Dottorato “Diritto Amministrativo in trasformazione” (7° modulo, anno accademico 2020/2021) Università L’Aquila 25 maggio 2021 – Seminario sul Libro di N. LONGOBARDI “Il declino italiano” Passigli Editore 2021. Relazione generale. ENRICO FOLLIERI
Dottrina: Dottorato “Diritto Amministrativo in trasformazione” (7° modulo, anno accademico 2020/2021) Università L’Aquila 25 maggio 2021 – Seminario sul Libro di N. LONGOBARDI “Il declino italiano” Passigli Editore 2021. Relazione generale
Sommario: 1. Lo scopo del libro. – 2. Il declino italiano e la nuova economia istituzionale. – 3. Grandi temi istituzionali tra “credenze” e realtà con esse contrastanti. – 4. Il regresso ordinamentale. – 5. L'”azzardo istituzionale”. – 6. Considerazioni d’insieme.
1. Lo scopo del libro.
Nino Longobardi svela nella prefazione che il volume su “Il declino italiano. Le ragioni istituzionali” nasce dall’incontro di tre fattori: 1) la sua esperienza di studioso e di avvocato, quindi, la sua vita di lavoro; 2) l’incontro con la nuova economia istituzionale nella sua fondamentale distinzione tra istituzioni economiche inclusive ed estrattive, “le prime sono quelle che garantiscono il rispetto della proprietà privata, un sistema giuridico imparziale, l’accesso al sistema di scambi e contrattazioni, la possibilità di aprire nuove attività e alle persone di scegliere liberamente un’occupazione. Le istituzioni economiche estrattive hanno in misura variabile caratteristiche opposte, in quanto forgiate dalle al potere in base alle esigenze delle stesse di preservare assetti di potere e rendite di posizione, anche ostacolando l’innovazione e la ‘distruzione creatrice’” (pagg. 19-20); nuova economia istituzionale che sollecita il giurista ad avere uno sguardo più libero sulle istituzioni; 3) infine, ma non da ultimo, tanto che Longobardi lo indica come “decisivo“, l’insegnamento di Giuseppe Guarino, a cui è dedicata l’opera, il quale ha messo in rilievo il ruolo delle ideologie, specie giuridiche, sottolineandonela tendenza a perpetuarsi, anche se sconfessate dal diritto positivo e non avendo più la loro funzione e ha indicato la necessità per lo studioso di individuare e disvelare “la trama di interessi e di meccanismi istituzionali, spesso confliggenti con gli intenti dichiarati o ravvisabili dai testi, sottostanti agli interventi normativi” (pagg. 9- 10).
Ne è nata l’idea, poi divenuta motivata convinzione, che le ragioni del declino italiano, avvertito a tutti i livelli, sono istituzionali e l’Autore è risalito con analisi approfondita alle cause della degenerazione delle istituzioni e ne ha illustrato la portata, sfidando “poderosi luoghi comuni e conformismi diffusi alimentati dalla dottrina, dalla giurisprudenza e dai media, in primo luogo la retorica tutta italiana delle riforme istituzionali” (pag. 9).
Nino Longobardi ha scelto una platea di lettori più ampia degli studiosi di diritto delle istituzioni, per consentire anche ai non specialisti di avvicinarsi alla problematica con conseguente utilizzo di un vocabolario non strettamente tecnico, spiegando la terminologia specifica, a volte irrinunciabile, senza, tuttavia, venir meno al necessario rigore.
Devo dire che Nino Longobardi è riuscito nell’intento: la prosa è piana e chiara, piacevole da leggere, a tratti accattivante, rendendo semplice ed accessibile anche concetti obiettivamente complessi.
L’interessante lavoro è una presa d’atto ed una denunzia dell’attuale stato di declino in cui versa l’Italia nonché un’analisi delle ragioni istituzionali che lo hanno causato.
La struttura del libro è articolata in quattro capitoli e si chiude con le conclusioni.
Nel primo capitolo si tratta del declino italiano e la nuova economia istituzionale; nel secondo, dei grandi temi istituzionali tra credenze e realtà con esse contrastanti; nel terzo, del regresso ordinamentale; nel quarto dello “azzardo istituzionale“.2. Il declino italiano e la nuova economia istituzionale.
Ne è nata l’idea, poi divenuta motivata convinzione, che le ragioni del declino italiano, avvertito a tutti i livelli, sono istituzionali e l’Autore è risalito con analisi approfondita alle cause della degenerazione delle istituzioni e ne ha illustrato la portata, sfidando “poderosi luoghi comuni e conformismi diffusi alimentati dalla dottrina, dalla giurisprudenza e dai media, in primo luogo la retorica tutta italiana delle riforme istituzionali” (pag. 9).
Nino Longobardi ha scelto una platea di lettori più ampia degli studiosi di diritto delle istituzioni, per consentire anche ai non specialisti di avvicinarsi alla problematica con conseguente utilizzo di un vocabolario non strettamente tecnico, spiegando la terminologia specifica, a volte irrinunciabile, senza, tuttavia, venir meno al necessario rigore.
Devo dire che Nino Longobardi è riuscito nell’intento: la prosa è piana e chiara, piacevole da leggere, a tratti accattivante, rendendo semplice ed accessibile anche concetti obiettivamente complessi.
L’interessante lavoro è una presa d’atto ed una denunzia dell’attuale stato di declino in cui versa l’Italia nonché un’analisi delle ragioni istituzionali che lo hanno causato.
La struttura del libro è articolata in quattro capitoli e si chiude con le conclusioni.
Nel primo capitolo si tratta del declino italiano e la nuova economia istituzionale; nel secondo, dei grandi temi istituzionali tra credenze e realtà con esse contrastanti; nel terzo, del regresso ordinamentale; nel quarto dello “azzardo istituzionale“.2. Il declino italiano e la nuova economia istituzionale.
Il primo capitolo si può definire introduttivo perché fotografa la situazione dell’Italia e indica nelle istituzioni la causa prima per la prosperità economica, senza tralasciare il dato culturale di base.
In particolare, vengono esposti i dati del declino economico dell’Italia che risalgono agli anni ’90 del 1900 e che peggiorano a seguito della grande recessione innescata dalla crisi finanziaria del primo decennio del 2000. Il PIL (Prodotto interno lordo), anche quando ha registrato un aumento, è stato inferiore di un punto percentuale a quello degli altri Paesi dell’eurozona e, nel 2019, l’ISTAT ha certificato una recessione tecnica dell’Italia, unico tra i Paesi europei, per aver registrato una contrazione del P.I.L. per due trimestri consecutivi nel 2018.
L’Autore, constatato che l’Italia è divenuta il “grande malato d’Europa“, volge lo sguardo agli storici difetti italiani nell’analisi fornita da Giacomo Leopardi e, poi, da Vilfredo Pareto: l’indifferenza; il cinismo; il difetto di “onore“, quest’ultimo inteso come amor proprio e ambizione; l’opportunismo, il conformismo e il servilismo. Difetti implementati dalle scelte e dai comportamenti dell’ultimo periodo della storia repubblicana.
L’inaridimento culturale è andato di pari passo con il declino economico e la contrazione dell’investimento in istruzione, ricerca ed innovazione.
Le istituzioni e le scelte dei governanti rivestono un ruolo decisivo per la prosperità economica, come evidenziato dal più recente orientamento della scienza economica.
Nell’evoluzione delle istituzioni può giocare un ruolo importante la “congiuntura critica” che è un evento o un complesso di fattori che alterino in modo radicale gli equilibri economici e politici di una società e che può indirizzare a istituzioni inclusive, in gran parte effetto della rule of law che comporta limitazioni all’esercizio del potere e la distribuzione pluralistica del potere politico stesso nella società ovvero estrattive dove non vi è tutela nei confronti di chi vuole impadronirsi sempre più dei poteri dello Stato.
L’Autore rileva che Max Weber, all’inizio del ‘900, ha evidenziato l’importanza dello Stato di diritto per lo sviluppo dell’economia di mercato perché assicura la certezza del traffico giuridico, garantendo regole prevedibili nei rapporti economici, calcolabili sia in sede giurisdizionale che amministrativa, con controlli efficaci sui poteri pubblici da parte di giudici indipendenti e individuazione del personale pubblico in base al merito ed alla qualificazione tecnica.
Lo Stato di diritto è valore fondante dell’Unione Europea le cui istituzioni sono attive: nell’avviare procedure di infrazione quando ravvisi iniziative legislative lesive dell’indipendenza della magistratura; nell’elaborare criteri per valutare, oltre all’indipendenza della magistratura, le garanzie nei confronti degli apparati pubblici e le misure anticorruzione e nell’esercitare la propria moral suasion con segnalazioni, ammonimenti ed analoghe censure.
La moral suasion potrebbe essere di grande rilievo per impedire il condizionamento della magistratura con provvedimenti legislativi apparentemente rispettosi della Stato di diritto, come è avvenuto in Italia quando, con il D.L. n. 90 del 2014 si è anticipato il pensionamento dei magistrati con conseguente scopertura degli incarichi direttivi e semidirettivi, affidati ad altri magistrati, sensibili agli assetti di potere politico esistenti e, con il successivo D.L. n. 168 del 2016, si è prolungata l’attività lavorativa solo ai magistrati con funzioni apicali, direttivi superiori o direttivi presso la Corte di Cassazione e la Procura Generale ed ai magistrati del Consiglio di Stato in posizione equivalente.
Non è un caso che l’Italia si segnali per i dati negativi in tema di imparzialità delle Corti giudiziarie e di protezione dei diritti di proprietà, di controllo sul movimento dei capitali e delle persone, di restrizioni alla proprietà ed agli investimenti stranieri. La qualità delle istituzioni italiane tra i Paesi dell’euro è ritenuta la peggiore dopo la Grecia.
Si domanda Nino Longobardi perché le istituzioni, che sono sempre le stesse, pur inadeguate, non sono state di ostacolo al rapido sviluppo italiano, ma hanno avuto a partire dal 1990 un effetto così negativo sulla crescita ?
Per Longobardi, è stato il grave deterioramento arrecato alle istituzioni da scelte e comportamenti, assunti, tra l’altro, dalla classe politica che, in presenza di una congiuntura critica, hanno impresso una svolta in senso estrattivo delle istituzioni.
L’Autore espone, quindi, le critiche degli economisti agli assetti istituzionali e l’atteggiamento tenuto dai giuristi.
I primi hanno sottolineato il malfunzionamento della giustizia per l’abnorme durata dei processi civili e l’inefficienza dello Stato e del sistema amministrativo del nostro paese nonché il mancato riconoscimento delle ragioni del mercato e della efficienza economica e le norme giuridiche e le prassi giudiziarie ed amministrative.
La giurisdizione, in particolare, è ritenuta “intrinsecamente a- economica: essa è espressione di sovranità e garanzia dei diritti, dunque è una funzione senza costo e senza tempo in cui ogni singolo processo ha valore assoluto; il solo bene in gioco è l’affermazione del diritto controverso” (pag. 31). Invece per il cittadino rileva la tempestività, l’efficacia ed il costo ragionevole del servizio giustizia.
Sotto accusa cultura e tradizione giuridiche italiane: sono un “caso estremo” quanto ad ostilità per il mercato e per le libertà economiche tra i paesi di civil law, a differenza dei sistemi di common law di cui viene evidenziata la superiorità nel sostenere il libero operare dei mercati.
Un punto nodale problematico di ordine culturale viene individuato nella tradizione fondata sul primato dello Stato: alla P.A. è attribuito il potere originario, sovrano; uno Stato distinto e superiore rispetto alla società e all’individuo. Accentuata specialità per l’amministrazione e stato di soggezione per il cittadino.
Gli economisti contestano anche il diritto amministrativo estendendo la critica al giudice amministrativo “ritenuto portatore di una cultura giuridica formalistica, autoreferenziale ed insensibile alle esigenze dell’economia, al pari della pubblica amministrazione italiana” (pag. 33).
I giuspubblicisti propongono per risolvere i problemi solo “nuove norme giuridiche” che accrescono incertezze e complicazione.
La critica degli economisti, alimentata dai politici nazionali, è rivolta alla giustizia amministrativa e al Consiglio di Stato, i cui magistrati rivestono incarichi non giudiziari di grande rilievo nei ministeri ed il cui intervento ostacola opere pubbliche e investimenti produttivi.
Dato rilevante è che i giudici del Consiglio di Stato partecipano anche all’amministrazione attiva, con concentrazione di potere e rischi altissimi per un’evoluzione del sistema verso istituzioni politiche estrattive.
Longobardi evidenzia altro aspetto, ben più fondato.
La giustizia amministrativa viene accusata di un eccesso di “deference” verso l’amministrazione pubblica da ricondurre alla tradizione culturale basata sul primato dello Stato che ostacola l’indipendenza effettiva del giudice amministrativo.
Il Giudice amministrativo presenta un’ambiguità di fondo, due anime: imperium e natura esorbitante del potere e garanzia nei confronti dello imperium. Ciò porta a soluzioni diverse, a seconda della prevalenza dell’una o dell’altra anima, e compromette la prevedibilità e la certezza del diritto.
Nino Longobardi passa, poi, all’esame delle ragioni socio-politiche del declino riferite: alla modifica della natura dei partiti che sono divenuti associazioni di eletti, dediti alla formazione delle candidature e alla distribuzione degli incarichi, dando campo libero ai gruppi di interesse e facendo scadere la classe politica, con leggi elettorali non contrastate a sufficienza dalla Corte Costituzionale.
Leggi elettorali ispirate ad una logica estrattiva: dare ai leader il pieno controllo dei propri gruppi parlamentari attraverso il meccanismo delle liste bloccate, espropriando i cittadini del diritto di scegliere i propri rappresentanti.
