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Articoli e note
n. 3-2003.

FEDERICO GUALANDI
(Avvocato)

La L. reg. Emilia – Romagna n. 31 del 25.11.2002

(“Disciplina generale dell’edilizia”): prime considerazioni [1]

 

- Introduzione: oggetto e finalità della legge reg. Emilia Romagna n. 31/2002, anche in riferimento alla recente modifica costituzionale.

Prima di scendere all’esame dell’oggetto e delle finalità della L. Reg. Emilia Romagna n. 31 del 25 novembre 2002, si ritiene indispensabile  formulare alcune brevi riflessioni relative ai delicati problemi che sorgono a seguito della recente modifica del Titolo V della Costituzione, con particolare riferimento ad un duplice aspetto, e cioè ai rapporti tra la legislazione statale e quella regionale (cd. “versante esterno”) ed i rapporti tra legislazione regionale ed autonomia regolamentare dei singoli Comuni (cd. “versante interno”).

Per quanto riguarda il primo aspetto, occorre prendere le mosse da un primo rilievo e cioè dal fatto che con la modifica dell’art. 117 della Costituzione, scompare il termine “urbanistica” e viene (apparentemente) sostituito con quello di “governo del territorio” [2].

Ancorché gran parte della dottrina sia attualmente concorde nel ritenere che in detta espressione sia da ricomprendere ciò che precedentemente veniva identificato come urbanistica, può essere interessante rilevare che nei lavori preparatori tale possibilità viene esplicitamente esclusa, nell’evidente intento di “escludere che nel governo del territorio possa farsi rientrare l’urbanistica”, dato che si vuole l’urbanistica trasferita (insieme all’edilizia) alla potestà legislativa generale ed esclusiva delle Regioni [3].

In realtà - come noto - una volta adottata, la norma vive “di vita propria”, e pare più corretta quella interpretazione che riconduce l’“urbanistica” al “governo del territorio” e, conseguentemente, alla legislazione “concorrente” tra Stato e Regione, anche in considerazione del fatto che – come è stato correttamente sottolineato [4] – sia l’urbanistica che l’edilizia disciplinano aspetti (le prescrizioni tecniche, gli standards, la sicurezza dal rischio sismico, l’eliminazione delle barriere architettoniche, l’agibilità) che indubbiamente richiedono una uniformità su base nazionale, potendo addirittura essere ricondotti a quei “livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale” (art. 117, 2° comma, lettera m) della Costituzione).

Probabilmente, anche se il tema esula dal presente lavoro, i problemi più grossi si porranno nel distinguere cosa è “governo del territorio” (legislazione concorrente Stato / Regioni)  e cosa è “tutela dell’ambiente” (legislazione esclusiva dello Stato).

Due esempi per tutti.

Fin d’ora, il Giudice amministrativo interpreta l’art. 34 del D. Lgs. n. 80/1998 in modo molto ampio, ricomprendendovi, ad esempio, la tutela dalle emissioni inquinanti in atmosfera [5] o la tutela dall’inquinamento elettromagnetico.

Si pensi inoltre, al diritto alle informazioni in materia ambientale (D. Lgs. n. 39/1997), che viene comunemente “dilatato” fino a ricomprendervi il diritto ad informazioni su Piani o strumenti tipicamente “urbanistici” (Piani Regolatori, Piani Particolareggiati, etc…).

E’abbastanza facile allora prevede una “guerra sui confini” [6], con lo Stato che cercherà di salvaguardare la sua competenza esclusiva con riferimento alla “tutela dell’ambiente” e le Regioni, viceversa, che tenteranno di dilatare la nozione di “governo del territorio” per riappropriarsi di tutta una serie di competenze che, diversamente, verrebbero loro sottratte.

Considerazioni analoghe possono svolgersi con riferimento alla materia “edilizia”.

Secondo una tesi più estrema (fra l ‘altro fatta propria dalla Regione Toscana e – quantomeno inizialmente - dalla nostra Regione [7]) l’edilizia non sarebbe ricompresa nel “governo del territorio” che riguarderebbe altri e più generali aspetti (la difesa del suolo, la definizione delle misure a favore dello sviluppo sostenibile, etc…), ma sarebbe materia di competenza “residuale” e cioè solo regionale.

In effetti, la Regione Toscana si è affrettata a adottare una nuova Legge (vero e proprio “mini Testo Unico”), con il dichiarato scopo di mettere fuori gioco sia la Legge obiettivo che lo stesso T.U. statale (si tratta della L. R. 13/2002 del 02 aprile 2002 dal titolo “Adeguamento della Legge regionale 14 ottobre 1999 n. 52 alla Legge costituzionale 18 ottobre 2001 n. 3 recante modifiche al Titolo V della parte seconda della Costituzione”).

In ogni caso, anche aderendo ad una lettura più “moderata” (che facesse rientrare l’edilizia nel “governo del territorio”) i problemi non sarebbero affatto risolti [8].

Un discorso a sé stante merita poi il rapporto tra L.R. n. 31 e T.U. dell’Edilizia.

Innanzitutto si potrebbe addirittura dubitare circa la stessa possibilità dell’esistenza di un “Testo Unico”, a seguito delle modifiche del Titolo V della Costituzione.

In questo senso ritengo che possano condividersi le critiche delle Regioni (ivi compresa l’Emilia Romagna) allo stesso concetto di Testo Unico.

Come è stato affermato, la stessa idea di T.U. “contraddice il riparto costituzionale. I Testi Unici corrispondono ad una antica aspirazione di unità e di chiarezza della normazione e tale aspirazione conserva ovviamente una sua validità: ma in uno Stato a legislazione ripartita, come quello italiano è, essa deve trovare soddisfazione in diverse forme, in relazione alle singole Regioni, e non nel tipico Testo Unico, caratteristico invece dello Stato accentrato [9].

In ogni  caso appare indubbio che risultano a forte rischio di illegittimità tutte quelle disposizioni che rivestono natura “regolamentare” dato che come ha recentemente affermato un importante parere del Consiglio di Stato [10], “la revisione costituzionale modifica dunque profondamente il sistema delle potestà normative e provvede, in questo quadro, alla attribuzione della potestà regolamentare allo Stato secondo un criterio di stretta corrispondenza con la sua competenza legislativa esclusiva. Da ciò non può che discendere l’estinzione del potere regolamentare attribuito allo Stato su materie che non sono più di sua spettanza. Tale potere non permane infatti allo Stato, pur con limitazioni, adattamenti o perfino trasformazioni (ad esempio, riconoscendosi la cedevolezza delle disposizioni secondarie emanate utilizzando la precedente fonte), poiché con la entrata in vigore della nuova normativa costituzionale è stata trasferita la titolarità stessa del potere, e il suo eventuale esercizio da parte dello Stato implicherebbe la invasione di un campo ormai riservato alla competenza regionale, con conseguente illegittimità di regolamenti eventualmente emanati nelle materie di competenza legislativa regionale”.

Un problema ben più delicato è però indubbiamente rappresentato dalla verifica circa la identificazione dei cd. “principi fondamentali” della materia.

Un esempio per tutti.

Come è noto, il Legislatore nazionale ha chiaramente “scartato” l’opzione del “silenzio – assenso”, a favore di un meccanismo che prevede il ricorso al “commissario ad acta”.

Orbene, come ha affermato una importante sentenza del T.A.R per l’Emilia – Romagna, “la norma statale detta certamente un principio fondamentale in tema di procedimento amministrativo per il rilascio della concessione edilizia e pertanto è evidente la sua influenza sulla disciplina regionale, obbligata ad uniformarsi alla previsione statale” [11].

Considerazioni analoghe si possono forse svolgere con riferimento alla facoltatività (statale) / obbligatorietà (regionale) della D.I.A.

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Altrettanto interesse suscita il tema del cd. “versante interno”, cioè l’esame dei rapporti tra legislazione regionale ed autonomia regolamentare dei singoli Comuni [12].

Al riguardo occorre richiamare subito due importanti previsioni della Carta Costituzionale. Ci si riferisce all’art. 117, 6° comma, che stabilisce che “I Comuni e le Province e le Città metropolitane hanno potestà regolamentare in ordine allo svolgimento delle funzioni loro attribuite” e l’art. 118, secondo il quale “Le funzioni amministrative sono attribuite ai Comuni salvo che, per assicurarne l’esercizio unitario, siano conferite a Province, Città metropolitane, Regioni e Stato, sulla base dei principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza”.

