FRANCESCO MINNITI e MASSIMO MINNITI
(Avvocati)
Giudizio di appello nel rito civile (cenni). L’ammissibilità di prove nuove in appello; in particolare, contenuto del concetto di indispensabilità (artt. 345 e 437 c.p.c.)
Paragrafo n. 1: l’appello nel processo civile. Cenni.
L’appello è il mezzo diretto ad assicurare la garanzia soggettiva dell’impugnazione dei provvedimenti giurisdizionali nel nostro ordinamento e realizzare il c.d. principio del doppio grado di giurisdizione [1].
Se in origine il doppio grado di giurisdizione si giustificava in relazione al carattere gerarchico dell’ordinamento giudiziario, venuto meno tale carattere, sin dalla fine dell’ottocento è stato affermato non esservi alcun motivo per ritenere che la sentenza di appello sia una sentenza “migliore” di quella emanata in sede di prime cure (Mortara). Pertanto, il fondamento dell’appello può rinvenirsi nelle minori probabilità di errore del giudice di secondo grado in virtù del fatto che questi può giovarsi dell’insegnamento del primo grado e valutarne i risultati (Calamandrei). In altri termini, nel nostro ordinamento è riconosciuta - nel più vasto ambito del diritto di difesa ex art. 24 Cost. - la possibilità di ottenere il riesame della causa da parte di un giudice diverso da quello che ha emanato la sentenza [2].
A differenza del ricorso per cassazione (art. 360 c.pc.), e della revocazione (artt. 395-397 c.p.c.), l’appello è un mezzo di impugnazione a motivi illimitati potendosi denunciare qualsiasi tipo di errore (in procedendo o in iudicando).
Sono appellabili tutte le sentenze tranne le esclusioni dettate dalla legge [3] o dalle parti ex art. 360, co. II°, c.p.c. [4].
L’atto di appello (che nel rito ordinario è costituito da citazione) deve contenere – fra l’altro – anche “l’esposizione sommaria dei fatti e dei motivi specifici dell’impugnazione”; l’appellante non può limitarsi a generiche doglianze e ciò contribuisce a determinare l’oggetto dell’appello. Per i capi della sentenza non impugnati si determina il passaggio in giudicato per acquiescenza (art. 329, comma II°, c.p.c.) [5], mentre l’appellato può, a sua volta, proporre appello incidentale (art. 343 c.p.) [6]
Come ormai è noto, a seguito legge di riforma 23.11.1990 n. 353, il giudizio di appello in materia civile è stato ricondotto al modello di revisio prioris istantiae che già gli era proprio antecedentemente alla riforma del 1950.
Il legislatore del ’50 (legge n. 581/50), infatti, aveva ammesso la possibilità di proporre in appello nuove domande ed eccezioni nonché nuovi mezzi di prova: possibilità ora precluse, proprio dalla legge 353/90, che ha così restituito al giudizio di appello il valore di controllo e revisione della controversia dedotta in primo grado con la conseguenza che la sentenza di appello si sostituisce ed assorbe in sé quella di primo grado.
Con particolare riferimento all’art. 345 c.p.c., il suo testo originario era coerente con la natura di mera revisio prioris istantiae conferita al giudizio di appello dal codice del 1940; sanciva, infatti, il divieto di domande nuove, di eccezioni nuove, nonché il divieto di produrre nuovi documenti e di chiedere l’ammissione di nuovi mezzi di prova.
Come già accennato, la legge n. 581/50, abolendo il principio di preclusione aveva aperto le porte a quel novum judicium che già aveva caratterizzato l’appello nel codice di procedura civile del 1865.
La legge n. 353/90 ha ripristinato il divieto di jus novorum [7] ed il principio di preclusione [8] con una rilevante novità: le domande nuove, che secondo il codice del 1865 e del 1940 erano semplicemente rigettate, ora devono essere dichiarate inammissibili. In altri termini, il giudice di secondo grado non può e non deve conoscere della domanda nuova [9].
Paragrafo n. 2: l’appello nel rito del lavoro.
Per quanto concerne il giudizio di appello nel rito del lavoro, esso è caratterizzato da alcune peculiarità che lo differenziano dal rito ordinario.
