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Articoli e note
n. 12-2002

PAOLO EVANGELISTA
(Sostituto Procuratore Generale presso la Procura Regionale
della Corte dei conti per la Lombardia
)

Il principio di separazione tra attività di indirizzo-politico e attività gestionale nell’ordinamento degli enti locali territoriali. I riflessi nell’esercizio dell’azione di responsabilità amministrativa-contabile (*).

1. Principi generali sul riparto di competenze negli enti territoriali alla luce del quadro di riferimento normativo.

Con l’art. 107 [1] del D.Lgs. 18.8.2000, n. 267 possiamo ritenere definitivamente fissato e cristallizzato, nell’ordinamento degli Enti locali territoriali, il principio della separazione tra attività di indirizzo e controllo politico, di competenza degli organi elettivi o di governo, ed attività di gestione, di competenza dei dirigenti e, ove non presenti in organico, dei responsabili degli uffici e dei servizi.

 Le istanze di rinnovamento del sistema delle Autonomie Locali, alla ricerca di un nuovo modello di governo locale in grado di coniugare ad un tempo democrazia, partecipazione ed efficienza, sembrano aver trovato un approdo definitivo [2].

Momenti significativi dell’affermazione di detto principio sono stati, in via generale il D.Lgs. 3.2.1993, n. 23 – ora riformulato e coordinato nel D.Lgs. 30.3.2001, n.165 – il D.Lgs. 31.3.1998, n.80, che ha espressamente enunciato che tutte le competenze già attribuite agli organi di governo devono essere intese ipso iure trasferite all’apparato burocratico, la legge 15.5.1997, n. 127, che ha modificato l’art. 53 della legge 8.6.1990, n. 142 ed ha previsto l’elencazione in via esemplificativa di una serie di materie ascritte alla competenza funzionale dei vertici burocratici dell’Ente, la legge 16.6.1998, n. 191, che ha integrato la suddetta elencazione e, da ultimo, il citato D.Lgs. 267/2000 .

 In estrema sintesi al Consiglio Comunale compete l’attività di macro-programmazione: in materia finanziaria, tributaria e patrimoniale, che si realizza mediante l’adozione del bilancio; in materia urbanistica, che si realizza mediante l’adozione del piano regolatore generale e relative varianti; in materia di opere pubbliche, che si realizza mediante l’adozione del programma dei lavori pubblici; in materia di politiche del personale e di sviluppo delle risorse umane, che si realizza mediante l’adozione del programma triennale delle assunzioni e l’adozione dei criteri generali per l’organizzazione degli uffici e dei servizi; in materia di modalità di gestione dei servizi da erogare alla collettività ed in materia di cooperazione con altri enti locali.

 La Giunta Comunale, invece, collabora con il Sindaco nell’attività di elaborazione degli strumenti di programmazione che andranno sottoposti all’approvazione del Consiglio e nell’esecuzione delle scelte operate dal Consiglio, ciò anche con l’adozione di atti di programmazione delle risorse finanziarie, strumentali ed umane, quali il regolamento degli uffici e dei servizi ed il piano esecutivo di gestione.

 L’attuazione delle scelte elaborate in sede di programmazione ed il perseguimento degli obiettivi individuati dagli organi elettivi compete ai soggetti preposti alla gestione ovvero al direttore generale ed ai dirigenti; spettano pertanto a questi ultimi tutti i compiti, compresa l’adozione di atti che impegnano l’amministrazione verso l’esterno, che la legge e lo statuto espressamente non riservino agli organi di governo dell’ente – l’art. 107 comma 3 provvede anche ad una elencazione esemplificativa di detti atti gestionali .

 Tra le pronunce del giudice contabile che richiamano la rilevanza del principio in argomento si segnala quella della Sezione giurisdizionale per la regione Molise che così si è espressa: “Dalla netta ripartizione delle funzioni e delle responsabilità …deriva, peraltro, il principio secondo cui la responsabilità amministrativa va accertata con specifico riferimento alle competenze degli organi o degli uffici , con la conseguenza che, allorché il danno erariale è riconducibile a fatti di gestione commissivi o omissivi, rientranti nella competenza degli uffici, la relativa responsabilità va imputata esclusivamente ai dirigenti o ai responsabili stessi.

Ciò peraltro, se da un lato riafferma con chiarezza la diretta responsabilità dei dirigenti o responsabili degli uffici o dei servizi comunali per gli atti o fatti di gestione di loro specifica competenza , dall’altro non significa che gli organi elettivi siano sempre ed in ogni caso esenti da responsabilità in relazione agli stessi fatti. Ed infatti, ferma rimanendo la distinzione di ruolo e di competenza degli organi elettivi rispetto agli organi burocratici dell’ente locale, e la conseguente responsabilità dei primi sul piano politico più che sul piano tecnico, occorre ricordare che gli organi elettivi possono comunque essere chiamati a rispondere del danno allorché esso sia direttamente riconducibile agli atti di programmazione, di indirizzo o di controllo che la legge riserva alla loro competenza” [3].

 La stessa Sezione ha osservato che “sulla base dei principi elaborati dalla giurisprudenza in materia di nesso di causalità…la responsabilità amministrativa per fatti o atti da cui sia derivato un danno patrimoniale per le finanze dell’ente locale va accertata sulla base delle specifiche competenze, rispettivamente, degli organi elettivi e degli organi burocratici stabilite dalla normativa vigente, essendo chiaro che ognuno può essere chiamato a rispondere, sul piano omissivo, solo per gli atti di propria competenza”.

 Anche in dottrina è stato evidenziato che “allorché, in base al principio del nesso di causalità, il danno subito dalle finanze comunali sia riconducibile ad atti di programmazione o di indirizzo, di competenza degli organi di governo, possono essere questi ultimi a rispondere, ricorrendo le altre condizioni previste dalla legge, del relativo risarcimento del danno alle finanze dell’ente locale” [4].

 Ma se è vero che “la parola usata ‘indirizzo’ sta a designare qualcosa non solo di molto diverso dall’ordine, che è puntuale e tassativo, ma anche di meno incisivo della stessa direttiva” e che “il ‘controllo’ va inteso come un controllo globale, e successivo, centrato particolarmente sugli obiettivi che vanno raggiunti e sulla correttezza ed efficienza dell’azione spiegata a questo fine” [5], appare difficilmente ipotizzabile, seguendo questo ragionamento, una responsabilità amministrativa dell’organo di governo che si è attenuto scrupolosamente e strettamente alle proprie attribuzioni, non rinvenendosi, in ogni caso, il c.d. ‘nesso di causalità’ con l’eventus damni .

 Al riguardo giova altresì rammentare che “le direttive, a differenza degli ordini, non comportano prescrizioni concrete e puntuali, ma si limitano a determinare gli obiettivi e i criteri dell’attività del loro destinatario. Questi ha un ampio margine di valutazione, non solo riguardo alle modalità ed ai tempi della sua azione, ma anche in ordine alla possibilità di disattendere le direttive, allorché ragioni di pubblico interesse lo spingono a discostarsene purché ottemperi all’obbligo di motivazione…Quanto al potere di controllo dell’autorità sovraordinata, esso non potrà riguardare singoli atti, ma l’intera attività o i risultati conseguiti dall’organo soggetto alla direzione”[6].

 In realtà l’emersione di profili di responsabilità degli Organi di governo nell’espletamento dell’attività gestionale degli Enti territoriali non sembra così improbabile, in considerazione degli aspetti che andremo ad approfondire di seguito.

L’ingerenza di fatto degli Organi di governo nell’attività gestionale

Innanzitutto è da evidenziare che il nesso di causalità tra attività degli Organi di governo ed eventus damni sussiste ogni qual volta si riscontri un’attività di ingerenza di fatto negli adempimenti di competenza dell’apparato burocratico; in questo ambito i problemi si pongono esclusivamente in tema di acquisizione di elementi probatori e, ovviamente, in sede di accertamento dell’elemento psicologico della colpa grave.

 E’ stato osservato in proposito che “al controllo strategico vengono assegnati compiti di particolare rilievo quale delicatissimo snodo tra funzione e organi di indirizzo e attività gestionale, nell’intento di assicurare un momento di collegamento e di valutazione funzionale a ricalibrare gli indirizzi del vertice politico; nell’esercizio di tale delicata funzione vanno evitati i rischi di una possibile intromissione nell’area propria delle scelte e delle responsabilità dirigenziali, la cui autonomia è fortemente evidenziata dalla recente legislazione e che peraltro non sembra sempre nella prassi, soprattutto nelle amministrazioni locali, agevolmente e compiutamente realizzata” [7].

 L’attività istruttoria del P.M. contabile, in quest’ottica, deve essere sempre mirata ad accertare in concreto - anche in assenza di condotte penalmente rilevanti - se è stata esercitata un’azione di reale programmazione e controllo strategico degli Amministratori e non “la surrettizia gestione attraverso atti di indirizzo che finiscono per essere decisioni predeterminate, da far ratificare alla dirigenza” [8].

Le deroghe (o incrinature) al principio di separazione tra attività di indirizzo e controllo ed attività gestionale. Il caso dei Comuni di minore entità

Ulteriore aspetto da tenere in considerazione è che le dimensioni della maggioranza dei Comuni italiani sono ridotte o ridottissime per cui “la riforma ha prodotto tal volta su tali enti effetti indesiderati particolari, che si assommano a quelli provocati negli enti di maggiori dimensioni” [9]; si pensi ad esempio alla non infrequente assenza, nell’organico di detti Enti, di figure professionali con adeguata competenza in relazione alla complessità di adempimenti tecnico-amministrativi [10].

 In un primo momento, in verità, il legislatore non sembra avesse tenuto in considerazione la realtà organizzativa degli Enti di minore dimensione, avvertendo l’esigenza primaria di affermare e ribadire il principio di netta separazione tra politica e amministrazione: si pensi all’abrogazione, con l’emanazione dell’art. 3, comma 1, del D.Lgs. 23.10.1998, n.410, dell’art. 19 del D.Lgs. 25.2.1995, n.77 – integrato dall’art. 6 del D.Lgs. 11.6.1996, n. 36 – che consentiva ai membri della giunta , e quindi al sindaco ed ai singoli assessori dei comuni con popolazione inferiore a 10.000.000 abitanti, lo svolgimento di attività gestionale previa adozione di atti di determinazione, di liquidazione, di autorizzazione o concessione.

 Con la legge finanziaria 2001 tuttavia è avvenuto un primo revirement o deroga al quadro coerentemente delineato in precedenza dal legislatore, a seguito di introduzione nell’ordinamento di una disposizione la cui formulazione appare del tutto simile a quella del citato art. 19 del D.Lgs. n.77/1995.

