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A cura di Marco Lipari

Presidente di sezione del Consiglio di Stato

(*) Testo aggiornato della relazione svolta al Seminario, organizzato dall’Università degli Studi di Milano, DIPARTIMENTO DI DIRITTO PUBBLICO ITALIANO E SOVRANAZIONALE (Organizzazione scientifica: Prof. Massimo Condinanzi, Prof.ssa Chiara Amalfitano), CILFIT revisited or CILFIT again? Riflessioni a margine della sentenza Consorzio Italian Management, C-561/19, Milano 19 novembre 2021

 

Sommario: 1. La decisione della Corte conferma, specificandoli, i criteri Cilfit e riconosce la rilevanza delle preclusioni processuali del diritto nazionale. – 2. Il problema della delimitazione dell’obbligo di rinvio. Le preoccupazioni processuali del Consiglio di Stato. – 3. La diversa prospettiva dell’Avvocato Generale: la riduzione dell’obbligo di rinvio per rafforzare la funzione nomofilattica della Corte. – 4. La risposta della Corte: l’inquadramento sistematico del rinvio e la continuità con la giurisprudenza consolidata. – 5. La conferma dei criteri Cilfit e la loro precisazione. Anche il precedente su “caso analogo” esclude l’obbligo di rinvio. – 6. L’atto chiaro, il punto di vista degli altri giudici nazionali e il fattore linguistico. – 7. La centralità della motivazione nella decisione di non effettuare il rinvio pregiudiziale. – 8. La dicotomia tra interpretazione e applicazione del diritto UE. – 9. La risposta semplificatrice ai dubbi processuali del Consiglio di Stato: l’autonomia procedurale degli Stati membri, nel rispetto dei criteri di equivalenza ed effettività. – 10. La reiterazione della questione nello stesso giudizio. – 11. Le regole nazionali sulle preclusioni processuali e sulla valutazione delle richieste delle parti. – 12. Il problema della rilevanza o pertinenza della questione e le modalità della sua verifica. La responsabilità esclusiva del giudice nazionale – 14. Conclusioni.

 

  1. La decisione della Corte conferma, specificandoli, i criteri Cilfit e riconosce la rilevanza delle preclusioni processuali del diritto nazionale.

La decisione della Grande Sezione della Corte di Giustizia dell’Unione europea del 6 ottobre 2021, in causa C-561/2019, Consorzio Italian Management, afferma importanti principi in materia di obbligo di rinvio pregiudiziale, ai sensi dell’art. 267 del Trattato[1].

Le precise regole applicative fissate dalla Corte sono destinate ad influire concretamente nei giudizi nazionali di ultimo grado in cui entra in gioco l’interpretazione e l’applicazione del diritto dell’Unione europea.

La pronuncia compie, anzitutto, un’utile ricostruzione generale dell’istituto del rinvio pregiudiziale e ne spiega la collocazione sistematica. Definisce, poi, l’esatta portata oggettiva dell’obbligo di rinvio gravante sul giudice nazionale di ultima istanza, indicando le ipotesi in cui detto dovere non sussiste. Chiarisce, infine, il rapporto tra l’obbligo di rinvio e le regole nazionali del giudizio principale, che, stabilendo preclusioni o decadenze, esonerano il giudice di ultimo grado dall’obbligo di rinvio.

La maggior parte dei primi commenti[2] attribuisce alla sentenza un valore sostanzialmente confermativo dell’indirizzo uniforme della Corte, riconducibile alla cosiddetta giurisprudenza Cilfit, riguardante la definizione dei casi in cui il giudice è dispensato dall’obbligo di rinvio.

Ma nella pronuncia possono leggersi alcuni significativi elementi di novità, ancorché situati in una linea di continuità logica con la giurisprudenza consolidata della CGUE.

  1. Il problema della delimitazione dell’obbligo di rinvio. Le preoccupazioni processuali del Consiglio di Stato.

La decisione della Corte prende origine dal quesito proposto dal Consiglio di Stato italiano (ordinanza della IV Sezione 15 luglio 2019, n. 4949), preoccupato di stabilire come vada esattamente determinata la portata dell’obbligo di rinvio previsto dalla normativa europea, in rapporto alle dinamiche processuali del giudizio nazionale.

La Sezione ricorda che il processo amministrativo è caratterizzato da stringenti preclusioni, incidenti sui poteri delle parti e del giudice relativi alla individuazione del tema decisorio della controversia.

Dette preclusioni si verificano nei diversi segmenti del giudizio, a partire dal ricorso introduttivo di primo grado e dalla costituzione delle parti convenute, diventando ancora più serrate in sede di appello e, a fortiori, nella fase decisoria.

Nella concreta vicenda il Consiglio di Stato, nel medesimo giudizio, aveva già proposto un primo rinvio pregiudiziale (ordinanza della IV Sezione 22 marzo 2017, n. 1297), deciso dalla Corte con la sentenza del 19 aprile 2018, Consorzio Italian Management e Catania Multiservizi, C-152-17.

In seguito alla riassunzione del processo, una delle parti, ritenendo insufficienti le risposte fornite dalla Corte, aveva chiesto di sollevare nuovamente numerose questioni pregiudiziali, ritenute rilevanti per la definizione della controversia.

L’ordinanza n. 4949/2019 chiarisce subito che alcune di queste richieste si risolvono nella mera reiterazione delle stesse questioni già decise dalla Corte: pertanto non sono in alcun modo idonee a generare l’obbligo di un nuovo rinvio.

Le altre istanze, invece, riguardano temi nuovi, diversi dall’oggetto dell’originario deferimento alla CGUE.

Il Consiglio di Stato, considerando, implicitamente, che queste sono astrattamente idonee ad influire sull’esito della controversia, ritiene necessario interrogare la Corte circa la doverosità, o meno, del rinvio.

Il dubbio deriva dalla constatazione secondo cui il principio di immutabilità della domanda, che governa il processo amministrativo italiano, impedendo di ampliare l’oggetto della controversia, potrebbe risultare in contrasto con la perentorietà dell’obbligo di rinvio pregiudiziale interpretativo, come regolato dall’art. 267 TFUE.

Il quesito formulato della IV Sezione, pertanto, intende accertare se “ai sensi dell’articolo 267 TFUE, il giudice nazionale, le cui decisioni non sono impugnabili con un ricorso giurisdizionale, è tenuto, in linea di principio, a procedere al rinvio pregiudiziale di una questione di interpretazione del diritto dell’Unione europea, anche nei casi in cui tale questione gli venga proposta da una delle parti del processo dopo il suo primo atto di instaurazione del giudizio o di costituzione nel medesimo, ovvero dopo che la causa sia stata trattenuta per la prima volta in decisione, ovvero anche dopo che vi sia già stato un primo rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell’Unione europea”.

L’ordinanza prospetta, formalmente, un’unica articolata questione pregiudiziale, disegnata in perfetta aderenza alla peculiare vicenda processuale, che potrebbe scomporsi in più temi.

  1. I) Il primo riguarda la sussistenza dell’obbligo di rinvio nel caso in cui, nel corso dello stesso processo, il giudice nazionale, accogliendo le richieste delle parti, abbia già sollevato, in precedenza, una questione pregiudiziale, poi decisa dalla Corte.
  2. II) Il secondo tema, di spettro molto ampio, concerne il dubbio circa la compatibilità tra l’obbligo del rinvio e il sistema italiano delle preclusioni processuali e delle decadenze.

La pronuncia non indica partitamente quale preclusione sia effettivamente maturata nel corso del giudizio nazionale, poiché considera, in generale, ogni ipotesi in cui la questione di interpretazione del diritto comunitario sia posta dalle parti dopo l’instaurazione del giudizio o dopo l’atto di costituzione del convenuto, in una “fase avanzata”.

Peraltro, in relazione, al caso di specie, l’ordinanza si riferisce al principio generale di immutabilità dell’oggetto del giudizio, cristallizzato al momento in cui la causa è stata trattenuta in decisione, per la prima volta, in occasione del precedente rinvio.

Il quesito formulato dal Consiglio di Stato considera, comunque, anche le ipotesi in cui le parti prospettino una questione interpretativa del diritto comunitario in una qualsiasi fase avanzata del procedimento, ancorché antecedente a quella decisoria.

III) In modo indiretto, poi, l’ordinanza tocca il tema del rapporto tra le deduzioni delle parti e il dovere del giudice di fare corretta applicazione del diritto UE, anche attraverso la proposizione del rinvio pregiudiziale. In quale misura le richieste di parte, incentrate sulla prospettazione di un dubbio ermeneutico sulla normativa europea impongono al giudice di disporre il rinvio pregiudiziale?