Orbene, leggendo le disposizioni della Legge regionale ora in esame, si può affermare che essa non appare particolarmente rispettosa dell’autonomia dei Comuni, dato che risultano presenti molte norme “rigide”, che vincolano i Comuni, senza consentire ai medesimi quelle valutazioni e quegli adattamenti necessari con riferimento alle singoli e peculiari situazioni locali.

Ci si riferisce, in particolare, alla soppressione della Commissione Edilizia ed alla sua sostituzione con la Commissione per la Qualità architettonica ed il Paesaggio [13], ovvero allo “Sportello Unico per l’edilizia”, la cui istituzione viene resa obbligatoria (“I Comuni …..affidano la responsabilità dei procedimenti relativi alla trasformazione del territorio ad un’unica struttura , lo Sportello Unico per l’edilizia…”).

In tal senso può richiamarsi quanto affermato dal Consiglio di Stato, nel noto parere sul T.U. sull’Edilizia [14], laddove si invita il Legislatore (anche regionale) a lasciare al Comune la possibilità di scegliere l’organizzazione che meglio si attagli alle sue dimensioni ed alla sua struttura burocratica [15].

Analoghe considerazioni possono farsi con riferimento al continuo richiamo alla conferenza di servizi, quasi si trattasse – ma l’esperienza insegna che non è così – la “panacea” per tutti i mali. Senza considerare che tale persistente ricorso all’istituto può, paradossalmente, trasformarsi nel motivo della scarsa incisività dell’istituto stesso.

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Dopo queste opportune premesse, possiamo passare ad esaminare l’oggetto e la finalità della Legge, così come risultano dall’art. 1 della Legge stessa.

In particolare essa persegue tre obiettivi:

a)          la semplificazione e l’accelerazione dei procedimenti. Tale obiettivo viene perseguito su di un duplice versante, sia interno che esterno. Per quanto riguarda il primo aspetto si cita espressamente lo “Sportello Unico”, mentre per quanto riguarda il secondo, si richiama l’ampio utilizzo dell’istituto dell’asseverazione di conformità, che forse con qualche forzatura, può essere ricondotto a quel principio di “sussidiarietà” (orizzontale) oggi espressamente recepito in Costituzione;

b)          il secondo obiettivo è quello di ottenere un miglioramento della qualità edilizia. Sono riconducibili a tale obiettivo quelle norme (artt. 33 e 34 della Legge) che dettano i requisiti delle opere edilizie e prevedono “livelli minimi” di prestazione delle stesse, che saranno stabiliti dal Consiglio Regionale. Si ritiene, però, che possa essere ricondotto a questo obiettivo anche le norme sulla “Scheda tecnica costruttiva” e sul “Fascicolo del fabbricato” trattandosi di norme volte ad assicurare la sicurezza e la fruibilità dei fabbricati;

c)          l’ultimo obiettivo consiste nella tutela delle risorse ambientali e del patrimonio storico-architettonico, secondo quel principio di “sviluppo sostenibile” che già era tra i principi ispiratori della L.R. n. 20/2000.     

- Strumenti di semplificazione e di razionalizzazione (lo Sportello Unico e la Commissione per la Qualità urbana ed il Paesaggio)

Lo Sportello Unico per l’edilizia costituisce una apparente innovazione anche perché si tratta di un istituto già previsto dal T.U. dell’Edilizia e già sperimentato in altri settori dell’Ordinamento [16].

Si tratta di un istituto volto a realizzare il principio della cd. “unificazione funzionale”, e cioè la riconducibilità dell’azione amministrativa ad un unico procedimento ed ad un unico centro decisionale, che trova giustificazione non solo nelle esigenze di semplificazione “interna” dell’azione amministrativa, ma altresì nell’esigenza di consentire al cittadino di rimanere sostanzialmente estraneo rispetto alla complessa articolazione (organizzativa e funzionale) delle competenze amministrative.

Come abbiamo già accennato in precedenza, riteniamo però discutibile la scelta della Regione che - pur in presenza di un mutato quadro Costituzionale [17] - ha sostanzialmente imposto tale “modulo organizzativo” ai Comuni, senza affidare (come sarebbe parso più corretto) alla autonomia organizzativa e regolamentare dei singoli Comuni la individuazione delle soluzioni ai medesimi più confacenti.

Ciò premesso, appare però indubbio che la scelta operata dal Legislatore regionale supera ed elimina quei gravi inconvenienti che, viceversa, erano presenti nella disciplina dello Sportello Unico prevista dal T.U. dell’Edilizia. Ci riferiamo, in particolare, al fatto che nel T.U., lo Sportello Unico finiva per rappresentare semplicemente una sorta di “Ufficio Relazioni con il Pubblico” [18], dato che al medesimo non venivano assegnati compiti sostanziali (quali l’adozione del provvedimento finale), con una conseguente grave mancanza di chiarezza circa il ruolo e le responsabilità dei diversi soggetto a diverso titolo coinvolti nel procedimento (responsabile dello Sportello Unico / responsabile del procedimento /  responsabile dell’adozione dell’atto finale).

Nella L.R. n. 31 del 2002 si superano questi equivoci, dato che il responsabile dello Sportello Unico  è anche il soggetto a cui compete l’adozione degli atti aventi “rilevanza esterna”.

In pratica, come afferma l’art. 2 della Legge, allo Sportello Unico è affidata la responsabilità “dei procedimenti relativi alla trasformazione del territorio”, oltre a compiti di informazione e di dialogo con i cittadini.

Con riferimento al primo aspetto appare significativo il fatto che la Legge parli di “procedimenti “ e di “trasformazione del territorio”. Poiché tra i compiti dello Sportello Unico vi è anche quello di ricevere le D.I.A. se ne potrebbe (implicitamente) desumere che: a) anche la D.I.A. comporta una “trasformazione del territorio”; b) anche in riferimento a quest’ultima saremmo in presenza di un vero e proprio “procedimento”.

Per quanto riguarda il secondo aspetto, ritengo che al di là di un obbligo di fornire “adeguata e continua (?!) informazione ai cittadini”, spetti allo Sportello Unico anche la cura dei procedimenti relativi alle richieste di accesso, come conferma indirettamente il disposto dell’art. 24.

Piuttosto, pare singolare che - a differenza di quanto stabilisce la pressoché coeva Legge regionale n. 37/2002 in materia di espropri (art. 3, commi 9° e 10°) - non si sia pensato di predisporre un archivio informatico a cui gli interessati  possano accedere (sia pure entro certi limiti) in via telematica.

Ciò premesso, si possono segnalare alcune aspetti “oscuri” della Legge.

Innanzitutto, per come è scritto il 1° comma dell’art. 2, parrebbe che lo Sportello Unico debba essere istituito “attraverso strumenti di pianificazione”, il che è difficilmente comprensibile, dato che risulterebbe davvero illogico dover approntare uno strumento urbanistico solo per poter istituire lo Sportello Unico.

In secondo luogo, non si comprende il continuo riferimento al “Dirigente” dello Sportello Unico (art. 3, 3° comma; art 11; art.13); ciò potrebbe creare non pochi problemi per quei Comuni privi di figure dirigenziali. Potrebbe ipotizzarsi, in questi casi, un obbligo di esercizio delle funzioni in forma associata, ma pare più logico ritenere che - come più correttamente dispongono gli artt. 13, 8° comma e l’art. 17 - il riferimento sia da intendere al “responsabile dello Sportello Unico” (sia esso o dirigente o semplice funzionario).

Altro problema consiste nell’individuare la disciplina applicabile nelle more dell’istituzione dello Sportello Unico.
E’ben vero che l’art. 40 afferma che finché lo Sportello Unico non sarà operativo ( e cioè entro 6 mesi dall’entrata in vigore della Legge), la responsabilità dei procedimenti compete al dirigente o responsabile dell’ufficio tecnico comunale, ma – fermo restando il regime delle responsabilità - ciò non consente di comprendere agevolmente come debbono, invece, interpretarsi i (continui) riferimenti contenuti nel testo della Legge allo Sportello Unico ed a quale soggetto spetti porre in essere gli adempimenti previsti.

Un ultimo aspetto pare degno di menzione.

La Legge regionale esprime una chiara opzione di favore per l’istituzione di Sportelli Unici in forma associata, e per la costituzione di un “unico” Sportello che svolga anche i compiti dello Sportello Unico per le attività produttive di cui al DPR n. 447/1998 [19].

Con riferimento a tale ultima possibilità si deve esprimere qualche perplessità, trattandosi di un’unificazione che se appare molto razionale in linea teorica, risulta assai poco praticabile dal punto di vista pratico, dato che tale “Super  Sportello” si troverebbe a gestire procedimenti assai complessi e diversi tra loro.