 L’art. 53, comma 23 della legge 23.12.2000, n. 388, ha infatti previsto che “gli enti locali con popolazione inferiore ai 3.000 abitanti fatta salva l’ipotesi di cui all’art. 97, comma 4, lett. d), del testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali, approvato con D.Lgs. n.267/2000 [11], che riscontrino e dimostrino la mancanza non rimediabile di figure professionali idonee nell’ambito dei dipendenti, anche al fine di operare un contenimento della spesa, possono adottare disposizioni regolamentari organizzative, se necessario anche in deroga a quanto disposto all’art. 3, commi 2,3 e 4, del D.Lgs. n.29/1993 e all’art. 107 del predetto testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali, attribuendo ai componenti dell’organo esecutivo la responsabilità degli uffici e dei servizi ed il potere di adottare atti anche di natura tecnica gestionale. Il contenimento della spesa deve essere documentato ogni anno, con apposita deliberazione, in sede di approvazione del bilancio”.

 Ulteriore forte ripensamento del legislatore è avvenuto con l’entrata in vigore dell’art. 29, comma 4, della legge 28.12.2001, n. 448 che non solo ha esteso l’applicazione della deroga suddetta ai Comuni con popolazione inferiore ai 5.000 abitanti, ma anche previsto una procedura meno rigorosa, laddove ha abolito l’obbligo motivazionale in merito all’assenza “non rimediabile” di figure professionali idonee nell’organico dell’Ente [12].

 E’ pertanto attualmente consentito nei Comuni con popolazione inferiore ai 5.000 abitanti – circa il 40% dei Comuni italiani – lo svolgimento di attività tecnica gestionale da parte di Assessori-responsabili di servizio, a conferma della progressiva ‘erosione’ del principio di separazione tra politica e amministrazione negli enti locali territoriali.

Lo svolgimento di attività politica-gestionale o di amministrazione ‘attiva’ degli Organi elettivi.

Un terzo aspetto meritevole di approfondimento, al fine di ipotizzare profili di responsabilità amministrativa ‘direttamente’ imputabili agli Organi politici, eventualmente in concorso con i soggetti che hanno svolto attività istruttoria, consultiva e/o propositiva, è quello messo in luce in una sentenza della Sezione Giurisdizionale della Toscana [13] del 1997, laddove viene esaminata l’attività svolta dalla giunta comunale in sede di approvazione di progetto di opera pubblica.

 La Sezione in particolare, dopo aver evidenziato che l’atto di approvazione progettuale, propedeutica all’espletamento della gara d’appalto, è da considerarsi - secondo la più autorevole dottrina – quale manifestazione di amministrazione attiva e non di controllo, ha affermato che “appartiene alla esclusiva competenza dell’organo di governo dell’ente esprimere il giudizio estimativo che, previa valutazione degli elementi tecnici forniti dall’organo consultivo e ponderazione degli interessi coinvolti nella realizzazione dell’opera, si estrinseca nell’approvazione del progetto. Ciò induce a ritenere improprio il richiamo all’art. 1 c. 1 ter, della l. 20/1994, così come introdotto dalla L. n. 639/1996, nella parte in cui prevede che nel caso di atti che rientrano nella competenza propria degli uffici tecnici o amministrativi la responsabilità non si estende ai titolari degli organi politici che in buona fede li abbiano approvati ovvero ne abbiano autorizzato o consentito l’esecuzione”.

 Alle medesime conclusione perviene parte della dottrina che sottolinea, in primo luogo, che “non sempre, nell’attuale assetto normativo complessivamente inteso, gli organi di governo a composizione collegiale adottano atti ai quali è immanente la natura di atti di indirizzo o di controllo politico-amministrativo, come sembra di primo acchito esigere l’art. 107, comma 1, del D.Lgs. n.267/2000” [14].

 “V’è infatti da chiedere – precisa l’autore – come si possa sostenere che l’approvazione di un progetto preliminare, definitivo ed esecutivo abbia natura di atto di programmazione indirizzo e programmazione, pacifico essendo che essi siano oggetto di approvazione giuntale” [15].

 Si pensi altresì, per quanto riguarda la giunta, “alla deliberazione di costituzione in giudizio e contestuale nomina del legale patrocinatore dell’ente; alla nomina di un professionista incaricato di elaborare un piano urbanistico, all’attribuzione di contributi a terzi in presenza di situazioni non previste dal regolamento che determina i criteri generali per l’erogazione di somme di denaro, alla predisposizione e modificazione di una pianta organica o alla previa deliberazione di dirigenti extra pianta organica” [16]. Per quanto riguarda il Consiglio si faccia riferimento alla deliberazione di compravendita di un bene immobile, alla deliberazione di costituzione di società con contestuale conferimento del capitale, al riconoscimento di debito fuori bilancio o, infine, alla determinazione dell’indennità di carica degli Amministratori.

 “Si tratta di provvedimenti che non sono meri atti di indirizzo, ma veri e propri atti di amministrazione attiva e diretta, con i quali la Giunta e il Consiglio, oltre a manifestare la volontà politica, provvedono anche a darvi direttamente concreta attuazione”[17]. “E’, del resto, il legislatore - così si esprime l’autore citato in nota - a dare agli organi politici questo specifico potere, rompendo quel muro di confine che separa la politica dalla gestione negli enti locali… e questo è stato confermato dal testo dell’art. 37 –bis del D.Lgs. 29/1993, il quale prevede un semplice adeguamento dell’ordinamento degli enti locali ai principi previsti dall’art. 3 dello stesso D.Lgs. 29/1993 nel rispetto delle peculiarità degli enti locali, mentre l’art. 13, oggi abrogato, del D.Lgs. n.29/1993 fissava in precedenza ben più pregnanti obblighi di modifica degli ordinamenti in vista di una loro conformazione al dettato della riforma organizzativa della p.a.”

 Nelle materie sopra elencate pertanto , in aggiunta ai casi in cui il Sindaco esercita le funzioni in qualità di ‘ufficiale di governo di cui all’art. 54 del T.U.E.L (ad esempio emanando ordinanze contingibili ed urgenti), possono emergere responsabilità amministrativo-contabili direttamente imputabili agli organi elettivi.

 Nelle pagine che seguono verranno esaminate alcune fattispecie di danno erariale più ricorrenti negli Enti locali territoriali, al fine di un riscontro nella prassi giurisprudenziali dei principi sinteticamente sopra accennati.

1.1.    Le competenze in particolare.

1.2.    Il ruolo del segretario comunale. Brevi cenni.

Negli anni ’90 si è assistito ad un profondo cambiamento del sistema delle autonomie locali che ha comportato non poche modifiche allo status del segretario comunale a tal punto che oggi, rispetto alle competenze, non vi è più un modello unico di Segretario, ma una pluralità di modelli.

 La L. n. 127/1997 - c.d. Bassanini due – soprattutto, ha completamente ridisciplinato la materia dei segretari comunali e provinciali ridisegnandone ruolo e competenze e non concependo più detta figura, tranne l’ipotesi di nomina a direttore generale, come dirigente generale dell’ente con funzioni gestionali e preposto alla sovrintendenza dei dirigenti, “bensì come consulente giuridico amministrativo, scindendo in modo radicale le funzioni gestionali proprie solo ed esclusivamente della dirigenza, tecnicamente intesa, da quelle di consulenza, assistenza, studio e ricerca, nonché rogatorie e di verbalizzazione affidate al segretario dell’ente”[18] .

 In relazione ai diversi moduli organizzativi prospettabili negli Enti territoriali è stato osservato, in maniera suggestiva, che le funzioni che l’ordinamento attribuisce ai segretari comunali possono definirsi a ‘geometria variabile’ e si possono così sintetizzare:

a)    funzioni tipiche del segretario o competenze proprie di quest’ultimo, prescindendo dalle caratteristiche organizzative dell’Ente, quali la funzione di collaborazione e di assistenza giuridico-amministrativa nei confronti degli organi dell’ente in ordine alla conformità dell’azione amministrativa alle leggi, allo statuto ed ai regolamenti, la partecipazione con funzioni consultive, referenti e di assistenza alle riunioni del consiglio e della giunta, anche curandone la verbalizzazione, ed il rogito di tutti i contratti nei quali l’Ente è parte;

b)   funzioni o competenze ‘mobili’ esercitate dal Segretario solo qualora il Sindaco non si sia avvalso della facoltà di nominare un city manager o direttore generale, quale la funzione di sovrintendere e coordinare l’attività dei dirigenti;

c)   funzioni o competenze gestionali conferite dal Sindaco nei comuni privi di personale con qualifica dirigenziale (art. 109, comma 2 del T.U.) [19].

L’assistenza giuridica e la formulazione di pareri

Un aspetto che potrebbe rilevare, ai fini della nostra indagine, è il coinvolgimento del segretario comunale, previsto dalle fonti regolamentari o in atti del Capo dell’amministrazione, nella formulazione di un parere di legittimità nell’ambito della funzione di assistenza giuridico-amministrativa. Detta ipotesi è stata peraltro ritenuta ammissibile dal Ministero dell’Interno che ha sostenuto la tesi che “l’espressione del parere manterrà tuttavia la sua obbligatorietà, qualora l’ente, in sede di autodeterminazione normativa ovvero il Sindaco, nell’esercizio del potere di direzione lo richiedano” [20].

 In proposito è stata sostenuta una tesi contraria – che appare condivisibile – secondo la quale:

-   l’assistenza giuridico-amministrativa è cosa diversa dall’abolito parere di legittimità atteso che, diversamente, non si comprenderebbe perché mai il legislatore abbia voluto sopprimere l’uno ed introdurre l’altra;

-    l’assistenza giuridico-amministrativa, diversamente dal parere, ha ad oggetto non l’atto bensì l’azione amministrativa, volendosi inquadrare anche detta attività del segretario in un operare per obiettivi e non per atti, da collocarsi in primo luogo nella fase di elaborazione del piano esecutivo di gestione, ove il segretario sarà chiamato, nell’ambito della negoziazione tra politico e dirigente, a dare il proprio contributo più idoneo per il conseguimento degli obiettivi fissati dall’organi di governo” [21].

1.3 La responsabilità cd. manageriale o dirigenziale in relazione alla responsabilità amministrativa-contabile. Cenni e spunti di riflessione.

Se è vero che per i soggetti destinatari di incarichi dirigenziali negli Enti territoriali “si osservano le disposizioni vigenti in materia di responsabilità degli impiegati civili dello stato” (art. 93 del T.U. D.lgs. 267/2000), un aspetto che merita un approfondimento è quello della relazione tra la responsabilità c.d. manageriale o dirigenziale e la responsabilità amministrativo-contabile.