Nella visione del Consiglio di Stato, i criteri oggettivi fissati dal filone giurisprudenziale Cilfit, per delineare il perimetro dell’obbligo di rinvio, non sono in alcun modo messi in discussione.

Il giudice italiano si colloca, viceversa, su un piano diverso, processuale, riguardante il modo in cui l’obbligo di rinvio, conformemente ai criteri Cilfit, deve essere adempiuto nella dinamica nel giudizio nazionale.

Si potrebbe ritenere, comunque, che gli interrogativi enunciati vadano inquadrati nella specificazione, o sviluppo, del criterio della pertinenza, o rilevanza della questione, indicato dalla giurisprudenza Cilfit.

Ed allora, l’interrogativo esposto dalla Sezione potrebbe essere riformulato nel modo seguente: le preclusioni e le decadenze stabilite dal processo nazionale sono idonee a rendere la questione interpretativa indicata dalle parti come non pertinente e, quindi, estranea all’obbligo di rinvio?

Assai opportunamente, l’ordinanza del Consiglio di Stato segue il suggerimento contenuto nelle istruzioni redatte dalla CGUE, che incoraggia il giudice nazionale ad esporre nella decisione di rinvio l’indirizzo interpretativo ritenuto preferibile tra le diverse opzioni astrattamente prospettabili.

La pronuncia indica la preferenza per la soluzione ermeneutica favorevole alla prevalenza delle norme processuali interne. La Sezione osserva che la proposizione «a catena» di questioni pregiudiziali (conseguenti a precedenti rinvii nello stesso giudizio) potrebbe dar luogo a possibili abusi del processo e rischierebbe di privare di effetto il diritto alla tutela giurisdizionale e il principio di celere definizione del giudizio con carattere di effettività.

La Sezione ritiene che “l’enunciata obbligatorietà di rinvio pregiudiziale da parte del Giudice di ultima istanza non possa essere disgiunta da un regime di “preclusioni processuali” (che è rimesso alla stessa giurisprudenza della Corte di Giustizia di affermare corrispondentemente), tale da indurre le parti a sottoporre al giudice nazionale “una volta per tutte” gli aspetti del diritto interno applicabile al caso oggetto di giudizio che esse prospettano come contrastanti con il diritto europeo.

La disciplina nazionale che delimita l’oggetto del giudizio, attraverso la previsione di preclusioni, esprime principi capaci di modulare ragionevolmentela portata dell’obbligo incondizionato del rinvio pregiudiziale, in piena sintonia con quanto affermato in precedenti occasioni dalla stessa CGUE.

Questa ipotizzata mitigazione dell’obbligo dovrebbe sussistere, quanto meno, nel caso particolare in cui le parti prospettino questioni interpretative comunitarie dopo una precedente fase decisoria, già culminata in un rinvio pregiudiziale.

  1. La diversa prospettiva dell’Avvocato Generale: la riduzione dell’obbligo di rinvio per rafforzare la funzione nomofilattica della Corte.

Innescata la questione pregiudiziale nei descritti termini, esclusivamente processuali, il tema si allarga notevolmente alla luce delle richieste formulate dall’Avvocato Generale Bobek il 15 aprile 2021, pure considerando le posizioni espresse dalla Commissione e da taluni dei Governi nazionali intervenuti nel giudizio davanti alla CGUE.

Secondo l’AG, al quesito specifico proposto dal Consiglio di Stato va fornita una risposta univoca, sulla base della giurisprudenza consolidata della Corte, riassunta con il principio “spetta sempre al giudice nazionale decidere” in ordine alla pertinenza della questione e alla sua necessità ai fini della soluzione della controversia.

Difatti, benché il giudice del rinvio possa, in linea di principio, attribuire spazio alle considerazioni delle parti, l’art. 267 TFUE istituisce una cooperazione diretta fra la Corte e i giudici nazionali, attraverso un procedimento estraneo ad ogni iniziativa delle parti stesse. D’altro canto, sebbene la volontà della Corte sia quella di assistere il giudice del rinvio nel modo più ampio possibile, quest’ultimo è l’organo che meglio di chiunque altro può determinare sulla necessarietà della pronuncia pregiudiziale.

Evidentemente, tale necessità va collegata al concreto stato del procedimento nazionale, così come disciplinato dalla normativa interna, anche considerando il sistema di decadenze e preclusioni previste.

L’AG ritiene, tuttavia, che il particolare quesito indicato dal Consiglio di Stato, poiché riguarda l’ambito dell’obbligo di rinvio, si debba inscrivere in un discorso più ampio. Occorre rimeditare l’intera impalcatura della giurisprudenza Cilfit, al dichiarato scopo di rivedere, razionalizzare e sostanzialmente limitare il perimetro dell’obbligo di rinvio, che andrebbe circoscritto ad ipotesi di effettivo rilievo generale.

La posizione dell’AG riflette, in larga misura, l’orientamento espresso in giudizio dal Governo francese, a mente del quale i criteri Cilfit dovrebbero essere profondamente rivisitati alla luce dell’obiettivo generale dell’art. 267 TFUE e dello stato attuale del diritto dell’Unione, facendo sì che il rinvio obbligatorio si concentri soltanto su questioni che possano dar luogo a interpretazioni divergenti all’interno dell’Unione, non sui singoli casi all’interno degli Stati membri.

Dal canto suo, il Governo italiano ha posto l’accento su un profilo ancora diverso, affermando la necessità di effettuare un migliore bilanciamento tra l’obbligo di rinvio pregiudiziale ed il principio di buona amministrazione della giustizia. In tale ottica, una violazione dell’art. 267, terzo comma, del TFUE sussisterebbe solo nel caso di motivazione assente o del tutto carente da parte del giudice a quo, quanto alla scelta di non procedere al rinvio.

Tanto la Commissione, quanto il Governo tedesco, invece, hanno sostenuto in giudizio l’opportunità di confermare integralmente gli orientamenti interpretativi consolidati nella giurisprudenza della CGUE.

Dal punto di vista dell’AG, la logica meramente processuale indicata dal Consiglio di Stato, pertanto, va collocata in secondo piano e l’attenzione si deve concentrare sui presupposti generali e sostanziali dell’obbligo di rinvio, investendone, in radice, la funzione e le finalità.

L’idea di fondo è quella di rafforzare il ruolo nomofilattico della CGUE, che dovrebbe esprimersi solo sulle grandi questioni di sistema, comportanti reali rischi di divergenze interpretative, e non su aspetti ritenuti secondari o di dettaglio della normativa europea, circoscritti all’ordinamento del singolo giudice nazionale.

Fra gli argomenti sviluppati a supporto della tesi dell’Avvocato Generale merita particolare considerazione la prospettata distinzione tra le questioni di applicazione e le questioni di interpretazione del diritto UE. Secondo l’Avvocato, la Corte dovrebbe limitarsi all’esame di questioni di stretta interpretazione, mentre il giudice nazionale dovrebbe risolvere autonomamente ogni profilo propriamente applicativo della disciplina comunitaria.

Questa opinione si connette pure alla riscontrata disomogeneità tra la giurisprudenza fedele ai criteri Cilfit e altre decisioni della stessa CGUE, inclini a circoscrivere la portata dell’obbligo di rinvio alle sole questioni di reale natura ermeneutica.

Si richiama, in tal senso, la risalente sentenza del 24 maggio 1977, Hoffmann‑La Roche, 107/76, secondo cui la ragione strutturale sottesa all’obbligo contenuto all’interno dell’art. 267 TFUE risiede nell’impedire che in uno Stato membro si consolidi una giurisprudenza nazionale in contrasto con le norme del diritto dell’UE. La ratio della disposizione, dunque, consisterebbe nell’evitare divergenze giurisprudenziali all’interno dell’Unione. Evidentemente, tale assunto ha natura oggettiva, poiché si concentra sulla giurisprudenza in generale e non sul caso di specie.

In conclusione, l’AG propone di ridefinire radicalmente la portata dell’obbligo di rinvio, che andrebbe ritenuto sussistente in presenza dei seguenti congiunti requisiti, emergenti nel giudizio nazionale di ultima istanza:

  1. Ai fini della decisione occorre risolvere una questione generale di interpretazione del diritto dell’Unione, anziché una questione relativa alla sua applicazione;
  2. Su tale questione esistono oggettivamente più interpretazioni ragionevolmente possibili;
  3. La risposta all’oggettiva incertezza ermeneutica non può essere dedotta dalla giurisprudenza esistente della Corte, oppure il giudice del rinvio intende discostarsi dalla giurisprudenza della CGUE.