Competente è l’apposita Sezione Lavoro costituita presso ogni sede di Corte di Appello. In ogni caso non sono appellabili le sentenze con cui siano state decise controversie di valore non superiore a lire 50.000 [10].
L’appello di propone con ricorso ed è possibile proporlo con riserva dei motivi. Tale peculiarità si spiega con la circostanza che la sentenza di primo grado è immediatamente esecutiva e nel caso in cui statuisca il pagamento di un credito in favore del lavoratore essa può essere sospesa solo in presenza di “gravissimo danno” [11]. Inoltre, nelle more del deposito della sentenza, il titolo esecutivo è costituito dal dispositivo letto in udienza. Pertanto, se è iniziata l’esecuzione in base al dispositivo, e prima della notificazione della sentenza ex art. 433 c.p.c., l’appello può essere proposto con riserva dei motivi poiché la parte soccombente in primo grado che voglia chiedere la sospensione dell’esecuzione non ha altra scelta che proporre appello.
I termini per appellare sono uguali a quelli del rito ordinario (sia il termine cd. breve che quello cd. lungo) tuttavia, trattandosi di ricorso, i termini medesimi sono rispettati con il deposito del ricorso in cancelleria e non con la successiva notifica alla controparte.
L’appellato si deve costituire almeno 10 giorni prima dell’udienza fissata con decreto dal presidente della Corte, a mezzo deposito in cancelleria di apposita memoria difensiva (art. 436, comma 1°, c.p.c.).
Analizzando, ora, il profilo più pregnante del giudizio di appello, questo tanto nel rito del lavoro quanto in quello ordinario dopo la riforma del 1990 (che proprio al rito del lavoro si è ispirato con finalità acceleratorie e di semplificazione), è sostanzialmente impermeabile alle nuove allegazioni ed alle nuove prove.
Il giudizio de quo si caratterizza, come già detto, quale riesame della controversia sulla base degli stessi elementi dedotti innanzi al giudice di prime cure.
Pertanto, non sono ammesse domande nuove salva l’eccezione [12] di cui all’art. 345, comma 1°, c.p.c., valida anche per il rito del lavoro. Proprio perché il giudizio di appello si sostanzia in un riesame della controversia oggetto del giudizio di primo grado, in appello le parti non possono proporre domande nuove (divieto dello “jus novorum”).
Tale divieto [13] risponde al principio del doppio grado di giurisdizione, in quanto le domande nuove [14], proposte in appello, non avrebbero la possibilità di essere a loro volta appellate.
A mente dell’art. 437 c.p.c., non sono ammesse, inoltre, nuove eccezioni.
Tuttavia, mentre l’art. 345 c.p.c. prevede espressamente che non sono ammesse nuove eccezioni che non siano rilevabili d’ufficio[15], l’art. 437 c.p.c. non contiene tale precisazione per cui sono possibili due interpretazioni.
L’una più restrittiva, secondo la quale il divieto vale sia per le eccezioni in senso stretto che per quelle in senso lato. L’altra, estensiva, per la quale il divieto si riferisce solo alle eccezioni in senso stretto (quelle rilevabili solo dalle parti) [16].
Paragrafo n. 3 (Segue): il divieto di nuove prove con particolare riferimento al criterio della indispensabilità. Confronto tra artt. 345 e 437 c.p.c.
Anche l’ammissione di nuovi mezzi di prova [17] in appello risulta ormai preclusa; ciò vale tanto nel rito del lavoro (art. 437 c.p.c.) quanto nel rito ordinario (art. 345 c.p.c.) che, come già accennato, con la legge n. 353/90 ha ricalcato le linee guida del rito speciale del lavoro.
Tuttavia, per comprendere appieno tale preclusione è necessario precisare che:
1) l’art. 345, comma 2°, c.p.c. nulla dispone quanto alla produzione di documenti. Tale silenzio è tuttavia, superabile ove si tenga conto dei consolidati ed univoci orientamenti giurisprudenziali (la dottrina è meno univoca) cristallizzatisi nella vigenza dell’art. 437 c.p.c. che, del pari all’art. 345 c.p.c., tace sulla produzione di documenti in appello. Orientamenti che depongono per la piena facoltà produzione di documenti in appello [18] poiché quest’ultima sarebbe inidonea a nuocere alla celerità del giudizio [19] trattandosi di prove precostituite e non costituende.