 E’ da precisare, in estrema sintesi [22], che la responsabilità c.d. dirigenziale si configura esclusivamente a fronte di reiterate condotte ‘manageriali’ inefficienti da parte del dirigente che si traducano in “risultati negativi dell’attività amministrativa e della gestione o (nel) mancato raggiungimento degli obiettivi”, o nella “grave inosservanza delle direttive impartite dall’organo competente o la ripetuta valutazione negativa nei risultati e negli obiettivi” (art. 21, commi 1 e 2, del D.Lgs. 29/93 [23]).

 Trattasi di responsabilità “autonoma e aggiuntiva rispetto alle altre forme di responsabilità che gravano sui dipendenti pubblici” [24], conseguente alla separazione dei ruoli, uno politico e di indirizzo, l’altro amministrativo e di gestione. In particolare “a fronte di un potere di gestione, affidato alla dirigenza per poter realizzare quanto prefissato dall’organo di vertice politico, si contrappone una maggiore responsabilizzazione del personale burocratico posto all’apice dell’organizzazione pubblica, con la conseguenza che questo, nel realizzare gli obiettivi e, al fine di non disperdere inutilmente risorse finanziarie pubbliche (con conseguente danno all’erario), deve perseguire una sana gestione in grado di tradurre nella concreta realtà le direttive impartite dal vertice politico” [25].

 La domanda che a questo punto deve porsi è se il mancato raggiungimento dei risultati e degli obiettivi prefissati dall’Organo politico (ad esempio nel P.E.G. di un Comune), da parte del dirigente, possa lasciare configurare o meno una ipotesi di responsabilità amministrativo-contabile .

 In proposito è stato affermato che non può escludersi l’ipotesi che “sussistano fattispecie in cui oltre alla responsabilità amministrativo-contabile siano ravvisabili anche altre forme di responsabilità dirigenziale; siffatto concorso appare anzi molto probabile nei casi … di “responsabilità particolarmente grave e reiterata” [26].

 Occorre a questo punto tenere in considerazione la circostanza che, a differenza delle altre forme di responsabilità (penale, civile, amministrativa e contabile), ai fini della responsabilità di risultato, si considera il fatto oggettivo del risultato negativo della gestione o del mancato raggiungimento degli obiettivi, a prescindere sia dalla violazione di specifici canoni giuridici di comportamento e sia dalla produzione di un danno; entrano in gioco, in questi casi, valutazioni di idoneità e capacità professionali del dirigente che possono riguardare aspetti e profili comportamentali in cui non sono ravvisabili forme di negligenze tipiche della colpa, ma piuttosto carenze di particolari qualità ed attitudini, quali capacità di coordinamento delle risorse, di programmazione e di governo del personale. Può configurarsi, in definitiva, “una sorta di responsabilità oggettiva [27]” che prescinde dalla sussistenza di un comportamento doloso o colposo contra ius e che consegue all’accertamento sic et simpliciter di una inidoneità alla funzione.

 Più in particolare la responsabilità in argomento non rappresenta nel modo più assoluto “una sottospecie, né un’estensione, né un modo di essere della responsabilità disciplinare, tant’è che non si può parlare di sanzioni speciali (aggiuntive) per i dirigenti essendo, tra l’altro, diversi presupposti e finalità delle due forme di responsabilità” [28].

 Per le valutazioni sopra espresse appaiono pertanto più condivisibili le argomentazioni prospettate da altra parte della dottrina secondo cui “il mancato raggiungimento del risultato, con la conseguente configurabilità della relativa responsabilità, non può ritenersi, di per sé, un evento dannoso, causato dal dirigente e, pertanto, non può valere, senza il corredo di ulteriori elementi, a fondare un’affermazione di responsabilità amministrativa” [29].

 Con l’avvertenza che se perulteriori elementi’, per fondare un’affermazione di responsabilità amministrativa’, si intendono condotte contra ius ovvero “contrarie alle regole giuridiche di settore” [30] – come richiede la Sez. Giur. della Corte dei conti del Piemonte – si finisce con il fare emergere una autonoma e distinta fattispecie di danno erariale.

 Diversa dalla fattispecie di responsabilità c.d. manageriale appare inoltre quella di ‘danno patrimoniale da disservizio, ipotizzata in alcuni orientamenti del giudice contabile e che si riferisce, di regola, ad una casistica di condotte di dipendenti pubblici penalmente rilevanti (per vicende di concussione e/o corruzione); tale danno consisterebbe nella mancata o non corretta resa dal servizio che si concretizza nell’alterazione del rapporto sinallagmatico tra resa dell’attività lavorativa e corresponsione della retribuzione e nella sopportazione di ulteriori, non giustificati costi generali per la pubblica amministrazione [31].

 In verità l’ipotesi di c.d. danno da disservizio è stata teorizzata anche in dottrina, giustificata dal fatto che “se noi crediamo ad una amministrazione legittimata dai risultati, perché è quello che la società chiede…e dunque riteniamo che il meccanismo principale di legittimazione dell’Amministrazione sia da riferire alla qualità e quantità dei risultati conseguiti, dobbiamo necessariamente trarne le conseguenze sul piano dei controlli e delle responsabilità” [32]; ma la fattispecie di danno così ipotizzato è del tutto omologa o coincidente a quella per omesso raggiungimento di risultati esaminata in precedenza.

Per completezza di esposizione sul tema delle responsabilità tipiche dirigenziali occorre brevemente accennare alla responsabilità c.d. datoriale che fa capo al singolo dirigente per effetto della privatizzazione del rapporto di pubblico impiego e che trova fondamento nell’art. 4, comma 2, ultima parte, del D. Lgs. N.29/1993, così come modificato dal D.Lgs. n.80/1998, dove si legge che “le misure inerenti la gestione del rapporto di lavoro sono assunte dagli organi preposti alla gestione con le capacità e i poteri propri del datore di lavoro privati”. E’ possibile in particolare che l’Amministrazione venga citata in giudizio da dipendenti, per condotte illegittime dei dirigenti, al fine di ottenere il ristoro, ad esempio, del danno da demansionamento qualitativo o quantitativo, del danno alla salute, del danno all’immagine o del danno da ‘mobbing’ conseguente a comportamento persecutorio del superiore gerarchico; in questi casi è configurabile ovviamente una responsabilità amministrativo-contabile per danno indiretto, in conseguenza della condanna a titolo risarcitorio dell’Ente [33].

2. La valutazione del giudice contabile sul riparto di competenze: le ipotesi di responsabilità amministrativa più ricorrenti nell’attività degli amministratori e dei dipendenti degli enti territoriali.

Una volta delineate le competenze degli organi ‘politici’ e degli organi gestionali degli Enti locali territoriali, alla luce del complesso quadro di riferimento della normativa primaria e secondaria, si ritiene opportuno analizzare le valutazioni espresse dal giudice contabile sul riparto di competenze nelle fattispecie di responsabilità amministrativa più ricorrenti tentando, nel contempo, di desumere dei principi generali che possano costituire validi parametri nell’espletamento dell’attività istruttoria del P.M. contabile .

2.1. Fattispecie di danno derivante dalla attribuzione di incarichi dirigenziali o per progetti e consulenze a personale esterno all’ente.

Significative, ai fini della nostra indagine, risultano le recenti pronunce della Sezione Giurisdizionale per il Lazio e della Sezione II centrale in merito al conferimento di incarichi a personale esterno all’organico del Comune di Roma [34] in quanto, ad avviso di chi scrive, hanno il pregio di offrire una puntuale ricostruzione della normativa - anche regolamentare - che disciplina la materia ed una accurata sintesi dei principi desumibili dalla prevalente giurisprudenza, nonché hanno messo in luce la problematica, quanto mai attuale, inerente ai criteri di scelta del personale degli Uffici di staff del Sindaco e degli Assessori.

 La Sezione Centrale in particolare focalizza l’attenzione in primo luogo su un aspetto a cui attribuisce la “massima importanza” laddove precisa che in “un ordinamento come il nostro, democratico e pluralista - a prescindere da probabili o improbabili evoluzioni in senso federalista - ius non è solo l’ordinamento dello Stato-persona, ma quello risultante dal coesistere e dall’intrecciarsi degli ordinamenti autonomi di tutte quelle comunità esponenziali che l’art.114 della Costituzione, anche prima della recente modifica, indicava come facenti parte della Repubblica” [35]; peraltro l’avvenuta abrogazione di questo articolo della Carta Costituzionale ha ancora più esaltato l’autonomia degli enti locali, ai quali spetta “potestà regolamentare in ordine alla disciplina dell’organizzazione e dello svolgimento delle funzioni loro attribuite” (art. 117, comma 6, della Costituzione, nel testo così sostituito dall’art. 3 della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3).

In definitiva la Sezione sottolinea che è essenzialmente dall’ordinamento del Comune di Roma che devono essere estratti i parametri alla cui stregua valutare il comportamento degli amministratori e dei dipendenti al fine di qualificarli secundum o contra ius, atteso che l’art. 51 della legge n.142/1990 – che si autodichiara legge di principi (art.1) – rimette la concreta previsione dell’apporto esterno: a) allo statuto comunale, per la copertura dei posti di responsabili dei servizi e degli uffici, di qualifiche dirigenziali e di alta specializzazione (comma 5); b) al regolamento per le collaborazioni esterne ad alto contenuto di professionalità (comma 7 primo periodo); c) al regolamento sull’ordinamento degli uffici e dei servizi, per la costituzione di uffici posti alle dirette dipendenze del Sindaco, del Presidente della Provincia, della Giunta o degli Assessori, “per le funzioni di indirizzo e di controllo loro attribuite dalla legge” (comma 7, primo periodo).

La disciplina normativa regolamentare non può non tener conto, in ogni caso, di un principio basilare ed inderogabile del nostro ordinamento - ribadito nella pronuncia d’appello citata - secondo il quale ogni ente pubblico, dallo Stato all’Ente locale, deve provvedere ai propri compiti con la propria organizzazione ed il proprio personale; tale principio, confortato a volte con l’estensione analogica di norme dettate specificamente per l’amministrazione statale o con il valido richiamo all’art. 97 della Carta costituzionale, trova in realtà il suo fondamento “nella considerazione che – atteso che ogni dipendente pubblico ha una sua organizzazione ed un suo personale – è con questo personale che deve attendere alle sue funzioni. La possibilità di far ricorso a personale esterno può essere ammessa se, nei limiti e alle condizioni in cui la legge lo preveda, od anche – dato che come suol dirsi la necessità fa legge – quando sia impossibile provvedere altrimenti ad eccezionali e impreviste di natura transitoria” [36].

