GIANCARLO CIRICUGNO
La revoca delle posizioni organizzative nei Comuni privi di dirigenza
Il secondo comma dell’art. 109 del Decreto Legislativo 267/2000 (Testo Unico Enti Locali) prevede che, nei comuni privi di personale con qualifica dirigenziale, spetta al sindaco l’individuazione, con provvedimento motivato, dei soggetti competenti ad esercitarle, scegliendoli tra:
a) il segretario comunale, attribuendo ad esso ulteriori competenze ai sensi della lettera d) del comma 4 dell’art. 97 del medesimo testo normativo;
b) ai responsabili degli uffici o servizi, indipendentemente dalla loro qualifica, anche in deroga a ogni diversa disposizione.
La norma del testo unico riprende le disposizioni del comma 10 dell’art. 2 della Legge 191/1998, attraverso le quali il Legislatore, conformemente al principio di separazione delle competenze tra organi politici e dirigenti, introdotto dall’art. 51 della Legge 142/1990 e ripreso dal 1° comma dell’art. 107 del Decreto Legislativo 267/2000, ha risolto il problema della distinzione delle competenze negli enti privi di qualifica dirigenziale.
Dal principio della separazione o distinzione delle competenze deriva che il divieto posto agli organi di governo di assumere atti di gestione, salva la deroga di cui all’art. 53 comma 23 della Legge 388/2000 – che, costituendo eccezione ad una regola generale, deve essere interpretata restrittivamente – determina un preciso assetto nel quale le competenze burocratiche costituiscono attribuzione esclusiva dei dirigenti (o responsabili dei servizi), individuati dal sindaco secondo canoni di trasparenza e buona amministrazione.
Nei comuni privi di figure dirigenziali, l’articolo 109 comma 2 TUEL consente al sindaco, che non si sia avvalso della facoltà di cui all’art. 97 comma 4 lett. d) affidando (in tutto o in parte) le competenze gestionali al segretario comunale, di attribuire ai responsabili degli uffici e dei servizi le funzioni dirigenziali (definite dai commi 2 e 3 dell’art. 107).
La disposizione contenuta nell’art. 109, comma 2, del testo unico consente così, nelle realtà locali minori, di realizzare l’ormai consolidato principio generale dell’ordinamento amministrativo di separazione tra funzioni di indirizzo, spettanti agli organi politici, ed attribuzioni gestionali, demandate all’apparato burocratico: essa presenta contenuto sostanzialmente analogo al primo comma ove si riconosce in capo al sindaco il potere, nei Comuni dotati di dirigenti, di conferimento e revoca degli incarichi dirigenziali.
Coerente con detta previsione è il CCNL (siglato il 31/3/1999) che prevede, per figure professionali appartenenti alla categoria direttiva, l’istituzione dell’area delle posizioni organizzative, ovvero l’individuazione di posizioni di lavoro che richiedono, come recita l’art. 8, l’assunzione diretta di elevata responsabilità di prodotto e di risultato, lo svolgimento di funzioni di direzione o di attività con contenuti di alta professionalità e specializzazione, o lo svolgimento di attività di staff, di studio, ricerca, ispettive, di vigilanza e controllo. Ai sensi del successivo art. 9, comma 1, detti incarichi possono essere conferiti per un periodo “non superiore a 5 anni, previa determinazione di criteri generali da parte degli enti, con atto scritto e motivato e possono essere rinnovati con le medesime formalità”.
Il comma 3 del citato articolo 9 dispone che “gli incarichi possono essere revocati prima della scadenza con atto scritto e motivato, in relazione a intervenuti mutamenti organizzativi o in conseguenza di specifico accertamento di risultati negativi” che ha luogo secondo una procedura valutativa modellata sulla responsabilità dirigenziale.
In quest’ultima ipotesi, che riguarda la revoca per ragioni soggettive, sarà evidentemente necessario accertare la “responsabilità colpevole” dell’incaricato per non essere riuscito a conseguire gli obiettivi e i risultati prefissati [1].
Al di fuori di detta fattispecie, è evidente che la revoca dell’incarico della posizione organizzativa esclusivamente per “intervenuti mutamenti organizzativi” e dunque per ragioni oggettive, comporta la soppressione della posizione organizzativa conferita nel rispetto delle regole dell’art. 9 del contratto collettivo di lavoro, che richiede la “previa determinazione di criteri generali da parte degli enti”.
