A., in sede disciplinare, non può non tener conto di quanto accertato dal giudice penale.
L’articolo 1 della legge 97/2001 risulta così il fulcro portante della riforma.
E’ infatti attuata una riformulazione dell'art. 653 C.P.P. in cui, rispettivamente nel comma 1 e 1 bis, si afferma che la sentenza penale, non necessariamente pronunciata in seguito a dibattimento, di assoluzione (primo comma) e di condanna (comma 1bis) fanno stato, hanno efficacia di cosa giudicata, nel giudizio disciplinare.
In altri termini, ferma la discrezionalità dell’amministrazione nella valutazione dei fatti, al di là, ripetesi, di automatismi, è parimenti fermo l'accertamento compiuto dal giudice penale.
I fatti e la imputazione, cioè la lettura penalistica del fatto, non può più essere messa in discussione innanzi all’autorità disciplinare.
Un "fatto" di peculato, ad esempio, è e deve rimanere tale in sede di valutazione innanzi agli organi di disciplina.
Connessa alla norma fondamentale espressa dall’art. 1, è la modifica dell’art. 445 C.P.P., contenuta nell’art. 2 della lex 97/2001.
Come si è già riferito, molto si è dibattuto, nelle fasi formative della legge, delle possibili ripercussioni sulla vitalità del patteggiamento in sede penale, della modifica all’art. 445 CPP.
La scelta del legislatore si è orientata nel senso che la sentenza patteggiata non ha efficacia nei giudizi civili o amministrativi, "salvo quanto previsto dall’art. 653 [C.P.P.]".
Tanto comporta che dell’accertamento contenuto nella sentenza patteggiata, si dovrà tenere conto in sede disciplinare.
Sempre nell’ambito codicistico, si segnala la interpolazione dell'art. 652 C.P.P. .
La modifica è contenuta nell’art. 9, recante estensione dell’articolo 652 del codice di procedura penale al giudizio promosso nell’interesse del danneggiato.
La modifica dell’art. 652 C.P.P. ha la sua genesi nella constatazione che, rispetto al giudizio di responsabilità innanzi alla Corte dei Conti, "l’efficacia della sentenza penale irrevocabile di condanna è assicurata dall’articolo 651 del codice di procedura penale. Più dubbia è, invece, in tale specifico giudizio l’efficacia della sentenza penale di assoluzione, atteso che in ordine alla applicabilità nello stesso del successivo articolo 652 la giurisprudenza del giudice contabile è sinora pervenuta a soluzioni contrastanti, a volte positive, più spesso negative; queste ultime motivate sul rilievo che al procuratore contabile non è dato (a differenza dell'amministrazione danneggiata) costituirsi parte civile nel processo penale.
Le esigenze di armonizzazione e di equilibrio che hanno spinto a novellare l’articolo 653 del codice di procedura penale, equiordinando gli effetti nel procedimento disciplinare e delle sentenze di condanna e di quelle di assoluzione, potrebbero sollecitare da parte dell’Assemblea l’esercizio della funzione emendativa nel senso di inserire una disposizione interpretativa, che dirima il contrasto giurisprudenziale, sancendo che la sentenza penale di assoluzione ha efficacia di giudicato anche nel procedimento di responsabilità per danno erariale ai sensi e per gli effetti dell’articolo 652 del codice di procedura penale."
Valgano, infine, un breve riepilogo delle altre disposizioni contenute nella lex 97/2001.
I successivi articoli 4, 5, 6, 7 e 9 regolano ulteriori aspetti, quanto ad effetti penali ovvero a status di impiegato, della sentenza penale di condanna.
L’art. 4 regola la sospensione dal servizio a seguito di condanna non definitiva; l’art. 5, accessivi effetti penali della condanna, con particolare riferimento alla pena accessoria della estinzione del rapporto di impiego.
Sempre l’art. 5, al comma 4, disciplina le modalità ed i tempi del conseguente (alla sentenza penale) procedimento disciplinare che può culminare con la estinzione del rapporto di lavoro o di impiego.
Da rimarcare è il collegamento fra l’art. 5 quarto comma e l’art. 3, disciplinante il trasferimento a seguito di rinvio a giudizio in quanto tali norme si riferiscono entrambe alle amministrazioni pubbliche, titolari del potere disciplinare, identificandole nelle amministrazioni, enti pubblici o enti a prevalente partecipazione pubblica.
Si tratta di nozione di pubblica amministrazione quanto mai ampia che registra l’attuale latitudine del concetto di p.A.
Gli articoli 6 e 7 della legge introducono disposizioni per assicurare il recupero del maltolto sia con il richiamo alla confisca ex art. 240 C.P., sia con la denuncia alla Procura della Corte dei Conti.
L’art. 8 si segnala ancora per la importante regola che esprime: la prevalenza delle disposizioni della presente legge, rispetto alle regole contrattuali regolanti la materia.
In altri termini, si individua una parte dello "zoccolo duro" che connota il lavoro presso le pubbliche amministrazioni: trattasi infatti, in generale, di attività che sebbene contrattualizzata deve necessariamente mantenere aspetti pubblicistici sottratti alla disponibilità delle parti.
Strettamente connessa con tale osservazione e di diretto rilievo con quanto sin qui affermato circa la disciplina dei lavoratori della p.A., è pertanto la centralità dei codici deontologici dei dipendenti pubblici.
Chiude la lex 97/2001, la disposizione transitoria che applica quanto disposto dalla novella, "ai giudizi civili e amministrativi, e ai procedimenti disciplinari in corso alla data di entrata in vigore della legge stessa".
La norma impone qualche riflessione.
I procedimenti "in corso" (procedimenti penali, giudizi civili e amministrativi) sono tali in relazione alla loro pendenza anche se hanno già esaurito alcuni gradi di giudizio?
La risposta appare univoca.
Si applicheranno le disposizioni della lex 97/2001 all’imputato, ad es., che, condannato in sede penale, in primo o secondo grado, abbia interposto ricorso per Cassazione, pendente all’atto della entrata in vigore della legge in commento.
La interpretazione è suffragata dal secondo comma dell’art. 10 che esclude, per i procedimenti "in corso", le pene accessorie e le sanzioni patrimoniali: tanto comporta, ad es., che è applicabile, nel caso summenzionato, la sospensione dal servizio ex art. 4 della novella.
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LEGGE 27 marzo 2001 n. 97 (in G.U. parte I, n. 80 del 5 aprile 2001) - Norme sul rapporto tra procedimento penale e procedimento disciplinare ed effetti del giudicato penale nei confronti dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche.
C. DE MARCO, Il potere disciplinare nel pubblico impiego privatizzato.
P. VIRGA, La responsabilità disciplinare.