La forza di tale principio non rimane peraltro incrinata da recenti isolate pronunce [37] secondo cui l’affidamento a terzi di attività di supporto, comunque denominata (consulenza, assistenza, incarico) non troverebbe alcun limite normativo espresso, e pertanto la pubblica amministrazione potrebbe liberamente ricorrere all’apporto esterno addirittura attualmente incoraggiato dal Legislatore; tale principio inoltre, come sottolineato sempre nella sentenza citata, non è stato scalfito dalla distinzione fra la funzione di indirizzo e controllo, propria degli organi politici e la funzione di gestione, spettante agli organi amministrativi.

I conferimenti di incarichi di consulenza a soggetti esterni possono essere pertanto attribuiti, in linea di principio, ove i problemi di pertinenza dell’amministrazione richiedano conoscenze ed esperienze eccedenti le normali competenze del personale dipendente e conseguentemente implichino conoscenze specifiche che non si possono nella maniera più assoluta riscontrare nell’apparato amministrativo. Sotto tale profilo l’incarico stesso deve caratterizzarsi per la sua specificità e temporaneità e non deve rappresentare uno strumento per ampliare surrettiziamente compiti istituzionali e ruoli organici dell’ente al di fuori di quanto consentito dalla legge; l’Amministrazione inoltre, solo in ipotesi di documentata assenza di risorse umane all’interno dell’apparato organizzativo, è legittimato a ricorrere a professionalità esterne da individuare in base a criteri predeterminati, certi e trasparenti [38].

2.1.1. La problematica dei criteri di scelta del personale degli Uffici di staff degli organi politici.

Se in materia di conferimento di incarichi dirigenziali e di consulenze a terzi ‘ad alto contenuto di professionalità’ (art. 51 L n.142/1990) l’interprete può fare affidamento alle puntuali prescrizioni regolamentari e statutarie, non altrettanto può dirsi per quanto concerne la determinazione dei criteri di composizione degli Uffici di staff alle dirette dipendenze degli organi politici. A titolo esemplificativo si evidenzia che nel vigente regolamento sull’ordinamento degli Uffici e dei servizi del Comune di Milano è previsto sic et simpliciter (art. 3) che “Il Sindaco può costituire, previa motivata richiesta degli Assessori interessati, gli Uffici di cui al comma 7 art. 51 della legge 142/90, con le funzioni e nei limiti ivi previsti” [39].

 Il problema che si pone a questo punto e se, nella provvista degli Uffici di staff , l’organo politico è legittimato a ricorrere all’assunzione di personale tutto o in prevalenza esterno all’Amministrazione, fondando le proprie scelte esclusivamente sull’intuitus personae. In merito la Sentenza della Sez. II centrale d’appello, più volte citata, ha il pregio di affrontare per la prima volta detta problematica; nella fattispecie in esame gli appellanti avevano sostenuto che “dalla distinzione tra funzioni di indirizzo e controllo e la funzione di gestione - atteso che ad ogni funzione deve corrispondere un’organizzazione e che a funzioni diverse devono attendere organi ed apparati diversi - sarebbe derivata la legittimità, anzi la doverosità di creare uffici di staff scelti intuitu personae posti alle dipendenze degli organi politici”. Il Collegio, dopo aver precisato che la questione da risolvere non era quella relativa alla ‘costituzione’ di uffici di supporto alla funzione di indirizzo degli organi politici, distinti dai tradizionali uffici amministrativi, bensì quella della ‘provvista’ di tali Uffici, ha concluso ritenendo che “dalla distinzione fra uffici di staff e di line non discenda in maniera automatica la necessità di ricorrere, per la copertura dei primi, a personale esterno”; non si ritiene, in altre parole, che dalla espressa affermazione della distinzione tra Uffici sopra accennata si debbano ritenere travolti i principi, consolidati attraverso la lunga tradizione giurisprudenziale, relativi alla provvista dei pubblici uffici, quali sono senza alcun dubbio anche gli uffici di staff . Aggiungasi che, entrando nel merito della tipologia di detti incarichi è avvenuto, di fatto, un sindacato del giudice contabile sui requisiti professionali in possesso dei dipendenti ‘esterni’ in relazione agli obiettivi prefissati dagli organi politici, al fine anche di verificare l’inesistenza di professionalità adeguate all’interno dell’apparato organizzatorio dell’Ente.

2.1.2. La competenza alla nomina di personale esterno con contratti a tempo determinato.

 Un aspetto che meriterebbe un approfondimento, possibilmente in sede di attività di controllo della Sezione Autonomie della Corte, è quello che è emerso nel corso di istruttorie svolte dalla Procura Lombardia in tema di conferimento di incarichi e/o consulenze a personale esterno nel Comune di Milano con contratti a tempo determinato; ci si riferisce in particolare alla individuazione della competenza dell’organo che provvede formalmente all’attribuzione di detti incarichi - si ribadisce non dirigenziali - in assenza di precise indicazioni nella normazione statutaria e regolamentare. Il Comune di Milano ha risolto tale problematica con circolare n.18 del 9 novembre 1998, a firma del Sindaco e del Direttore generale riconoscendo in capo ai Dirigenti, in conformità degli artt. 3 del D.Lgs. 29/1993 e 45 del D.Lgs. n.80/1998, la competenza ad attribuire con propria determinazione incarichi di collaborazione esterna in tutti i casi in cui essi siano funzionali all’attività di gestione.

La soluzione adottata dal Comune di Milano - che suscita alcune perplessità sul piano della legittimità [40] - induce una riflessione sulla tendenza a deresponsabilizzare (in senso tecnico) gli organi politici e gli organi di vertice di alta amministrazione titolari del controllo ‘strategico’ (i direttori generali) nell’attività di gestione (ammesso che sia possibile cogliere in maniera netta, in concreto, la linea di confine tra attività gestionale e quella di mero indirizzo e controllo).

Naturale conseguenza dell’adozione della soluzione interpretativa suddetta è che, di fatto, apparirebbe al quanto improbabile il coinvolgimento di organi politici e del direttore generale, nella fattispecie come quella in esame, a differenza dei ‘Direttori centrali o di Settore dell’Ente [41].

2.1.3. La valutazione della congruità del compenso corrisposto al personale esterno.

E’ da segnalare, infine, un recentissimo orientamento giurisprudenziale [42] che ha messo in luce il principio della commisurazione dell’entità del compenso alla quantità e qualità dell’incarico e che ha avuto risalto anche nei mezzi di informazione [43].

 Il giudice contabile ha in particolare sottolineato che “…l’eccessività del compenso correlata alla natura delle prestazioni richieste ed alla durata dell’incarico quale avrebbe dovuto essere secondo gli atti di affidamento dello stesso e la mancata indicazione dei criteri determinativi del medesimo, costituiscono il chiaro sintomo che gli appellati non hanno tenuto nella dovuta considerazione il canone dell’economicità che, unitamente agli altri connotanti il buon andamento della P.A., deve soprintendere alla spendita del pubblico denaro : il che non può che comportare un giudizio di riprovevolezza, in termini di colpa grave, della condotta posta in essere dagli amministratori convenuti in giudizio i quali, con il loro comportamento, hanno determinato per il Comune di Carbonia una spesa particolarmente rilevante senza procedere ad un esame preventivo, sotto il profilo quantitativo, della sua utilità” [44].

2.2. Le ipotesi di responsabilità più ricorrenti per il settore o uffici finanziari.

2.2.1 La problematica del riconoscimento dei debiti fuori bilancio.

La problematica dei “debiti fuori bilancio” [45], di grande rilevanza nella realtà delle amministrazioni locali, ha costretto il legislatore a reiterati interventi tendenti, sostanzialmente, a garantire il rispetto degli equilibri di bilancio e la corretta gestione delle risorse finanziarie dell’Ente locale.

 Peraltro, al fine di sensibilizzare sempre più gli Amministratori al rispetto dei principi suddetti è stata prevista la trasmissione della deliberazione di riconoscimento dei debiti fuori bilancio al P.M. contabile per la valutazione dei connessi potenziali profili di responsabilità amministrativa [46].

 Non è mancato un vivace dibattito nella dottrina giuscontabilistica né l’affermazione di diversi indirizzi interpretativi in sede giurisdizionale civile, amministrativa e contabile, con riferimento in particolare alla tipologia di debiti fuori bilancio ‘in senso stretto’, conseguenti ad “acquisizione di beni e servizi” in violazione delle elementari regole disciplinanti l’ordinazione della spesa (assunzione di impegno e copertura finanziaria).

 La problematica inoltre si presenta non poco complessa anche perché nell’ordinamento contabile non è data rinvenibile esplicitamente una ‘nozione’ o definizione di debito fuori bilancio; la individuazione del concetto o della nozione di debito fuori bilancio deve quindi derivare da una interpretazione sistematica delle norme che disciplinano la materia [47].

 Ai fini della nostra indagine si ritiene pertanto necessario approfondire ed esaminare tutti gli aspetti della problematica atteso che, come si cercherà di evidenziare, sono ipotizzabili in astratto fattispecie causative di danno erariale con imputazione di responsabilità sia agli organi ‘tecnici’ gestionali ed ai revisori contabili, e sia agli Organi politici (Consiglio, Giunta, Sindaco, Presidente della Provincia).

La definizione di debito fuori bilancio e l’evoluzione normativa.

Il debito fuori bilancio, in estrema sintesi, “costituisce un’obbligazione che pur essendo valida sotto il profilo giuridico, ha avuto la propria genesi in un procedimento formativo non rispettoso del canonico (o rituale) iter giuscontabile di effettuazione delle spese. Si tratta, dunque, di spese proprie dell’Ente (o ad esso riconducibile) in relazione alle quali, non essendovi stato un preventivo impegno a monte, non risultano ancora effettuate né la registrazione contabile, né la relativa assunzione di impegno”[48].

 In generale, “i debiti fuori bilancio sono assunti in violazione del principio di universalità del bilancio, che impone il dovere di iscrivere nel documento programmatorio annuale tutte le entrate e tutte le spese dell’esercizio; in violazione al principio dell’integrità, che impone l’obbligo della previsione integrale delle entrate e delle spese; e in violazione del principio di veridicità o di attendibilità, che inibisce sopravvalutazioni delle entrate e delle spese, sia per evitare pareggi fittizi, sia per impedire la formazione di passività sommerse e non contabilizzate” [49].