Dunque, l’AG propone nuovi requisiti positivi, idonei a costituire l’obbligo di rinvio, superando l’impostazione Cilfit, che afferma, in linea di principio, il dovere generale di rinvio gravante sul giudice di ultima istanza, individuando, poi, in negativo, le tassative ipotesi in cui tale obbligo è ritenuto insussistente.

È interessante notare come l’atteggiamento assunto oggi dall’Avvocatura Generale risulti ben lontano dalle originarie posizioni rigoristiche, espresse a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso. Va ricordato, al proposito, che proprio nel fondamentale giudizio Cilfit l’Avvocato Generale Capotorti aveva concluso nel senso della massima estensione e inderogabilità dell’obbligo di rinvio, configurabile, a suo dire, in tutti i casi in cui una parte sollevi comunque una questione attinente al diritto UE.

L’Avvocato Bobek, al contrario, raccogliendo e sviluppando le tesi già proposte in altre precedenti occasioni dall’Avvocatura Generale, sollecita una radicale riduzione di casi di obbligo di rinvio.

Si può ritenere che questa posizione dipenda anche dai seguenti fattori:

  1. L’esigenza pratica di alleggerire il peso crescente del contenzioso pendente davanti alla Corte;
  2. La realistica considerazione che, in assenza di effettivi mezzi di reazione alla violazione dell’obbligo di rinvio, potrebbe essere preferibile ridurre i casi in cui esso è davvero indispensabile;
  3. Una maggiore fiducia nei confronti del giudice nazionale di ultima istanza, ritenuto autonomamente capace di fare corretta applicazione del diritto comunitario, ove occorra anche mediante disapplicazione del contrastante diritto nazionale;
  4. La riscontrata difficoltà di applicare correttamente i criteri Cilfit, con particolare riguardo alla controversa ipotesi dell’atto chiaro.

La profonda differenza dei punti di vista espressi, rispettivamente, dall’Avv. Bobek e dal Consiglio di Stato è palese.

L’Avv. Generale intende rivedere, a tutto tondo, il ruolo del rinvio pregiudiziale, nella sua portata “sostanziale” e sistematica.

Per il giudice italiano, invece, è necessario chiarire, con la massima precisione, il rapporto tra il rinvio e il processo nazionale, senza porre in discussione i criteri generali fissati dalla giurisprudenza Cilfit, fatta eccezione per l’eventuale rivisitazione e precisazione del criterio della pertinenza, nella sua dimensione tipicamente processuale.

L’atteggiamento del Consiglio di Stato si connette, con evidenza, al dato oggettivo costituito dal numero elevatissimo delle richieste di rinvio pregiudiziale formulate dalle parti nei processi amministrativi, nonché dalla cifra, parimenti altissima, di azioni risarcitorie ex legge n.117/1988, basate sulla asserita violazione del diritto europeo, anche in relazione al mancato rinvio pregiudiziale.

In tale contesto non può stupire l’atteggiamento “prudenziale” (qualcuno dice “difensivo”) del Consiglio di Stato, che, tra le varie letture possibili circa l’ambito dell’obbligo sancito dall’art. 267 TFUE, preferisce seguire, in linea di principio, quella diretta alla massima estensione del rinvio ed è particolarmente attento a valutare le istanze formulate dalle parti del giudizio.

Ed è altrettanto comprensibile l’attenzione del giudice amministrativo di ultimo grado al preciso coordinamento tra le regole del processo nazionale e la disciplina del rinvio, manifestata attraverso la formulazione del quesito processuale rivolto alla Corte.

Già in passato, del resto, su sollecitazione espressa del Consiglio di Stato aveva la Corte aveva fornito alcuni chiarimenti relativi alla portata dell’obbligo di rinvio (sentenza 18 luglio 2013, C-136-12, Ordine dei geologi, Foro it., 2014, IV, 154, annotata da DE HIPPOLYTIS; in Corriere giur.,2014, 463, con nota di CONTI), stabilendo che “l’articolo 267, terzo comma, TFUE deve essere interpretato nel senso che spetta unicamente al giudice del rinvio determinare e formulare le questioni pregiudiziali vertenti sull’interpretazione del diritto dell’Unione che esso ritiene rilevanti ai fini della soluzione del procedimento principale. Non devono essere applicate le norme nazionali che abbiano l’effetto di ledere tale competenza.

  1. La risposta della Corte: l’inquadramento sistematico del rinvio e la continuità con la giurisprudenza consolidata.

La Corte considera entrambi i profili della questione, così come prospettati dall’ordinanza e dalle conclusioni dell’Avvocato Generale, incorniciati in una ricostruzione generale dell’istituto del rinvio obbligatorio e delle sue finalità.

La Corte ricorda preliminarmente che il procedimento di rinvio pregiudiziale previsto dall’articolo 267 TFUE, “costituisce la chiave di volta del sistema giurisdizionale istituito dai trattati, instaura un dialogo da giudice a giudice tra la Corte e i giudici degli Stati membri che mira ad assicurare l’unità di interpretazione del diritto dell’Unione, permettendo così di garantire la coerenza, la piena efficacia e l’autonomia di tale diritto nonché, in ultima istanza, il carattere peculiare dell’ordinamento istituito dai trattati”, citando il proprio parere 2/13 (Adesione dell’Unione alla CEDU), del 18 dicembre 2014, punto 176 e giurisprudenza ivi citata, nonché la sentenza del 6 marzo 2018, Achmea, C-284/16.

Al punto 32, la Corte rammenta che, per tali finalità, “qualora non esista alcun ricorso giurisdizionale di diritto interno avverso la decisione di un giudice nazionale, quest’ultimo è, in linea di principio, tenuto a rivolgersi alla Corte ai sensi dell’articolo 267, terzo comma, TFUE quando è chiamato a pronunciarsi su una questione d’interpretazione del diritto dell’Unione (sentenza del 15 marzo 2017, Aquino, C-3/16, punto 42 e giurisprudenza ivi citata)”.

Svolte queste premesse, la Corte non confuta in modo analitico le tesi dell’Avvocato Bobek, riguardanti la definizione dell’ambito dell’obbligo di rinvio. Ma è palese la sua meditata scelta di disattendere le conclusioni dell’AG, confermando l’impostazione seguita dalla giurisprudenza Cilfit e le sue premesse sistematiche.

All’interno di queste coordinate si collocano, peraltro, alcuni elementi di parziale novità applicativa: specificazioni e puntualizzazioni dei criteri Cilfit e non loro superamento o capovolgimento.

La pronuncia, infatti, al punto 33, riproduce fedelmente i consolidati criteri Cilfit, sottolineandone la persistente validità: “Secondo una giurisprudenza costante della Corte, un giudice nazionale avverso le cui decisioni non possa proporsi ricorso giurisdizionale di diritto interno, può essere esonerato da tale obbligo solo quando abbia constatato che la questione sollevata non è rilevante, o che la disposizione del diritto dell’Unione di cui trattasi è già stata oggetto d’interpretazione da parte della Corte, oppure che la corretta interpretazione del diritto dell’Unione si impone con tale evidenza da non lasciar adito a ragionevoli dubbi.“ Al riguardo la pronuncia cita le sentenze del 6 ottobre 1982, Cilfit 283/81, punto 21; del 15 settembre 2005, Intermodal Transports, C-495/03, punto 33, nonché del 4 ottobre 2018, Commissione/Francia, C-416/17, punto 110.

I dubbi processuali del Consiglio di Stato sono sciolti nel senso che i sistemi nazionali incentrati su preclusioni e termini decadenziali, tali da impedire la possibile rilevanza della questione pregiudiziale, non sono di per sé confliggenti con l’art. 267 del TFUE, purché siano rispettati i noti criteri di equivalenza ed effettività della tutela.

Secondo la Corte, nella prospettiva del diritto UE, poi, non può escludersi la sussistenza dell’obbligo del rinvio nel corso di un giudizio nel quale, in precedenza, sia stata già proposta una questione pregiudiziale.

In ogni caso, le deduzioni difensive delle parti, che prospettino dubbi interpretativi del diritto UE o sollecitino l’intervento della CGUE, non sono idonee a generare, di per sé, un obbligo incondizionato di rinvio pregiudiziale, poiché la valutazione di necessità e pertinenza compete esclusivamente al giudice nazionale, il quale potrà verificare se si siano verificate preclusioni o decadenze.