Unico limite alla produzione di documenti in appello è dato dalla circostanza che la produzione medesima sia adempiuta tramite indicazione dei documenti medesimi negli atti introduttivi (appello e memoria difensiva) [20].
2) Nuovi mezzi di prova sono comunque ammissibili quando la parte dimostri di non aver potuto proporli nel giudizio di primo grado per causa ad essa non imputabile. Tale clausola di salvezza contenuta nel 3° comma dell’art. 345 c.p.c., ma di cui non vi è traccia nell’art. 437 c.p.c., rappresenta l’applicazione nel giudizio di appello della remissione in termini prevista e disciplinata dall’art. 184 bis c.p.c. [21]
3) Può sempre deferirsi il giuramento decisorio. Nell’art. 437 c.p.c. è fatta menzione anche del giuramento estimatorio ma la sua omessa citazione nell’art. 345 non implica differenze di sorta. Infatti, la mancata previsione del giuramento suppletorio ed estimatorio nel corpo dell’art. 345 c.p.c. si giustifica sia in considerazione della loro disponibilità d’ufficio, sia in base al rilievo secondo cui le condizioni della loro ammissibilità integrano sempre gli estremi della indispensabilità [22].
4) Comunque, i nuovi mezzi di prova sono inammissibili salvo che il collegio non li ritenga indispensabili ai fini della decisione della causa. L’art. 437, comma 2°, c.p.c. prevede che il collegio possa esprimere tale valutazione di indispensabilità anche d’ufficio e ciò ben si spiega con i più ampi e penetranti poteri istruttori che sono riconosciuti al giudice nel rito del lavoro (v. art. 421 c.p.c.). Pertanto, con riferimento alle prove costituende, il cuore tanto dell’art. 437 quanto dell’art. 345 c.p.c. viene ad essere costituito dal requisito della indispensabilità cui è assoggettata la loro ammissibilità.
Riassumendo, il divieto di nuovi mezzi di prova in appello è un divieto dotato di una certa elasticità [23] e che, quindi, soffre alcune eccezioni:
- il giuramento decisorio (ma anche estimatorio o suppletorio);
- il non aver potuto proporre il mezzo di prova in primo grado per causa non imputabile alla parte;
- che il collegio ritenga i nuovi mezzi di prova indispensabili per la decisone della causa (ex art. 437 c.p.c., anche d’ufficio).
Proprio sul concetto di indispensabilità del nuovo mezzo di prova la giurisprudenza e la dottrina non sono riuscite a pervenire a risultati appaganti e tutt’oggi (nonostante esso sia stato introdotto già con la legge n. 533/73: art. 437 c.p.c.) il suo contenuto è alquanto controverso.
La dottrina sembra ormai aver rinunciato alla possibilità di individuare un metro unitario alla cui stregua ridurre l’arbitrarietà e la discrezionalità insita nel criterio dell’indispensabilità [24]. La diversità di contesto dell’art. 345 rispetto all’art. 437 c.p.c., impedisce inoltre, di fare riferimento alle poche ipotesi oggettive certe nelle quali una prova può reputarsi indispensabile nel rito del lavoro e cioè le ipotesi di fatti il cui bisogno di prova derivi dalla rilevanza che alcuni fatti assumono a seguito della prospettiva giuridica – diversa rispetto a quella indicata dalle parti – accolta nella sentenza di primo grado. Nel rito ordinario, ipotesi di tal fatta integrano gli estremi della causa impeditiva non imputabile alla parte da cui discende l’ammissibilità della prova nuova in appello sulla base dei principi generali della rimessione in termini ex art. 184 bis c.p.c. : principi espressamente richiamati dall’art. 345 c.p.c. senza necessità di passare attraverso il requisito della indispensabilità [25]. Al riguardo deve segnalarsi che l’art. 437 c.p.c., a differenza dell’art. 345 non prevede l’ammissibilità della prova nuova quando la parte dimostri di non averla potuta proporre in primo grado per causa ad essa non imputabile e, pertanto, tale ipotesi senza dubbio integra la condizione di indispensabilità; la sola conosciuta dal rito del lavoro e rilevabile anche d’ufficio, per come già detto.