 E’ da precisare che l’ordinamento contabile ed amministrativo degli enti locali ha sempre contenuto norme volte ad impedire il costituirsi di posizioni debitorie nei confronti di terzi al di fuori della gestione del bilancio ma, a fronte di una normativa dal contenuto formale rigoroso [50], è stato rilevato dalla Corte dei conti, con crescente preoccupazione, il manifestarsi di un macroscopico fenomeno di indebitamento sommerso, oggetto di provvedimenti ‘a sanatoria’ degli Enti locali.

 Nel 1986 per la prima volta, con l’art. 1 bis, comma 3, del D.L. n. 318/1986, convertito nella legge n. 488/1986, è stata tentata la manovra di rendere manifesto il suddetto fenomeno di indebitamento occulto, al fine di ricondurlo nell’alveo della contabilità dell’Ente assicurandone il finanziamento.

 Dello stesso anno è anche la prima deliberazione della Corte dei conti - n. 30 del 24 novembre 1986 - specificamente e diffusamente dedicata al problema dei debiti fuori bilancio; in quella sede viene disegnato un primo profilo concettuale di debito fuori bilancio e viene giustamente rilevato che alla determinazione dell’effettivo avanzo di amministrazione devono concorrere non soltanto i residui passivi risultanti dalle scritture contabili, ma anche gli altri eventuali residui passivi (definibili ‘di fatto’) ricollegati in nesso causale con il mancato rispetto in passato delle regole giuscontabili proprie della gestione degli enti locali[51].

 Una manovra più incisiva è stata tentata nel 1989 per impedire il formarsi di nuovi debiti fuori bilancio con gli artt. 23 e 24 del D.L. 2 marzo 1989, n.66, convertito in legge 24 aprile 1989, n.144 e, contestualmente, per riconoscere entro “termini perentori” le passività pregresse.

 La disciplina normativa non subiva modifiche di rilievo con il D.L. 66/89, convertito in L. n. 80/1991 e con l’entrata in vigore del D. Lgs. 25.2.1995, n.77, tanto è vero che la Corte costituzionale [52] ha dato atto che la disciplina di cui all’art. 35 del medesimo D.Lgs. 77/1995 è del tutto analoga a quella dell’art. 23, comma 4, del citato D.L. n.66/1989[53] .

La disciplina normativa vigente. Il T.U. D.lgs. 267/2000.

Le fattispecie di c.d. debito fuori bilancio riconoscibili dall’Ente locale ai sensi dell’art. 194, comma 1, del T.U. D.Lgs. 267/2000 sono:

·     lett. a) sentenze esecutive;

·      lett. b) copertura di disavanzi di consorzi , di aziende speciali e di istituzioni, nei limiti degli obblighi derivanti dallo statuto, convenzione o atti costitutivi, purchè sia stato rispettato l’obbligo dl pareggio del bilancio di cui all’art. 114 del testo unico e il disavanzo derivi da fatto di gestione (ossia maggiori spese impreviste, minori entrate accertate, con esclusione del ripiano di eventuali debiti fuori bilancio sorti nell’ambito dell’ente strumentale);

·      lett. c) ricapitalizzazione, nei limiti e nelle forme previsti dal codice civile o da forme speciali, di società di capitali costituite per l’esercizio di servizi pubblici locali;

·      lett. d) procedure espropriative o di occupazioni di urgenza per opere di pubblica utilità;

(dalle procedure espropriative o di occupazione d’urgenza per opere di p.u. possono scaturire debiti fuori bilancio in quanto, in caso di non accettazione da parte del proprietario espropriando dell’indennità di esproprio o di occupazione determinata dall’ente espropriante, di norma si instaura un procedimento giudiziale o stragiudiziale che può provocare con la sentenza o con l’accordo tra le parti, una maggiorazione dell’importo indennitario inizialmente offerto e iscritto in bilancio dall’ente procedente. Questa maggior somma costituirà un debito fuori bilancio perché non prevista e non impegnata nel bilancio dell’esercizio finanziario cui si riferisce)

·         lett. e) acquisizione di beni e servizi, in violazione degli obblighi di cui ai commi 1, 2 e 3 dell’art. 191 del testo unico, nei limiti degli accertati e dimostrati utilità e arricchimento per l’ente, nell’ambito dell’espletamento di pubbliche funzioni e servizi di competenza; (in questo modo avviene l’implicito richiamo all’istituto del riconoscimento di debito di cui all’art. 2041 c.c.).

La procedura per il riconoscimento della tipologia di debiti sopra descritta può essere sintetizzata con lo schema riportato di seguito [54]:

DEBITI FUORI BILANCIO

COMPETENZE

Proposta di deliberazione per riconoscimento

Responsabile del servizio interessato

 

Parere di regolarità tecnica e contabile

Responsabili del servizio interessato e del servizio finanziario

Parere del collegio dei revisori

A cura dei revisori dei conti dell’ente

 

Adozione della deliberazione

A cura del Consiglio comunale

 

Contabilizzazione

 

A cura del responsabile del servizio finanziario

Modalità di pagamento e copertura finanziaria

Ai sensi del comma 2 dell’art. 194 del T.U. 267/2000 l’Ente, per il pagamento dei debiti sopra elencati, può provvedere anche mediante un piano di rateizzazione, della durata di tre anni finanziari compreso quello in corso, convenuto con i creditori.

 Non pochi problemi sono sorti invece, con riferimento alla copertura finanziaria per le spese suddette, a seguito dell’entrata in vigore della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n.3; il testo novellato dell’art.119 Costituzione dispone in particolare che i Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni “possono ricorrere all’indebitamento solo per finanziare spese di investimento. E’ esclusa ogni garanzia dello Stato sui prestiti dagli stessi contratti”. La legge finanziaria 2002 (L. 28.12.2001, n.448) ha tenuto conto dei limiti posti al ricorso di mutui passivi per il finanziamento delle spese in argomentto, laddove ha previsto (art. 41, comma 4) che, per il finanziamento di spese di parte corrente, il comma 3 dell’art. 194 del T.U. D.lgs. 267/2000 “si applica limitatamente alla copertura dei debiti fuori bilancio maturati anteriormente alla data di entrata in vigore della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3”. E’ bene ricordare che il ricorso a mutui passivi in questi casi deve essere sempre subordinata alla impossibilità, documentata nella relativa deliberazione consiliare, di “utilizzare altre risorse” (art. 194, comma 3, cit.).

Distinzione tra passività pregresse e debiti fuori bilancio ‘stricto sensu’

A questo punto prima di focalizzare, finalmente, l’attenzione sulla casistica giurisprudenziale in tema di debiti fuori bilancio, appare quanto mai efficace operare una summa divisio, elaborata in dottrina [55], tra passività vere e proprie ovvero – utilizzando termini civilistici – ‘sopravvenienze passive’ e ‘debiti fuori bilancio’ in senso stretto.

 In particolare la pretesa creditoria nei confronti dell’Ente può fondarsi su un diritto riconosciuto dalla legge o che risulta come conseguenza di un rapporto giuridico sorto in modo ‘regolare’ (si pensi, a titolo esemplificativo, al caso di riconoscimento in sede giurisdizionale di maggiori oneri per revisione prezzi e riserve nella gestione di un appalto di lavori pubblici o al caso sopra descritto in materia di liquidazione di indennizzo per esproprio per p.u.); in siffatti casi la pretesa creditoria, quando costituisce passività pregressa, può incontrare soltanto un limite di carattere finanziario in quanto potrebbe rimanere insoddisfatta per mera insufficienza dei mezzi finanziari resi disponibili al momento dell’impegno. Eventuali profili di responsabilità possono emergere in questi casi solo in presenza di negligente attività previsionale di spesa o di programmazione finanziaria.

 Radicalmente diversa è la tipologia di debito ex art. 194, comma 1 lett. e) perché il rapporto obbligatorio sorge esclusivamente tra l’Amministratore o il funzionario che ha ordinato la spesa senza alcun rispetto della procedura giuscontabilistica di impegno e di copertura finanziaria di cui all’art. 191, commi 1, 2 e 3 e l’Ente, come vedremo, può essere coinvolto con azione di ingiustificato arricchimento ex art. 2041 c.c. .

 La procedura rigorosa per il riconoscimento dei debiti fuori bilancio in senso stretto – è bene evidenziarlo – “se applicata in modo improprio anche alle passività che scaturiscono da rapporti regolari (e tuttavia non coperti da finanziamento), mette in serio imbarazzo l’organo deputato al riconoscimento (il Consiglio comunale) il quale, spesso, individuando irregolarità compiute da precedenti amministrazioni, non intende condividere tali responsabilità e si spende in atteggiamenti dilatori che hanno una sola conseguenza: quella di aggravare la posizione debitoria dell’Ente [56].

 Non appare priva di logica pertanto la posizione assunta da parte della dottrina [57] che attribuisce all’organo gestionale (dirigente responsabile di servizio o di settore) il compito di non pregiudicare gli equilibri di bilancio, qualora ciò non comporti una variazione di bilancio; si è affermato pertanto che il dirigente, in caso di copertura finanziaria della spesa, può eseguire con propria determina direttamente la liquidazione e ordinare il relativo pagamento, lasciando alla Giunta soltanto il compito di valutare preventivamente eventuali proposte transattive fatte o accettate dal creditore, approvate le quali, il dirigente stesso risulterà formalmente autorizzato ad adempiere.

 Più corretta si ritiene tuttavia la tesi di altra parte della dottrina secondo cui anche in tal caso - ovvero sempre nelle ipotesi che possono farsi rientrare tra le passività pregresse sopra descritte - “l’insorgenza di debiti si riflette in qualche modo sui programmi approvati a inizio esercizio (sul Peg, se non addirittura sulla relazione previsionale). Occorre pertanto un provvedimento di natura programmatica e quindi politica: si potrebbe procedere mediante delibera di giunta, se lo stanziamento è capiente, o di Consiglio, se occorre modificare il bilancio” [58] .

 A questo punto se è corretta la distinzione tra passività pregresse o sopravvenienze passive e debito fuori bilancio in senso stretto, sono individuabili diversi profili di responsabilità amministrativa in capo agli Organi politici e gestionali degli Enti locali.

La casistica giurisprudenziale nelle ipotesi di debito fuori bilancio stricto sensu – art. 194, 1 comma, lett. e)

Con una recente sentenza il giudice amministrativo ha ribadito che “la conseguenza della mancanza di un formale provvedimento autorizzativo, nonché del susseguente impegno di spesa, è che il rapporto obbligatorio intercorre, i fini della controprestazione e per ogni altro effetto di legge, tra il privato fornitore e l’amministratore o il funzionario che abbiano consentita la fornitura (secondo quanto dispone il quarto comma dell’art.23 del D.L. n.66/1989, norma poi abrogata ma riprodotta, in termini sostanzialmente analoghi, dall’art. 35 del D.Lgs. 25.2.1995, n.77, e poi ancora dall’art. 191 del D.Lgs. 18.8.2000, n. 267). Né può fondatamente sostenersi, in base alla lettera legis, che il dissolvimento del rapporto organico, cui consegue ope legis la diretta responsabilità personale dell’agente pubblico, sia configurabile solamente in caso di obbligazioni assunte senza copertura finanziaria” [59].