Come si è rilevato, nei comuni al di sopra dei 5.000 abitanti – non rientranti nella deroga di cui all’art. 53 comma 23 della Legge 388/2000 – l’assenza di personale con qualifica dirigenziale ha come unica alternativa l’assegnazione delle funzioni al segretario comunale, in applicazione dell’art. 97, comma 4, lettera d) del testo unico.
A tal proposito si pone il problema se sia possibile la revoca per “intervenuti mutamenti organizzativi” qualora il sindaco, rivedendo il proprio provvedimento di assegnazione di funzioni e in assenza di effettive modificazioni organizzative in seno all’Ente, intenda attribuire al segretario le funzioni dirigenziali. Sembrerebbe che tale ipotesi debba escludersi.
In primo luogo, occorre rilevare che l’atto di revoca è strutturalmente e funzionalmente legato al provvedimento di incarico che ne stabilisce la durata e disciplina le obbligazioni ricadenti sulle parti. Si tratta, nell’ipotesi di revoca dettata da ragioni soggettive, di un atto sostanzialmente punitivo o sanzionatorio, legato ad un comportamento colpevole e negligente dell’incaricato della posizione organizzativa, che non ha osservato le direttive e non ha raggiunto i risultati proposti, e come tale necessita di un’adeguata motivazione in ordine alle ragioni che hanno portato ad una revoca anticipata.
Inoltre, con precipuo riferimento alla formula “per intervenuti mutamenti organizzativi”, se si ritenesse legittima la revoca anticipata in assenza dei presupposti previsti dalla contrattazione collettiva, si ammetterebbe la possibilità di eludere la norma contenuta nell’ultima parte del 3° comma dell’art. 9 del CCNL, che richiede lo specifico accertamento dei risultati negativi da parte del soggetto nei cui confronti si procede. E’ evidente che l’obbligo di idonea motivazione è posto a salvaguardia del riconoscimento della professionalità e della qualità delle prestazioni lavorative individuali, conformemente agli obiettivi sanciti dall’art. 2 del contratto di lavoro del personale degli enti locali. In ordine all’espressione “per intervenuti mutamenti organizzativi”, contenuta nel 3° comma dell’art. 9, è pacifico che trattasi di mutamenti organizzativi che modificano l’organizzazione degli uffici e servizi esistente al momento del conferimento dell’incarico relativo alla posizione organizzativa. Pertanto, risulterebbe illegittimo il provvedimento di revoca assunto in assenza della modifica dell’ordinamento degli uffici e servizi deliberato ai sensi dell’art. 48 comma 3 del Testo Unico Enti Locali.
Ne deriva che può essere valutato “come legittimo l’esercizio del potere di revoca solo ove esso sia sorretto da idonee ragioni organizzative e produttive”, ancorché originate da specifiche inadempienze del soggetto nei cui confronti si procede [2].
Le conclusioni cui si è giunti appaiono poi confermate dal rapporto complessivo tra potere di autotutela della P.A. e contrattualizzazione del pubblico impiego. Invero, la questione va evidentemente affrontata alla luce della normativa che ha disposto la privatizzazione del rapporto di lavoro presso le Pubbliche Amministrazioni.
Occorre rilevare, in particolare, che, ai sensi dell’art. 4 del D.Lgs. 29/1993 (così come modificato dall’art. 4 del D.Lgs. 80/1998 e pedissequamente trasfuso nell’art. 5 del D.Lgs. 165/2001), “le determinazioni per l’organizzazione degli uffici e le misure inerenti alla gestione dei rapporti di lavoro” sono assunte dalle Pubbliche Amministrazioni “con la capacità e i poteri del privato datore di lavoro”.
Ciò sta a significare che, a seguito della “contrattualizzazione del pubblico impiego”, la Pubblica Amministrazione ha abbandonato la tradizionale posizione di supremazia nei confronti dei dipendenti pubblici, collocandosi in posizione paritetica rispetto a questi ultimi.