  1. La conferma dei criteri Cilfit e la loro precisazione. Anche il precedente su “caso analogo” esclude l’obbligo di rinvio.

I criteri Cilfit si sostanziano nella enunciazione di una regola precisa, basata sulla definizione dell’obbligo generalizzato del rinvio, accompagnato da tre tassative eccezioni.

La Corte ritiene di confermarne l’attualità, attraverso una lineare motivazione che ne sviluppa i contenuti nel segno della continuità.

La pronuncia intende aggiungere, però, qualche puntualizzazione, anche allo scopo di dissipare le residue incertezze applicative, spesso emerse in dottrina e nella giurisprudenza nazionale.

Una prima, parziale, innovazione riguarda la precisazione del criterio secondo cui l’obbligo del rinvio non sussiste in presenza di una giurisprudenza della CGUE riguardante la questione prospettata.

La pronuncia ricorda che “l’autorità dell’interpretazione data dalla Corte in forza dell’articolo 267 TFUE può far cadere la causa dell’obbligo previsto dall’articolo 267, terzo comma, TFUE, e renderlo senza contenuto, segnatamente, qualora la questione sollevata sia materialmente identica ad altra questione, sollevata in relazione ad analoga fattispecie, che sia già stata decisa in via pregiudiziale”.

L’esonero dall’obbligo del rinvio sussiste anche qualora una giurisprudenza consolidata della Corte risolva il punto di diritto di cui trattasi, quale che sia la natura dei procedimenti che hanno dato luogo a tale giurisprudenza, pure in mancanza di una stretta identità delle questioni controverse.

Dunque, la Corte sottolinea che, per escludere l’obbligo del rinvio, può considerarsi non solo il precedente riguardante un caso identico, ma anche una o più pronunce relative a situazioni analoghe a quella oggetto del giudizio nazionale.

L’affermazione non è totalmente nuova, ma è certamente significativa l’apertura segnata dalla Corte. Per comprenderne l’effettiva portata, occorrerà verificare le concrete decisioni assunte dai giudici nazionali e le valutazioni operate al riguardo dalla CGUE, poiché il criterio dell’analogia si presta, evidentemente, ad applicazioni opinabili.

È forse ipotizzabile che il giudice amministrativo italiano seguirà ancora un indirizzo molto prudente anche in presenza di una giurisprudenza consolidata su casi analoghi, orientandosi, nell’incertezza, verso la soluzione del rinvio.

Probabilmente, il giudice italiano eviterà il rinvio solo nei casi in cui scelga una soluzione interpretativa conforme ai precedenti della CGUE che abbiano dato prevalenza al diritto UE rispetto a quello nazionale, come è avvenuto nelle recenti decisioni della Plenaria sulle concessioni demaniali. La scelta di non effettuare il rinvio pregiudiziale è stata giustificata dal motivato richiamo alla precedente giurisprudenza della CGUE, che aveva già sancito l’incompatibilità con il diritto europeo della disciplina nazionale in materia di proroghe della durata del rapporto concessorio. La giurisprudenza richiamata riguarda un caso simile, ma non identico a quello esaminato dall’Adunanza Plenaria.

In ogni caso, il giudice che scelga di non rinviare dovrà indicare con puntualità le ragioni che conducono a riconoscere la riconosciuta analogia, comportante l’esonero dall’obbligo di rinvio.

  1. L’atto chiaro, il punto di vista degli altri giudici nazionali e il fattore linguistico.

Un ulteriore elemento di novità può rinvenirsi nella specificazione del criterio dell’atto chiaro, idoneo ad escludere la sussistenza dell’obbligo di rinvio.

Effettivamente, questo criterio non risulta di agevole applicazione e non è neppure molto utilizzato dal giudice nazionale.

Per il giudice italiano, in particolare, motivare il mancato rinvio mediante il riferimento alla asserita inequivocità della disciplina europea, in mancanza di precedenti specifici della CGUE, è molto rischioso, tenendo conto della possibile incidenza sulla responsabilità risarcitoria ex legge n. 117/1988.

Da qui nasce l’opportunità di delinearne in modo più preciso l’ambito di applicazione.

In questo senso, la pronuncia in commento raccoglie alcune delle suggestioni provenienti dalle conclusioni dell’Avvocato Generale, giustamente preoccupato di realizzare, mediante lo strumento del rinvio pregiudiziale, la massima armonizzazione interpretativa tra le giurisdizioni degli Stati membri dell’Unione.

La decisione ricorda, al proposito, al punto 39, che il giudice di ultimo grado “può altresì astenersi dal sottoporre alla Corte una questione di interpretazione del diritto dell’Unione e risolverla sotto la propria responsabilità qualora l’interpretazione corretta del diritto dell’Unione s’imponga con tale evidenza da non lasciar adito a ragionevoli dubbi (sentenze del 6 ottobre 1982, Cilfit, 283/81, , punti 16 e 21, nonché del 9 settembre 2015, Ferreira da Silva e Brito, C-160/14, punto 38)”.

La Corte ribadisce che l’assenza di dubbi circa la corretta interpretazione del diritto UE deve avere connotazione rigorosamente oggettiva. Non può impedire il rinvio la circostanza che il giudice sia solo soggettivamente convinto della soluzione ermeneutica. Né l’univocità dell’interpretazione può basarsi sulla sola considerazione della giurisprudenza dello Stato cui appartiene il giudice di ultima istanza.

In tal senso, va richiamato il principio espresso dalla CGUE, 9 settembre 2015, C-160/14, João Filipe Ferreira da Silva, secondo cui “l’articolo 267, terzo comma, TFUE deve essere interpretato nel senso che un giudice avverso le cui decisioni non sono esperibili ricorsi giurisdizionali di diritto interno è tenuto a sottoporre alla Corte una domanda di pronuncia pregiudiziale […] in circostanze quali quelle del procedimento principale, contraddistinte al contempo da decisioni divergenti di giudici di grado inferiore quanto all’interpretazione […] e da ricorrenti difficoltà d’interpretazione della medesima nei vari Stati membri”.

In sostanza, la CGUE afferma che il giudice nazionale dovrebbe verificare l’atteggiamento (reale o presumibile) degli altri interpreti nei diversi Stati dell’Unione, anche alla luce delle plurime versioni linguistiche delle norme comunitarie. In altri termini, la CGUE richiama l’attenzione sulla opportunità di allargare il dialogo orizzontale tra le Corti Nazionali, tanto più utile quando il diritto dell’Unione europea potrebbe prestarsi a divergenze interpretative, in seno ai diversi ordinamenti.

L’onere posto a carico del giudice nazionale potrebbe apparire eccessivo, ma è ragionevolmente mitigato dalla Corte mediante l’opportuna considerazione secondo cui il confronto con le esperienze degli altri ordinamenti non impone di effettuare laboriose istruttorie o lunghe indagini, ma deve basarsi sui dati effettivamente disponibili, con particolare riferimento a quelli offerti dalle parti in giudizio.

Al punto 44, la Corte spiega che “Se un giudice nazionale di ultima istanza non può certamente essere tenuto a effettuare, a tal riguardo, un esame di ciascuna delle versioni linguistiche della disposizione dell’Unione di cui trattasi, ciò non toglie che esso deve tener conto delle divergenze tra le versioni linguistiche di tale disposizione di cui è a conoscenza, segnatamente quando tali divergenze sono esposte dalle parti e sono comprovate.

In tal modo, la Corte focalizza il proprio interesse, e quello delle Istituzioni europee, sul tema, molto delicato, riguardante la tecnica di redazione degli atti normativi comunitari e la loro corretta traduzione. L’esistenza di divergenti letture ermeneutiche potrebbe collegarsi, infatti, non solo alla diversità di culture giuridiche, ma anche, semplicemente, da versioni della normativa UE non coincidenti.

I limiti oggettivi del pluralismo linguistico, ai fini della univocità applicativa delle norme comunitarie dovrebbero essere considerati già al momento della redazione dei testi. Ma le inevitabili divergenze linguistiche e i contrasti ermeneutici dovranno essere definitivamente superati attraverso l’intervento chiarificatore della Corte e la necessaria cooperazione dei giudici nazionali.