L’Autore punta il dito anche: sulla dinamica delle retribuzioni (crescita anomala delle retribuzioni dei dirigenti pubblici e specialmente statali legati da un rapporto di fiducia con il ministro); sull’aumento della pressione fiscale che ha solo incrementato la spesa pubblica, improduttiva; sul sistema di informazione ove mancano editori puri che sono legati agli interessi economici; sulla scarsezza degli investimenti in istruzione, ricerca ed innovazione; sulla involuzione del capitalismo italiano; sull’importanza della certezza del diritto per le relazioni economiche che, per il diritto amministrativo, impone, ad esempio, di tutelare la stabilità dei provvedimenti favorevoli, ma l’anima del giudice amministrativo legata all’imperium induce a favorire la pubblica amministrazione per la tutela della finanza pubblica e una malintesa efficacia dell’azione amministrativa; sulle deleterie conseguenze prodotte dalla c.d. privatizzazione del pubblico impiego che ha portato la dirigenza pubblica alla mercè della politica.
La congiuntura critica che ha portato l’Italia verso le istituzioni estrattive è stata il crollo della prima Repubblica nel 1992.
Longobardi evidenzia che l’indirizzo “culturalistico” della nuova economia istituzionale “evoca questioni” che il giurista deve esaminare e che vengono trattate nei successivi capitoli.3. Grandi temi istituzionali tra “credenze” e realtà con esse contrastanti.
Il secondo capitolo sottolinea che, come rileva Douglas North, la certezza del diritto ha una funzione principale nelle istituzioni. Nino Longobardi considera il diverso modo in cui si è voluto assicurare certezza nei sistemi di civil law e common law: nei primi è affidata alla precisione di un testo adottato da un legislatore; nei secondi alla stabilità di regole che si affermano in una società e vengono accertate dai giudici.
La capacità regolativa del diritto positivo che assolve alla necessità della certezza ha trovato il suo modello nei codici di stampo ottocentesco, entrato in crisi con l’avvento dello Stato pluriclasse che produce norme tra loro contrastanti per soddisfare la molteplicità degli interessi.
Il codice è ormai un relitto storico ed è compromessa la certezza del diritto, minando il principio di legalità.
Rileva Longobardi: “L’ipertrofia normativa, con l’oscurità e la contraddittorietà delle norme che la caratterizzano, oltre a rafforzare il potere normativo dell’esecutivo a scapito della funzione legislativa del parlamento, si risolve nel conferimento di un ampio e decisivo potere normativo ai giudici” (pag. 62).
Nella realtà la contrapposizione tra civil law e common law è superata per la rilevanza che ha assunto il giudice negli ordinamenti continentali, per cui la certezza dipende in conclusione, anche negli ordinamenti di civil law, dalla qualità dei giudici e dai “congegni istituzionali diretti ad assicurarla” (pag. 63).
L’attuale assetto organizzativo e funzionale del potere giudiziario legato all’idea che il giudice è la “bouche de la loi” è da annoverare tra le “credenze” in contrasto con la realtà.
Occorre pertanto pensare ad una diversa formazione e maggiore qualificazione dei giudici. La selezione dei giudici deve assicurare l’apertura, specie nei posti più elevati, a personalità esterne riconosciute per competenza e integrità professionale dalla comunità degli operatori del diritto.
Il confronto tra i due sistemi prosegue e, pur evidenziando che l’inflazione legislativa ha investito anche la Gran Bretagna, Longobardi sottolinea le più antiche ascendenze della rule of law che può dirsi l’antesignana dello Stato di diritto, ma il legame della prima alla tradizione di common law ne impedisce la riconduzione allo Stato di diritto. Per quanto sia controversa anche quest’ultima nozione, le due tradizioni sono venute ad incontrarsi nelle contemporanee teorie della democrazia costituzionale sul terreno di principi comuni.
Comunque, rule of law e Stato di diritto sono informati ad una diversa concezione della certezza del diritto e del modo di assicurarla, per il ruolo del giudice che, nel primo, è riconosciuto ed assicurato da una lunga tradizione.
Quanto al sistema amministrativo, si registra da tempo una convergenza, di recente sospinta dal diritto europeo e globale: le amministrazioni continentali sono sempre più regolate dai principi di diritto comune e le altre formano oggetto di un diritto amministrativo speciale. In tutti e due i sistemi vi sono tutele giurisdizionali e non giurisdizionali.
Emergono comunque differenze: gli ordinamenti anglo-americani non danno luogo ad un sistema autonomo di diritto speciale contrapposto al diritto comune, ma a regole derogatorie ai principi della ordinary law che vengono presidiati dalle Corti ordinarie che assicurano la tutela del diritto di proprietà privata e della libertà contrattuale e d’impresa. Da qui la decisività della rule of law per la crescita economica a cui, secondo gli economisti, va aggiunta la tutela dei cittadini dall’uso arbitrario del potere da parte dello Stato.
Longobardi rivolge allora lo sguardo al giudice amministrativo italiano per verificare se viene assicurata la tutela nei confronti del potere amministrativo che, nel nostro ordinamento, affonda le radici culturali sul primato dello Stato e richiama le due anime, imperium e garanzia nei suoi confronti, che permeano la formazione del giudice, di cui viene sottolineata l’ambiguità che va superata. Il giudice deve svolgere il suo ruolo che è quello di garanzia nei confronti del potere, liberandosi dai pregiudizi che frenano la pur acquisita qualità tecnica del controllo sull’esercizio del potere tra l’identificazione dell’amministrazione, e per essa i suoi funzionari, con l’interesse pubblico e, quindi, parte processuale privilegiata, in posizione di supremazia rispetto alle altre, e la “concezione anacronistica del principio di separazione dei poteri che marginalizza la giurisdizione e la pretesa inesauribilità del potere amministrativo” (pag. 73).
Anche questi pregiudizi sono “credenze” radicate, benchè in contrasto con la realtà ed il diritto positivo che impone alla giurisdizione amministrativa il rispetto e l’applicazione dei principi di pienezza ed effettività della tutela e del giusto processo, per cui l’amministrazione deve essere trattata nel giudizio come le altre parti e l’ultima parola spetta al giudice per apprestare la tutela piena e satisfattiva della situazione giuridica soggettiva dedotta in giudizio.
Il giudice amministrativo deve prendere atto che le sue due storiche missioni -assoggettamento del potere allo Stato di diritto (sostanzialmente al principio di legalità) e inquadramento dell’attività amministrativa in regole speciali ad essa adatte- sono oggi recessive: il diritto amministrativo tende a divenire il diritto ordinario del potere pubblico, sovrastato dalla Costituzione e dal diritto europeo.
Longobardi espone la necessità di un ripensamento teorico del diritto amministrativo che deve basarsi sul rispetto dei diritti fondamentali ed essere interpretato in senso favorevole a questi ultimi che possono essere limitati solo dalla Costituzione, dalla normativa internazionale e dalla legislazione, non dal diritto amministrativo che non può costituire limiti ulteriori.
In conseguenza il giudice amministrativo deve diventare il protettore dei diritti fondamentali, non più l’interprete ed il creatore del punto di equilibrio tra interesse generale ed i diritti dei cittadini, e, quindi, occorre realizzare una piena indipendenza del Consiglio di Stato troncando il rapporto con il governo, con l’eliminazione della nomina governativa: di un quarto dei consiglieri di Stato, del Presidente del Consiglio di Stato, dei magistrati chiamati a ricoprire incarichi di amministrazione attiva.
L’Autore volge l’attenzione all’amministrazione pubblica e indica i principi di fondo del modello occidentale nella subordinazione delle istanze amministrative a quelle politiche, in ossequio al principio democratico, e nella separazione tra le due istanze, nel rispetto del principio liberale. Richiama per il nostro paese, la normativa costituzionale che afferma tali principi, sottolineando la previsione che l’accesso ai pubblici uffici avviene mediante concorso e che i funzionari pubblici, membri del Parlamento, possono essere promossi solo per anzianità nonché il divieto per legge di iscrizione ai partiti politici di magistrati, militari, funzionari ed agenti di polizia e diplomatici.
Il rapporto dei dirigenti e funzionari con il governo -sottolinea l’Autore- è di natura istituzionale non politica, e garantisce l’imparzialità dell’esercizio delle funzioni amministrative dei dipendenti pubblici che “sono al servizio esclusivo della Nazione” (art. 98 Cost.).
La consonanza politica tra vertici politici e dirigenza pubblica, affermatosi nel nostro paese soprattutto dagli anni ’90 grazie alla debolezza dei contrappesi istituzionali a partire dalla Corte Costituzionale, è contro i principi costituzionali ed è la legge che deve proteggere l’amministrazione e difenderne l’autonomo ruolo nei confronti del governo, “realizzando così la separazione tra politica e amministrazione richiesta con forza dalla Costituzione” (pag. 81).
Pertanto, il Parlamento dovrebbe essere autenticamente rappresentativo per legiferare in materia.4. Il regresso ordinamentale.
In particolare, vengono esposti i dati del declino economico dell’Italia che risalgono agli anni ’90 del 1900 e che peggiorano a seguito della grande recessione innescata dalla crisi finanziaria del primo decennio del 2000. Il PIL (Prodotto interno lordo), anche quando ha registrato un aumento, è stato inferiore di un punto percentuale a quello degli altri Paesi dell’eurozona e, nel 2019, l’ISTAT ha certificato una recessione tecnica dell’Italia, unico tra i Paesi europei, per aver registrato una contrazione del P.I.L. per due trimestri consecutivi nel 2018.
L’Autore, constatato che l’Italia è divenuta il “grande malato d’Europa“, volge lo sguardo agli storici difetti italiani nell’analisi fornita da Giacomo Leopardi e, poi, da Vilfredo Pareto: l’indifferenza; il cinismo; il difetto di “onore“, quest’ultimo inteso come amor proprio e ambizione; l’opportunismo, il conformismo e il servilismo. Difetti implementati dalle scelte e dai comportamenti dell’ultimo periodo della storia repubblicana.
L’inaridimento culturale è andato di pari passo con il declino economico e la contrazione dell’investimento in istruzione, ricerca ed innovazione.
Le istituzioni e le scelte dei governanti rivestono un ruolo decisivo per la prosperità economica, come evidenziato dal più recente orientamento della scienza economica.
Nell’evoluzione delle istituzioni può giocare un ruolo importante la “congiuntura critica” che è un evento o un complesso di fattori che alterino in modo radicale gli equilibri economici e politici di una società e che può indirizzare a istituzioni inclusive, in gran parte effetto della rule of law che comporta limitazioni all’esercizio del potere e la distribuzione pluralistica del potere politico stesso nella società ovvero estrattive dove non vi è tutela nei confronti di chi vuole impadronirsi sempre più dei poteri dello Stato.
L’Autore rileva che Max Weber, all’inizio del ‘900, ha evidenziato l’importanza dello Stato di diritto per lo sviluppo dell’economia di mercato perché assicura la certezza del traffico giuridico, garantendo regole prevedibili nei rapporti economici, calcolabili sia in sede giurisdizionale che amministrativa, con controlli efficaci sui poteri pubblici da parte di giudici indipendenti e individuazione del personale pubblico in base al merito ed alla qualificazione tecnica.
Lo Stato di diritto è valore fondante dell’Unione Europea le cui istituzioni sono attive: nell’avviare procedure di infrazione quando ravvisi iniziative legislative lesive dell’indipendenza della magistratura; nell’elaborare criteri per valutare, oltre all’indipendenza della magistratura, le garanzie nei confronti degli apparati pubblici e le misure anticorruzione e nell’esercitare la propria moral suasion con segnalazioni, ammonimenti ed analoghe censure.
La moral suasion potrebbe essere di grande rilievo per impedire il condizionamento della magistratura con provvedimenti legislativi apparentemente rispettosi della Stato di diritto, come è avvenuto in Italia quando, con il D.L. n. 90 del 2014 si è anticipato il pensionamento dei magistrati con conseguente scopertura degli incarichi direttivi e semidirettivi, affidati ad altri magistrati, sensibili agli assetti di potere politico esistenti e, con il successivo D.L. n. 168 del 2016, si è prolungata l’attività lavorativa solo ai magistrati con funzioni apicali, direttivi superiori o direttivi presso la Corte di Cassazione e la Procura Generale ed ai magistrati del Consiglio di Stato in posizione equivalente.
Non è un caso che l’Italia si segnali per i dati negativi in tema di imparzialità delle Corti giudiziarie e di protezione dei diritti di proprietà, di controllo sul movimento dei capitali e delle persone, di restrizioni alla proprietà ed agli investimenti stranieri. La qualità delle istituzioni italiane tra i Paesi dell’euro è ritenuta la peggiore dopo la Grecia.
Si domanda Nino Longobardi perché le istituzioni, che sono sempre le stesse, pur inadeguate, non sono state di ostacolo al rapido sviluppo italiano, ma hanno avuto a partire dal 1990 un effetto così negativo sulla crescita ?
Per Longobardi, è stato il grave deterioramento arrecato alle istituzioni da scelte e comportamenti, assunti, tra l’altro, dalla classe politica che, in presenza di una congiuntura critica, hanno impresso una svolta in senso estrattivo delle istituzioni.
L’Autore espone, quindi, le critiche degli economisti agli assetti istituzionali e l’atteggiamento tenuto dai giuristi.
I primi hanno sottolineato il malfunzionamento della giustizia per l’abnorme durata dei processi civili e l’inefficienza dello Stato e del sistema amministrativo del nostro paese nonché il mancato riconoscimento delle ragioni del mercato e della efficienza economica e le norme giuridiche e le prassi giudiziarie ed amministrative.
La giurisdizione, in particolare, è ritenuta “intrinsecamente a- economica: essa è espressione di sovranità e garanzia dei diritti, dunque è una funzione senza costo e senza tempo in cui ogni singolo processo ha valore assoluto; il solo bene in gioco è l’affermazione del diritto controverso” (pag. 31). Invece per il cittadino rileva la tempestività, l’efficacia ed il costo ragionevole del servizio giustizia.