Questa profonda innovazione, intervenuta già con il D.Lgs. 29/1993, ampliata dal D.Lgs. 80/1998, confermata dal D.Lgs. 165/2001, ha portato giurisprudenza e dottrina ad affermare che, nell’organizzazione degli uffici e nella gestione dei rapporti di lavoro, la P.A., in linea di principio, non ha più alcun potere generale di autotutela, atteso l’inscindibile nesso tra tale potestà e la posizione di preminenza che solitamente gli enti pubblici assumono nei confronti dei privati cittadini.
La giurisprudenza civile ha rilevato che “con la privatizzazione del rapporto di lavoro la Pubblica Amministrazione agisce con i poteri e la capacità del privato datore di lavoro, pertanto, è da escludersi che residui in capo ad essa un potere di autotutela, consistente nella revoca di un atto di gestione del personale per esigenze pubbliche” [3].
Il medesimo orientamento è stato assunto dai Giudici amministrativi [4] e risulta ampiamente condiviso dalla dottrina.
Quest’ultima ha correttamente evidenziato che “il concetto di autotutela implica una posizione di preminenza – o, almeno, di supremazia – dell’amministrazione ed è relativo ad atti amministrativi. Per tali motivi, occorre negare la stessa possibilità di attività di autotutela dell’amministrazione nell’ambito del lavoro pubblico contrattualizzato” [5].
Si è osservato, in primo luogo, che gli atti di gestione del lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni sono atti di diritto privato e non atti amministrativi, il che è di per sé sufficiente ad escludere la possibilità di un atto di autotutela, che in tanto può aversi in quanto sia dato, appunto, un atto amministrativo su cui lo stesso vada ad incidere.
“La privatizzazione del lavoro pubblico (…) ha comportato che l’amministrazione agisca nella gestione dei rapporti di lavoro <<con i poteri e la capacità del privato datore di lavoro>> e che, di conseguenza, si ponga nei confronti del dipendente in posizione di parità e non di supremazia, come avveniva nel vecchio modello autoritativo. Ciò significa che l’amministrazione agisce iure privatorum in virtù di obbligazioni derivanti da atti negoziali che ricadono interamente nell’area privatistica e che (…) non possono essere revocati unilateralmente, sulla base di esigenze pubbliche o scelte discrezionali, ma possono essere soltanto impugnati per vizi tipici del negozio” [6].
Questo breve excursus dottrinale e giurisprudenziale non ha certo il fine di negare la possibilità che la P.A. eserciti un potere di revoca nelle fattispecie in cui ciò sia previsto da un’espressa disposizione contenuta in un testo di legge o in un CCNL, bensì di sostenere la necessità di un’interpretazione restrittiva di tali norme. Pertanto, tornando specificamente all’ipotesi in esame, gli incarichi relativi alle posizioni organizzative possono certamente essere revocati, ma solo ed esclusivamente nei casi espressamente individuati dalla contrattazione collettiva (“in relazione a intervenuti mutamenti organizzativi o in conseguenza di specifico accertamento di risultati negativi”), che vanno interpretati, come si è detto, in maniera restrittiva, pena la violazione della stessa ratio della privatizzazione del pubblico impiego.
Alla luce delle suesposte considerazioni, appare ragionevole ritenere che con l’espressione “intervenuti mutamenti organizzativi” il CCNL abbia inteso fare riferimento ad una reale modificazione di carattere organizzativo introdotta nell’ambito dell’Ente e non ad un semplice “ripensamento” da parte della P.A.. In caso contrario, si riconoscerebbe all’Amministrazione una sorta di “potere di recesso unilaterale” incompatibile con la struttura paritaria ormai acquisita dal rapporto di pubblico impiego.
La modifica o la revoca dell’incarico, pertanto, non può che avvenire a seguito di un accordo tra le parti (P.A. e impiegato incaricato), in virtù di quanto espressamente disposto dall’art. 1372 del Codice Civile, secondo cui: “Il contratto ha forza di legge tra le parti. Non può essere sciolto che per mutuo consenso o per cause ammesse dalla legge”.
La potestà dell’amministrazione di modificare unilateralmente la posizione organizzativa conferita risulta, quindi, “legata al verificarsi dei presupposti previsti dalla legge e dai contratti collettivi che la legittimano in tal senso” [7].