Il riferimento alle esperienze degli altri Stati membri dovrebbe assumere una portata generale, riguardante non solo l’an del rinvio, ma anche la formulazione del suo contenuto, giacché bisognerà tenere conto delle soluzioni interpretative affermatesi in seno ai diversi ordinamenti.

Va da sé che il giudice nazionale di ultima istanza, anche se soggettivamente convinto di una determinata interpretazione, sarà tenuto inderogabilmente al rinvio, qualora accerti che il giudice di un altro Stato abbia, invece, affermato un diverso orientamento ermeneutico.

Non è possibile indicare la concreta portata applicativa del criterio oggi indicato dalla CGUE.

Ma è prevedibile che il giudice italiano manterrà un’impostazione misurata, evitando il rinvio solo in caso di accertata univocità di interpretazioni da parte di altri giudici nazionali.

Questo atteggiamento, del resto, sembra rispondere adeguatamente all’indicazione della Corte, secondo cui non è sufficiente l’assenza di dubbi interpretativi soggettivi, ma occorre l’oggettiva dimostrazione che analoga certezza è presente nella giurisprudenza degli altri Stati membri.

Né va trascurato che il presupposto della “chiarezza” della normativa comunitaria rappresenta un’eccezione rispetto all’obbligo di rinvio: non è illogico, quindi, che il suo accertamento debba essere particolarmente rigoroso.

 

  1. La centralità della motivazione nella decisione di non effettuare il rinvio pregiudiziale.

La decisione della CGUE contiene un ulteriore aspetto di innovazione, riguardante la centralità della motivazione con cui il giudice di ultima istanza stabilisce di non effettuare il rinvio e decide di interpretare direttamente il diritto UE.

In tal modo, la pronuncia si fa carico delle tesi sostenute dal Governo italiano, indirizzato proprio alla più estesa valorizzazione del ruolo della motivazione nella determinazione dell’obbligo di rinvio.

Al punto 51, la Corte chiarisce che la motivazione “deve far emergere o che la questione di diritto dell’Unione sollevata non è rilevante ai fini della soluzione della controversia, o che l’interpretazione della disposizione considerata del diritto dell’Unione è fondata sulla giurisprudenza della Corte, o, in mancanza di tale giurisprudenza, che l’interpretazione del diritto dell’Unione si è imposta al giudice nazionale di ultima istanza con un’evidenza tale da non lasciar adito a ragionevoli dubbi.”

Pertanto, la motivazione deve svolgersi attraverso una chiara ed esauriente indicazione delle ragioni del mancato rinvio, precisando con esattezza quale tra le situazioni di deroga all’obbligo sussista in concreto.

La pronuncia del giudice nazionale di ultima istanza, quindi, dovrà applicare con puntualità gli ulteriori criteri specifici oggi delineati dalla Corte.

Esemplificando:

  • In ipotesi di ritenuta non pertinenza della questione indicata dalle parti, occorre spiegare compiutamente perché la normativa comunitaria invocata non possa trovare applicazione, per ragioni sostanziali o processuali, nella vicenda contenziosa;
  • In ipotesi di precedente della Corte sulla stessa – identica – questione, prospettata dalle parti, occorre citare la giurisprudenza relativa, insieme alla conferma che non vi sono dubbi circa la piena applicabilità al giudizio nazionale e che non emergono incertezze circa la necessità di chiedere alla Corte, previa adeguate argomentazioni, un ripensamento del suo indirizzo ermeneutico;
  • In caso di precedente della CGUE riferito a caso “analogo”, ma non “identico”, deve emergere il percorso logico attraverso cui il giudice nazionale ritiene pertinente la richiamata giurisprudenza della Corte;
  • Particolarmente accurata deve essere la motivazione riguardante la riscontrata chiarezza del significato della norma comunitaria; a tal fine deve essere superato il previsto test di “omogeneità interpretativa orizzontale”, correlato alla verifica della lettura interpretativa conforme negli altri Stati membri;
  • Qualora si ritenesse sufficiente per escludere l’obbligo di rinvio anche l’assenza di interpretazioni difformi da quella seguita dal giudice nazionale il mancato rinvio dovrà essere motivato con chiarezza, utilizzando formule precise, quali: “le parti non hanno evidenziato la presenza di orientamenti diversi da quello cui aderisce questo giudice”, oppure “non constano letture interpretative di segno diverso”;
  • Con riguardo alla motivazione riferita alle diverse formulazioni linguistiche della norma comunitaria, va considerato che il giudice nazionale (almeno quello italiano) non è certamente tenuto a conoscere una o più idiomi stranieri; tuttavia, la motivazione che nega il rinvio risulterà senz’altro più convincente se accompagnata dal riferimento ad altre versioni.

Non può trascurarsi, poi, la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, che ha sottolineato la pregnanza dell’obbligo di motivazione del rifiuto del rinvio: Corte eur. dir.uomo, Grande camera 21 luglio 2015, Schipani et al. c. Italia (in Giur. it., 2015, 10, 2055-2061); Id., 8 aprile 2014, Dhahbi c. Italia (in Foro it., 2014, IV, 289, con nota di D’Alessandro), secondo cui “quando un giudice nazionale di ultima istanza disattenda la richiesta di parte di effettuare un rinvio pregiudiziale interpretativo alla Corte di giustizia dell’Unione europea, ai sensi dell’art. 267 del Trattato FUE, è tenuto a motivare il proprio rifiuto, sussistendo in caso contrario una violazione dell’art. 6 della convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali

  1. La dicotomia tra interpretazione e applicazione del diritto UE.

La Corte ritiene di non affrontare direttamente il ragionamento sviluppato dall’Avvocato Generale, secondo cui andrebbero nettamente distinte le questioni di applicazione da quelle di interpretazione del diritto comunitario.

La risposta è indiretta e si risolve nella diffusa riproposizione dei criteri Cilfit, considerati come tuttora pienamente idonei a fissare l’ambito dell’obbligo di rinvio.

Tuttavia, questo aspetto, sebbene non affrontato dalla CGUE e nemmeno correlato al tema proposto dal Consiglio di Stato, merita qualche riflessione ulteriore.

Si deve convenire che la distinzione concettuale tra applicazione e interpretazione sia senz’altro utile. Tuttavia, in concreto, non è agevole stabilire se nel giudizio nazionale sia in discussione la mera applicazione di una norma europea astrattamente chiara o se, invece, entri in gioco proprio la definizione del significato del diritto EU.

La Corte ha sempre considerato irricevibili rinvii pregiudiziali mediante i quali il giudice chieda, in sostanza, la soluzione del caso concreto: in tali eventualità il tema è senz’altro quello dell’applicazione mera e, pertanto, il suo esame non appartiene alla competenza della CGUE. Al tempo stesso, però, la Corte ha spesso ritenuto opportuno collegare l’affermazione del principio di diritto allo specifico contenzioso da cui prende origine la questione pregiudiziale, anche allo scopo di fissare meglio la portata e gli effetti della decisione.

Si può discutere circa i pregi e i difetti di una giurisprudenza ritenuta, talvolta, eccessivamente casistica e dettagliata, ma è difficile negare che il giudice nazionale abbia spesso la necessità di risolvere dubbi riguardanti non il nucleo centrale del significato di una norma comunitaria, bensì alcuni aspetti che, per quanto secondari, sono nondimeno determinanti ai fini della decisione. Una risposta puntuale della CGUE favorisce senz’altro il migliore coordinamento tra il diritto comunitario e i sistemi nazionali.

Inoltre, la maggior parte delle questioni proposte dal giudice nazionale (specie da quello italiano) si incentra sul dubbio riguardante la compatibilità tra normativa nazionale e disciplina europea. Tali questioni hanno, inevitabilmente, una fisionomia complessa, poiché il tema strettamente interpretativo del diritto europeo si intreccia con il problema applicativo concreto.

Insomma, una limitazione dell’intervento della Corte, incentrato sulla netta contrapposizione tra applicazione e interpretazione, seppure teoricamente plausibile, non pare opportuno: oltre a provocare incertezze sulla reale portata dell’obbligo di rinvio, impedirebbe di realizzare l’obiettivo della effettiva armonizzazione tra le giurisprudenze nazionali.

D’altro canto, vi sono importanti settori del diritto UE in cui il rinvio, ancorché strettamente interpretativo, è indiscutibilmente originato proprio da problemi di applicazione concreta.

Questo fenomeno si manifesta, frequentemente, negli ambiti in cui il diritto europeo scritto è caratterizzato dalla enunciazione di principi generali e non si articola nella previsione di disposizioni dettagliate. L’esempio più vistoso di questa tecnica normativa è rappresentato dalla struttura delle direttive ricorsi in materia di contratti pubblici (direttive 89/665/CEE e 92/13/CEE del Consiglio) e dalla relativa giurisprudenza della Corte.