Sotto accusa cultura e tradizione giuridiche italiane: sono un “caso estremo” quanto ad ostilità per il mercato e per le libertà economiche tra i paesi di civil law, a differenza dei sistemi di common law di cui viene evidenziata la superiorità nel sostenere il libero operare dei mercati.
Un punto nodale problematico di ordine culturale viene individuato nella tradizione fondata sul primato dello Stato: alla P.A. è attribuito il potere originario, sovrano; uno Stato distinto e superiore rispetto alla società e all’individuo. Accentuata specialità per l’amministrazione e stato di soggezione per il cittadino.
Gli economisti contestano anche il diritto amministrativo estendendo la critica al giudice amministrativo “ritenuto portatore di una cultura giuridica formalistica, autoreferenziale ed insensibile alle esigenze dell’economia, al pari della pubblica amministrazione italiana” (pag. 33).
I giuspubblicisti propongono per risolvere i problemi solo “nuove norme giuridiche” che accrescono incertezze e complicazione.
La critica degli economisti, alimentata dai politici nazionali, è rivolta alla giustizia amministrativa e al Consiglio di Stato, i cui magistrati rivestono incarichi non giudiziari di grande rilievo nei ministeri ed il cui intervento ostacola opere pubbliche e investimenti produttivi.
Dato rilevante è che i giudici del Consiglio di Stato partecipano anche all’amministrazione attiva, con concentrazione di potere e rischi altissimi per un’evoluzione del sistema verso istituzioni politiche estrattive.
Longobardi evidenzia altro aspetto, ben più fondato.
La giustizia amministrativa viene accusata di un eccesso di “deference” verso l’amministrazione pubblica da ricondurre alla tradizione culturale basata sul primato dello Stato che ostacola l’indipendenza effettiva del giudice amministrativo.
Il Giudice amministrativo presenta un’ambiguità di fondo, due anime: imperium e natura esorbitante del potere e garanzia nei confronti dello imperium. Ciò porta a soluzioni diverse, a seconda della prevalenza dell’una o dell’altra anima, e compromette la prevedibilità e la certezza del diritto.
Nino Longobardi passa, poi, all’esame delle ragioni socio-politiche del declino riferite: alla modifica della natura dei partiti che sono divenuti associazioni di eletti, dediti alla formazione delle candidature e alla distribuzione degli incarichi, dando campo libero ai gruppi di interesse e facendo scadere la classe politica, con leggi elettorali non contrastate a sufficienza dalla Corte Costituzionale.
Leggi elettorali ispirate ad una logica estrattiva: dare ai leader il pieno controllo dei propri gruppi parlamentari attraverso il meccanismo delle liste bloccate, espropriando i cittadini del diritto di scegliere i propri rappresentanti.
L’Autore punta il dito anche: sulla dinamica delle retribuzioni (crescita anomala delle retribuzioni dei dirigenti pubblici e specialmente statali legati da un rapporto di fiducia con il ministro); sull’aumento della pressione fiscale che ha solo incrementato la spesa pubblica, improduttiva; sul sistema di informazione ove mancano editori puri che sono legati agli interessi economici; sulla scarsezza degli investimenti in istruzione, ricerca ed innovazione; sulla involuzione del capitalismo italiano; sull’importanza della certezza del diritto per le relazioni economiche che, per il diritto amministrativo, impone, ad esempio, di tutelare la stabilità dei provvedimenti favorevoli, ma l’anima del giudice amministrativo legata all’imperium induce a favorire la pubblica amministrazione per la tutela della finanza pubblica e una malintesa efficacia dell’azione amministrativa; sulle deleterie conseguenze prodotte dalla c.d. privatizzazione del pubblico impiego che ha portato la dirigenza pubblica alla mercè della politica.
La congiuntura critica che ha portato l’Italia verso le istituzioni estrattive è stata il crollo della prima Repubblica nel 1992.
Longobardi evidenzia che l’indirizzo “culturalistico” della nuova economia istituzionale “evoca questioni” che il giurista deve esaminare e che vengono trattate nei successivi capitoli.3. Grandi temi istituzionali tra “credenze” e realtà con esse contrastanti.
Il secondo capitolo sottolinea che, come rileva Douglas North, la certezza del diritto ha una funzione principale nelle istituzioni. Nino Longobardi considera il diverso modo in cui si è voluto assicurare certezza nei sistemi di civil law e common law: nei primi è affidata alla precisione di un testo adottato da un legislatore; nei secondi alla stabilità di regole che si affermano in una società e vengono accertate dai giudici.
La capacità regolativa del diritto positivo che assolve alla necessità della certezza ha trovato il suo modello nei codici di stampo ottocentesco, entrato in crisi con l’avvento dello Stato pluriclasse che produce norme tra loro contrastanti per soddisfare la molteplicità degli interessi.
Il codice è ormai un relitto storico ed è compromessa la certezza del diritto, minando il principio di legalità.
Rileva Longobardi: “L’ipertrofia normativa, con l’oscurità e la contraddittorietà delle norme che la caratterizzano, oltre a rafforzare il potere normativo dell’esecutivo a scapito della funzione legislativa del parlamento, si risolve nel conferimento di un ampio e decisivo potere normativo ai giudici” (pag. 62).
Nella realtà la contrapposizione tra civil law e common law è superata per la rilevanza che ha assunto il giudice negli ordinamenti continentali, per cui la certezza dipende in conclusione, anche negli ordinamenti di civil law, dalla qualità dei giudici e dai “congegni istituzionali diretti ad assicurarla” (pag. 63).
L’attuale assetto organizzativo e funzionale del potere giudiziario legato all’idea che il giudice è la “bouche de la loi” è da annoverare tra le “credenze” in contrasto con la realtà.
Occorre pertanto pensare ad una diversa formazione e maggiore qualificazione dei giudici. La selezione dei giudici deve assicurare l’apertura, specie nei posti più elevati, a personalità esterne riconosciute per competenza e integrità professionale dalla comunità degli operatori del diritto.
Il confronto tra i due sistemi prosegue e, pur evidenziando che l’inflazione legislativa ha investito anche la Gran Bretagna, Longobardi sottolinea le più antiche ascendenze della rule of law che può dirsi l’antesignana dello Stato di diritto, ma il legame della prima alla tradizione di common law ne impedisce la riconduzione allo Stato di diritto. Per quanto sia controversa anche quest’ultima nozione, le due tradizioni sono venute ad incontrarsi nelle contemporanee teorie della democrazia costituzionale sul terreno di principi comuni.
Comunque, rule of law e Stato di diritto sono informati ad una diversa concezione della certezza del diritto e del modo di assicurarla, per il ruolo del giudice che, nel primo, è riconosciuto ed assicurato da una lunga tradizione.
Quanto al sistema amministrativo, si registra da tempo una convergenza, di recente sospinta dal diritto europeo e globale: le amministrazioni continentali sono sempre più regolate dai principi di diritto comune e le altre formano oggetto di un diritto amministrativo speciale. In tutti e due i sistemi vi sono tutele giurisdizionali e non giurisdizionali.
Emergono comunque differenze: gli ordinamenti anglo-americani non danno luogo ad un sistema autonomo di diritto speciale contrapposto al diritto comune, ma a regole derogatorie ai principi della ordinary law che vengono presidiati dalle Corti ordinarie che assicurano la tutela del diritto di proprietà privata e della libertà contrattuale e d’impresa. Da qui la decisività della rule of law per la crescita economica a cui, secondo gli economisti, va aggiunta la tutela dei cittadini dall’uso arbitrario del potere da parte dello Stato.
Longobardi rivolge allora lo sguardo al giudice amministrativo italiano per verificare se viene assicurata la tutela nei confronti del potere amministrativo che, nel nostro ordinamento, affonda le radici culturali sul primato dello Stato e richiama le due anime, imperium e garanzia nei suoi confronti, che permeano la formazione del giudice, di cui viene sottolineata l’ambiguità che va superata. Il giudice deve svolgere il suo ruolo che è quello di garanzia nei confronti del potere, liberandosi dai pregiudizi che frenano la pur acquisita qualità tecnica del controllo sull’esercizio del potere tra l’identificazione dell’amministrazione, e per essa i suoi funzionari, con l’interesse pubblico e, quindi, parte processuale privilegiata, in posizione di supremazia rispetto alle altre, e la “concezione anacronistica del principio di separazione dei poteri che marginalizza la giurisdizione e la pretesa inesauribilità del potere amministrativo” (pag. 73).
Anche questi pregiudizi sono “credenze” radicate, benchè in contrasto con la realtà ed il diritto positivo che impone alla giurisdizione amministrativa il rispetto e l’applicazione dei principi di pienezza ed effettività della tutela e del giusto processo, per cui l’amministrazione deve essere trattata nel giudizio come le altre parti e l’ultima parola spetta al giudice per apprestare la tutela piena e satisfattiva della situazione giuridica soggettiva dedotta in giudizio.
Il giudice amministrativo deve prendere atto che le sue due storiche missioni -assoggettamento del potere allo Stato di diritto (sostanzialmente al principio di legalità) e inquadramento dell’attività amministrativa in regole speciali ad essa adatte- sono oggi recessive: il diritto amministrativo tende a divenire il diritto ordinario del potere pubblico, sovrastato dalla Costituzione e dal diritto europeo.
Longobardi espone la necessità di un ripensamento teorico del diritto amministrativo che deve basarsi sul rispetto dei diritti fondamentali ed essere interpretato in senso favorevole a questi ultimi che possono essere limitati solo dalla Costituzione, dalla normativa internazionale e dalla legislazione, non dal diritto amministrativo che non può costituire limiti ulteriori.
In conseguenza il giudice amministrativo deve diventare il protettore dei diritti fondamentali, non più l’interprete ed il creatore del punto di equilibrio tra interesse generale ed i diritti dei cittadini, e, quindi, occorre realizzare una piena indipendenza del Consiglio di Stato troncando il rapporto con il governo, con l’eliminazione della nomina governativa: di un quarto dei consiglieri di Stato, del Presidente del Consiglio di Stato, dei magistrati chiamati a ricoprire incarichi di amministrazione attiva.
L’Autore volge l’attenzione all’amministrazione pubblica e indica i principi di fondo del modello occidentale nella subordinazione delle istanze amministrative a quelle politiche, in ossequio al principio democratico, e nella separazione tra le due istanze, nel rispetto del principio liberale. Richiama per il nostro paese, la normativa costituzionale che afferma tali principi, sottolineando la previsione che l’accesso ai pubblici uffici avviene mediante concorso e che i funzionari pubblici, membri del Parlamento, possono essere promossi solo per anzianità nonché il divieto per legge di iscrizione ai partiti politici di magistrati, militari, funzionari ed agenti di polizia e diplomatici.
Il rapporto dei dirigenti e funzionari con il governo -sottolinea l’Autore- è di natura istituzionale non politica, e garantisce l’imparzialità dell’esercizio delle funzioni amministrative dei dipendenti pubblici che “sono al servizio esclusivo della Nazione” (art. 98 Cost.).
La consonanza politica tra vertici politici e dirigenza pubblica, affermatosi nel nostro paese soprattutto dagli anni ’90 grazie alla debolezza dei contrappesi istituzionali a partire dalla Corte Costituzionale, è contro i principi costituzionali ed è la legge che deve proteggere l’amministrazione e difenderne l’autonomo ruolo nei confronti del governo, “realizzando così la separazione tra politica e amministrazione richiesta con forza dalla Costituzione” (pag. 81).
Pertanto, il Parlamento dovrebbe essere autenticamente rappresentativo per legiferare in materia.4. Il regresso ordinamentale.
Nel terzo capitolo, Longobardi espone il regresso che ha subito l’ordinamento, rispetto alle acquisizioni raggiunte.
La prima involuzione, l’Autore la registra nella normativa sul procedimento amministrativo che, intervenuta nel 1990, ha grandissima rilevanza per i cittadini perché l’azione amministrativa, in particolare, si svolge in contraddittorio e con la partecipazione degli interessati in una concezione democratica estesa all’amministrazione e con la prescrizione di regole puntuali.
La legge n. 241/90 ha normativizzato il criterio della negoziabilità delle decisioni e il diritto di accesso ai documenti amministrativi, affermando un principio di conoscibilità e trasparenza dell’azione amministrativa e introducendo l’idea di parità di posizione delle parti prima della determinazione finale.
Inoltre, rileva la semplificazione amministrativa e la disciplina della denuncia di inizio attività ed il silenzio-assenso che imprimono “un principio essenziale di liberazione dallo Stato amministrativo, quello secondo cui l’assoggettamento a poteri amministrativi, quali autorizzazioni, nulla osta, licenze ecc., deve essere fornito di solide giustificazioni per non essere in contrasto con la tutela costituzionale della persona” (pag. 87) che “in linea di principio richiede che gli individui, singoli o associati, possano agire liberamente e sviluppare la propria personalità in un quadro certo e predefinito di diritti e doveri” (pag. 87).
La legge n. 241/90 doveva essere completata ed affinata sotto il profilo tecnico, attraverso l’opera del legislatore e della giurisprudenza amministrativa.
L’attuazione della legge presupponeva figure di funzionari autonomi dal corpo politico, per cui i ritardi dovevano ritenersi scontati.
Per Longobardi, la successiva evoluzione ha segnato un deciso regresso come risulta dalle ripetute modifiche legislative apportate a partire dal 2000 che hanno impedito la realizzazione dell’obiettivo di “apprestare lo statuto del cittadino nei confronti della pubblica amministrazione” (pag. 89), in quanto ha accresciuto l’incertezza della disciplina vigente, e dalla chiusura del giudice amministrativo sulla generalizzazione del contraddittorio e sul rafforzamento in via interpretativa della scarna disciplina legislativa in base ai principi costituzionali e comunitari, chiusura infondatamente giustificata da esigenze di efficienza. Non è servito a mutare l’orientamento, l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 14 del 15 settembre 1999 che, imponendo all’amministrazione l’obbligo della comunicazione dell’avvio del procedimento, introduce la cultura della dialettica processuale, rendendo democratico il sistema e accessibili i documenti amministrativi.