Quest’ultima affermazione appare confermata da un recente intervento giurisprudenziale, proprio in materia di revoca di posizioni organizzative in un comune privo di dirigenza, in cui il Giudice del lavoro ha ritenuto legittima una revoca dell’incarico conseguente alla modificazione della struttura organica dell’Ente, in quanto, così operando, l’Amministrazione “non vìola né la legge, né il CCNL del 31 marzo 1999, il quale ribadisce la temporaneità dell’incarico e ne legittima la revoca prima della scadenza <<in relazione ad intervenuti mutamenti organizzativi>> (art. 9, comma 3)” [8].
La dottrina ha in merito precisato che la revoca per intervenuti mutamenti organizzativi si ha “quando, a seguito di ristrutturazioni della struttura dell’ufficio, intervenute in corso di attività, emerge un nuovo modello organizzativo con la ricollocazione di funzioni (accorpamenti, divisione di funzioni, spostamenti di competenza) che incide sull’attività che forma oggetto di posizione organizzativa. In tal caso, se la modifica organizzativo-istituzionale è tale da rendere inattuabile l’attività che forma oggetto di posizione organizzativa, questa può essere revocata, ferma restando la possibilità di rinegoziare l’incarico adattandolo, laddove ciò sia possibile, al nuovo contesto organizzativo” [9].
A ciò è necessario aggiungere che giurisprudenza e dottrina concordano nell’affermare che al conferimento ed alla revoca di posizioni organizzative in comuni privi di dirigenza è necessario applicare i medesimi principi sanciti in ordine all’attribuzione ed alla revoca di incarichi dirigenziali. A conferma di tale prospettazione si è rilevato che “il contratto collettivo rievoca, per l’area delle posizioni organizzative, molti elementi propri della normativa dell’area dirigenziale: temporaneità dell’incarico, valutazione dei risultati (…), retribuzione collegata alla posizione e ai risultati (art. 9 CCNL)” [10].
Ciò sta a significare evidentemente che i principi elaborati dalla giurisprudenza in ordine alla revoca del conferimento degli incarichi dirigenziali rappresentano coordinate imprescindibili anche per la diversa ma analoga fattispecie della revoca di posizioni organizzative nell’ambito di enti privi di dirigenza.
La giurisprudenza ha in merito affermato che “è illegittima la revoca anticipata dell’incarico conferito a dirigente comunale, laddove l’amministrazione non dimostri – ai sensi dell’art. 13 CCNL Enti locali – l’esistenza di comprovate esigenze organizzative o produttive, essendo a tal fine insufficiente la mera vacanza di altro posto” [11].
Ed ancora: “La modifica dell’incarico dirigenziale concordato non può avere luogo sino alla scadenza se non per mutamenti consensuali, ovvero per volontà unilaterale dell’amministrazione in ipotesi legittimanti la revoca, previste dalla legge e dalla contrattazione collettiva per ragioni soggettive, oppure per ragioni obiettive, di natura organizzativa e produttiva” [12].
Un forte richiamo ai principi civilistici dettati in materia contrattuale si rinviene poi in un’ulteriore recente pronuncia secondo cui: “La P.A. deve oggi operare secondo i principi di buona fede e correttezza nella gestione dei rapporti di lavoro, al cui rispetto è chiamato ogni contraente nell’esecuzione di un contratto” [13]. Solo un ampio ed articolato utilizzo del concetto di buona fede contrattuale – afferma il Giudice del lavoro nella sentenza – può consentire di garantire al lavoratore alle dipendenze della P.A. un livello di tutela analogo a quello goduto dal pubblico impiegato prima della riforma attraverso il controllo di legittimità esercitato dal Giudice amministrativo con l’istituto dell’eccesso di potere. Se ciò è vero, come è vero, gli enti debbono informare i dirigenti sui criteri di conferimento e revoca dei relativi incarichi in conseguenza di scelte organizzative che si apprestano ad adottare. In mancanza, l’atto attuativo di atti generali di (ri)organizzazione da cui discenda la revoca dell’incarico senza adeguata motivazione è connotato da illegittimità [14].
La giurisprudenza che, invece, riconosce ancora importanti connotati pubblicistici al rapporto di pubblico impiego sostiene che “è illegittimo il provvedimento di revoca dell’incarico di dirigente comunale, qualora sia adottato senza la necessaria preventiva comunicazione all’interessato dell’avvio del relativo procedimento, ai sensi dell’art. 7 della L. 241/1990” [15].