Un discorso a parte merita l’obbligatoria istituzione (“I Comuni istituiscono…”) della Commissione per la Qualità urbana ed il Paesaggio (cd. C.Q.) e la contestuale abolizione della Commissione Edilizia.

Anche in riferimento a questa scelta regionale si debbono esprimere le perplessità già in precedenza manifestate dato che sarebbe parso più corretto affidare alla prudente valutazione del Comune ogni decisione in merito, in sintonia con quanto previsto dal Consiglio di Stato nel parere già in precedenza citato [20], e secondo quanto stabilito dalla L. n. 449/1997 [21] e dall’art 96 del D. Lgs. n. 267/2000 che affidano all’Organo di direzione politica delle Amministrazioni Locali ogni decisione al riguardo.

Scendendo poi all’esame dell’art. 3 occorre rilevare quanto segue.

La nuova Commissione esprime il proprio parere (obbligatorio e non vincolante) ai fini del “rilascio dei provvedimenti comunali” in materia di: a) beni paesaggistici; b) risanamento conservativo e restauro; c) abbattimento delle barriere architettoniche in edifici aventi valore storico architettonico.

Tale previsione suscita ben più di una perplessità. A parte la prima ipotesi che deriva dalla sub-delega delle funzioni in materia di tutela dei beni paesistico – ambientali (le funzioni in precedenza svolte dalla Commissione edilizia “integrata”), le altre due ipotesi riguardano interventi per i quali il Legislatore regionale ha previsto (obbligatoriamente) la D.I.A. e nelle quali, pertanto, non vi è alcun “rilascio dei provvedimenti comunali”.

Forse una soluzione può rinvenirsi con riferimento al “restauro e risanamento conservativo”, ma solo nell’ipotesi in cui il Comune, sfruttando la possibilità riconosciuta dallì’art. 8, 2° comma, decida di assoggettare tale intervento a “permesso di costruire”.

Diversamente, dovrebbe ipotizzarsi un intervento della Commissione entro i ristretti termini (trenta giorni) di cui all’art. 11, il che appare francamente poco praticabile.

Il 2° comma dell’articolo in esame precisa che spetta al Consiglio comunale, con il RUE, definire la composizione della Commissione, le modalità di nomina e prevedere eventuali ulteriori competenze da assegnare alla Commisione oltre a quelle previste nel 1° comma.

Peraltro, non pare inutile ricordare che nella fase transitoria, disciplinata dall’art. 40, 3° comma, fino all’approvazione del RUE e comunque per un periodo massimo di dodici mesi dall’entrata in vigore della Legge (e cioè fino al 11 dicembre 2003), “le funzioni di cui all’art. 3, comma 1” (ma solo quelle!) sono attribuite alle attuali Commissioni Edilizie.

Un problema potrebbe porsi per quei Comuni che intendano, viceversa, mantenere le attuali competenze delle Commissioni Edilizie, nelle more dell’approvazione del RUE. Al riguardo, si ritiene che il Consiglio, possa  legittimamente “dilatare” le funzioni di cui all’art. 40, 3° comma, anche con un provvedimento ad hoc, senza dover attendere l’approvazione del RUE.

La Legge, recependo un suggerimento del più volte citato parere del Consiglio di Stato, prevede che della Commissione facciano parte solo tecnici con una elevata competenza e specializzazione, secondo un principio che è già presente da tempo in materia di commissioni di concorso ed in attuazione del fondamentale principio di separazione tra politica ed amministrazione [22].

Ancora, si prevede che il parere riguardi i soli aspetti compositivi ed architettonici e l’inserimento nel contesto urbano, paesaggistico ed ambientale e che, all’atto dell’insediamento, la Commissione possa redigere un apposito “documento guida” sui principi e sui criteri che adotterà. La facoltatività di detto adempimento pare un passo indietro rispetto a quanto prevedeva l’art. 18 del “Regolamento Edilizio Tipo” approvato con delibera di G.R. n. 593 del 28 febbraio 1995, dove si sanciva la necessità di detto documento preliminare, anche per evitare che la discrezionalità valutativa della Commissione si tramutasse in mero arbitrio.

Un commento a parte merita l’ultimo comma dell’articolo in esame.

Si tratta di una disposizione che suscita grosse perplessità.

Vi si prevede che in caso di divergenza (anche parziale) tra il parere della Commissione e le determinazioni conclusive del Dirigente (?) preposto allo Sportello Unico, queste siano immediatamente comunicate al Sindaco (??) perché quest’ultimo eserciti - entro il termine perentorio di trenta giorni - il potere di riesame di cui all’art. 24.

E’assai arduo comprendere il senso della disposizione.

Il Sindaco (organo “politico”, con buona pace del principio di separazione), dovrebbe esercitare (con quali competenze?; dotandosi di uno staff ad hoc?) un potere di riesame (che ai sensi dell’art. 24 dovrebbe consistere in un mero controllo di conformità, limitato a verificare il rispetto delle disposizioni di legge e degli strumenti di pianificazione territoriale e urbanistica), per ergersi, viceversa, ad arbitro in un contrasto che verterà, invece, sugli aspetti compositivi ed architettonici e sull’inserimento delle opere nel contesto urbano, paesaggistico ed ambientale (dato che è di questo – e solo di questo – che la Commissione si occupa). 

-  L’attività edilizia libera e i titoli abilitativi

Gli artt. 4 e 5 della Legge si occupano rispettivamente dell’attività edilizia “libera” e dell’attività edilizia in aree parzialmente edificate. 

Con riferimento al primo aspetto può dirsi che di vera e propria “liberalizzazione” può parlarsi solo con riferimento a questi interventi, che peraltro hanno una portata estremamente limitata.  Si tratta: a) della manutenzione ordinaria, come meglio definita nell’Allegato A; b) degli interventi volti all’eliminazione delle barriere architettoniche, ma purchè non interessino immobili vincolati o riguardino elementi strutturali dell’edificio o non ne alterino la sagoma; c) delle opere temporanee per attività di ricerca nel sottosuolo, di carattere geognostico o che siano eseguite in aree esterne al centro edificato.

Per quanto riguarda l’attività edilizia in aree parzialmente edificate, l’art. 5 si limita sostanzialmente a richiamare il disposto dell’art. 27 della L. n. 457/1978, ovviamente adattandolo alla nuova articolazione della pianificazione urbanistica comunale introdotta dalla L.R. n. 20/2000 (PSC / POC / PUA).

Sicuramente di maggiore interesse sono le disposizioni contenute nel Titolo II, dedicato ai “Titoli abilitativi” ed ai relativi procedimenti.

Innanzitutto i titoli abilitativi sono solo due: il permesso di costruire e la DIA, il cui utilizzo viene espressamente indicato come obbligatorio e con un significativo “ribaltamento” della stessa “filosofia” che connota il T.U. Edilizia, dato che gli intervento soggetti a DIA sono espressamente individuati, mentre tutti gli interventi non previsti sono soggetti a “permesso di costruire”.

Da questa impostazione consegue che tutti gli interventi non indicati nell’art. 8 (e talvolta neppure nella Tabella A contenente la “definizione degli interventi edlizi”) dovrebbero risultare soggetto a “permesso di costruire” (si pensi al “restauro scientifico”, al “ripristino tipologico”, alle semplici “demolizioni”) ma, in ogni caso, si determina una indubbia incertezza circa la loro disciplina [23], incertezza che si estende anche all’aspetto dell’onerosità o meno dell’intervento.  

Per quanto riguarda il permesso di costruire, le ragioni della nuova denominazione risultano chiaramente indicate nel parere del Consiglio di Stato più volte richiamato [24], laddove si sottolineava l’esigenza di “adottare un termine che per un verso non denoti una recessione del diritto del proprietario e che per converso non disconosca la funzione sociale del diritto ad edificare riconosciuto dalla Costituzione. Un termini, cioè, che lasci intendere che lo jus edificandi non discende dall’autorità che lo concede, essendo connaturato al diritto di proprietà (o diritto equipollente), ma che al tempo stesso non revochi in dubbio che quel diritto è sottoposto, nell’interesse comune e per la salvaguardia di superiori valori, ad un regime di governo e controllo amministrativo, ancorché significativamente snellito e semplificato dalle riforme introdotte”.

Estremamente significativa appare, invece, la qualificazione della DIA come un vero e proprio titolo abilitativo, come si desume inequivocabilmente dall’art. 6, 3° comma (“I titoli abilitativi sono la denuncia di inizio di attività e il permesso di costruire”).