Longobardi rimarca la necessità del contraddittorio che assicura il “giusto procedimento” che, anche se la Corte Costituzionale ha negato il valore di principio di rango costituzionale, è principio che ha radici nell’esperienza britannica nella quale “da secoli la regola dell’audi alteram partem è considerata un principio di natural justice” (pag. 91).
Il contraddittorio tra privati e organi dell’amministrazione è la regola negli Stati Uniti e in Austria “qualora l’amministrazione sia posta nel procedimento in posizione sostanzialmente eguale a quella del privato” (pag. 91)
L’Autore contesta gli approdi giurisprudenziali sulla V.I.A. che, pur di fronte all’affermazione che la partecipazione è un principio generale dell’ordinamento giuridico, viene svilita dalla erezione della “barriera del merito” (pag. 94) che rende inammissibile le censure nei confronti di valutazioni amministrative che “non superano la soglia dell’abnormità o della manifesta illogicità” confinando all’irrilevanza l’apporto partecipativo del cittadino.
L’art. 21 octies, comma 2, della L. n. 241/90, introdotto dalla Legge n. 15 del 2005, ha dequotato i vizi formali poiché l’atto impugnato non è annullato, se è palese che il contenuto dispositivo dell’atto impugnato non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato. La giurisprudenza amministrativa -sottolinea l’Autore- ha interpretato la disposizione, svalutando le garanzie procedimentali della comunicazione di avvio del procedimento, del preavviso di rigetto, della nomina del responsabile del procedimento il cui mancato rispetto non incide sull’illegittimità della decisione che, quindi, può essere adottata in violazione delle regole di partecipazione e contraddittorio.
Così facendo, vengono eliminate dal sistema gli elementi che consentirebbero di spingere verso le istituzioni inclusive e democratiche.
Dal procedimento, Longobardi passa a considerare il modello amministrativo dell’Autorità Indipendenti.
L’Autore richiama le origini statunitensi dell’Autorità Amministrative Indipendenti, l’ambito dell’attività (la regolazione dei mercati) e la nuova modellistica istituzionale dell’intervento pubblico regolativo-giustiziale e rileva che, per raggiungere lo scopo, occorre che la legge conferisca all’autorità un mandato pieno con riguardo al settore affidatole, attribuendo poteri amministrativi, repressivi e di attuazione contenziosa e garantendo l’indipendenza dell’Autorità sia dal Governo che dai soggetti regolati.
Il modello regolativo-giustiziale è informato ai principi della partecipazione all’elaborazione delle regole, dell’amministrazione contenziosa e dell’imparzialità oggettiva (separazione delle funzioni istruttorie da quelle decisorie) dell’Autorità decidente, nel segno del “giusto procedimento“.
Longobardi espone la giurisprudenza del Consiglio di Stato e della Corte di Cassazione che hanno privato il procedimento delle garanzie del contraddittorio e della necessità della separazione dell’istruttoria dalla decisione, nonostante la diversa e pregnante disposizione dell’art. 24 della legge n. 262 del 2005.
Questa giurisprudenza allontana il modello previsto per le Autorità dagli standards internazionali, e dal quale dipende la loro credibilità, omologandole con il resto dell’amministrazione, in un regresso ordinamentale che porta ad una “chiusura estrattiva del sistema istituzionale” (pag. 108).
La previsione degli accordi integrativi o sostitutivi del provvedimento dettata dall’art. 11 della L. n. 241/90 coinvolge il privato per la determinazione del contenuto dell’azione amministrativa ed è modalità alternativa all’agire provvedimentale unilaterale ed autoritativo. In sede applicativa, il giudice amministrativo ha esaltato la supremazia dell’amministrazione per la persistenza ed immanenza del potere pubblico.
Il giudice ordinario, in via generale, può disapplicare, non annullare l’atto amministrativo e la giurisprudenza della Corte di Cassazione, a partire dal 2000, ha affermato che la disapplicazione non può essere esercitata nei giudizi in cui è parte la pubblica amministrazione, ma solo nei giudizi fra privati.
I principi generali stabiliti dal codice del processo amministrativo impongono il superamento del dogma dell’inesauribilità del potere e dei limiti al giudice amministrativo, tradizionalmente tratti dal principio di separazione dei poteri, ma il giudice amministrativo ha fatto un uso molto limitato dei poteri attribuiti dal codice del processo amministrativo, se si considera che la giurisprudenza amministrativa più avanzata, ancorchè minoritaria, è ferma all’orientamento secondo il quale, dopo un provvedimento illegittimo di diniego, l’amministrazione deve esaminare l’affare nella sua interezza, sollevando le questioni rilevanti, non potendo, successivamente, adottare altro diniego, neppure in relazione ai profili non ancora esaminati. Il giudice amministrativo continua a ritenere il potere amministrativo inesauribile e a prestare ossequio al principio della separazione dei poteri.
Nell’attività dell’amministrazione pubblica retta dal diritto privato sono state previste delle norme derogatorie rispetto a quelle che regolano l’attività interprivata, con la creazione di un diritto speciale privato, ma queste eccezioni al sistema, a partire dagli anni ’60 del 1900, si stavano progressivamente riducendo. Sennonché, dagli anni ’90 del 1900, si è assistito al riespandersi delle deroghe a favore dell’amministrazione pubblica, specie in due direzioni: i pagamenti della pubblica amministrazione e gli interventi normativi sui rapporti contrattuali.
Per i pagamenti, alla fine degli anni ’70 del 1900 la Corte di Cassazione aveva affermato che le pubbliche amministrazioni erano soggette alla responsabilità patrimoniale del debitore ex art. 2740 c.c. ed all’espropriazione forzata ai sensi dell’art. 2910 c.c., per cui, di fronte all’obbligazione, non vi erano poteri e atti discrezionali, bensì atti dovuti dell’amministrazione, in un rapporto di diritto soggettivo-obbligo.
Sennonché, leggi derogatorie di questi principi, dettate in via di eccezione, vengono elevate dalla giurisprudenza amministrativa a canone generale per l’amministrazione debitrice e convergono verso un sistema di specialità delle obbligazioni delle pubbliche amministrazioni.
Gli interventi normativi a favore dello “Stato debitore“, hanno favorito una situazione gravemente contraria alla crescita economica, determinando ritardi generalizzati nei pagamenti e accumulo dei debiti non onorati, con ripercussioni anche nei pagamenti tra privati.
Il diritto europeo, con la Direttiva n. 2000/32/CE del 29 giugno 2000, decideva di porre un freno ai ritardi nei pagamenti, disponendo termini di pagamento, interessi dovuti per il ritardo, anche in funzione sanzionatoria, risarcimento del danno e misure di tutela, con l’affermazione della piena soggezione al diritto comune delle obbligazioni pecuniarie della pubblica amministrazione nelle transazioni commerciali, con conseguente disapplicazione delle leggi degli Stati membri che stabiliscono trattamenti privilegiati.
La direttiva è stata recepita con il D. Lgs. n. 231 del 2002, ma è rimasta sostanzialmente inattuata nei confronti delle pubbliche amministrazioni.
Una successiva direttiva, la n. 2011/7/UE ha reso più stringente nei confronti della pubblica amministrazione l’obbligo di effettuare nei termini stabiliti i pagamenti, con applicazione sempre degli interessi di mora, a differenza delle imprese, senza la possibilità di concordare tassi differenti da quelli imposti dalla direttiva.
Questa direttiva è stata recepita con D. Lgs. n. 192 del 2012, ma la sua applicazione non è corrente nei rapporti perché le imprese temono di perdere le commesse della pubblica amministrazione.
È stata aperta una procedura di infrazione e la Corte di Giustizia (sentenza n. 122 del 28 gennaio 2020 della Grande Sezione) ha accertato che l’Italia non ha assicurato il rispetto da parte delle pubbliche amministrazioni dei termini di pagamento stabiliti dalla direttiva 2011/7/UE.
Quanto agli interventi legislativi incidenti sui contratti di durata che hanno previsto deroghe a vantaggio della pubblica amministrazione, giustificate con l’esigenza di risparmiare risorse pubbliche, sono condivisibili in sé, ma non attraverso i meccanismi utilizzati. Si fa riferimento: – all’art. 1, comma 13, D.L. n. 95/2012, convertito in L. n. 135/2012 per il quale le amministrazioni pubbliche hanno diritto di recedere “in qualsiasi tempo” da un contratto di fornitura di beni e servizi qualora i parametri economici delle convenzioni successivamente stipulate da CONSIP s.p.a. per quei beni e servizi siano più convenienti ed il contraente non accetti la riduzione volta ad uniformare il contratto a quei prezzi; – all’art. 3, comma 4, dello stesso D.L. che stabilisce la riduzione generalizzata del 15 per cento dei canoni di locazione passiva versati per immobili a uso istituzionale delle amministrazioni centrali e delle autorità indipendenti, “salvo il diritto di recesso del locatore“; – al D.L. n. 66/2014, convertito in L. n. 89/2014, di autorizzazione delle amministrazioni a ridurre del 5 per cento i corrispettivi per l’acquisto o la fornitura dei beni e servizi per tutta la durata residua dei contratti, a prescindere dai parametri CONSIP; – all’art. 1 L. n. 160 del 2019 che consente alle amministrazioni pubbliche di rinegoziare i contratti in corso di locazione passiva di immobili di proprietà privata – e così via.
Queste misure rendono instabili i rapporti contrattuali ad effetti duraturi con l’amministrazione, accrescono l’incertezza normativa e disincentivano i privati a contrattare con la pubblica amministrazione.
Tali norme legittimano un abuso di posizione dominante quale è lo Stato, specie per l’accentramento delle procedure, che non viene meno per la possibilità di recesso per il privato, stante la difficoltà di praticare alternative.
Si determina una situazione distorsiva della concorrenza contrastante con il diritto europeo.
Si pone, altresì, un problema di tutela dell’affidamento del privato nella sicurezza giuridica fondata sul contratto concluso che fa nascere la fondata aspettativa della sua osservanza, come rilevato dalla Corte di Giustizia europea e dalla Corte Costituzionale. Quest’ultima, però, pur affermando che la protezione dell’affidamento del privato è un essenziale elemento dello Stato di diritto, in alcune circostanze lo dimentica, come quando ha ritenuto legittima l’imposizione legislativa retroattiva ai concessionari per lo sfruttamento di giacimenti minerari di aumenti del canone 7 e 17 volte superiore a quello in precedenza stabilito (sentenza n. 89 del 2018).
Questo determina una perdita di credibilità dell’ordinamento che è la prima condizione per la sua effettività.
La Corte di Cassazione rinviene la giustificazione degli interventi del legislatore sui rapporti contrattuali con la pubblica amministrazione nelle modifiche costituzionali all’art. 81 che ha imposto vincoli stringenti e puntuali in materia di bilancio, contabilità pubblica e stabilità finanziaria.
Longobardi contesta queste posizioni giurisprudenziali perché la normativa finanziaria non autorizza misure quali la possibilità di sottrarsi agli impegni contrattualmente assunti dallo Stato e dalle amministrazioni pubbliche per il contrasto con “il principio di una economia di mercato aperta e in libera concorrenza” principio cardine dell’unione Europea, sancito nell’art. 120 del Trattato per il funzionamento dell’Unione europea (T.F.U.E.).
“Solo comprovate ‘esigenze imperative di interesse generale’, che rivestano davvero carattere di straordinarietà ed eccezionalità, possono giustificare interventi legislativi quali quelli qui considerati” (pag. 139).
Il blocco normativo evocato è quello della disciplina sulla c.d. spending review, ritenuto ispirato al “super valore” della sostenibilità del debito pubblico ormai entrato nel tessuto normativo costituzionale, e che consente deroghe al diritto civile.
È “un’ulteriore illustrazione del meccanismo di costruzione della specialità amministrativa” (pag. 140).
Si sovrappone, nell’interesse al risparmio di risorse pubbliche, il diritto pubblico al diritto privato.
Il rispetto degli impegni contrattuali (anche) da parte delle pubbliche amministrazioni è una componente fondamentale del corretto funzionamento di un’economia di mercato e del buon funzionamento del mercato interno comunitario.
Ciò dà la misura del carattere regressivo delle misure legislative e le implicazioni di carattere sistematico che ne vengono tratte.
Il riconoscimento della risarcibilità dei danni arrecati dall’esercizio dei poteri amministrativi stabilito con la sentenza n. 500 del 1999 delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione è rimasto un principio sulla carta perché, con l’attribuzione della giurisdizione al giudice amministrativo con la Legge n. 205 del 2000, si è avuta una lettura restrittiva, vanificando nella sostanza la tutela risarcitoria degli interessi legittimi, come avviene per il risarcimento del danno da ritardo o per la necessità di dimostrare l’elemento soggettivo della responsabilità.
Emerge ancora una volta l’anima del giudice amministrativo legata all’imperium che è una miope difesa dell’interesse pubblico in contrasto con l’interesse generale perché comporta la gravissima conseguenza della perdita di credibilità dell’ordinamento che è la “prima condizione per la sua effettività“.
La “esigenza di risparmiare risorse pubbliche e la tendenziale assolutizzazione di essa in base alla normativa sulla finanza pubblica” – denunzia Longobardi – “pongono in secondo piano il primato dei diritti fondamentali e la tutela di essi, possono portare a sacrificare oltre il necessario la soddisfazione dei diritti sociali” (pag. 146).
La negazione dei diritti è “rivelatrice del carattere estrattivo assunto dalle istituzioni nel nostro paese” (pag. 146).5. L'”azzardo istituzionale”.