È assai significativo che le direttive ricorsi, incentrate su precetti a spettro molto ampio, corrispondenti a principi radicati negli ordinamenti processuali di tutti i Paesi membri, non hanno mai trovato esplicito ed organico recepimento nella legislazione nazionale italiana: le uniche, limitate, eccezioni hanno riguardato la previsione del risarcimento del danno e la disciplina dell’inefficacia del contratto, in attuazione della Direttiva 2007/66/CE del Parlamento europeo e del Consiglio dell’11 dicembre 2007.

La spiegazione è ovvia: non si tratta, evidentemente, di un mancato recepimento, suscettibile di generare la responsabilità dello Stato. Infatti, il legislatore italiano, già negli anni Novanta, era pienamente convinto, a ragione, che il sistema processuale interno rispecchiasse fedelmente i principi europei in materia di effettività della tutela giurisdizionale e non ha mai dubitato del loro significato complessivo e generale.

Le incertezze si sono manifestate, semmai, proprio in sede applicativa, in relazione al funzionamento di particolari istituti: basterebbe ricordare le problematiche connesse alla disciplina del ricorso incidentale escludente e al suo rapporto con il ricorso principale. Del resto, le istituzioni europee non hanno mai sospettato della possibile difformità dai parametri comunitari della tutela giurisdizionale italiana.

Tuttavia, la giurisprudenza della Corte riguardante la direttiva ricorsi ha progressivamente elaborato un insieme di regole specifiche, riguardanti, fra l’altro, la definizione dell’interesse e della legittimazione al ricorso, la decorrenza del termine di impugnazione. Le decisioni sono state originate, indiscutibilmente, da problemi di applicazione, anziché di interpretazione del diritto UE.

Dunque, proprio la fase di applicazione dei principi europei ha rappresentato la base, indispensabile, per l’estensione, certamente proficua, dell’obbligo di rinvio. Anche per tale motivo, allora, la linea suggerita dall’AG Bobek, pare inopportuna.

  1. La risposta semplificatrice ai dubbi processuali del Consiglio di Stato: l’autonomia procedurale degli Stati membri, nel rispetto dei criteri di equivalenza ed effettività.

La Corte risponde ai quesiti processuali del Consiglio di Stato in modo tutto sommato prevedibile, in forte sintonia con le conclusioni rassegnate dall’Avvocato Generale. Infatti, la pronuncia ripete, in una prospettiva semplificatrice, alcuni principi generali già acquisiti nella sua giurisprudenza, senza entrare nel dettaglio della particolare vicenda contenziosa.

Si potrebbe notare che la linearità del ragionamento complessivo della sentenza non si accompagna ad una risposta precisa in ordine alla sussistenza dell’obbligo di rinvio nel caso concreto.

D’altra parte, una risposta più dettagliata della Corte non sarebbe stata agevole, perché, come già rilevato, il quesito proposto dalla Quarta Sezione comprende, al proprio interno, diversi aspetti, tutti meritevoli di trattamento separato.

Sono chiari, però, i criteri di fondo fissati dalla Corte e le loro ricadute applicative, anche nel caso di specie[3].

In sintesi:

  • L’obbligatorietà del rinvio non può escludersi, a priori, per la mera circostanza che esso sia stato già disposto dallo stesso giudice in una precedente fase del processo;
  • Il giudice può legittimamente ritenere non pertinente la questione pregiudiziale prospettata dalle parti, con correlato esonero dall’obbligo di rinvio, qualora ritenga che l’esame di tali temi decisori sia precluso in conseguenza di regole processuali nazionali conformi ai principi di equivalenza ed effettività della tutela giurisdizionale.

Secondo la pronuncia della Corte, il sistema processuale nazionale che stabilisce, per le parti e per il giudice, preclusioni tali da rendere non pertinente la questione pregiudiziale delineata dalle parti non è affatto incompatibile con l’art. 267 TFUE, purché siano superati i test di equivalenza e di effettività della tutela giurisdizionale: “61. A tal riguardo, si deve rammentare che un organo giurisdizionale nazionale di ultima istanza può astenersi dal sottoporre alla Corte una questione pregiudiziale per motivi di irricevibilità inerenti al procedimento dinanzi a tale giudice, fatto salvo il rispetto dei principi di equivalenza e di effettività (sentenze del 14 dicembre 1995, van Schijndel e van Veen, C-430/93 e C-431/93, punto 17, nonché del 15 marzo 2017, Aquino, C-3/16, punto 56).

In modo ancora più specifico, con riferimento al caso proposto, la sentenza ricorda come “64. La Corte ha così giudicato che norme processuali nazionali in forza delle quali l’oggetto della controversia è determinato dai motivi di ricorso sollevati al momento della sua proposizione sono compatibili con il principio di effettività dal momento che esse garantiscono il regolare svolgimento del procedimento, in particolare preservandolo dai ritardi dovuti alla valutazione dei motivi nuovi (sentenza del 14 dicembre 1995, van Schijndel e van Veen, C-430/93 e C-431/93, punto 21).

Risulta dunque confermato che, in presenza di preclusioni processuali di diritto interno, purché tali da non ledere il diritto di difesa dell’interessato, la questione interpretativa prospettata va giudicata non pertinente e, quindi, sottratta all’obbligo di rinvio: “65. Nell’ipotesi in cui, in forza delle norme processuali dello Stato membro interessato che rispettino i principi di equivalenza e di effettività, i motivi sollevati dinanzi a un giudice di cui all’articolo 267, terzo comma, TFUE, debbano essere dichiarati irricevibili, una domanda di pronuncia pregiudiziale non può essere considerata necessaria e rilevante affinché tale giudice possa decidere (sentenza del 15 marzo 2017, Aquino, C-3/16, punto 44).

Inoltre, più in generale, anche nell’ipotesi in cui non si sono verificate preclusioni processuali, le richieste di parte volte ad investire la CGUE di determinate questioni pregiudiziali, non creano alcun vincolo per il giudice nazionale, che ha il compito di stabilire la sussistenza dei presupposti per il rinvio, e, a fortiori, di determinarne il contenuto.

La circostanza che nel corso lo stesso giudizio sia stata già sollevata una questione pregiudiziale, decisa dalla CGUE, non impedisce, di per sé, di pronunciare un nuovo rinvio pregiudiziale e di riscontrare casi in cui esso sia parimenti obbligatorio.

In particolare, “59. Il fatto che detto giudice abbia già adito la Corte in via pregiudiziale nell’ambito del medesimo procedimento nazionale non mette in discussione tale obbligo qualora permanga, dopo la decisione della Corte, una questione di interpretazione del diritto dell’Unione la cui risposta è necessaria per dirimere la controversia.

La Corte, quindi, intende escludere l’ipotesi ermeneutica abbozzata dall’ordinanza di rinvio del Consiglio di Stato, secondo cui l’obbligo di rinvio è compiutamente adempiuto quando il giudice di ultima istanza solleva, una prima volta, una questione pregiudiziale, poiché, dopo tale fase, alle parti resta preclusa qualsiasi facoltà di prospettare ulteriori richieste di rinvio.

  1. La reiterazione della questione nello stesso giudizio.

Le ricadute concrete della pronuncia della CGUE riguardano sia il versante del diritto UE, sia quello del processo interno.

Anzitutto occorre considerare il problema della possibile reiterazione del rinvio obbligatorio.

Alla luce di quanto affermato dalla Corte, si possono verificare diverse situazioni in cui emergono, con evidenza, i presupposti di un nuovo rinvio obbligatorio.

La prima ipotesi riguarda il caso in cui il giudice nazionale nutra dubbi, emersi d’ufficio o in seguito alle deduzioni delle parti, sull’esatta portata e sull’interpretazione della precedente sentenza della CGUE (punto 38 della motivazione): “Un tale rinvio si impone a un giudice nazionale di ultima istanza quando esso si trova di fronte a difficoltà di comprensione quanto alla portata della sentenza della Corte”.

A questa ipotesi deve essere accostata quella del giudice nazionale che intenda motivatamente “contestare”, d’ufficio o su rituale sollecitazione delle parti, la pronuncia della CGUE, non condividendone le argomentazioni e le conclusioni.