Ciò pare contraddire frontalmente quella idea di “liberalizzazione” che sta alla base dello stesso istituto della “denuncia di inizio di attività”, e che trova il proprio “archetipo” nella disposizione contenuta nell’art. 19 della L.n. 241/1990.

Come è stato efficacemente ed autorevolmente sottolineato, “gli interventi e le opere che possono essere intrapresi previa denuncia all’Amministrazione comunale sono direttamente espressivi dello jus edificandi che deriva al soggetto dal diritto di proprietà: sotto questo profilo, data l’assenza di un potere esercitabile in forma provvedimentale, va semmai segnalata una sostanziale omogeneità con gli interventi liberi” [25].

In senso analogo, una recente ed interessante pronuncia del T.A.R. Liguria, sez. I, 22 gennaio 2003, n. 113, ha sottolineato come “con l’estensione del nuovo istituto alla materia edilizia, viene ad essere eliminato per tali attività il potere autorizzatorio – costitutivo dell’amministrazione sullo “jus edificandi”, con conseguente ampliamento del contenuto del diritto di proprietà, che viene ad arricchirsi della facoltà di attuare le attività medesime senza alcun condizionamento amministrativo” (…); “è la Legge che conferisce al privato la titolarità del diritto che lo legittima ad intraprendere autonomamente l’attività edilizia, senza l’intermediazione di titoli ulteriori” (….); “Conclusivamente, la denuncia si sostanzia in un atto soggettivamente ed oggettivamente privato, che non legittima di per sé l’intrapresa delle preannunciate attività, né sostituisce giuridicamente alcun titolo edilizio…”.

E’evidente quanto queste ricostruzioni differiscono dall’istituto delineato dalla Legge regionale ora in esame, in cui abbiamo, viceversa, un vero e proprio “titolo abilitativo”, non a caso “trasferibile” (viceversa, come sarebbe possibile la trasferibilità di una mera “denuncia”?) a “formazione progressiva" [26], dato che – come si può indirettamente desumere dal 3° comma dell’art. 6 – esso si consolida solo a seguito della “presentazione e del decorso del termine per l’inizio dei lavori”.

Come vedremo, tale ricostruzione in termini di vero e proprio titolo abilitativo ha però delle importanti ripercussioni su una materia strettamente correlata, che è quella dei controlli e delle sanzioni, ma su tale aspetto si rinvia alle considerazioni che seguiranno.

In realtà, come è stato osservato con riferimento al T.U. Edilizia, ma con considerazioni che si attagliano anche alla Legge regionale in esame, il “focus” del Legislatore non è tanto sul “titolo”, ma sul “procedimento [27], che viene dettagliatamente e minuziosamente disciplinato, anche per quanto riguarda la DIA ( cfr. gli artt. 10 e 11).

Tornando ai “titoli”, l’art. 6 stabilisce che i “titoli abilitativi” [28]devono essere conformi alle Leggi, ai Regolamenti ed alle prescrizioni contenute negli strumenti di pianificazione territoriale ed urbanistica vigenti ed adottati. Può aggiungersi  che - ai sensi dell’art. 33, 1° comma - essi devono altresì essere conformi “ai requisiti tecnici definiti dal RUE”.

Tale precisazione non appare ininfluente, dato che ai sensi dell’art 34, 3° comma, i requisiti cogenti travano diretta applicazione decorsi sei mesi dall’entrata in vigore della Legge, cosicché i professionisti tecnici si troveranno “onerati” di un ulteriore compito dal contenuto assai gravoso (con conseguente dilatazione della loro responsabilità).

 Devono inoltre osservare i vincoli paesaggistici, sismici, idrogeologici, forestali, ambientali e di tutela del patrimonio storico, artistico ed archeologico.

I titoli sono trasferibili, non pregiudicano i diritti dei terzi e sono, normalmente, onerosi. Infatti, ai sensi dell’art. 10, 2° comma, la DIA è generalmente “accompagnata dalla quantificazione e dal versamento del contributo di costruzione secondo quanto previsto dal titolo V della presente Legge”.

Prima di scendere all’esame dettagliato delle singole disposizioni, pare opportuno premettere che – ai sensi dell’art. 7 – le disposizioni sui “Titoli abilitativi” non trovano applicazione nelle ipotesi di “accordo di programma” [29], di “opere pubbliche eseguite da Amministrazioni statali o comunque insistenti su aree del demanio statale”, per “opere pubbliche di interesse regionale e provinciale” e per le “opere pubbliche dei Comuni”.

In tutte queste ipotesi, occorre comunque, prima dell’approvazione del progetto, l’“accertamento di conformità alle norme urbanistiche ed edilizie, nonché alle norme di sicurezza, sanitarie e di tutela ambientale e paesaggistica”.

Al riguardo, si possono compiere alcuni rilievi.

Innanzitutto, non si comprende perché non si siano richiamati tutti i vincoli indicati nell’art. 6, 2° comma (ad esempio, quelli volti alla tutela del patrimonio storico, artistico ed archeologico), dato che la nostra Costituzione non conosce “graduatorie” tra gli interessi meritevoli di tutela e, in ogni caso, l’interesse storico, artistico ed archeologico non pare di rango inferiore rispetto a quello ambientale e paesaggistico.

In secondo luogo, occorre rilevare che la disposizione non pare debba trovare applicazione per tutta quella categoria di opere “di interesse pubblico” (ad esempio, le opere poste in essere da ANAS, R.F.I., Società Autostrade, etc…), dato che il riferimento è limitato alle sole opere “pubbliche”. Per tali opere non pare, pertanto, che possa prescindersi dal rilascio del “permesso di costruire”.

Da ultimo, non sarebbe stato inutile specificare prima dell’approvazione di quale “progetto” (preliminare, definitivo o esecutivo) occorre procedere all’accertamento di conformità.

A parere dello scrivente tale accertamento dovrebbe essere disposto prima dell’approvazione del progetto “definitivo”, dato che - come è noto – tale approvazione comporta la dichiarazione di pubblica utilità dell’opera.

Ciò premesso, passiamo ad esaminare la disciplina che la Legge detta per la D.I.A.

L’art. 8 contiene un elenco aggiornato di quegli interventi “minori” già in gran parte previsti dalla L. n. 662/1996. Non ci si sofferma sui singoli interventi perché saranno oggetto del prossimo intervento e perché non pare che si pongano problemi nuovi.

E’peraltro importante quanto affermato nell’art. 6, 1° comma, laddove si precisa che “le definizioni degli interventi edilizi sono contenute nell’Allegato costituente parte integrante della presente Legge, le cui disposizioni potranno essere modificate con atto di coordinamento tecnico emanato ai sensi dell’art. 16, comma 2°, lettera c) della L.R. n. 20 del 2000”.

In altri termini, con un atto avente natura “regolamentare” (“atto di coordinamento tecnico”) si potrà procedere alla modificazione degli interventi, così come indicati nell’Allegato alla Legge.

Di sicuro interesse appare poi la previsione contenuta nel 2° comma dell’art. 8, laddove si stabilisce che il Consiglio Comunale procede, entro 180 giorni dall’entrata in vigore della Legge, a stabilire quali interventi, tra il restauro ed il risanamento conservativo, la ristrutturazione edilizia ed il mutamento di destinazione d’uso senza opere,  vengono sottoposti a “permesso di costruire”. A parte la singolare formulazione, che parrebbe obbligare a ri-categorizzare almeno uno di detti interventi, si deve censurare questa previsione che – con buona pace dei principi di “uniformità dell’attività tecnico amministrativa dei Comuni” e del “trattamento omogeneo dei cittadini”, solennemente enunciati all’ultimo comma dell’art. 6, rischia di creare un regime differenziato degli interventi, che dipende dalle autonome valutazioni di ogni singolo Comune. Al riguardo, non può che richimarsi il giusto monito del Consiglio di Stato [30], laddove ricorda che “l’unicità della disciplina in materia di concessione edilizia costituisce un punto fondamentale di omogenietà indispensabile per dare garanzia al cittadino di uniformità di comportamenti in qualsiasi Regione egli intenda operare nel settore”.

Nel terzo comma, a complicare ulteriormente le cose, si stabilisce che rimane però ferma la “disciplina sanzionatoria e fiscale” prevista dalle norme statali per l’esecuzione delle corrispondenti opere.

Poiché la disciplina sanzionatoria è attualmente il punto “più oscuro” di tutta la vicenda [31], è evidente come rappresenti un elemento di complicazione la previsione di interventi soggetti a previo permesso di costruire, senza che peraltro vi sia una corrispondenza sotto il profilo sanzionatorio.