La prima involuzione, l’Autore la registra nella normativa sul procedimento amministrativo che, intervenuta nel 1990, ha grandissima rilevanza per i cittadini perché l’azione amministrativa, in particolare, si svolge in contraddittorio e con la partecipazione degli interessati in una concezione democratica estesa all’amministrazione e con la prescrizione di regole puntuali.
La legge n. 241/90 ha normativizzato il criterio della negoziabilità delle decisioni e il diritto di accesso ai documenti amministrativi, affermando un principio di conoscibilità e trasparenza dell’azione amministrativa e introducendo l’idea di parità di posizione delle parti prima della determinazione finale.
Inoltre, rileva la semplificazione amministrativa e la disciplina della denuncia di inizio attività ed il silenzio-assenso che imprimono “un principio essenziale di liberazione dallo Stato amministrativo, quello secondo cui l’assoggettamento a poteri amministrativi, quali autorizzazioni, nulla osta, licenze ecc., deve essere fornito di solide giustificazioni per non essere in contrasto con la tutela costituzionale della persona” (pag. 87) che “in linea di principio richiede che gli individui, singoli o associati, possano agire liberamente e sviluppare la propria personalità in un quadro certo e predefinito di diritti e doveri” (pag. 87).
La legge n. 241/90 doveva essere completata ed affinata sotto il profilo tecnico, attraverso l’opera del legislatore e della giurisprudenza amministrativa.
L’attuazione della legge presupponeva figure di funzionari autonomi dal corpo politico, per cui i ritardi dovevano ritenersi scontati.
Per Longobardi, la successiva evoluzione ha segnato un deciso regresso come risulta dalle ripetute modifiche legislative apportate a partire dal 2000 che hanno impedito la realizzazione dell’obiettivo di “apprestare lo statuto del cittadino nei confronti della pubblica amministrazione” (pag. 89), in quanto ha accresciuto l’incertezza della disciplina vigente, e dalla chiusura del giudice amministrativo sulla generalizzazione del contraddittorio e sul rafforzamento in via interpretativa della scarna disciplina legislativa in base ai principi costituzionali e comunitari, chiusura infondatamente giustificata da esigenze di efficienza. Non è servito a mutare l’orientamento, l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 14 del 15 settembre 1999 che, imponendo all’amministrazione l’obbligo della comunicazione dell’avvio del procedimento, introduce la cultura della dialettica processuale, rendendo democratico il sistema e accessibili i documenti amministrativi.
Longobardi rimarca la necessità del contraddittorio che assicura il “giusto procedimento” che, anche se la Corte Costituzionale ha negato il valore di principio di rango costituzionale, è principio che ha radici nell’esperienza britannica nella quale “da secoli la regola dell’audi alteram partem è considerata un principio di natural justice” (pag. 91).
Il contraddittorio tra privati e organi dell’amministrazione è la regola negli Stati Uniti e in Austria “qualora l’amministrazione sia posta nel procedimento in posizione sostanzialmente eguale a quella del privato” (pag. 91)
L’Autore contesta gli approdi giurisprudenziali sulla V.I.A. che, pur di fronte all’affermazione che la partecipazione è un principio generale dell’ordinamento giuridico, viene svilita dalla erezione della “barriera del merito” (pag. 94) che rende inammissibile le censure nei confronti di valutazioni amministrative che “non superano la soglia dell’abnormità o della manifesta illogicità” confinando all’irrilevanza l’apporto partecipativo del cittadino.
L’art. 21 octies, comma 2, della L. n. 241/90, introdotto dalla Legge n. 15 del 2005, ha dequotato i vizi formali poiché l’atto impugnato non è annullato, se è palese che il contenuto dispositivo dell’atto impugnato non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato. La giurisprudenza amministrativa -sottolinea l’Autore- ha interpretato la disposizione, svalutando le garanzie procedimentali della comunicazione di avvio del procedimento, del preavviso di rigetto, della nomina del responsabile del procedimento il cui mancato rispetto non incide sull’illegittimità della decisione che, quindi, può essere adottata in violazione delle regole di partecipazione e contraddittorio.
Così facendo, vengono eliminate dal sistema gli elementi che consentirebbero di spingere verso le istituzioni inclusive e democratiche.
Dal procedimento, Longobardi passa a considerare il modello amministrativo dell’Autorità Indipendenti.
L’Autore richiama le origini statunitensi dell’Autorità Amministrative Indipendenti, l’ambito dell’attività (la regolazione dei mercati) e la nuova modellistica istituzionale dell’intervento pubblico regolativo-giustiziale e rileva che, per raggiungere lo scopo, occorre che la legge conferisca all’autorità un mandato pieno con riguardo al settore affidatole, attribuendo poteri amministrativi, repressivi e di attuazione contenziosa e garantendo l’indipendenza dell’Autorità sia dal Governo che dai soggetti regolati.
Il modello regolativo-giustiziale è informato ai principi della partecipazione all’elaborazione delle regole, dell’amministrazione contenziosa e dell’imparzialità oggettiva (separazione delle funzioni istruttorie da quelle decisorie) dell’Autorità decidente, nel segno del “giusto procedimento“.
Longobardi espone la giurisprudenza del Consiglio di Stato e della Corte di Cassazione che hanno privato il procedimento delle garanzie del contraddittorio e della necessità della separazione dell’istruttoria dalla decisione, nonostante la diversa e pregnante disposizione dell’art. 24 della legge n. 262 del 2005.
Questa giurisprudenza allontana il modello previsto per le Autorità dagli standards internazionali, e dal quale dipende la loro credibilità, omologandole con il resto dell’amministrazione, in un regresso ordinamentale che porta ad una “chiusura estrattiva del sistema istituzionale” (pag. 108).
La previsione degli accordi integrativi o sostitutivi del provvedimento dettata dall’art. 11 della L. n. 241/90 coinvolge il privato per la determinazione del contenuto dell’azione amministrativa ed è modalità alternativa all’agire provvedimentale unilaterale ed autoritativo. In sede applicativa, il giudice amministrativo ha esaltato la supremazia dell’amministrazione per la persistenza ed immanenza del potere pubblico.
Il giudice ordinario, in via generale, può disapplicare, non annullare l’atto amministrativo e la giurisprudenza della Corte di Cassazione, a partire dal 2000, ha affermato che la disapplicazione non può essere esercitata nei giudizi in cui è parte la pubblica amministrazione, ma solo nei giudizi fra privati.
I principi generali stabiliti dal codice del processo amministrativo impongono il superamento del dogma dell’inesauribilità del potere e dei limiti al giudice amministrativo, tradizionalmente tratti dal principio di separazione dei poteri, ma il giudice amministrativo ha fatto un uso molto limitato dei poteri attribuiti dal codice del processo amministrativo, se si considera che la giurisprudenza amministrativa più avanzata, ancorchè minoritaria, è ferma all’orientamento secondo il quale, dopo un provvedimento illegittimo di diniego, l’amministrazione deve esaminare l’affare nella sua interezza, sollevando le questioni rilevanti, non potendo, successivamente, adottare altro diniego, neppure in relazione ai profili non ancora esaminati. Il giudice amministrativo continua a ritenere il potere amministrativo inesauribile e a prestare ossequio al principio della separazione dei poteri.
Nell’attività dell’amministrazione pubblica retta dal diritto privato sono state previste delle norme derogatorie rispetto a quelle che regolano l’attività interprivata, con la creazione di un diritto speciale privato, ma queste eccezioni al sistema, a partire dagli anni ’60 del 1900, si stavano progressivamente riducendo. Sennonché, dagli anni ’90 del 1900, si è assistito al riespandersi delle deroghe a favore dell’amministrazione pubblica, specie in due direzioni: i pagamenti della pubblica amministrazione e gli interventi normativi sui rapporti contrattuali.
Per i pagamenti, alla fine degli anni ’70 del 1900 la Corte di Cassazione aveva affermato che le pubbliche amministrazioni erano soggette alla responsabilità patrimoniale del debitore ex art. 2740 c.c. ed all’espropriazione forzata ai sensi dell’art. 2910 c.c., per cui, di fronte all’obbligazione, non vi erano poteri e atti discrezionali, bensì atti dovuti dell’amministrazione, in un rapporto di diritto soggettivo-obbligo.
Sennonché, leggi derogatorie di questi principi, dettate in via di eccezione, vengono elevate dalla giurisprudenza amministrativa a canone generale per l’amministrazione debitrice e convergono verso un sistema di specialità delle obbligazioni delle pubbliche amministrazioni.
Gli interventi normativi a favore dello “Stato debitore“, hanno favorito una situazione gravemente contraria alla crescita economica, determinando ritardi generalizzati nei pagamenti e accumulo dei debiti non onorati, con ripercussioni anche nei pagamenti tra privati.
Il diritto europeo, con la Direttiva n. 2000/32/CE del 29 giugno 2000, decideva di porre un freno ai ritardi nei pagamenti, disponendo termini di pagamento, interessi dovuti per il ritardo, anche in funzione sanzionatoria, risarcimento del danno e misure di tutela, con l’affermazione della piena soggezione al diritto comune delle obbligazioni pecuniarie della pubblica amministrazione nelle transazioni commerciali, con conseguente disapplicazione delle leggi degli Stati membri che stabiliscono trattamenti privilegiati.
La direttiva è stata recepita con il D. Lgs. n. 231 del 2002, ma è rimasta sostanzialmente inattuata nei confronti delle pubbliche amministrazioni.
Una successiva direttiva, la n. 2011/7/UE ha reso più stringente nei confronti della pubblica amministrazione l’obbligo di effettuare nei termini stabiliti i pagamenti, con applicazione sempre degli interessi di mora, a differenza delle imprese, senza la possibilità di concordare tassi differenti da quelli imposti dalla direttiva.
Questa direttiva è stata recepita con D. Lgs. n. 192 del 2012, ma la sua applicazione non è corrente nei rapporti perché le imprese temono di perdere le commesse della pubblica amministrazione.
È stata aperta una procedura di infrazione e la Corte di Giustizia (sentenza n. 122 del 28 gennaio 2020 della Grande Sezione) ha accertato che l’Italia non ha assicurato il rispetto da parte delle pubbliche amministrazioni dei termini di pagamento stabiliti dalla direttiva 2011/7/UE.
Quanto agli interventi legislativi incidenti sui contratti di durata che hanno previsto deroghe a vantaggio della pubblica amministrazione, giustificate con l’esigenza di risparmiare risorse pubbliche, sono condivisibili in sé, ma non attraverso i meccanismi utilizzati. Si fa riferimento: – all’art. 1, comma 13, D.L. n. 95/2012, convertito in L. n. 135/2012 per il quale le amministrazioni pubbliche hanno diritto di recedere “in qualsiasi tempo” da un contratto di fornitura di beni e servizi qualora i parametri economici delle convenzioni successivamente stipulate da CONSIP s.p.a. per quei beni e servizi siano più convenienti ed il contraente non accetti la riduzione volta ad uniformare il contratto a quei prezzi; – all’art. 3, comma 4, dello stesso D.L. che stabilisce la riduzione generalizzata del 15 per cento dei canoni di locazione passiva versati per immobili a uso istituzionale delle amministrazioni centrali e delle autorità indipendenti, “salvo il diritto di recesso del locatore“; – al D.L. n. 66/2014, convertito in L. n. 89/2014, di autorizzazione delle amministrazioni a ridurre del 5 per cento i corrispettivi per l’acquisto o la fornitura dei beni e servizi per tutta la durata residua dei contratti, a prescindere dai parametri CONSIP; – all’art. 1 L. n. 160 del 2019 che consente alle amministrazioni pubbliche di rinegoziare i contratti in corso di locazione passiva di immobili di proprietà privata – e così via.
Queste misure rendono instabili i rapporti contrattuali ad effetti duraturi con l’amministrazione, accrescono l’incertezza normativa e disincentivano i privati a contrattare con la pubblica amministrazione.
Tali norme legittimano un abuso di posizione dominante quale è lo Stato, specie per l’accentramento delle procedure, che non viene meno per la possibilità di recesso per il privato, stante la difficoltà di praticare alternative.
Si determina una situazione distorsiva della concorrenza contrastante con il diritto europeo.
Si pone, altresì, un problema di tutela dell’affidamento del privato nella sicurezza giuridica fondata sul contratto concluso che fa nascere la fondata aspettativa della sua osservanza, come rilevato dalla Corte di Giustizia europea e dalla Corte Costituzionale. Quest’ultima, però, pur affermando che la protezione dell’affidamento del privato è un essenziale elemento dello Stato di diritto, in alcune circostanze lo dimentica, come quando ha ritenuto legittima l’imposizione legislativa retroattiva ai concessionari per lo sfruttamento di giacimenti minerari di aumenti del canone 7 e 17 volte superiore a quello in precedenza stabilito (sentenza n. 89 del 2018).
Questo determina una perdita di credibilità dell’ordinamento che è la prima condizione per la sua effettività.
La Corte di Cassazione rinviene la giustificazione degli interventi del legislatore sui rapporti contrattuali con la pubblica amministrazione nelle modifiche costituzionali all’art. 81 che ha imposto vincoli stringenti e puntuali in materia di bilancio, contabilità pubblica e stabilità finanziaria.
Longobardi contesta queste posizioni giurisprudenziali perché la normativa finanziaria non autorizza misure quali la possibilità di sottrarsi agli impegni contrattualmente assunti dallo Stato e dalle amministrazioni pubbliche per il contrasto con “il principio di una economia di mercato aperta e in libera concorrenza” principio cardine dell’unione Europea, sancito nell’art. 120 del Trattato per il funzionamento dell’Unione europea (T.F.U.E.).
“Solo comprovate ‘esigenze imperative di interesse generale’, che rivestano davvero carattere di straordinarietà ed eccezionalità, possono giustificare interventi legislativi quali quelli qui considerati” (pag. 139).
Il blocco normativo evocato è quello della disciplina sulla c.d. spending review, ritenuto ispirato al “super valore” della sostenibilità del debito pubblico ormai entrato nel tessuto normativo costituzionale, e che consente deroghe al diritto civile.