Di contrario avviso appare in merito l’orientamento secondo cui “l’atto di revoca delle funzioni dirigenziali e di conferimento al dirigente di altro incarico ha natura di atto privatistico soggetto al regime del diritto civile” [16]. Conseguentemente si afferma che l’obbligo di comunicare l’avvio del procedimento di revoca, ai sensi dell’art. 7 della L. 241/1990, non appare più compatibile con la natura privata del rapporto di lavoro dei dipendenti pubblici [17].
In conclusione, come è stato rilevato in dottrina, se il rapporto di pubblico impiego è da ricostruire come rapporto consensuale di diritto privato, “lo spazio per azioni unilaterali degli enti si riduce sensibilmente, fin quasi ad azzerarsi”[18]. Occorre prendere atto, pertanto, che la posizione di coloro i quali sono stati investiti da posizioni organizzative (così come quella dei dirigenti) è garantita dal contratto stipulato. La rideterminazione degli incarichi, quindi, non potrà mai essere realizzata prescindendo dai presupposti stabiliti dalla legge e dalla contrattazione collettiva.
[1] PETRONE I., La revoca dell’incarico dirigenziale, in www.filodiritto.com.
[2] Tribunale Napoli, ord. 2 dicembre 2002.
[3] Tribunale Genova, 26 maggio 2000; conformi: Tribunale Genova, 19 agosto 1999; Pretore Venezia, ord. 21 aprile 1999.
[4] TAR Lazio, sez. Latina, 4 dicembre 1996, n. 927; conformi: TAR Lazio, sez. Latina, 15 ottobre 1997, n. 977; TAR Toscana, sez. I, 20 luglio 1999, n. 707.
[5] RICCARDI A., Contrattualizzazione del rapporto di lavoro e autotutela dell’amministrazione, in Il lavoro nelle Pubbliche Amministrazioni, 1999, II, 380 ss.
[6] PACI N., Sulla revoca del trasferimento del dipendente: dall’“autotutela” della P.A. all’art. 2103 c.c., in Il lavoro nelle Pubbliche Amministrazioni, 2000, II, 928 ss.; cfr. anche FONTANA G., L’autotutela della Pubblica Amministrazione ed il trasferimento del dipendente pubblico, in Il lavoro nelle Pubbliche Amministrazioni, 2000, II, 135 ss.
[7] OLIVERI L., Il sistema degli incarichi dirigenziali e delle revoche alla luce delle interpretazioni del giudice del lavoro, in Giust.it, 2000, n. 8; si veda, inoltre, VERGINE F., La dirigenza e le posizioni organizzative nell’Ente locale e nello Stato. Il conferimento e la revoca dell’incarico, in Giust.it, 2002, n. 3
[8] Tribunale Catania, ord. 29 gennaio 2002.
[9] SODA L., Le posizioni organizzative: un caso di middle management nel lavoro pubblico?, in www.db.formez.it.
[10] OTTOLINA I., Margini di tutela legale e contrattuale per un caso di revoca dell’incarico per le posizioni organizzative in un comune privo di dirigenza, in Il lavoro nelle Pubbliche Amministrazioni, 2002, II, 336.
[11] Tribunale Milano, 31 ottobre 2001.
[12] Tribunale Venezia, 8 giugno 2000.
[13] Tribunale S. Angelo dei Lombardi, 10 maggio 2001.
[14] La necessità di esplicitare le ragioni che hanno indotto l’Amministrazione alla revoca dell’incarico viene sottolineata anche dalla dottrina: si veda in particolare NAVILLI M., Incarichi dirigenziali negli Enti locali, motivazione dell’atto e tutela cautelare, in Il lavoro nelle Pubbliche Amministrazioni, 2000, II, 244 ss.
[15] Tribunale Paola, 8 maggio 2000.
[16] Tribunale Nocera Inferiore, 30 marzo 2000.
[17] Tribunale Catania, 9 maggio 2000; conformi: TAR Campania, Napoli, sez. IV, 17 novembre 1999, n. 2984; TAR Toscana, sez. I, 18 giugno 1999, n. 497.
[18] OLIVERI L., Il sistema degli incarichi dirigenziali e delle revoche alla luce delle interpretazioni del giudice del lavoro, cit.