Si pensi, a mero titolo esemplificativo, a quanto dispone l’art. 20, lettera b) della L. n. 47/1985 che non fa riferimento alla natura delle opere, ma alla presenza / assenza del titolo.

Si aggiunga che se la ri-categorizzazione è solo “procedurale” e non sostanziale, sfugge davvero il senso di questa operazione.

L’art. 9 prevede poi, in analogia a quanto dispone la L. n. 443/2001, che gli strumenti urbanistici comunali individuino ulteriori interventi di trasformazione edilizia (in pratica, interventi di nuova costruzione e di ristrutturazione urbanistica) e ne disciplinino i contenuti “planovolumetrici, formali, tipologici e costruttivi”.

Anche qui la norma è di non felicissima formulazione (i contenuti planuvolumetrici, formali, tipologici e costruttivi, sono contenuti degli strumenti urbanistici, come più correttamente stabilisce il T.U. Edilizia e non dei singoli interventi), e si può aggiungere come con la recente modifica al T.U. Edilizia, il riferimento ai contenuti “formali, tipologici e costruttivi” è stato soppresso, proprio perché si trattava di formulazione non felice e poco chiara.

Si richede, inoltre, che sempre nel termine di 180 giorni, il Consiglio Comunale proceda ad effettuare una ricognizione degli strumenti urbanistici vigenti, per individuare gli interventi (rectius: i piani) che presentando i contenuti sopra indicati devono essere eseguiti mediante DIA (la doverosità pare conseguire dal carattere “obbligatorio” della DIA).

L’art. 10 si occupa della “disciplina della denuncia di inzio di attività”.

Si precisa che il proprietario o “chi ha titolo [32], trenta giorni prima dell’inzio dei lavori presenti: A) una denuncia di inzio attività; B) gli elaborati progettuali richiesti dal RUE [33]; C) una dichiarazione del progettista abilitato, resa ai sensi dell’art. 481 [34] del Codice Penale, che asseveri il rispetto delle norme di sicurezza, di quelle igienico sanitarie e la conformità delle opere agli strumenti urbanistici, al RUE ed alla valutazione preventiva; D) la indicazione del direttore dei lavori e dell’impresa esecutrice. La denuncia sarà preceduta dalla autoliquidazione del contributo di costruzione, ove previsto.

La denuncia ha validità per tre anni, decorrenti dalla data di inizio lavori, e il termine per l’ultimazione degli stessi può essere prorogato per una sola volta, per fatti estranei alla volontà dell’interessato.

Qualora l’immobile sia soggetto a vincoli, possono darsi due ipotesi.

Se il rilascio dell’atto di assenso spetta all’Amministrazione comunale, anche in via di delega (come nel caso dell’autorizzazione paesaggistica) il termine di trenta giorni per l’inzio dei lavori decorre dal rilascio del relativo atto di assenso, atto di assenso da rendersi, comunque, entro trenta giorni dalla presentazione della denuncia.

Se poi sono previsti poteri di controllo dell’atto di assenso, occorrerrà altresì attendere il decorso del termine per l’esercizio del potere di annullamento.

Nulla si dice, però, per l’ipotesi in cui il Comune rimanga inerte nel rilascio dell’atto di assenso, ipotesi per la quale deve ipotizzarsi il ricorso al (defatigante) strumento del “silenzio rifiuto”.

Qualora, invece si tratti di vincolo la cui tutela non compete all’amministrazione comunale, lo Sportello Unico richiede, entro dieci giorni dalla presentazione, all’Autorità preposta, il rilascio del relativo assenso, e se questa non risponde, decorsi trenta giorni dalla richiesta, il responsabile dello Sportello Unico convoca una conferenza di servizi. In questo caso, il termine di trenta giorni per l’inizio dei lavori decorre dal ricevimento dell’atto richiesto o dall’esito (positivo) della conferenza.

L’ultimo comma precisa che la realizzazione delle trasformazioni con DIA è soggetta alla disciplina sanzionatoria e fiscale prevista dalle norme statali vigenti per l’esecuzione delle corrispondenti opere, con una chiara notazione “sostanzialistica”, che, come abbiamo già sottolineato, non sempre risolve i problemi, soprattutto quando il Legislatore statale non si rifà alle “opere”, ma ai “titoli”.

L’art. 11 disciplina il “Controllo sulle opere eseguite con denuncia di inzio attività”.

Si tratta di una disposizione che suscita numerose perplessità sia da un punto di vista teorico che dal punto di vista pratico.

Si prevede una duplice modalità di controllo: un controllo “preventivo” ed un controllo “successivo” (o di merito).

Il primo viene posto in essere entro il termine di trenta giorni dalla presentazione della denuncia ed attiene esclusivamente alla completezza della documentazione presentata, all’accertamento che la tipologia dell’intervento rientri nei casi stabiliti e alla correttezza del calcolo del contributo di costruzione ed alla verifica circa l’avvenuto versamento dell’importo corrispondente.

La seconda tipologia di controlli viene effettuata in corso d’opera e comunque entro dodici mesi dalla comunicazione di fine lavori, ovvero, se si tratta di interventi soggetti a certificato di conformità edilizia e agibilità [35], entro la data di presentazione della domanda di rilascio del certificato stesso.  

 Per quanto attiene al primo tipo di controlli (quello preventivo) non appare comprensibile (ed anzi appare illogica e fortemente limitante per l’autonomia dei singoli Comuni) la indicazione dei limiti di intervento (“provvede esclusivamente”) dato che se il Dirigente accerta un improprio utilizzo della DIA (ad esempio, il contrasto con espresse previsioni di Piano) non si capisce perché dovrebbe essergli preclusa la possibilità di intervenire, prima che l’attività venga concretamente intrapresa (e divenga pertanto difficilmente reversibile).

Analoghe perplessità suscita il potere (successivo) di controllo “di merito”.

Innanzitutto, esso appare di difficile inquadramento.

Se si tratta semplicemente di un secondo termine concesso all’Amministrazione, valgono al riguardo le condivisibili affermazioni del Consiglio di Stato [36], secondo le quali “se la DIA precostituisce una sorta di silenzio assenso allo scadere del termine breve che legittima l’inizio dei lavori, essa non può, poi, essere contraddetta da un secondo termine più lungo, che vanifichi l’effetto predetto con l’adozione di provvedimenti cautelari o addirittura demolitori che determinerebbero un danno per il cittadino che abbia intrapreso l’intervento fidando nella sua legittimità”.

Viceversa, se – come appare più corretto – questo secondo controllo è espressione del generale potere di “autotutela [37]”, sarebbe parso più opportuno che la Legge specificasse chiaramente alcuni aspetti.

Innanzitutto la necessità di far precedere il controllo dall’invio della comunicazione di avvio del procedimento, come ha evidenziato una recente pronuncia [38] e come dovrebbe discendere dalla considerazione che si tratta di procedimento “eventuale” ed autonomo.

In secondo luogo, posto che la DIA costituisce un vero e proprio “titolo abilitante”, a formazione progressiva, non pare potersi prescindere dal previo annullamento di detto titolo, in quanto, come ha sottolineato la giurisprudenza, “l’Amministrazione si troverebbe davanti uno specifico titolo che, ancorchè illegittimo, ha formalmente assentito l’intrapresa dei lavori, e pertanto dovrebbe preventivamente rimuovere lo stesso per poter utilmente applicare le sanzioni previste dalla Legge per le opere eseguite in difformità dalla vigente normativa urbanistico-edilizia [39].

Inoltre, non è affatto chiaro se i termini previsti siano perentori, come sembrerebbe dal punto di vista strettamente letterale, ovvero meramente ordinatori. Ancora più complesso è capire in che rapporto stia la presente disposizione in riferimento al generale (e imprescrittibile) potere sanzionatorio dell’Amministrazione, così come il potere di controllo ora in esame possa coordinarsi con quanto disposto dall’art. 24 (“Richiesta di riesame”), dato che i termini non sono affato coincidenti (nell’art. 24 i dodici mesi decorrono dal rilascio del titolo - si deve supporre per la DIA - dalla presentazione della denuncia e dal decorso dei trenta giorni).

Tutto ciò senza considerare che la “rigida” predeterminazione del numero di interventi da sottoporre a controllo (“almeno una percentuale del 30%”) non appare – ancora una volta  - sufficientemente rispettosa dell’autonomia dei singoli Comuni.