È “un’ulteriore illustrazione del meccanismo di costruzione della specialità amministrativa” (pag. 140).
Si sovrappone, nell’interesse al risparmio di risorse pubbliche, il diritto pubblico al diritto privato.
Il rispetto degli impegni contrattuali (anche) da parte delle pubbliche amministrazioni è una componente fondamentale del corretto funzionamento di un’economia di mercato e del buon funzionamento del mercato interno comunitario.
Ciò dà la misura del carattere regressivo delle misure legislative e le implicazioni di carattere sistematico che ne vengono tratte.
Il riconoscimento della risarcibilità dei danni arrecati dall’esercizio dei poteri amministrativi stabilito con la sentenza n. 500 del 1999 delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione è rimasto un principio sulla carta perché, con l’attribuzione della giurisdizione al giudice amministrativo con la Legge n. 205 del 2000, si è avuta una lettura restrittiva, vanificando nella sostanza la tutela risarcitoria degli interessi legittimi, come avviene per il risarcimento del danno da ritardo o per la necessità di dimostrare l’elemento soggettivo della responsabilità.
Emerge ancora una volta l’anima del giudice amministrativo legata all’imperium che è una miope difesa dell’interesse pubblico in contrasto con l’interesse generale perché comporta la gravissima conseguenza della perdita di credibilità dell’ordinamento che è la “prima condizione per la sua effettività“.
La “esigenza di risparmiare risorse pubbliche e la tendenziale assolutizzazione di essa in base alla normativa sulla finanza pubblica” – denunzia Longobardi – “pongono in secondo piano il primato dei diritti fondamentali e la tutela di essi, possono portare a sacrificare oltre il necessario la soddisfazione dei diritti sociali” (pag. 146).
La negazione dei diritti è “rivelatrice del carattere estrattivo assunto dalle istituzioni nel nostro paese” (pag. 146).5. L'”azzardo istituzionale”.
Nel capitolo quarto, Longobardi espone l'”azzardo istituzionale” attribuito alle strategie della classe politica che propone disegni ricorrenti di riforma della Costituzione e dell’amministrazione volti all’accentramento del potere ed alla occupazione/asservimento dell’amministrazione pubblica.
Longobardi rileva che questi disegni “assumono il massimo di pericolosità” (pag. 147) quando la riforma viene proposta congiuntamente con progetti di modifiche costituzionali e parallele riforme amministrative in via legislativa.
Si tratta di fenomeno tutto italiano e data dagli anni ’90 del secolo scorso.
I riformatori della Costituzione a partire dagli anni ’90 del 1900 mirano a modificare la seconda parte sull’ordinamento della Repubblica, con l’argomento, rileva Longobardi: “rozzo” e “palesemente falso” (pag. 149) per tranquillizzare e cioè che non si incide sulla prima parte (i principi fondamentali ed i diritti).
Le ragioni riformatrici trovano alimento dalla considerazione della debolezza dell’esecutivo e dell’instabilità dei governi, prospettando trasformazioni in senso “presidenzialistico o l’elezione diretta del capo dell’esecutivo” (pag. 151), con l’obiettivo di accentramento del potere e di indebolimento dei contrappesi istituzionali.
L’offensiva contro la Costituzione, indicata come il principale ostacolo alla modernizzazione, l’ha indebolita e ha fiaccato la capacità di reazione degli organi di garanzia. È stata compromessa la funzione stabilizzante della Costituzione e degli organi di garanzia, in particolare della Corte Costituzionale che non ha contrastato adeguatamente la politicizzazione della dirigenza pubblica e la legislazione elettorale che priva il parlamento di reale rappresentatività.
Per Longobardi questi processi riformatori hanno inciso negativamente sulla funzionalità complessiva del sistema istituzionale.
L’Autore, quindi, espone i tentativi di “grande riforma” costituzionale.
Nel 1983, la proposta della Commissione Bozzi, degna di nota ed interessante, a cui fanno seguito la Bicamerale Iotti-De Mita del 1993 e la Bicamerale D’Alema del 1997 che, con il primato conferito al Governo, prefigura la tirannia della maggioranza. Questi progetti non hanno avuto conclusione, ma hanno prodotto “effetti collaterali“: è stata approvata la legge delega per la riforma delle amministrazioni locali; è stato perseguito l’obiettivo di asservimento alla politica della dirigenza pubblica; sono stati elusi l’esito del referendum dell’11.6.1995 sulla riduzione della presa dei partiti politici sulle reti televisive pubbliche e l’obbligo nascente dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 420 del 1994 sulla cessazione dell’assetto oligopolistico del settore televisivo; è stato eluso l’esito del referendum del 18 aprile 1993 che decideva per l’abrogazione della legge sul finanziamento pubblico dei partiti con il 90,2% dei votanti.
Il progetto che è andato in porto ha riguardato la riforma del titolo V della Costituzione sulle Regioni e gli Enti locali proposto dal centro sinistra, con una revisione costituzionale senza la ricerca di “quelle ‘larghe intese’ fino ad allora perseguite per gli interventi sulla carta costituzionale” (pag. 163), approvata con la legge costituzionale n. 3 del 2001, confermata dal referendum.
Il centro destra al governo segue la stessa impostazione di approvare una legge di revisione costituzionale, senza coinvolgere le opposizioni, ed il referendum del 2006 boccia la riforma.
Un progetto bipartisan nella XV legislatura, abbandonato per lo scioglimento delle Camere, ed un altro di revisione della forma di governo, durante il governo Monti, viene pure abbandonato.
Per Longobardi “il punto più basso, sotto ogni possibile profilo, nella vicenda delle progettate ‘grandi riforme’ è raggiunto da ultimo con il progetto di riforma costituzionale Renzi-Boschi” (pag. 165), di iniziativa governativa, anziché parlamentare, approvato da un parlamento composto, a causa della legge elettorale c.d. “Porcellum“, da membri “nominati” dai leader di partito e, quindi, particolarmente pronti all’obbedienza, per timore di non essere ricandidati. Parlamento delegittimato dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 1 del 2014 che aveva dichiarato l’incostituzionalità della legge elettorale per “eccessiva sovra-rappresentazione della lista di maggioranza relativa“.
Il procedimento di riforma costituzionale si svolge secondo l’art. 138 della Costituzione, ma presenta un contenuto ampio e fortemente disomogeneo, incompatibile con la procedura di revisione costituzionale prevista dall’art. 138 della Costituzione, alterando il successivo referendum nel quale l’elettorato era chiamato ad approvare o rigettare in blocco la riforma.
Il referendum bocciava la riforma con il 60 per cento circa dei votanti e induceva il Presidente del Consiglio che aveva legato la permanenza in carica all’esito positivo della consultazione, alle dimissioni.
Nel progetto Renzi-Boschi emergevano le finalità accentratrici e presentava contraddizioni ed aporie, tali da farlo definire una “riforma sgangherata“.
Contestualmente si approvava la nuova legge elettorale, l’Italicum (L. n. 52 del 2015), che manteneva i difetti del “porcellum” rilevando il vero obiettivo della riforma costituzionale: “verticalizzare il potere e gestirlo senza ostacoli e limiti da parte di nessuno, cittadini compresi” (pag. 171).
Si aggiungeva la parallela riforma legislativa di totale accentramento dei poteri nel presidente del consiglio e di asservimento della dirigenza pubblica.
“L’incubo, per taluni il sogno, dell”uomo solo al comando’ è stata a un passo da realizzarsi” (pag. 171).
Longobardi denunzia la trasformazione dello Stato in “bottino“, evidenziando i meccanismi di asservimento attraverso la struttura del potere amministrativo, per cui l’azzardo istituzionale raggiunge il suo massimo, con devastanti conseguenze.
Dagli anni ’90 è stata particolarmente abusata l’espressione “riforma amministrativa“, piegata a fini di potere, come rileva Longobardi, evidenziando: l’astrattezza dei disegni di riforma, ma funzionali agli interessi della classe politica ed alla gestione non trasparente dei grandi interessi economici; gli interventi normativi calati dall’alto e imposti all’amministrazione e/o la creazione di nuovi funzioni e apparati per i quali poter assegnare i relativi incarichi; la trattazione della riforma amministrativa come un affare del governo, ritenendo non necessario un previo serio studio, né un’approfondita discussione; il richiamo ad indirizzi presenti a livello internazionale che ha condotto ad esaltare una pretesa concezione manageriale della pubblica amministrazione “come foriera di efficienza a discapito del valore dell’imparzialità” (pag. 179).
Per Longobardi, la riforma amministrativa deve coinvolgere e motivare il personale pubblico e gli interventi normativi devono essere limitati all’essenziale ed è incombenza del parlamento che deve tutelare l’amministrazione pubblica dall’ingerenza del governo quale organo politico; non si può assimilare all’impresa privata la pubblica amministrazione, che può funzionare lo stesso in modo efficiente, efficace e meno dispendiosa.
Per comprendere l’amministrazione ed il suo mondo, occorre avere presente il contesto complessivo dei rapporti tra le amministrazioni fra di loro, tra l’amministrazione e la politica, tra l’amministrazione e l’economia, tra l’amministrazione e la società e, quindi, i cittadini.
Solo così si avrà chiaro quali sono gli spostamenti in termini di potere che si celano dietro le riforme.
Longobardi appunta i suoi strali contro la c.d. privatizzazione del rapporto di impiego che ha avuto inizio, a partire dai primi anni ’90 del 1900, per poi essere estesa all’intera dirigenza pubblica.
È un modello connotato da irrazionalità in quanto fondato su falsi presupposti.
Innanzitutto vi è un’acritica assimilazione tra impresa privata e pubblica amministrazione che sviluppa una pretesa manageriale che pone grande enfasi sull’amministrazione di risultati; ma non c’è un mercato per misurare in modo oggettivo i risultati e l’amministrazione persegue risultati complessi, essendo sottoposta ad una triplice prova di: legittimità, efficienza funzionale e consenso sociale; nell’attività amministrativa, un ruolo centrale è svolto dalla imparzialità ed è essenziale distinguere le funzioni del personale prima di privatizzare il rapporto che, semmai, può essere utile solo per il personale appartenente ai rami bassi dell’amministrazione e non per quello investito di potestà pubbliche.
Di poi, è un falso presupposto la separazione tra politica e amministrazione basata sulla distinzione tra direzione e gestione che si fonda sulla centralità della categoria dell’indirizzo politico unificante “che emana dall’alto e si diffonde progressivamente nelle più minute pieghe dell’organizzazione amministrativa e oltre” (pag. 186).
Questo modello ripropone una concezione assolutizzante dell’interesse pubblico ed enfatizza il ruolo autonomo dei burocrati, unici responsabili dell’attività amministrativa, della gestione e dei relativi risultati, chiamati a rispondere dei risultati ottenuti come i menager dell’impresa privata.
Il ruolo autonomo e responsabile dei burocrati richiede necessariamente un rafforzamento delle garanzie giuridiche, soprattutto di stabilità, per essere posti al riparo da pressioni e condizionamenti, allo scopo di renderli imparziali nell’esercizio delle funzioni.
Altro falso presupposto è la ritenuta indifferenza del regime dell’organizzazione rispetto all’attività perché nega il valore determinante del momento organizzatorio, recepito nell’art. 97 della Costituzione.
La normativa ripropone le più antiquate forme di organizzazione pubblica e, in contraddizione con i criteri manageriali, realizza un’accentuazione del rapporto gerarchico, come accade nei rapporti tra i dirigenti e il direttore generale.
La responsabilizzazione in senso manageriale dei burocrati richiede, invece, una organizzazione che assicuri autonomia reale alla gestione.
Per dare credibilità al sistema, si sarebbe dovuta rendere obbligatoria la previa definizione degli obiettivi dell’organo di indirizzo politico ed organizzare una valutazione indipendente dei burocrati.
La via di uscita da questo disegno che Longobardi definisce “barocco” è stata individuata dalla classe politica nella previsione di “misure di generale politicizzazione dell’amministrazione, trasformata in una macchina asservita alla maggioranza politica“.
Ciò si attua con la precarizzazione della dirigenza i cui incarichi sono conferiti a tempo determinato e, soprattutto, viene negato il diritto all’ufficio, per cui si può essere dirigenti, senza fare il dirigente, con retribuzione più che dimezzata, spesso trasformati in “studiosi“, quali attributari di incarichi di studio.
La temporaneità degli incarichi fa sì che le nomine dipendano dal gradimento del vertice politico del momento e, alla scadenza dell’incarico, ogni dirigente può essere confermato o revocato dall’autorità politica, a prescindere da responsabilità e contestazioni sull’attività svolta. La tutela giurisdizionale attribuita al giudice ordinario è debolissima.
Gli incarichi dirigenziali di livello più elevato cessano decorsi novanta giorni dal voto sulla fiducia al governo, con lo spoils system all’italiana collegato al cambiamento dei governi, indipendentemente da elezioni politiche.
Assolutamente pletorico è il numero dei componenti degli uffici di diretta collaborazione dei ministri, fiduciariamente indicati e che svolgono anche compiti di gestione amministrativa.
Leggi e statuti regionali prevedono la decadenza automatica al cambio di legislatura dei dirigenti, estendendo l’impostazione statale.
La legge n. 124/2015 costruisce un modello di governo totalmente incentrato sul presidente del Consiglio dei ministri e riguarda anche l’amministrazione locale. Viene riproposto il sistema dei ruoli unici della dirigenza dello Stato, delle Regioni e degli enti locali con la finzione “del ‘mercato’ dei dirigenti pubblici, nel quale tuttavia” – osserva Longobardi – “i peculiari acquirenti consumatori sono i vertici politici e i vertici amministrativi fiduciari dei primi” (pag. 195).