 In tale contesto non è ammessa un’autorizzazione postuma all’effettuazione della spesa irritualmente impegnata, risultando la relativa obbligazione, “mediante una sorta di novazione soggettiva del rapporto, direttamente imputata all’amministratore o funzionario che abbia consentito la fornitura, con connessa estraneità dell’ente al rapporto obbligatorio, attraverso l’applicazione di una tecnica di responsabilità speciale rispetto allo schema ordinario” [60].

 Secondo la giurisprudenza prevalente, conseguenza della disciplina normativa sopra citata era quella di escludere la possibilità, da parte della ditta contraente e che aveva effettuato la prestazione, di convenire in giudizio l’amministrazione comunale, sia ai sensi dell’art. 28 della Costituzione (Corte Cost., sent. N. 295/1997 cit.) sia ai sensi dell’art. 2041 c.c., in quanto impedito dal carattere residuale dell’azione che nella fattispecie non è ravvisabile, posto che l’impresa ha l’azione diretta di adempimento del contratto nei confronti dell’amministratore o del funzionario (Cass. Sez. I, n. 9248/1997; Sez. I n.7085/1997; Sez. II n.4820/1997).

 La giurisprudenza minoritaria ammetteva, al contrario, l’azione della ditta nei confronti dell’Ente, ai sensi dell’art. 2041, non in nome proprio, ma in via surrogatoria di quella spettante all’amministratore o al funzionario, dopo che questi aveva personalmente pagato il compenso (Trib. Catania, 28 ottobre 1997) o quando il patrimonio del funzionario non offriva adeguata garanzia (Corte Cost., sent. 24 ottobre 1995, n. 446).

 Nel descritto contesto normativo la novità introdotta dall’art. 37, comma 1, lett. e) del D.Lgs. n.77/1995, come sostituito dall’art. 5 del D.Lgs. 15 settembre 1997, n. 342, e riprodotto dal citato art. 194, comma 1, lett. e) del D.Lgs. n.267/2000, consiste proprio nell’aver consentito all’Ente locale di valutare l’utilità della spesa sostenuta dall’amministrazione o dal funzionario, rispetto alle finalità pubbliche dell’ente e di assumerla in bilancio nei limiti dell’accertato arricchimento, quindi ai sensi dell’art. 2041 c.c. [61].

 La ricostruzione dei presupposti giuridici per la deliberazione consiliare di riconoscimento di debito fuori bilancio in senso stretto consente di prospettare una responsabilità amministrativo-contabile da imputare non solo organi gestionali e politici che a suo tempo hanno ordinato la spesa in modo irregolare, ma anche ai funzionari e amministratori che hanno provveduto al riconoscimento del debito fuori bilancio in violazione della normativa sopra descritta.

 A tal proposito è da segnalare una pronuncia della Sezione II Centrale d’appello che ha ritenuto responsabili per danno erariale sia gli amministratori che hanno deliberato la spesa senza assunzione di spesa e sia gli organi di vertice del Comune che non si sono attivati, con colpevole negligente ed inerzia, nel riconoscimento e nel soddisfacimento del credito vantato dal contraente privato [62].

 In altra fattispecie è stato affermata la responsabilità esclusiva del responsabile del ragioniere capo che, a fronte della pretesa creditoria della ditta fornitrice nei limiti dell’arricchimento dell’Ente, non si è minimamente attivato per il procedimento di riconoscimento di debito fuori bilancio, procurando un aggravio della posizione debitoria dell’Ente per il pagamento anche delle spese legali sostenute dall’impresa [63] .

 L’Ente pertanto in siffatte ipotesi – giova ribadirlo – in quanto ha usufruito dei vantaggi dalla prestazione resa dal terzo, può provvedere al pagamento nei limiti dell’arricchimento secondo il principio di cui all’art. 2041 c.c.; quanto alla misura dell’importo risarcibile la giurisprudenza ha fissato il criterio del quanti minoris tra arricchimento dell’amministrazione e diminuzione del privato, precisando che nella depauperamento sofferto da chi ha eseguito la prestazione si deve tener conto dei costi da lui sostenuti per la remunerazione dei fattori produttivi ivi comprese le spese generali e con esclusione del profitto d’impresa [64].

 Ai fini della valutazione del grado di colpa da imputare ai presunti responsabili si fa presente altresì che il Ministero dell’interno ha precisato che “l’arricchimento va stabilito con riferimento alla congruità dei prezzi, sulla base delle indicazioni e delle rilevazioni di mercato o dei prezzari e tariffe approvate da enti pubblici a ciò deputati o dagli ordini professionali”; “al riguardo – così prosegue la circolare – si ritiene che non siano normalmente riconoscibili gli oneri per interessi, spese giudiziali, rivalutazione monetaria ed in generale i maggiori esborsi conseguenti a ritardato pagamento di forniture in quanto nessuna utilità e arricchimento consegue all’ente, rappresentando questi un ingiustificato danno patrimoniale del quale devono rispondere, ai sensi dell’art. 35, comma 4, del decreto legislativo n.77 del 1995, coloro che con il loro comportamento lo hanno determinato [65].

 Questi ultimi aspetti devono essere considerati e valutati attentamente dagli Organi di controllo interno ed esterno (e in casi di grave patologia dal P.M. contabile) perché diversamente, con la sanatoria di fatto permanente delle spese deliberate fuori bilancio in senso stretto, si corre il rischio concreto di alterare gli equilibri finanziari dell’Ente.

 E’ stato affermato, a tal proposito, che “…la norma in esame si è proposta di venire incontro ai ‘desiderata’ di molti enti, che continuano nella pratica dei debiti fuori bilancio. Ma lo ha fatto nel modo sbagliato: anziché, come voleva la Bassanini due, emanare norme dirette a rafforzare gli strumenti di verifica, ha legalizzato comportamenti ispirati al rifiuto della legge, proprio negli aspetti di maggior significato nell’ambito della pubblica amministrazione” [66].

La casistica giurisprudenziale di passività pregresse – art. 194, 1 comma, lett. a) e d)

Quid iuris in caso di formazione di passività e riconoscimento di situazioni debitorie pregresse conseguenti a errori nella previsione e programmazione finanziaria?

 Preliminarmente occorre chiarire che non è ipotizzabile tout court un danno da alterazione dell’equilibrio economico finanziario; la Cassazione (Sez. Un. 13 aprile 1992, n. 4486) ha affermato che è precluso al giudice contabile riconoscere la perseguibilità, con lo strumento della responsabilità amministrativa, delle lesioni agli interessi generali (o diffusi) in materia di equilibrio economico-finanziario, in quanto le norme ritenute come apprestatrici di una specifica protezione di essi non hanno la virtù di trasformare detti interessi generali in diritti soggettivi perfetti di natura patrimoniale [67].

 Una situazione di squilibrio finanziario costituisce allora un fatto con potenzialità lesive con riguardo, ad esempio, ai maggiori oneri sostenibili dall’ente per i ritardi nei pagamenti.

 Significativa in proposito è la pronuncia dalla Sez. Puglia che, a fronte di riconoscimento di debito fuori bilancio (rectius una situazione debitoria pregressa) per le spese relative alla fornitura di energia elettrica, ha affermato la responsabilità degli organi politici (Sindaco e Assessore) per aver sottostimato in sede di bilancio di previsione dette pese, “con conseguente alterazione significativa dei risultati di gestione” [68].

 In tema di riconoscimento di debiti fuori bilancio è ipotizzabile pertanto - come si è cercato di dimostrare in coerenza con quanto argomentato nella premessa introduttiva - il coinvolgimento degli organi politici atteso che “la norma che dispone l’esenzione da responsabilità contabile per i titolari degli organi politici che abbiano, in buona fede, approvato atti che rientrino nella competenza degli uffici tecnici o amministrativi, non è applicabile quando si tratti di materie che sono riservate agli organi di governo [69].


(*) Relazione al Corso di formazione e aggiornamento professionale su “Problematiche sull’attività di Procura” – Roma 20-22 novembre 2002 - Parte II.

[1] Spetta ai dirigenti la direzione degli uffici e dei servizi secondo i criteri e le norme dettati dagli statuti e dai regolamenti. Questi si uniformano al principio per cui i poteri di indirizzo e di controllo politico-amministrativo spettano agli organi di governo, mentre la gestione amministrativa, finanziaria e tecnica è attribuita ai dirigenti mediante autonomi poteri di spesa, di organizzazione delle risorse umane, strumentali e di controllo. – art. 107, comma 1, del D.Lgs. 267/2000

[2] E’ stato sostenuto in dottrina  che “il principio di separazione nell’ordinamento degli enti locali costituisce un principio di costituzione materiale di diretta derivazione dell’art. 97 Cost.”; R. NOBILE in www.giustamm.it, 1/2002

[3] Corte dei conti, Sez. Molise, 8 marzo 2001, n. 63. Nella fattispecie in esame è stata esclusa la responsabilità del Sindaco per il danno per la  procedura esecutiva attivata a causa della tardiva  trasmissione di documentazione, di cui risultava in possesso, all’organo regionale per l’ottenimento di un contributo già stanziato in bilancio. Secondo l’organo requirente il Sindaco in particolare avrebbe dovuto, nella sua qualità di rappresentante legale dell’ente, e di soggetto dotato di poteri di stimolo e sollecitazione nei confronti degli altri organi, sollecitare con qualsiasi mezzo l’azione dell’ufficio tecnico; in termini si veda anche Corte dei conti Sez. Riun., 15 maggio 1998, n.21

[4] T. MIELE- G.VICICONTE, Le responsabilità degli amministratori e dei dipendenti degli enti locali, Milano, 2002, pag. 193

[5] F. STADERINI, I. FRANCO, S. ZAMBARDI, I Contratti degli enti locali, Padova, 2000, pag. 39

[6] R. GALLI-D. GALLI, Corso di diritto amministrativo, Padova, 2000, pag. 185

[7] C.A. MANFREDI SELVAGGI, La nuova disciplina degli organi politici degli Erti locali e riflessi in materia di controllo, in  www.giustamm.it

[8] L. OLIVERI, L’evoluzione del principio di separazione tra politica e gestione negli enti locali alla luce della sentenza T.A.R. Puglia-Bari, Sez. II, 23 marzo 2000, n. 1248, in  www.giustamm.it, n. 4-2000; nella sentenza citata il giudice amministrativo afferma che: 1) la competenza in materia di assegnazione di incarichi a professionisti è dei dirigenti, anche quando si tratti di incarichi fiduciari; 2) la normativa autonoma (statuti e regolamenti) degli enti locali non può modificare gli assetti delle competenze previste dalle leggi – l. 256/1999; lo statuto, almeno in subiecta materia, è norma certamente subordinata alla legge che circoscrive dunque gli spazi dell’autonomia statutaria degli enti alla sola possibilità di esplicitare le modalità di esercizio delle competenze, ma non può stabilire la ripartizione delle stesse. 