A tale proposito, la pronuncia ricorda, al punto 37 che “anche in presenza di una giurisprudenza della Corte che risolve il punto di diritto di cui trattasi, i giudici nazionali mantengono la più ampia facoltà di adire la Corte qualora lo ritengano opportuno, senza che il fatto che le disposizioni di cui si chiede l’interpretazione siano già state interpretate dalla Corte abbia l’effetto di ostacolare una nuova pronuncia da parte della stessa (sentenze del 17 luglio 2014, Torresi, C-58/13 e C-59/13, punto 32 nonché giurisprudenza ivi citata, e del 3 marzo 2020, Tesco-Global Áruházak, C-323/18, punto 46)”.

È palese, infatti, che il giudice nazionale non potrebbe lecitamente dissociarsi dalla sentenza della CGUE, decidendo la controversia senza seguire l’interpretazione fissata dalla Corte nello stesso giudizio: qualora intendesse farlo dovrebbe obbligatoriamente percorrere la strada di un nuovo rinvio pregiudiziale.

  1. Le regole nazionali sulle preclusioni processuali e sulla valutazione delle richieste delle parti.

Merita di essere analizzato anche il tema specifico dei poteri delle parti e del giudice nazionale nella fase conseguente alla decisione della CGUE investita della questione pregiudiziale.

In linea di principio, deve convenirsi che la cognizione del giudice è delimitata nella fase precedente l’ordinanza di rinvio. Pertanto, in linea di principio, non vi è spazio per l’ampliamento del tema decisorio.

Tale regola, però, non ha portata rigida e incondizionata.

In assenza di disposizioni nazionali espressamente dedicate alla fase conseguente alla decisione della CGUE, potrebbe trovare applicazione analogica il principio ricavabile dal codice di procedura civile, nella parte in cui disciplina il giudizio di rinvio conseguente alla pronuncia della Cassazione (art. 394, comma terzo).

Secondo tale disciplina, “le parti non possono prendere conclusioni diverse da quelle prese nel giudizio nel quale fu pronunciata la sentenza cassata, salvo che la necessità delle nuove conclusioni sorga dalla sentenza di cassazione”.

Al riguardo, la giurisprudenza civile afferma che le parti non possono ampliare il thema decidendum, poiché sono soggette alle preclusioni e decadenze già verificatesi nel giudizio in cui è stata adottata la sentenza cassata. Peraltro, si ritiene sempre possibile far valere lo ius superveniens e dedurre nuovi fatti verificatisi in un momento successivo alla decisione annullata.

In questo ambito, quindi, si colloca il tema dei limiti entro cui è ammesso, o addirittura imposto, un nuovo rinvio pregiudiziale. Il giudice nazionale dovrà verificare attentamente se le nuove deduzioni difensive delle parti, dirette ad un ulteriore rinvio pregiudiziale, siano effettivamente connesse al dictum della Corte di Giustizia o consistano nella proposizione di temi che avrebbero dovuto e potuto essere allegati nella precedente fase di giudizio.

In ogni caso, la Corte riafferma con nettezza la posizione determinante del giudice di ultima istanza in ordine all’adempimento dell’obbligo di rinvio.

Dal punto di vista del diritto dell’UE, infatti, la richiesta di parte non incide, in modo vincolante, sulla portata dell’obbligo di rinvio.

Al punto 53, la decisione sottolinea che “il sistema di cooperazione diretta tra la Corte e i giudici nazionali, instaurato dall’articolo 267 TFUE, è estraneo ad ogni iniziativa delle parti (v., in tal senso, sentenze del 18 luglio 2013, Consiglio Nazionale dei Geologi, C-136/12, punto 28 e giurisprudenza ivi citata, nonché del 3 giugno 2021, Bankia, C-910/19, punto 22). Queste ultime non possono privare i giudici nazionali della loro indipendenza nell’esercizio del potere di cui al punto 50 della presente sentenza, segnatamente obbligandoli a presentare una domanda di pronunzia pregiudiziale (v., in tal senso, sentenza del 22 novembre 1978, Mattheus, 93/78, punto 5)”.

Pertanto, “54. Il sistema instaurato dall’articolo 267 TFUE non costituisce quindi un rimedio giuridico esperibile dalle parti di una controversia dinanzi a un giudice nazionale. Pertanto, non basta che una parte sostenga che la controversia pone una questione di interpretazione del diritto dell’Unione perché il giudice interessato sia obbligato a ritenere che una tale questione sia sollevata ai sensi dell’articolo 267 TFUE (sentenza del 6 ottobre 1982, Cilfit, 283/81, punto 9).

Tuttavia, non va trascurato il peso che la pronuncia attribuisce all’iniziativa delle parti, finalizzata ad accertare la sussistenza, o meno, di un orientamento interpretativo univoco tra i giudici dei diversi Stati.

Si tratta di un onere delle parti: una volta eseguito, il giudice nazionale, sebbene non sia vincolato ad effettuare il rinvio richiesto, è però tenuto a motivare adeguatamente l’eventuale scelta di non sollevare la questione pregiudiziale, tenendo però conto delle difese delle parti.

A ben vedere, poi, l’obbligo di motivazione del giudice in ordine alle difese delle parti presenta un’ampiezza maggiore, apprezzabile sia sul piano del diritto europeo che su quello del diritto interno.

Con riguardo al diritto UE, risulta palese che a fronte di una deduzione difensiva concernente l’interpretazione del diritto europeo (anche nei casi in cui non si richieda di sollevare questione pregiudiziale), il giudice deve comunque pronunciarsi, in un senso o nell’altro.

In questo senso, occorre sviluppare la regola indicata dalla CGUE, in forza della quale le deduzioni difensive delle parti non condizionano la scelta del giudice in ordine al rinvio pregiudiziale.

Se il rinvio è esercizio di un potere del giudice, la deduzione difensiva circa la necessità del rinvio non è soggetta a preclusioni e, pertanto, può svolgersi anche in sede di discussione finale.

Spetta al giudice verificare se tale deduzione si configuri in concreto, alla luce del suo contenuto, come rituale sviluppo delle domande delle parti, riconducibile alla regola iura novit curia, o rappresenti una domanda nuova, inammissibile.

Rientra poi nei poteri del giudice stabilire se una deduzione difensiva articolata in sede di discussione da una delle parti renda necessario assicurare alle altre parti un congruo lasso di tempo per articolare eventuali difese.

Un ulteriore problema da approfondire riguarda il rapporto tra il giudice e le parti, qualora il rinvio discenda da un’autonoma iniziativa del giudice e non da una richiesta degli interessati.

A stretto rigore, una volta appurato che il rinvio pregiudiziale si colloca sul versante della determinazione della disciplina applicabile al caso concreto, la scelta di investire la Corte non dovrebbe qualificarsi mai come questione rilevata d’ufficio, soggetta alle regole dell’art. 73 CPA, poste a presidio del contraddittorio verticale tra le parti.

Sembra però preferibile assicurare, in ogni caso, il pieno coinvolgimento preventivo delle parti, in vista di una decisione suscettibile, comunque, di orientare i tempi e i contenuti della definizione della controversia.

Peraltro, una volta riconosciuto l’assoggettamento alle garanzie di cui all’art. 73 del CPA, potrebbe risultare problematica l’individuazione dei rimedi impugnatori nei riguardi di una decisione che abbia pronunciato il rinvio senza garantire il previo contraddittorio con le parti.

  1. Il problema della rilevanza o pertinenza della questione e le modalità della sua verifica. La responsabilità esclusiva del giudice nazionale

La Corte conferma anche il proprio indirizzo riguardante il funzionamento del criterio della “pertinenza” della questione.

La decisione afferma che “nell’ambito di un procedimento ex articolo 267 TFUE, basato su una netta separazione di funzioni tra i giudici nazionali e la Corte, il giudice nazionale è l’unico competente a conoscere e valutare i fatti della controversia di cui al procedimento principale nonché ad interpretare e ad applicare il diritto nazionale. Spetta parimenti al solo giudice nazionale, cui è stata sottoposta la controversia e che deve assumersi la responsabilità dell’emananda decisione giurisdizionale, valutare, alla luce delle particolari circostanze della causa, tanto la necessità quanto la rilevanza delle questioni che sottopone alla Corte (sentenze del 26 maggio 2011, Stichting Natuur en Milieu, da C-165/09 a C-167/09, punto 47 nonché giurisprudenza ivi citata; del 9 settembre 2015, X e van Dijk, C-72/14 e C-197/14, punto 57, nonché del 12 maggio 2021, Altenrhein Luftfahrt, C-70/20, punto 25).