I dirigenti sono costretti a ricercare affiliazioni e gradimenti politico-partitici per svolgere effettive funzioni dirigenziali, passando in secondo piano la competenza e la professionalità acquisite.
La previsione di una commissione indipendente chiamata ad un mero giudizio di idoneità per il conferimento degli incarichi non è che una “foglia di fico” (pag. 197).
Longobardi plaude alla sentenza della Corte costituzionale n. 251/2016 che, censurando le disposizioni di delega legislativa della L. n. 124/2015 per violazione della leale collaborazione nei confronti della Regione, ha impedito “l’ennesima peggiorativa riforma in tema di dirigenza pubblica” (pag. 197).
La Corte costituzionale che, però, è stata troppo timida nella difesa dei principi dello Stato di diritto, tanto da non avere mai preso posizione sulla legittimità delle norme sulla precarizzazione dei dirigenti e sull’assegnazione temporanea degli incarichi dirigenziali, limitandosi a interventi parziali e tardivi.
La Corte di Cassazione ha “blindato” la privatizzazione del pubblico impiego, finendo per rendere inadeguata la tutela alla dirigenza pubblica.
Non è più vero che i governi passano e l’amministrazione resta, come accade negli Stati di diritto, per la cronica instabilità amministrativa conseguenza delle riforme introdotte a partire dagli anni ’90 del 1900 e non solo per lo spoils system che riguarda gli incarichi apicali e per la modifica organizzativa degli uffici per azzerare gli incarichi e nominare nuovi dirigenti, ma soprattutto per “le condizioni di asservimento nelle quali è stata ridotta la funzione pubblica” (pag. 203) che hanno vanificato il ruolo autonomo ed imparziale della burocrazia che rappresenta la continuità istituzionale.
La politicizzazione della funzione amministrativa e l’instabilità amministrativa “hanno determinato un generale grave scadimento dell’amministrazione pubblica” (pag. 206) peraltro preoccupata dal reticolo asfissiante di regole che la espongono al rischio di incorrere in responsabilità per danno erariale e in responsabilità penale che induce i burocrati ad evitare l’assunzione di decisioni.
“Le ragioni specifiche del declino italiano che è economico, culturale e morale, sono da rinvenire nel grave deterioramento arrecato alle istituzioni da scelte e comportamenti, non solo della classe politica, assunti a partire dagli anni ’90 del secolo scorso” (pag. 211).
Le oligarchie tendono a riprodursi non solo se lo stesso gruppo rimane al potere, ma anche quando un gruppo completamente nuovo giunge ai vertici, determinando un circolo vizioso che rende difficile uscire dall’economia estrattiva.
Un paese si apre all’economia inclusiva quando riesca a dare maggiore potere ad una fetta ampia e trasversale della società: “è il pluralismo la pietra angolare delle istituzioni politiche inclusive” (pag. 214).
Per il nostro paese, il punto di partenza è la restituzione di autorevolezza al parlamento, garantendone la reale rappresentatività a cui deve affiancarsi l’azione del governo e dei funzionari pubblici che deve incontrare vincoli “credibili” e la garanzia del rispetto dei diritti dei cittadini, definiti in modo certo.6. Considerazioni d’insieme.
Longobardi rileva che questi disegni “assumono il massimo di pericolosità” (pag. 147) quando la riforma viene proposta congiuntamente con progetti di modifiche costituzionali e parallele riforme amministrative in via legislativa.
Si tratta di fenomeno tutto italiano e data dagli anni ’90 del secolo scorso.
I riformatori della Costituzione a partire dagli anni ’90 del 1900 mirano a modificare la seconda parte sull’ordinamento della Repubblica, con l’argomento, rileva Longobardi: “rozzo” e “palesemente falso” (pag. 149) per tranquillizzare e cioè che non si incide sulla prima parte (i principi fondamentali ed i diritti).
Le ragioni riformatrici trovano alimento dalla considerazione della debolezza dell’esecutivo e dell’instabilità dei governi, prospettando trasformazioni in senso “presidenzialistico o l’elezione diretta del capo dell’esecutivo” (pag. 151), con l’obiettivo di accentramento del potere e di indebolimento dei contrappesi istituzionali.
L’offensiva contro la Costituzione, indicata come il principale ostacolo alla modernizzazione, l’ha indebolita e ha fiaccato la capacità di reazione degli organi di garanzia. È stata compromessa la funzione stabilizzante della Costituzione e degli organi di garanzia, in particolare della Corte Costituzionale che non ha contrastato adeguatamente la politicizzazione della dirigenza pubblica e la legislazione elettorale che priva il parlamento di reale rappresentatività.
Per Longobardi questi processi riformatori hanno inciso negativamente sulla funzionalità complessiva del sistema istituzionale.
L’Autore, quindi, espone i tentativi di “grande riforma” costituzionale.
Nel 1983, la proposta della Commissione Bozzi, degna di nota ed interessante, a cui fanno seguito la Bicamerale Iotti-De Mita del 1993 e la Bicamerale D’Alema del 1997 che, con il primato conferito al Governo, prefigura la tirannia della maggioranza. Questi progetti non hanno avuto conclusione, ma hanno prodotto “effetti collaterali“: è stata approvata la legge delega per la riforma delle amministrazioni locali; è stato perseguito l’obiettivo di asservimento alla politica della dirigenza pubblica; sono stati elusi l’esito del referendum dell’11.6.1995 sulla riduzione della presa dei partiti politici sulle reti televisive pubbliche e l’obbligo nascente dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 420 del 1994 sulla cessazione dell’assetto oligopolistico del settore televisivo; è stato eluso l’esito del referendum del 18 aprile 1993 che decideva per l’abrogazione della legge sul finanziamento pubblico dei partiti con il 90,2% dei votanti.
Il progetto che è andato in porto ha riguardato la riforma del titolo V della Costituzione sulle Regioni e gli Enti locali proposto dal centro sinistra, con una revisione costituzionale senza la ricerca di “quelle ‘larghe intese’ fino ad allora perseguite per gli interventi sulla carta costituzionale” (pag. 163), approvata con la legge costituzionale n. 3 del 2001, confermata dal referendum.
Il centro destra al governo segue la stessa impostazione di approvare una legge di revisione costituzionale, senza coinvolgere le opposizioni, ed il referendum del 2006 boccia la riforma.
Un progetto bipartisan nella XV legislatura, abbandonato per lo scioglimento delle Camere, ed un altro di revisione della forma di governo, durante il governo Monti, viene pure abbandonato.
Per Longobardi “il punto più basso, sotto ogni possibile profilo, nella vicenda delle progettate ‘grandi riforme’ è raggiunto da ultimo con il progetto di riforma costituzionale Renzi-Boschi” (pag. 165), di iniziativa governativa, anziché parlamentare, approvato da un parlamento composto, a causa della legge elettorale c.d. “Porcellum“, da membri “nominati” dai leader di partito e, quindi, particolarmente pronti all’obbedienza, per timore di non essere ricandidati. Parlamento delegittimato dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 1 del 2014 che aveva dichiarato l’incostituzionalità della legge elettorale per “eccessiva sovra-rappresentazione della lista di maggioranza relativa“.
Il procedimento di riforma costituzionale si svolge secondo l’art. 138 della Costituzione, ma presenta un contenuto ampio e fortemente disomogeneo, incompatibile con la procedura di revisione costituzionale prevista dall’art. 138 della Costituzione, alterando il successivo referendum nel quale l’elettorato era chiamato ad approvare o rigettare in blocco la riforma.
Il referendum bocciava la riforma con il 60 per cento circa dei votanti e induceva il Presidente del Consiglio che aveva legato la permanenza in carica all’esito positivo della consultazione, alle dimissioni.
Nel progetto Renzi-Boschi emergevano le finalità accentratrici e presentava contraddizioni ed aporie, tali da farlo definire una “riforma sgangherata“.
Contestualmente si approvava la nuova legge elettorale, l’Italicum (L. n. 52 del 2015), che manteneva i difetti del “porcellum” rilevando il vero obiettivo della riforma costituzionale: “verticalizzare il potere e gestirlo senza ostacoli e limiti da parte di nessuno, cittadini compresi” (pag. 171).
Si aggiungeva la parallela riforma legislativa di totale accentramento dei poteri nel presidente del consiglio e di asservimento della dirigenza pubblica.
“L’incubo, per taluni il sogno, dell”uomo solo al comando’ è stata a un passo da realizzarsi” (pag. 171).
Longobardi denunzia la trasformazione dello Stato in “bottino“, evidenziando i meccanismi di asservimento attraverso la struttura del potere amministrativo, per cui l’azzardo istituzionale raggiunge il suo massimo, con devastanti conseguenze.
Dagli anni ’90 è stata particolarmente abusata l’espressione “riforma amministrativa“, piegata a fini di potere, come rileva Longobardi, evidenziando: l’astrattezza dei disegni di riforma, ma funzionali agli interessi della classe politica ed alla gestione non trasparente dei grandi interessi economici; gli interventi normativi calati dall’alto e imposti all’amministrazione e/o la creazione di nuovi funzioni e apparati per i quali poter assegnare i relativi incarichi; la trattazione della riforma amministrativa come un affare del governo, ritenendo non necessario un previo serio studio, né un’approfondita discussione; il richiamo ad indirizzi presenti a livello internazionale che ha condotto ad esaltare una pretesa concezione manageriale della pubblica amministrazione “come foriera di efficienza a discapito del valore dell’imparzialità” (pag. 179).
Per Longobardi, la riforma amministrativa deve coinvolgere e motivare il personale pubblico e gli interventi normativi devono essere limitati all’essenziale ed è incombenza del parlamento che deve tutelare l’amministrazione pubblica dall’ingerenza del governo quale organo politico; non si può assimilare all’impresa privata la pubblica amministrazione, che può funzionare lo stesso in modo efficiente, efficace e meno dispendiosa.
Per comprendere l’amministrazione ed il suo mondo, occorre avere presente il contesto complessivo dei rapporti tra le amministrazioni fra di loro, tra l’amministrazione e la politica, tra l’amministrazione e l’economia, tra l’amministrazione e la società e, quindi, i cittadini.
Solo così si avrà chiaro quali sono gli spostamenti in termini di potere che si celano dietro le riforme.
Longobardi appunta i suoi strali contro la c.d. privatizzazione del rapporto di impiego che ha avuto inizio, a partire dai primi anni ’90 del 1900, per poi essere estesa all’intera dirigenza pubblica.
È un modello connotato da irrazionalità in quanto fondato su falsi presupposti.
Innanzitutto vi è un’acritica assimilazione tra impresa privata e pubblica amministrazione che sviluppa una pretesa manageriale che pone grande enfasi sull’amministrazione di risultati; ma non c’è un mercato per misurare in modo oggettivo i risultati e l’amministrazione persegue risultati complessi, essendo sottoposta ad una triplice prova di: legittimità, efficienza funzionale e consenso sociale; nell’attività amministrativa, un ruolo centrale è svolto dalla imparzialità ed è essenziale distinguere le funzioni del personale prima di privatizzare il rapporto che, semmai, può essere utile solo per il personale appartenente ai rami bassi dell’amministrazione e non per quello investito di potestà pubbliche.
Di poi, è un falso presupposto la separazione tra politica e amministrazione basata sulla distinzione tra direzione e gestione che si fonda sulla centralità della categoria dell’indirizzo politico unificante “che emana dall’alto e si diffonde progressivamente nelle più minute pieghe dell’organizzazione amministrativa e oltre” (pag. 186).
Questo modello ripropone una concezione assolutizzante dell’interesse pubblico ed enfatizza il ruolo autonomo dei burocrati, unici responsabili dell’attività amministrativa, della gestione e dei relativi risultati, chiamati a rispondere dei risultati ottenuti come i menager dell’impresa privata.
Il ruolo autonomo e responsabile dei burocrati richiede necessariamente un rafforzamento delle garanzie giuridiche, soprattutto di stabilità, per essere posti al riparo da pressioni e condizionamenti, allo scopo di renderli imparziali nell’esercizio delle funzioni.
Altro falso presupposto è la ritenuta indifferenza del regime dell’organizzazione rispetto all’attività perché nega il valore determinante del momento organizzatorio, recepito nell’art. 97 della Costituzione.
La normativa ripropone le più antiquate forme di organizzazione pubblica e, in contraddizione con i criteri manageriali, realizza un’accentuazione del rapporto gerarchico, come accade nei rapporti tra i dirigenti e il direttore generale.
La responsabilizzazione in senso manageriale dei burocrati richiede, invece, una organizzazione che assicuri autonomia reale alla gestione.
Per dare credibilità al sistema, si sarebbe dovuta rendere obbligatoria la previa definizione degli obiettivi dell’organo di indirizzo politico ed organizzare una valutazione indipendente dei burocrati.
La via di uscita da questo disegno che Longobardi definisce “barocco” è stata individuata dalla classe politica nella previsione di “misure di generale politicizzazione dell’amministrazione, trasformata in una macchina asservita alla maggioranza politica“.
Ciò si attua con la precarizzazione della dirigenza i cui incarichi sono conferiti a tempo determinato e, soprattutto, viene negato il diritto all’ufficio, per cui si può essere dirigenti, senza fare il dirigente, con retribuzione più che dimezzata, spesso trasformati in “studiosi“, quali attributari di incarichi di studio.
La temporaneità degli incarichi fa sì che le nomine dipendano dal gradimento del vertice politico del momento e, alla scadenza dell’incarico, ogni dirigente può essere confermato o revocato dall’autorità politica, a prescindere da responsabilità e contestazioni sull’attività svolta. La tutela giurisdizionale attribuita al giudice ordinario è debolissima.
Gli incarichi dirigenziali di livello più elevato cessano decorsi novanta giorni dal voto sulla fiducia al governo, con lo spoils system all’italiana collegato al cambiamento dei governi, indipendentemente da elezioni politiche.