[9] D. FODERINI, Rinascita del federalismo territoriale, riforma dell’ordinamento delle autonomie locali e ridefinizione del ruolo del segretario comunale, in Giust. Amm., n. 11-2001; l’autore osserva che “…il Sindaco non rilascia più le concessioni edilizie, le autorizzazioni commerciali, le licenze per l’apertura dei pubblici esercizi, né adotta i provvedimenti di aggiudicazione degli appalti pubblici o le ordinanze di demolizione degli abusi edilizi, eppure decide più di prima in quanto possiede tutti gli strumenti per convincere il soggetto competente ad assumere determinazioni conformi a quelle desiderate , senza correre il rischio di poter essere in futuro chiamato a risponderne. i funzionari comunali, così come i dipendenti di qualunque ente, pubblico o privato, sono eroi incuranti della propria retribuzione e carriera. La diffusa deresponsabilizzazione dell’autorità politica che ne è derivata ha determinato una pericolosa spinta verso comportamenti illegittimi per i quali, quand’anche venissero rilevati, risulterà molto difficile risalire al responsabile sostanziale al fine delle sanzioni disposte dall’ordinamento”.

[10] Sul tema si veda R. NOBILE, Piccoli comuni e responsabili dei servizi fra il d.lgs. 18.8.2000, n. 267 e la legge 23.12.2000, n.388. Una querelle mai sopita, in Giust. Amm., n.1-2001, e Piccoli comuni e responsabili dei servizi fra mostri giuridici ed innovazioni legislative: repetita non iuvant, in Giust. Amm. N.1-2002; L. OLIVERI, Si approfondiscono le differenze del regime delle competenze tra enti locali di grandi e piccole dimensioni, in Giust. Amm., n. 12-2001

[11] dispone che il segretario comunale può esercitare “…ogni altra funzione attribuitagli dallo statuto o dai regolamenti, o conferitagli dal sindaco o dal presidente della provincia”

[12] la norma citata  (Misure di efficienza delle pubbliche amministrazioni) così dispone: “ Al comma 23 dell’art. 53 della L. 23.12.2000, n.338, sono apportate le seguenti modificazioni: a) le parole “tremila abitanti” sono sostituite dalle seguenti: “cinquemila abitanti”; b) le parole: “che riscontrino o dimostrino la mancanza non rimediabile di figure professionali idonee nell’ambito dei dipendenti” sono soppresse.”

[13] Corte dei conti, Sez. Toscana, 29 aprile 1997, n.313

[14] R. NOBILE, La competenza dei dirigenti negli enti locali territoriali dopo il D.Lgs. 18.8.2000, n. 267 fra autoreferenzialità e contraddizioni. Un tentativo di soluzione, in Giust. Amministrativa n. 2-2001

[15] ibidem ; viene criticata peraltro la tesi secondo cui sarebbe legittimato il responsabile dell’ufficio tecnico all’adozione dell’atto di approvazione del progetto esecutivo, in quanto atto meramente  consequenziale al progetto esecutivo. Detta tesi viene ritenuta infondata atteso che talvolta, nell’approvazione del progetto esecutivo, “sono immanenti scelte che non si presentano alla stregua di mere conseguenze logiche, come accade quando in sede di approvazione si replica alle osservazioni dei privati incisi dalle procedure espropriative presentate ai sensi dell’art. 10 della L. 865/1971” . 

[16] L. OLIVERI, La legittimità degli impegni di spesa degli organi politici negli enti locali – casi e limiti, in www.Giust.it ; si veda anche B. SECHI, La responsabilità amministrativa del dipendente dell’ente locale, in www.diritto.it  ovvero Diritto & Diritti, febbraio 2001

[17] ibidem

[18] E. BARUSSO, Il segretario comunale e provinciale. Nomina, revoca, competenze, responsabilità, Milano, 2002, pag.5 .

[19] cfr. A. PURCARO, Per la piena affermazione del ruolo del segretario comunale nella direzione generale dell’ente locale, in Giust. Amm. N. 7/8- 2002; A. RENDE Elementi di criticità nell’attuale status dei segretari comunali e provinciali, in Giust. Amm. 6-2001

[20] Circolare Ministero Interno, 15 luglio 1997, n.18

[21] cfr. E. BARUSSO, Il segretario cit. pp.127 ss.

[22] per approfondimenti si veda P. MADDALENA, Responsabilità dirigenziale e responsabilità amministrativa, in Atti del convegno giurisdizione e controllo. Il ruolo della dirigenza, Roma 2 maggio 1995, in Riv. Amm. R.I.,1995, 177; M.U. FRANCESE, La responsabilità dirigenziale nel d.l.vo 3 febbraio 1993, n.29, in Riv. Corte dei conti, 1995,6, IV, 363; G. COGLIANDRO, Il controllo interno e la responsabilità dirigenziale, relazione alla giornata di studi, La responsabilità dei dirigenti pubblici ed i nuovi controlli esercitati dalla Corte dei conti con particolare riferimento al sistema delle Camere di Commercio, Milano 1.3.1996; F. PASQUALUCCI, La responsabilità dirigenziale, in Riv. Corte dei conti, 1998,1,IV, 265 nonché rassegna bibliografica in AA.VV., Le controversie sul pubblico impiego privatizzato e gli Uffici del contenzioso, Milano, 1999, pag. 25 .

[23] occorre tener presente che l’art. 111 del T.U. Dlgs. 267/2000 dispone che gli enti locali, tenendo conto delle proprie peculiarità, nell’esercizio delle propria potestà statutaria e regolamentare, adeguano lo statuto ed il regolamento anche ai principi del capo II del D.Lgs. 3 febbraio 1993, n.29 e successive modificazioni ed integrazioni . L’art. 21 del Testo unico sul pubblico impiego, approvato con D.Lgs. 30 marzo 2001, n.165, ha peraltro riprodotto sostanzialmente le disposizione dei commi 1, 2 e 5 del citato art. 21 del D.Lgs. 29/1993 .

[24] in Corte dei conti, Sez. Piemonte, 13 aprile 2000, n.1192 dove viene esaminata una fattispecie di mancato raggiungimento di obiettivi fissati con atto di indirizzo politico ovvero con delibera della giunta del Comune di Torino in tema di servizio di viabilità invernale.

[25] ibidem

[26] F. PASQUALUCCI, La responsabilità dirigenziale, in Riv. Corte dei conti, 1998, IV, 270

[27] T.MIELE- G.VICICONTE, Le responsabilità degli amministratori e dei dipendenti degli enti locali, Milano, 2002, pag.297

[28] così si esprime E. BARUSSO, Dirigenti e responsabili di servizio, Milano, 2002, pag.331 che richiama Cons. Stato, 24 maggio 1983, n.330

[29] P: DE LISE-B. DELFINO, Dirigenza e responsabilità dirigenziale dopo il testo unico sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche,in  Cons. Stato, 2001, 10, II, 1809

[30] Corte dei Conti, Sez. Piemonte n.1192/2000 cit.

[31] si veda Corte dei conti , Sez. Umbria, 4 marzo 1998, n.252

[32] M. CAMMELLI, Conclusioni, in AA.VV., Riforme amministrative e responsabilità dei pubblici dipendenti, Rimini, 1996, pp. 254-255.

[33] l’art. 66, comma 8, del D.Lgs. 30.3.2001, n.165 - che sostanzialmente ha riprodotto l’art 69 bis, ultimo comma, del D.Lgs. n.29/93 - esclude  peraltro la responsabilità per i funzionari e/o dirigenti che, in rappresentanza della P.A., conciliano le controversie individuali di lavoro in sede pregiudiziale o in nel corso del giudizio instauratosi ex art. 420 c.p.c..

[34] Corte dei conti Sez.  Lazio 25.9.2000, n.1545 e n.1544; Corte dei conti Sez. II Centrale 22.4.2002, n.136/A e 137/A ; per una ricognizione aggiornata della giurisprudenza sul tema si vedano T. MIELE-G. VICICONTE , Le responsabilità degli amministratori e dei dipendenti degli enti locali, Milano,2001,  e F. PASQUALUCCI, E. SCHLITZER, G. CAPONE, P. DELLA VENTURA, M. DI STEFANO, A. LUPI, L’evoluzione della responsabilità amministrativa- Amministratori e dipendenti di regioni ed enti locali, Milano, 2002

[35] Sez II Centrale n.137/A cit.

[36] in termini si veda Corte dei conti Sez. controllo, 26 novembre 1991, n.111; Sez. Riunite, 23 giugno 1992, n.792 e 12 giugno 1998, n.27; Sez. II, 13 giugno 1997, n.81 e 18 ottobre 1999, n.271 .

[37] Corte dei conti Sez. Lazio, 7 gennaio 1997, n.3 e 21 marzo 1997, n.21

[38] Corte dei conti, Sez. Lazio, n.1545/2000 cit.

[39] il comma 7 dell’art. 51 della L. 142/1990, modificato prima dall’art. 6, comma 8, della L. 15 maggio 1997, n.127 e successivamente dall’art.2, commi 15 e 16, della legge 16 giugno 1998, n.191, così recita:”Per obiettivi determinati e con convenzioni a termine, il regolamento può prevedere collaborazioni esterne ad alto contenuto di professionalità. Il regolamento sull’ordinamento degli uffici e dei servizi può inoltre prevedere la costituzione di uffici posti alle dirette dipendenze del sindaco, del presidente della provincia, della giunta o degli assessori, per le funzioni di indirizzo e di controllo loro attribuite dalla legge, costituiti da dipendenti dell’ente, ovvero, purchè l’ente non abbia dichiarato il dissesto e non versi nelle situazioni strutturalmente deficitarie di cui all’art. 45 del d.lgs. 30 dicembre 1992, n.504, e successive modificazioni, da collaboratori assunti con contratto a tempo determinato, i quali, se dipendenti da una pubblica amministrazione, sono collocati in aspettativa senza assegni. Al personale assunto con  contratto di lavoro subordinato a tempo determinato si applica il contratto collettivo nazionale di lavoro del personale degli enti locali. Con provvedimento motivato della giunta, al personale di cui al precedente periodo il trattamento economico accessorio previsto dai contratti collettivi può essere sostituito da un unico emolumento comprensivo dei compensi per il lavoro straordinario, per la produttività collettiva e per la qualità della prestazione individuale.