Da ultimo, la Legge non precisa minimamente quali siano le conseguenze del controllo, neppure sotto l’aspetto delle necessarie segnalazioni all’Ordine professionale ed alla Procura, “scaricando” – ancora una volta – sull’interprete ogni decisione al riguardo.

Ultimissima annotazione: la Legge dice che spetta al RUE stabilire le modalità di controllo “di merito”, ma precisa che nelle more dell’approvazione del RUE, esso deve comunque trovare applicazione. A prescindere dal fatto che non è precisato a chi spetti stabilire le modalità di controllo nel periodo transitorio (presumibilmente al Consiglio comunale), appare indubbio che non potranno più essere disposti controlli su DIA per le quali i lavori siano terminati da oltre dodici mesi, ponendo termine ad una prassi che, viceversa, vedeva molti Comuni intervenire su precedenti DIA anche ad alcuni anni di distanza.

Per quanto riguarda il procedimento per il rilascio del permesso di costruire, ci limitiamo ad alcune sintetiche annotazioni.

Innanzitutto, la innovazione più significativa consiste nell’introduzione del “silenzio assenso”, che si forma decorsi 75 giorni (ovvero 135 giorni) dalla presentazione della domanda.

La giustificazione teorica di detta significativa innovazione, “caldeggiata” anche del Consiglio di Stato [40], risiede nella configurazione del provvedimento di rilascio del “permesso di costruire” come atto dovuto, privo di sostanziale discrezionalità. Come ha efficacemente sottolineato la Corte Costituzionale, in una risalente pronuncia: “la concessione è dovuta, oltre che trasferibile e irrevocabile, escludendosi, quindi ogni valutazione discrezionale: se l’opera edilizia per la quale si chiede la concessione corrisponde alle previsioni degli strumenti urbanistici, l’Autorità è tenuta a rilasciare la concessione” [41].

Ciò risulta ancora più vero oggi, a seguito delle modifiche introdotte con riferimento agli strumenti urbanistici comunali [42], che oggi si articolano secondo un disegno che porta ad una precisa individuazione degli interventi da realizzare in un arco temporale definito.

Per quanto riguarda, viceversa, il procedimento delineato dall’art. 13, possono svolgersi le seguenti considerazioni.

Innanzitutto appare singolare che, a differenza di quanto disposto dal T.U. Edilizia e dalla stesso art. 22 in tema di rilascio del certificato di conformità edilizia ed agibilità, non sia prevista la comunicazione del responsabile del procedimento. Si rammenta, infatti, che secondo un orientamento giurisprudenziale, la mancata comunicazione del nominativo del responsabile del procedimento sarebbe motivo di illegittimità del provvedimento finale, in quanto in tal modo si preclude all’interessato “la possibilità di contattare il funzionario allo scopo di prevenire eventuali difficoltà, fornire chiarimenti e ricevere utili indicazioni in ordine ad eventuali correzioni da apportare alla domanda e alla documentazione a corredo dell’istanza” [43].

Ancora, non sarebbe forse stato inutile prevedere (come viene specificato nel T.U. Edilizia) che l’esame delle domande debba svolgersi secondo l’ordine cronologico di presentazione [44].

Un problema aperto è quello relativo alla necessità di comunicare l’avvio del procedimento ad eventuali soggetti “controinteressati”. Infatti, mentre la giurisprudenza è sostanzialmente concorde nell’escludere tale necessità [45], la dottrina è molto più possibilista, sottolineando come “vanno fatti salvi gli specifici casi concreti in cui vi siano controinteressati chiaramente individuati o facilmente individuabili [46].

Per quanto riguarda l’istruttoria, i dati più significativi sono la possibilità di richiedere documenti ed atti integrativi una sola volta ed entro 15 giorni (30 per i Comuni con più di 100 mila abitanti o per progetti particolarmente complessi) dalla presentazione della domanda, con conseguente interruzione del termine [47], che ricomincia a decorrere dal ricevimento degli atti.

Entro 60 giorni (120 per i Comuni con più di 100 mila abitanti o per progetti particolarmente complessi) dalla presentazione della domanda il responsabile del procedimento, dopo aver acquisito i prescritti pareri dagli uffici comunali e gli altri atti di assenso “necessari al rilascio del provvedimento [48], nonché il parere della Commissione per la Qualità urbana ed il Paesaggio, formula una “proposta” di provvedimento, corredata da una “relazione”.

La Legge precisa che il parere della C.Q. deve intervenire entro il termine di 60 gg., “prescindendo comunque dallo stesso qualora non venga reso entro il medesimo termine”.

Tale previsione, ancora una volta di stampo chiaramente “regionalista” (nel senso che non lascia libertà di valutazione ai singoli Comuni) suscita qualche perplessità, soprattutto con riferimento a quelle ipotesi in cui la Commissione è chiamata ad esprimersi in materia di “beni paesaggistici”, dato che non pare che in questa ipotesi si possa prescindere dal parere, anche ai sensi di quanto dispone l’art. 16 della L. n. 241/1990.

Inoltre, più in generale, la Legge regionale non pare aver previsto alcun accorgimento per evitare che la possibilità della Commissione di esprimersi dipenda esclusivamente dalla buona volontà del responsabile del procedimento, che ben potrebbe  - con richieste “tardive” – porre la Commissione nella materiale impossibilità di pronunciarsi entro i termini previsti dalla Legge [49].

Degna di menzione è poi la possibilità di convocare l’interessato per un’audizione, con la redazione di apposito verbale [50] e nella quale vengono concordati tempi e modalità per introdurre modifiche al progetto originario.

Da ultimo, suona un po’“beffarda” la previsione contenuta nell’ultimo comma dell’art. 13, laddove si afferma che i Comuni possono disciplinare autonomamente (nel RUE) il procedimento “de quo”, dato che poi si precisa che comunque non possono essere modificati gli “snodi” essenziali del procedimento stesso (i termini e la maturazione del silenzio assenso).

- La valutazione preventiva.

Si tratta di un istituto parzialmente nuovo, anche se assomma in sé alcune caratteristiche del “parere preventivo” di cui all’art 8 della L.R. n. 33/1990.

Può essere richiesto sia per interventi soggetti a DIA [51] che per interventi subordinati al rilascio del “permesso di costruire”.

Il richiedente deve allegare una “relazione” predisposta da un professionista abilitato contenente i principali parametri progettuali, la categoria di intervento, i vincoli , gli indici e le destinazioni d’uso.

Anche qui è previsto un meccanismo di “silenzio assenso”, del tutto singolare, che scatta decorsi 45 dalla presentazione della relazione.

Infatti, il “silenzio assenso” appare ontologicamente incompatibile con l’esercizio di un’attività valutativa, come dimostra, sia pure indirettamente, quanto stabilito dall’art. 17 della L. n. 241/1990.

Altrettanto arduo è comprendere come possa ritenersi “vincolante ai fini del rilascio del permesso di costruire o del controllo della denuncia di inizio attività” una valutazione preventiva assentita in via silenziosa, e si nutre più di un dubbio sulla legittimità Costituzionale di una siffatta previsione.

La valutazione preventiva ha validità per un anno, a meno che non intervengano modifiche ai piani urbanistici ed al RUE e il suo rilascio è subordinato al pagamento di una somma forfetaria per spese istruttorie, stabilita dal Comune.

Da ultimo, sarà interessante vedere come l’istituto ora in esame potrà coordinarsi con i poteri riconosciuti alla Commissione per la Qualità ed il Paesaggio, e quali siano i margini di intervento che alla stessa residuino in presenza di una valutazione preventiva “positiva”.

- Il certificato di conformità edilizia e agibilità.

Gli artt. 21 e 22 della Legge disciplinano il certificato di conformità edilizia e agibilità ed il relativo procedimento.

Come è noto, si tratta dell’edizione “aggiornata e corretta” del certificato previsto dal R.D. 1265/1934, e che nella nostra Regione aveva assunto il nome di “certificato di conformità edilizia” ai sensi della L.R. n. 33/1990.

Superando una storica “diatriba” [52], tra coloro che ritenevano che il certificato avesse una valenza esclusivamente igienico – sanitaria e coloro che invece lo ritenevano uno strumento che consentiva anche la verifica circa la conformità delle opere al progetto approvato ed alle prescrizioni urbanistiche ed edilizie, l’art. 21 precisa chiaramente che detto certificato “attesta che l’opera realizzata corrisponde al progetto approvato o presentato, dal punto di vista dimensionale, prestazionale e delle prescrizioni urbanistiche ed edilizie ed in particolare la sussistenza delle condizioni di sicurezza, igiene, salubrità, risparmio energetico degli edifici e degli impianti negli stessi installati, valutate secondo quanto dispone la normativa vigente”.