Assolutamente pletorico è il numero dei componenti degli uffici di diretta collaborazione dei ministri, fiduciariamente indicati e che svolgono anche compiti di gestione amministrativa.
Leggi e statuti regionali prevedono la decadenza automatica al cambio di legislatura dei dirigenti, estendendo l’impostazione statale.
La legge n. 124/2015 costruisce un modello di governo totalmente incentrato sul presidente del Consiglio dei ministri e riguarda anche l’amministrazione locale. Viene riproposto il sistema dei ruoli unici della dirigenza dello Stato, delle Regioni e degli enti locali con la finzione “del ‘mercato’ dei dirigenti pubblici, nel quale tuttavia” – osserva Longobardi – “i peculiari acquirenti consumatori sono i vertici politici e i vertici amministrativi fiduciari dei primi” (pag. 195).
I dirigenti sono costretti a ricercare affiliazioni e gradimenti politico-partitici per svolgere effettive funzioni dirigenziali, passando in secondo piano la competenza e la professionalità acquisite.
La previsione di una commissione indipendente chiamata ad un mero giudizio di idoneità per il conferimento degli incarichi non è che una “foglia di fico” (pag. 197).
Longobardi plaude alla sentenza della Corte costituzionale n. 251/2016 che, censurando le disposizioni di delega legislativa della L. n. 124/2015 per violazione della leale collaborazione nei confronti della Regione, ha impedito “l’ennesima peggiorativa riforma in tema di dirigenza pubblica” (pag. 197).
La Corte costituzionale che, però, è stata troppo timida nella difesa dei principi dello Stato di diritto, tanto da non avere mai preso posizione sulla legittimità delle norme sulla precarizzazione dei dirigenti e sull’assegnazione temporanea degli incarichi dirigenziali, limitandosi a interventi parziali e tardivi.
La Corte di Cassazione ha “blindato” la privatizzazione del pubblico impiego, finendo per rendere inadeguata la tutela alla dirigenza pubblica.
Non è più vero che i governi passano e l’amministrazione resta, come accade negli Stati di diritto, per la cronica instabilità amministrativa conseguenza delle riforme introdotte a partire dagli anni ’90 del 1900 e non solo per lo spoils system che riguarda gli incarichi apicali e per la modifica organizzativa degli uffici per azzerare gli incarichi e nominare nuovi dirigenti, ma soprattutto per “le condizioni di asservimento nelle quali è stata ridotta la funzione pubblica” (pag. 203) che hanno vanificato il ruolo autonomo ed imparziale della burocrazia che rappresenta la continuità istituzionale.
La politicizzazione della funzione amministrativa e l’instabilità amministrativa “hanno determinato un generale grave scadimento dell’amministrazione pubblica” (pag. 206) peraltro preoccupata dal reticolo asfissiante di regole che la espongono al rischio di incorrere in responsabilità per danno erariale e in responsabilità penale che induce i burocrati ad evitare l’assunzione di decisioni.
“Le ragioni specifiche del declino italiano che è economico, culturale e morale, sono da rinvenire nel grave deterioramento arrecato alle istituzioni da scelte e comportamenti, non solo della classe politica, assunti a partire dagli anni ’90 del secolo scorso” (pag. 211).
Le oligarchie tendono a riprodursi non solo se lo stesso gruppo rimane al potere, ma anche quando un gruppo completamente nuovo giunge ai vertici, determinando un circolo vizioso che rende difficile uscire dall’economia estrattiva.
Un paese si apre all’economia inclusiva quando riesca a dare maggiore potere ad una fetta ampia e trasversale della società: “è il pluralismo la pietra angolare delle istituzioni politiche inclusive” (pag. 214).
Per il nostro paese, il punto di partenza è la restituzione di autorevolezza al parlamento, garantendone la reale rappresentatività a cui deve affiancarsi l’azione del governo e dei funzionari pubblici che deve incontrare vincoli “credibili” e la garanzia del rispetto dei diritti dei cittadini, definiti in modo certo.6. Considerazioni d’insieme.
Il libro lascia sgomenti perché smantella, con analisi critica documentata, gli elementi fondanti dello Stato di diritto e ci fa dubitare della democrazia del nostro paese.
Le istituzioni essenziali e determinanti per uno Stato di diritto vengono messe a nudo, dimostrando che la sostanza cui l’analisi di Longobardi giunge è diversa da quella che si legge nei manuali di diritto e da quella che appare.
Il Parlamento che è il centro e il cuore dello Stato di diritto che ha come vessillo il principio di legalità, sublimato con le norme costituzionali, europee e internazionali, non è espressione democratica dei cittadini che non scelgono i propri rappresentanti, blindati in liste bloccate imposte dai leader degli schieramenti politici.
I partiti politici che dovrebbero essere le cinghie di trasmissione degli interessi e delle istanze dei cittadini sono ormai associazioni di gruppi di affari e di potere che coltivano lo scopo di gestire il potere, apparentemente nell’interesse generale, ma in effetti per favorire gli interessi delle lobby e di coloro che si pongono a capo dei partiti.
Il governo è lo specchio dei partiti e si preoccupa di occupare il maggior numero dei centri di potere senza sostanziale dialettica e controllo del parlamento, frutto delle scelte dei leader dei partiti che condizionano i parlamentari che aspirano ad essere ricandidati.
Il disegno costituzionale di un’amministrazione imparziale, non condizionata dai politici e dal governo, è violato dalla pretesa consonanza tra politica e burocrazia che è privata di sostanziale autonomia ed è soggiogata al potere degli organi di governo, diventando, per lo spoils system all’italiana, precaria nello svolgimento delle funzioni amministrative di vertice.
L’azione amministrativa può non svolgersi secondo il giusto procedimento, nel rispetto del principio del contraddittorio e della partecipazione, senza tema di incorrere in illegittimità.
I contrappesi di garanzia e, soprattutto, la Corte Costituzionale è diventata timida e non interviene con decisione anche in presenza di palesi violazioni della Costituzione e a tutela dell’autonomia della pubblica amministrazione dall’invadenza degli organi di governo,
La giurisdizione, sia quella ordinaria che amministrativa, non svolge con efficacia e rigore la sua funzione a tutela dei diritti fondamentali e sociali, per la ritenuta preminenza delle esigenze di contenimento della spesa pubblica che finisce con il rendere insindacabili le scelte sull’impiego delle risorse pubbliche rimesse all’arbitrio dei politici.
La giurisdizione amministrativa, poi, è indebolita dalla sua posizione organizzativa e istituzionale che la vede fortemente collegata con il governo che sceglie un quarto dei Consiglieri di Stato, nomina il Presidente del Consiglio di Stato e dispensa prestigiosi incarichi ai giudici amministrativi. Questa situazione particolare dei giudici amministrativi avalla l’orientamento di deferenza verso l’amministrazione basata sulla cultura della supremazia di quest’ultima in una visione di privilegi che costituiscono l’ossatura di un diritto particolare a favore della pubblica amministrazione.
Il declino economico italiano si accompagna o forse è determinato dal declino delle istituzioni che stanno spingendo il paese verso una forma di Stato che vede sfumare e sbiadire i caratteri dello Stato di diritto e della democrazia e lo sta conducendo ad una gestione oligarchica produttiva di istituzioni economiche estrattive nelle quali i diritti fondamentali e sociali dei cittadini sono sullo sfondo e privi di un’effettiva tutela.
Le oligarchie, come ci ricorda Longobardi, tendono a perpetuarsi nei privilegi e nel potere acquisiti, anche quando sono sostituite da altri gruppi di potere antagonisti.
Lo sgomento causato da questo terribile quadro della situazione attuale è soppiantato dalla speranza di poterci rimettere sulla strada della ripresa economica e delle istituzioni inclusive, operando su cinque fondamentali pilastri, secondo le indicazioni che lo stesso Longobardi fornisce.
Il volume, infatti, non solo è una forte denunzia del declino che sveglia le coscienze, ma è anche un invito appassionato a risollevarsi e a risalire la china.
Dalle riflessioni di Longobardi si può trarre che:
Le istituzioni essenziali e determinanti per uno Stato di diritto vengono messe a nudo, dimostrando che la sostanza cui l’analisi di Longobardi giunge è diversa da quella che si legge nei manuali di diritto e da quella che appare.
Il Parlamento che è il centro e il cuore dello Stato di diritto che ha come vessillo il principio di legalità, sublimato con le norme costituzionali, europee e internazionali, non è espressione democratica dei cittadini che non scelgono i propri rappresentanti, blindati in liste bloccate imposte dai leader degli schieramenti politici.
I partiti politici che dovrebbero essere le cinghie di trasmissione degli interessi e delle istanze dei cittadini sono ormai associazioni di gruppi di affari e di potere che coltivano lo scopo di gestire il potere, apparentemente nell’interesse generale, ma in effetti per favorire gli interessi delle lobby e di coloro che si pongono a capo dei partiti.
Il governo è lo specchio dei partiti e si preoccupa di occupare il maggior numero dei centri di potere senza sostanziale dialettica e controllo del parlamento, frutto delle scelte dei leader dei partiti che condizionano i parlamentari che aspirano ad essere ricandidati.
Il disegno costituzionale di un’amministrazione imparziale, non condizionata dai politici e dal governo, è violato dalla pretesa consonanza tra politica e burocrazia che è privata di sostanziale autonomia ed è soggiogata al potere degli organi di governo, diventando, per lo spoils system all’italiana, precaria nello svolgimento delle funzioni amministrative di vertice.
L’azione amministrativa può non svolgersi secondo il giusto procedimento, nel rispetto del principio del contraddittorio e della partecipazione, senza tema di incorrere in illegittimità.
I contrappesi di garanzia e, soprattutto, la Corte Costituzionale è diventata timida e non interviene con decisione anche in presenza di palesi violazioni della Costituzione e a tutela dell’autonomia della pubblica amministrazione dall’invadenza degli organi di governo,
La giurisdizione, sia quella ordinaria che amministrativa, non svolge con efficacia e rigore la sua funzione a tutela dei diritti fondamentali e sociali, per la ritenuta preminenza delle esigenze di contenimento della spesa pubblica che finisce con il rendere insindacabili le scelte sull’impiego delle risorse pubbliche rimesse all’arbitrio dei politici.
La giurisdizione amministrativa, poi, è indebolita dalla sua posizione organizzativa e istituzionale che la vede fortemente collegata con il governo che sceglie un quarto dei Consiglieri di Stato, nomina il Presidente del Consiglio di Stato e dispensa prestigiosi incarichi ai giudici amministrativi. Questa situazione particolare dei giudici amministrativi avalla l’orientamento di deferenza verso l’amministrazione basata sulla cultura della supremazia di quest’ultima in una visione di privilegi che costituiscono l’ossatura di un diritto particolare a favore della pubblica amministrazione.
Il declino economico italiano si accompagna o forse è determinato dal declino delle istituzioni che stanno spingendo il paese verso una forma di Stato che vede sfumare e sbiadire i caratteri dello Stato di diritto e della democrazia e lo sta conducendo ad una gestione oligarchica produttiva di istituzioni economiche estrattive nelle quali i diritti fondamentali e sociali dei cittadini sono sullo sfondo e privi di un’effettiva tutela.
Le oligarchie, come ci ricorda Longobardi, tendono a perpetuarsi nei privilegi e nel potere acquisiti, anche quando sono sostituite da altri gruppi di potere antagonisti.
Lo sgomento causato da questo terribile quadro della situazione attuale è soppiantato dalla speranza di poterci rimettere sulla strada della ripresa economica e delle istituzioni inclusive, operando su cinque fondamentali pilastri, secondo le indicazioni che lo stesso Longobardi fornisce.
Il volume, infatti, non solo è una forte denunzia del declino che sveglia le coscienze, ma è anche un invito appassionato a risollevarsi e a risalire la china.
Dalle riflessioni di Longobardi si può trarre che:
- il Parlamento deve acquisire autorevolezza attraverso una reale rappresentatività che richiede una legge elettorale che restituisca ai cittadini la possibilità di scegliere i parlamentari;
- il Governo deve creare, da un lato, le condizioni per lo sviluppo dell’effettivo pluralismo dei centri di potere, evitando l’asfittico accentramento nella presidenza del Consiglio dei ministri e restituendo dignità al parlamento e, dall’altro lato, non deve interferire nell’attività amministrativa, fissando preventivamente gli indirizzi che la burocrazia deve perseguire nell’autonomia sua propria, come stabilisce la Costituzione;
- la burocrazia deve essere garantita dall’invadenza degli organi politici, in modo da agire imparzialmente con efficacia ed efficienza, coinvolgendo gli interessati attraverso il contraddittorio e la partecipazione ed aprendosi alla democrazia partecipativa;
- la giurisdizione deve svolgere il suo ruolo a tutela dei diritti e degli interessi legittimi e, in particolare, la giurisdizione amministrativa deve essere il baluardo nei confronti del potere amministrativo illegittimo, trattando l’amministrazione in giudizio, come le altre parti, in un ripensamento teorico del diritto amministrativo che deve mettere al centro i diritti fondamentali che non possono subire limiti dal potere amministrativo se non previsti dalla Costituzione, dal diritto europeo e dalla legislazione. Il giudice amministrativo, sul piano organizzativo e istituzionale, deve essere liberato da ogni legame con il potere esecutivo e deve avere una diversa formazione e qualificazione, con apertura a personalità esterne di comprovata ed elevata preparazione culturale e professionale;
- i diritti fondamentali e sociali dei cittadini non devono essere né conculcati, né barattati, ma devono essere tutelati ad ogni livello, amministrando le risorse disponibili in modo da cercare di soddisfarli.
In conclusione, Nino Longobardi va ringraziato per il coraggio di aver messo a nudo, senza infingimenti, la situazione delle istituzioni, per averci aperto gli occhi su quello che lentamente, ma inesorabilmente, sta avvenendo, e per la carica positiva che ci ha dato per rimettere il nostro paese sui binari dello Stato di diritto.