[40] Il Ministero dell’Interno, Direzione Centrale segretari comunali e provinciali e personale enti locali, con parere prot. n.15700/5B2/653 del 9 marzo 1996, ha sostenuto la tesi che “le assunzioni sono di competenza della Giunta municipale” e “una determinazione dirigenziale di assunzione è possibile, in esecuzione però di una volontà già deliberata dall’organo competente e con le finalità di delineare in essa tutti gli aspetti gestionali relativi alla costituzione del rapporto di lavoro”; si veda anche l’art. 127, comma 1 lett. c) del T.U. D.Lgs. 267/2000. Contra E. BARUSSO che sostiene la competenza esclusiva dei dirigenti “in coerenza con quel processo di responsabilizzazione dell’apparato burocratico che il legislatore ha voluto attraverso l’attribuzione al dirigente di un budget da gestire per il conseguimento degli obiettivi assegnati”, in Dirigenti e responsabili di servizio, Milano,2001, pp. 83 ss.

[41] a conferma delle perplessità sulla competenza esclusiva dei dirigenti in tema di contratti a tempo determinato a personale esterno si segnala che la Corte dei conti Sez. Emilia Romagna, con sentenza n.2329 del 27 marzo 2002, ha escluso un comportamento gravemente colposo dei componenti della Giunta Comunale che avevano deliberato di confermare l’incarico di collaborazione continuativa e coordinata conferito in precedenza con determinazione del Direttore generale . 

[42] Corte dei conti, Sez. III centrale, 12 giugno 2002, n. 206, in riforma della sentenza della Sez. Sardegna, 26 settembre 2001, n.1033 .

[43] si veda l’articolo di T. Miele, pubblicato su IL SOLE 24 ORE, dove viene ribadita la necessità che l’affidamento di incarichi esterni non rappresenti “un comodo sistema per l’elargizione, a imprese o a professionisti amici, di lauti compensi attinti alle finanze dell’Ente, che finiscono per gravare sulle tasche dei cittadini”.

[44] Corte dei conti, Sez. III centrale n.206/2002 cit.

[45]  l’espressione “debiti fuori bilancio” è comparsa per la prima volta nell’art.1 – bis, comma 3, del D.L. 1 luglio 1986, n.318, convertito nella legge 9 agosto 1986, n.488, dove era collegata ad eventi straordinari ed imprevisti di gestione. 

[46] l’art. 24 del D.L. 2 marzo 1989, n. 66, convertito nella legge 24 aprile 1989, n.144 aveva previsto, al comma 5, che “il comitato regionale di controllo è tenuto ad inviare copia della deliberazione, unitamente al proprio parere sugli effetti economico-finanziari dell’operazione, alla Procura generale della Corte dei conti”; il disegno di legge finanziaria 2003 ha previsto – art. 12, comma 5 – che i provvedimenti di riconoscimento di debito posti in essere dalle Amministrazioni Pubbliche di cui al D.Lgs. 30 marzo 2001, n.165, art.1, comma 2, (tra cui Regioni, Comuni e Province) sono trasmessi agli organi di controllo ed alla competente Procura della Corte dei conti . E’ da evidenziare che in presenza di riconoscimento di debiti fuori bilancio è frequentissima l’iniziativa dei consiglieri di opposizione di fare inserire nel verbale della seduta consiliare la richiesta di trasmissione dell’atto deliberativo al P.M. contabile competente per territorio.

[47] cfr. G. ALBANESE, Debito fuori bilancio e ambito di intervento del Consiglio comunale, in Nuove Autonomie, 5-6, 1998

[48] R. DI MARTINO, L’evoluzione normativa dei debiti fuori bilancio, in  Azienditalia n. 6/2001; G. CASCONE, L’attuale disciplina dei debiti fuori bilancio degli enti locali, in La finanza locale, n.7/8, 1998 e Il profilo contabile dei debiti fuori bilancio, in Azienditalia, n. 2/1999 

[49] A.R. DE DOMINICIS, Dissesto degli enti locali, Milano, 1999, pag. 29

[50] il T.U. della legge comunale e provinciale del 1934 prevedeva peraltro che il funzionario di ragioneria fosse “personalmente obbligato” a rilevare le eccedenze di spese di fronte agli stanziamenti ammessi in bilancio, mentre gli amministratori che avessero ordinato spese non autorizzate in bilancio, o non deliberate nei modi e nelle forme di legge, o che avessero contratto impegni o dato esecuzione a provvedimenti non deliberati ed approvati nei modi di legge, ne avrebbero risposto in proprio ed in solido.

[51] La citata deliberazione della Corte n. 30/1986 risulta di estrema attualità nella parte in cui analizza puntualmente la tipologia di debiti fuori bilancio ipotizzabili nelle gestioni degli locali.

[52] C. Cost. 24 ottobre 1995, n.446

[53] per una puntuale ricostruzione dell’evoluzione normativa sulla materia si veda M. BORGHESI, Bilancio e contabilità degli Enti locali, Rimini, 1996

[54] in Guida agli Enti locali 22 settembre 2001, n. 36

[55] A. FINOTTI, Passività pregresse e debiti fuori bilancio, in L’Amministrazione italiana, n.7-8/2000, pag. 1087

[56] ibidem

[57] BRANCASI-ANCILLOTTI, L’ordinamento finanziario e contabile degli Enti locali, Rimini, 1996; A. FINOTTI , Passività, cit.; G. ALBANESE, Debiti fuori bilancio, cit.

[58] M. MORDENTI, I debiti fuori bilancio nel TUEL e nella giurisprudenza, in Azienditalia, 1/2001

[59] T.A.R. Puglia, Sez. I, 15 maggio 2002; il Comune, a fronte dell’annullamento di una delibera dell’organo di controllo, aveva eccepito che le spese in contestazione non potessero ritenersi fuori bilancio, trovando le medesime integrale copertura finanziaria nei corrispondenti capitoli del bilancio di competenza, senza necessità di alcuna variazione.

[60] Il giudice amministrativo, a sostegno delle proprie argomentazioni richiama orientamenti giurisprudenziali della Corte di Cassazione (Cass., Sez. I, 29.7.1997, n. 7085; Cass. Sez. I, 17.9.1997, n.9248); in termini anche Corte Cost., 30 luglio 1997, n. 295.

[61] Si veda Corte dei Conti, Sez. I, 6 maggio 1998, n.119/A  dove si ritiene sussistente un danno per il comune, pari alla quota eccedente l’indennizzo dovuto per l’arricchimento senza causa ex art. 2041 c.c, in caso di pagamento per intero dell’importo di lavori disposti in contrasto con l’art. 23 d.l. n.66 del 1989 . Cfr. anche M. DIDONNA, L’arricchimento senza causa della P.A. nel moderno ius pretorio, in www.giustamm.it - Giustizia amministrativa, n. 10/2000

[62] Corte dei conti, Sez. II, 28 febbraio 2002, che conferma la sentenza n.20/2000 della Sez. Molise

[63] Corte dei conti, Sez. Calabria, 23 aprile 2002, n.264

[64] Corte dei conti Sez. Sardegna, 26 febbraio 1994, n.99 in Foro Amm. 1994, 2260 dove si ipotizza, nel caso che l’Amministrazione agisca motu proprio per liquidare la parte di spesa a suo carico “uno schema assimilabile a quello civilistico dell’estromissione, nel quale un soggetto estraneo al rapporto obbligatorio (cioè il Comune) spontaneamente (senza delegazione del debitore) assume, sia pure parzialmente (nei limiti dell’arricchimento conseguito) verso il creditore il debito sorto in capo all’agente che ha agito in proprio (in quanto non autorizzato da regolare delibera)”. Cfr. F. STADERINI, I. FRANCO, S. ZAMBARDI, I contratti degli enti locali, Padova, 2000, pag.529; si veda  anche C.d.C., Sez. Controllo, Del. 21 aprile 1999, n.23; Cons. Stato, Sez. IV, 10 dicembre 1998, n. 1760

[65] Circolare 14.11.1997, n. F.L. 28/97 ; sempre in tema di determinazione dell’utile di impresa, che non può rientrare nell’indennizzo (e non risarcimento) che l’Ente è legittimato a corrispondere all’impresa,  si segnala T.A.R. Puglia, 4 aprile 2000, n.1401 che prevede una liquidazione forfetaria del 10% dell’ammontare della base d’asta, assumendo valore referenziale la norma dell’art. 345 della l. 20 marzo 1865, n. 2248 all f), “comunemente recepita come espressiva del criterio generale di quantificazione del margine di profitto nei contratti con l’amministrazione”. Si veda anche Corte dei conti Sez. controllo, 14 marzo 1990, n. 3   che ha quantificato il profitto di impresa nel 10% dell’importo totale dei lavori, in linea con quanto indicativamente stabilito dall’art. l.10 dicembre 1981, n. 741, e Corte dei conti, Sez. Sardegna, 26 febbraio 1994, n.99 dove si sostiene che “la quota corrispondente al guadagno di impresa può essere quantificata, secondo le percentuali di uso commerciale , nel 25% dell’appalto”.

[66] FARNETI, Gestione e contabilità dell’Ente locale, Rimini, 1999, pagg. 197 ss.; l’autore, sempre al fine di garantire il rispetto dell’equilibrio finanziario e la corretta gestione delle risorse finanziarie dell’Ente  auspica unripensamento’ del legislatore con il ripristino della normativa precedente che stabiliva ipso iure la ‘nullità’ dell’atto di impegno senza la copertura finanziaria 

[67] Cfr. F. GARRI, I giudizi innanzi alla Corte dei conti, Milano, 2000, pp.190 ss.

[68] Corte dei conti, Sez. Puglia,  4 dicembre 2001, n. 1135 in informatica.it sito intranet Corte dei conti; il danno erariale è stato individuato nel pagamento degli interessi moratori all’azienda erogatrice del servizio.

[69] Corte dei conti, Sez. II, 21 febbraio 2002, n.85; nella sentenza si fa riferimento proprio al principio di separazione tra politica e amministrazione oggetto della nostra indagine. In termini anche Corte dei conti, Sez. II, 3 dicembre 1999, n.29 .

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