Si tratta cioè dell’attestazione del rispetto di quei requisiti “prestazionali” previsti dall’art. 33 e che dovrebbero garantire una effettiva “qualità” dell’opera.

Al 2° comma dell’art. 21 si specifica che sono soggetti al certificato: a) gli interventi di nuova costruzione; b) gli interventi di ristrutturazione urbanistica; c) gli interventi di ristrutturazione edilizia [53].

Si precisa poi che per gli interventi non compresi nel comma 2°, la dichiarazione dei conformità del professionista abilitato, contenuta nella scheda tecnica descrittiva, tiene luogo del certificato. In questo caso, una copia della scheda deve essere trasmessa al Comune entro quindici giorni dalla comunicazione di ultimazione dei lavori.

In ipotesi di ritardo, di mancata presentazione della domanda di certificato o di mancata trasmissione della scheda tecnica descrittiva scatta la sanzione amministrativa pecuniaria da 77 a 464 Euro.

Non è specificato, peraltro, che cosa avvenga una volta che detta sanzione sia stata pagata, e cioè se e quali poteri residuino in capo all’Amministrazione.

La sanzione colpisce il titolare del permesso di costruire o colui che ha presentato la denuncia ed i loro successori o aventi causa e punisce, singolarmente, la mancata esecuzione di un adempimento formale (la mancata richiesta o la mancata trasmissione) e non il fatto (sostanziale) di aver utilizzato un immobile privo del certificato.

Nulla si dice, mentre sarebbe parso estremamente opportuno, sulla possibilità di rilascio di una “agibilità parziale”, relativa cioè a singole porzioni dell’immobile, strutturalmente e funzionalmente autonome.

Per quanto riguarda il procedimento, la domanda di rilascio deve essere corredata: a) dalla richiesta di accatastamento dell’immobile che lo Sportello Unico provvede a trasmettere al catasto [54]; b) da copia della scheda tecnica descrittiva e dei relativi allegati [55].

Si rammenta che gli aspetti igienico sanitari sono sempre asseverati dal professionista, fatta salva l’ipotesi di insediamenti produttivi e di servizio caratterizzati da significativi impatti sull’ambiente e sulla salute [56], per i quali viene previsto (art. 41 della Legge, che modifica l’art. 19 della L.R. 19/1982) il parere preventivo dell’AUSL e dell’ARPA.

Ricevuta la richiesta, il responsabile dello Sportello Unico comunica il nominativo del responsabile del procedimento [57], il quale può richiedere – entro trenta giorni – documenti integrativi che non siano “a disposizione dell’Amministrazione o che non possano essere acquisiti dalla stessa autonomamente” [58].

Il certificato è rilasciato entro 90 giorni dalla richiesta, decorsi i quali la conformità edilizia e agibilità si intende comunque attestata ed in questo caso la scheda tecnica descrittiva tiene luogo del certificato stesso.

Per quanto riguarda i controlli - le modalità dei quali (anche in riferimento ai diversi tipi di intervento ed ai diversi ambiti di territorio) devono essere disciplinate dal RUE - la Legge prevede che essi abbiano ad oggetto la (sola) “rispondenza dell’intervento realizzato agli elaborati di progetti presentati o approvati”. 

Non si comprende la ragione di tale limitazione, se si considera che, ai sensi del 1° comma dell’art. 21, il certificato attesta altresì “la sussistenza delle condizioni di sicurezza, igiene, salubrità, risparmio energetico degli edifici e degli impianti negli stessi installati, valutate secondo quanto dispone la normativa vigente”.

L’ultimo comma precisa poi che rimane sempre salvo il potere di dichiarare l’inagibilità di un edificio o di parte di esso, sia per motivi di tipo igienico – sanitario che per motivi di tipo strutturale [59].

La possibilità di dichiarare l’inagibilità per motivi strutturali rappresenta una importante innovazione, che risolve alcuni problemi che si erano posti nella pratica, anche se è agevole presumere che ben difficilmente i Comuni di piccole dimensioni risulteranno dotati di professionalità in grado di effettuare le necessarie valutazioni.

Resta altresì il dubbio sull’organo a cui spetta adottare i provvedimenti di cui sopra.

A parere del sottoscritto si tratta di poteri che dovrebbero fare capo al Dirigente / Responsabile di servizio, non essendo ravvisabili i requisiti del rimedio “extra ordinem”.


 

[1] Il lavoro costituisce il testo della relazione predisposta per la giornata di studio sulla Legge organizzata da Opera s.a.s il 21 febbraio 2003 a Bologna.

[2] Può essere interessante rilevare che il D.P.R. 616/1977 (Titolo V) si riferiva all’“assetto ed utilizzazione del territorio”, con una visione evidentemente più statica.

[3] Cfr., sul punto, la attenta ricostruzione di PORTALURI P.L., La civiltà della conversazione nel governo del territorio, in www.giustamm.it, n. 12 - 2002

[5] Vedi, ad esempio, Cons. di Stato, sez. IV, 08.10.1998 n. 1647.

[6] Si tratta, peraltro, di una guerra già in corso, se si considerano i ricorsi proposti innanzi alla Corte Costituzionale dallo Stato nei confronti di Leggi regionali che hanno disciplinato ambiti ritenuti rientranti nella materia “tutela dell’ambiente”, come la Legge regionale Lombardia n. 6 del 2002, la Legge regionale Toscana n. 12 del 2002 e la Legge regionale Puglia n. 5 del 2002, tutte in materia di elettrosmog.

[7] Non è un caso che nel Progetto di Legge d’iniziativa della Giunta Regionale, nel B.U.R.E.R., Supplemento speciale n. 170, 2002, testualmente si legga, “Va considerato infine che con le recente riforma costituzionale la materia oggetto del presente progetto di legge è compresa tra quelle di competenza esclusiva regionale

[8] Si tratta, viceversa, della lettura che pare ora prevalere anche in riferimento alla L. R. n. 31/2002, come si può desumere dalla “Nota illustrativa” del 10.12.2002, laddove si rileva che “l’intervento legislativo intende affermare con prontezza la competenza della Regione a dettare una disciplina organica dell’attività edilizia sostitutiva di parte dell’attuale normativa statale, che continua a connotarsi per il suo carattere operativo e di dettaglio, mentre semmai, in ragione della riforma costituzionale, dovrebbe limitarsi a definire i principi fondamentali della materia”.

[9] Così il ricorso della Regione Emilia-Romagna, depositato nella cancelleria della Corte Costituzionale in data 05 marzo 2002, in G.U., serie speciale, n. 17 del 24.04.2002

[10] Consiglio di Stato, Par. Sez. atti normativa, 20.12.2002 n. 4341.

[11] Così T.A.R. per l’Emilia – Romagna, Bologna, sez. II, 04.06.1999, n. 280. In senso parzialmente diverso, vedi però T.A.R. per l’Emilia - Romagna, Bologna, sez. I, 08.02. 2001, n. 145.

[12] Si tratta di un tema che trova riscontro nella stessa Carta Costituzionale, ove si possono individuare due “anime”, quella “regionalista”  e quella “municipalista”.

[13] Su tale aspetto, peraltro, si rinvia a quanto si dirà successivamente, in sede di commento delle norme relative a detto organo consultivo.

[14] Cons. di Stato, Ad. Generale, 29 marzo 2001, n. 52/2001

[15] In senso analoga, DE PRETIS D., Lo sportello unico per l’edilizia, in AA.VV., La disciplina pubblica dell’attività edilizia e la sua codificazione, Giuffrè, 2002, p. 271, che parla di “gabbie regionali omogeneizzanti”.

[16] Come è stato efficacemente sottolineato da CORLETTO D., Lo sportello unico per l’edilizia fra Governo Regioni e Comuni, in Riv. Giur. Urb., 2001, p. 549, si tratta di un istituto “così carico di promesse e suggestioni, da rendere troppo costoso (in termini di consenso) e in fatto impossibile per le Regioni non rispettare l’attesa che si è creata”.

[17] Si ricordi che, ai sensi dell’art. 114 della Costituzione, i Comuni “sono Enti autonomi con propri statuti poteri e funzioni secondo i principi fissati dalla Costituzione

[18] Cfr. DE PRETIS D., op. cit., p. 277.

[19] Infatti, i contributi vengono concessi dalla Giunta Regionale solo nelle ipotesi sopra indicate.

[20] Cons. di Stato, Ad. Generale 29.03.2001, n. 52/2001.