In modo perfettamente logico, la CGUE ribadisce che l’obbligo di rinvio non sussiste quando la questione è considerata non pertinente dal giudice nazionale.

Anche in relazione a questo aspetto la motivazione del giudice assume, evidentemente, una valenza centrale. Tuttavia, nella prospettiva della CGUE, l’obbligo di motivazione assume effettiva consistenza soltanto nell’ipotesi in cui il giudice nazionale stabilisca di non effettuare il rinvio.

Il peso della motivazione sulla rilevanza è invece minimo, o nullo, nei casi in cui il rinvio sia stato disposto. In tali circostanze la Corte ritiene di non dover effettuare un controllo circa la concreta pertinenza della questione e nemmeno richiede una motivazione specifica su tale aspetto.

Si può comprendere l’atteggiamento pragmatico seguito dalla Corte, che rafforza le argomentazioni giuridiche poste a sostegno di tale soluzione.

Anzitutto, esso è coerente con la costruzione concettuale, espressa dalla giurisprudenza Cilfit, secondo cui la “non pertinenza” della questione costituisce un’eccezione all’obbligo del rinvio. La “rilevanza” non è configurata come presupposto positivo necessario del rinvio. Semmai è l’accertata “non rilevanza” della questione a rappresentare, negativamente, il requisito indispensabile per esonerare il giudice dall’obbligo del rinvio.

Questa costruzione spiega, poi, perché il tema della pertinenza della questione non emerga quando la questione pregiudiziale sia sollevata dal giudice nazionale di primo grado: non essendo in discussione la portata dell’obbligo di rinvio e le sue deroghe, non occorre verificare il requisito della rilevanza.

Inoltre, la CGUE intende sottolineare che la valutazione di pertinenza è strettamente connessa alla vicenda processuale conosciuta dal giudice nazionale, sicché non compete alla CGUE il potere di verificare se la questione sia davvero rilevante.

Dal punto di vista empirico, del resto, sarebbe davvero inopportuno imporre alla CGUE il gravoso compito di verificare, alla luce degli ordinamenti nazionali, se la questione sia stata ritualmente prospettata, considerando il dispendio di tempo e di energie necessario per tali accertamenti.

Non è estranea a questo consolidato orientamento anche l’esigenza di consentire un più largo accesso alla Corte, che sarebbe limitato dal filtro di rilevanza.

Resta però da osservare che, in tal modo, vi è il rischio di una eccessiva dilatazione dei rinvii pregiudiziali. Inoltre, questioni oggettivamente non pertinenti potrebbero tradursi, nella sostanza, in astratte richieste di pareri interpretativi, staccati dalla concretezza del contenzioso e dall’occasione reale della sua insorgenza.

Non si dubita, invece che la Corte possa (e debba) giudicare non pertinente una questione pregiudiziale quando ciò si colleghi alla prospettazione dello stesso giudice di rinvio, che indichi una graduazione delle questioni o indichi espressamente che talune di esse siano subordinate o conseguenziali all’esito di altra questione pregiudiziale presupponente.

In questo senso, allora la CGUE opera in modo profondamente diverso dalla Corte costituzionale italiana, la quale esercita un penetrante sindacato sulla rilevanza della questione di legittimità costituzionale incidentale, verificando, anche d’ufficio, non solo la completezza formale della motivazione dell’ordinanza di rinvio, ma anche accertando, con pienezza di cognizione, la sussistenza delle condizioni che legittimano il rinvio.

In questa cornice non è possibile stimare quanti siano i casi in cui il giudice italiano di ultima istanza trascuri effettivamente di verificare la pertinenza del quesito pregiudiziale e ometta di darne conto nella pronuncia di rinvio.

In linea di massima, infatti, il giudice tende a descrivere correttamente la vicenda da cui trae origine il problema interpretativo e la necessità di risolvere il dubbio ermeneutico.

Nel caso del Consiglio di Stato, poi, proprio la riscontrata esigenza di prevenire possibili azioni di responsabilità civile, induce a controllare attentamente la possibile influenza dell’interpretazione del diritto UE sulla soluzione della controversia.

Per contro, non sono mancate fattispecie in cui il giudice nazionale abbia proposto questioni inidonee ad incidere sulla decisione finale, perché del tutto estranee alle domande di parti. Si pensi al caso del giudice che dubiti della legittimità comunitaria delle norme nazionali escludenti la partecipazione procedimentale del destinatario di un provvedimento amministrativo, in assenza di una censura riferita a tale violazione.

In prospettiva, comunque, potrebbe essere auspicabile che la Corte esiga una succinta motivazione circa la pertinenza della questione, effettuando un controllo meramente estrinseco (ma non del tutto inutile) sulla valutazione di rilevanza compiuta dal giudice nazionale.

  1. Conclusioni

La CGUE ha fornito risposte molto chiare al quesito processuale posto dal Consiglio di Stato, attribuendo spazio determinante all’autonomia procedurale dello Stato membro, nonché alla responsabilità decisionale del giudice nazionale.

La pertinenza della questione va accertata tenendo conto delle regole processuali che fissano decadenze e preclusioni incidenti sulla delimitazione del thema decidendum.

Sarà compito del Consiglio di Stato individuare concretamente le ipotesi in cui la deduzione di parte che sollecita il rinvio pregiudiziale possa considerarsi pertinente ai fini della decisione.

Secondo altra prospettiva, il rafforzamento dell’obbligo di motivazione del mancato rinvio, insieme all’indicazione del confronto orizzontale con le normative e la giurisprudenza degli altri ordinamenti nazionali apre nuovi scenari in cui andrà affinata la tecnica di corretta elaborazione delle pronunce del giudice italiano relative a questioni di rilevanza comunitaria.

L’integrazione tra diritto eurounitario e ordinamenti nazionali risulterà più armonica, irrobustendo il già proficuo dialogo tra le Corti.

[1] Questa è la conclusione cui perviene la Corte. “L’articolo 267 TFUE deve essere interpretato nel senso che un giudice nazionale avverso le cui decisioni non possa proporsi ricorso giurisdizionale di diritto interno deve adempiere il proprio obbligo di sottoporre alla Corte una questione relativa all’interpretazione del diritto dell’Unione sollevata dinanzi ad esso, a meno che constati che tale questione non è rilevante o che la disposizione di diritto dell’Unione di cui trattasi è già stata oggetto d’interpretazione da parte della Corte o che la corretta interpretazione del diritto dell’Unione s’impone con tale evidenza da non lasciare adito a ragionevoli dubbi.

La configurabilità di siffatta eventualità deve essere valutata in funzione delle caratteristiche proprie del diritto dell’Unione, delle particolari difficoltà che la sua interpretazione presenta e del rischio di divergenze giurisprudenziali in seno all’Unione.

Tale giudice non può essere esonerato da detto obbligo per il solo motivo che ha già adito la Corte in via pregiudiziale nell’ambito del medesimo procedimento nazionale.

Tuttavia, esso può astenersi dal sottoporre una questione pregiudiziale alla Corte per motivi d’irricevibilità inerenti al procedimento dinanzi a detto giudice, fatto salvo il rispetto dei principi di equivalenza e di effettività.

[2] Si veda il lucido commento di F. Ferraro, Corte di giustizia e obbligo di rinvio pregiudiziale del giudice di ultima istanza: nihil sub sole novum, GiustiziaInsieme.

[3] La Corte ritiene di dichiarare irricevibili le ulteriori questioni pregiudiziali sollevate dal Consiglio di Stato non già per la loro non pertinenza processuale, ma per un’altra ragione assorbente:

La Corte giudica irricevibili le questioni proposte, poiché l’ordinanza di rinvio “continua, in violazione dell’articolo 94, lettera c), del regolamento di procedura, a non esporre con la precisione e la chiarezza richieste i motivi per cui ritiene che l’interpretazione dell’articolo 3 TUFE nonché dell’articolo 26 e l’articolo 101, paragrafo 1, lettera e), TFUE, gli sembri necessaria o utile ai fini per dirimere la controversia di cui al procedimento principale, e neppure il collegamento tra il diritto dell’Unione e la legislazione nazionale applicabile a tale controversia. Tale giudice non precisa neppure i motivi che l’hanno portato a interrogarsi sull’interpretazione delle altre disposizioni e degli atti menzionati nella seconda e nella terza questione sollevate, tra i quali figura, in particolare, la Carta sociale europea, che la Corte non è peraltro competente a interpretare”.