[21] Sul dibattito circa la sorte della C.E. dopo la L. 449/1997, vedi MINISSALE A., La commissione edilizia è ancora necessaria?, in Amm. It., 1999, p. 798; BELLOMIA S., Riflessioni critiche sulla commissione edilizia comunale e sul suo declino, in Riv. Giur.Ed., 2000, II, p. 97 ss; MASTRANTUONO R., Illeggitimità della soppressione della Commissione edilizia comunale, in Riv. Giur. Ed., 2000, II, p. 301 ss; MILIOTO G., Il ruolo della Commissione edilizia comunale dopo il nuovo assetto degli Enti Locali, in Amm. It., 2001, p. 81 ss; GRILLO S., Commissione edilizia comunale: organo collegiale non indispensabile, in Trib. Amm. Reg., II, 2001, p. 61 ss.

[22] Forse, date le competenze in materia di beni paesaggistici, non sarebbe stato male prevedere la obbligatoria presenza di uno o più esperti in materia paesistico – ambientale.

[23] Non è un caso, ad esempio, che mentre Modena ritiene che il “restauro scientifico” sia assoggettato a DIA (vedi Circ. del 10/12/2002), Ferrara, viceversa, ritenga necessario il “permesso di costruire” (vedi Circ. del 17.01.2003).

[24] Cons. di Stato, Ad. Generale, 29 marzo 2001, n. 52/2001.

[25] In tal senso BOSCOLO E., La denuncia di inizio attività, in AA.VV., La disciplina pubblica dell’attività edilizia e la sua codificazione, Giuffrè 2002, p. 321, che afferma altresì “la sottoposizione di una determinata attività al regime della denuncia presuppone il riconoscimento di un corrispondente diritto soggettivo in capo al privato. Questo dato rischia di però di rimanere in ombra se il regime della denuncia e quello del permesso di costruire vengono, anche solo implicitamente assimilati e queste due figure vengono collocate su di un medesimo piano, secondo lo schema che veniva invece correttamente applicato al binomio concessione – autorizzazione edilizia”

[26] In tal senso, vedi ACQUARONE G., La denuncia di inizio attività – Profili teorici, Milano, 2000, p. 204 ss.

[27] Così MAZZARELLI V., I titoli abiliativi, in AA.VV., La disciplina pubblica dell’attività edilizia e la sua codificazione, Giuffrè 2002, p. 262, che sottolinea come “il problema dei titoli edilizi non ha più una valenza in sé. Li chiamiamo titoli edilizi, ma sono in realtà procedimenti richiesti per realizzare diverse tipologie di interventi, due, tre, quattro o quanto piacerà di codificarne”.

[28] Con riferimento alla DIA, sarebbe parso più corretto il riferimento all’“attività” più che al “titolo”.

[29] Prima, l’art. 40 della L.R. n. 20/2000, rimetteva alla autonoma decisione del Consiglio comunale se attribuire o meno all’approvazione dell’accordo il valore di concessione edilizia.

[30] Cons. di Stato, Ad. Generale, 29 marzo 2001, n. 52/2001

[31] Si veda, sul punto BOSCOLO E., La denuncia, op. cit. , p. 334; sia consentito rinviare anche a GUALANDI F., DIA e tutela giurisdizionale del terzo, in corso di pubblicazione su “Le istituzioni del federalismo”, Maggioli, 2003.

[32] In questo modo si “scarica” sull’interprete l’onere assai gravoso di individuare chi “abbia titolo”. E’da segnalare, inoltre, che a differenza di quanto prevede l’art. 13, non è neppure prevista “l’attestazione concernente il titolo di legittimazione”. Circa la individuazione dei soggetti legittimati, vedi il contributo di CARPARELLI O., Brevi note in tema di soggetti legittimati a richiedere la concessione edilizia, in www.giustamm.it, n. 7/8 – 2001.

[33] Per gli edifici esistenti, occorrerrà altresì allegare gli elaborati progettuali previsti dall’art. 35, 2° comma, relativamente agli aspetti strutturali. In ogni caso, gli elaborati progettuali dovranno rappresentare lo “stato di fatto” degli immobili oggetto degli interventi edilizi, ai sensi dell’art. 6, 4° comma.

[34] Si tratta del falso ideologico in certificati commesso da esercente un servizio di pubblica necessità.

[35] Come avviene nel caso della ristrutturazione edilizia

[36] Cons. di Stato, Ad. Generale, 29 marzo 2001, n. 52/2001.

[37] Vedi, per l’inquadramento nell’autotutela dell’attività dell’amministrazione successiva alla denuncia, CERULLI IRELLI V., Modelli procedimentali alternativi in tema di autorizzazioni, in Dir. amm., 1993, p. 127.

[38] Cfr. TAR Veneto, sez. III, 24.08.2002 n. 4960.

[39] Così TAR Liguria, sez. I., 22.01.2003, n. 113.

[40] Cfr. Cons. di Stato, Ad. Generale, 29 marzo 2001, n. 52/2001.

[41] Così Corte Cost., 05.05.1983 n. 127; per la dottrina, sia consentito rinviare a GUALANDI F., Il ruolo del silenzio-assenso in campo urbanistico ed edilizio, in Riv. Giur. Urb., 1996, p. 189 ss.

[42] Ci si riferisce, come è ovvio, alle innovazioni introdotte dal Capo III del Titolo I della L.R. n. 20/2000.

[43] Così TAR Lazio, Latina, 07.06.1999, n. 488; in senso analogo, vedi Cons. di Stato, sez. II, 08.031995 n. 2532/1995.

[44] Il che non significa affatto che esse debbano concludersi nel medesimo ordine, dato che ciò dipende, viceversa, dal grado di complessità di ciascuna domanda.

[45] Vedi, per tutte, Cons. di Stato, sez. VI, 15.09.1999, n. 1197.

[46] Così DE NICTOLIS R. Il responsabile del procedimento di rilascio del permesso di costruire, in www.giustizia-amministrativa.it; ma si veda anche CARANTA R., Comunicazione di avvio del procedimento e rilascio di concessione edilizia, in Giur. It., 2000, p. 624.

[47] Ciò peraltro non significa che atti e documenti possano essere richiesti anche successivamente, con la rilevante differenza però che in questa seconda ipotesi i termini continuano a decorrere

[48] Tali non sono quegli atti di assenso che, viceversa, costituiscono una mera condizione di efficacia del titolo abilitativo.

[49] Il problema potrebbe essere risolto nel RUE, con una “temporalizzazione” del termine, prevedendo, ad esempio, che il parere della C.Q. vada richiesto almeno venti giorni prima della scadenza del termine.

[50] Si tratta di un accorgimento utile, che consente di documentare efficacemente quanto concordato tra Amministrazione e interessati.

[51] Il che appare assai singolare, dato che in tal modo si vanifica quella “semplificazione procedimentale” che sta alla base della stessa introduzione della DIA.

[52] Sia consentito, sul punto, rinviare a GUALANDI F., La disciplina del certificato di abitabilità: nuove problematiche alla luce del D.P.R. 22 aprile 1994 n. 425”, in Riv. Giur. Ed., 1995, p. 53 ss.

[53] Un aspetto che la Legge regionale non affronta, ma che è stato talvolta evidenziato dalla giurisprudenza è quello relativo alla necessità del certificato di in ipotesi di “mutamento di destinazione d’uso” che modifichi significativamente le condizioni di sicurezza, igiene, salubrità, etc…

[54] Si tratta di un onere di non poco rilievo per i singoli Comuni.

[55] Si ritiene che questa documentazione sia da ritenersi “essenziale” per la formazione del silenzio assenso, nel senso che in mancanza della stessa il silenzio assenso non si formi.

[56] Vedi delibera di G.R. n. 477 del 21.02.1995.

[57] Anche se non si prevede entro quale termine l’Amministrazione debba provvedere.

[58] Si ritiene che il Legislatore regionale abbia voluto sostanzialmente riprendere il disposto dell’art. 18 della L. n. 241/1990.

[59] Tale possibilità va tenuta nettamente distinta da quella consistente nella possibilità di pervenire all’annullamento – in via di autotutela – di un assenso illegittimamente formatosi.

Documenti correlati:

LEGGE REGIONE EMILIA-ROMAGNA 25 novembre 2002, n. 31 - Disciplina generale dell'edilizia (pubblicata nel Bollettino ufficiale della Regione Emilia-Romagna n. 163 del 26 novembre 2002 e nella G.U.R.I. n. 11 del 15 marzo 2003).

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