E’, comunque, da evidenziare che il requisito della indispensabilità della prova nuova per la sua ammissione in secondo grado, previsto dall’art. 437 c.p.c., ha fatto ritenere che conseguenza immediata di tale espressione è soltanto l’intento del legislatore di restringere l’area del novum rispetto all’art. 345 c.p.c.(allora vigente), ma è assai arduo individuarne l’esatto significato [26] .
Per A. Proto Pisani, spiegare cosa debba intendersi per indispensabilità è cosa quasi impossibile “in termini di logica formale o di analisi del linguaggio” e l’esigenza compositiva di controversie, propria del processo, induce a ritenere che il requisito dell’indispensabilità della prova nuova si riduca a ciò: “un mezzo di prova è indispensabile allorchè sia diretto a provare un fatto (ovviamente rilevante) la cui esistenza o inesistenza sia stata dichiarata nella sentenza di primo grado non sulla base del meccanismo probatorio ma sulla base della regola formale di giudizio fondata sull’onere della prova” [27] .
Altri autori hanno tentato di differenziare il concetto di indispensabilità da quello di rilevanza della prova. Tuttavia la prova o serve o non serve ai fini di causa: se oggetto del mezzo di prova è un fatto rilevante ai fini della decisione, la prova è rilevante; altrimenti, è irrilevante [28]. Una volta applicato il criterio della rilevanza è arduo immaginare quale e cosa sia quel quid pluris che determini l’indispensabilità del mezzo di prova [29].
Per altri ancora, la condizione di indispensabilità è requisito si ammissibilità delle prove ex officio anche in primo grado; indispensabilità che connoterebbe le prove ex officio non come prove alternative alle prove disponibili dalle parti, ma come meramente suppletive, nel senso cioè che sono ammissibili solo quando le parti abbiano già assolto l’onere della prova e quindi come extrema ratio per acquisire elementi necessari per la formazione del convincimento del giudice [30].
Non è mancato chi ha sostenuto che prova indispensabile sia quella che attiene ai fatti principali [31] e non a quelli semplici o secondari, da cui inferire la prova per presunzione [32] o ancora che la prova indispensabile sarebbe quella “decisiva” per la decisone della controversia [33].
Da quanto sin qui detto, si evince che la formula adoperata dal legislatore è piuttosto ampia e lasci all’interprete una sostanziale discrezionalità [34]. Per il Mandrioli la valutazione dell’indispensabilità delle nuove prove è “totalmente affidata alla discrezione del collegio senza un benchè minimo criterio di orientamento obiettivo” [35].
La giurisprudenza, dal canto suo, ritiene innanzi tutto che il criterio dell’indispensabilità della prova nuova non possa comunque scavalcare le eventuali decadenze istruttorie in cui sia incorsa la parte in primo grado [36].
E’, inoltre, consolidato l’orientamento per il quale il giudizio sull’indispensabilità della prova nuova possa essere implicito attraverso la disposta sua utilizzazione o attraverso la decisione della causa senza disporla e non sia sindacabile in sede di legittimità [37].
Tale ultima asserzione è chiaro indice dell’elevato grado di discrezionalità che permea la valutazione della sussistenza o meno del requisito dell’indispensabilità. Discrezionalità, tuttavia, che non deve e non può sfociare in arbitrio[38] ma il cui rischio che ciò accada è insito in quello che in fondo può ritenersi essere sostanzialmente il criterio in oggetto: uno sfogo di un sistema intensamente preclusivo che consente al giudice di ammettere prove altrimenti inammissibili ed evitare provvedimenti “mostro”.
In definitiva, dalla precisazione contenuta nell’art. 437, comma 2°, c.p.p., sul potere del giudice di appello di dare ingresso a nuove prove anche d’ufficio, purché indispensabili ai fini della decisione, può trarsi il corollario secondo cui il rito del lavoro, pur non attuando un sistema processuale improntato ad integrale attuazione del principio inquisitori, tende, tuttavia, in considerazione della particolare natura degli interessi coinvolti e della tendenziale subalternità/debolezza di una delle parti (cioè il lavoratore), alla ricerca della verità reale attribuendo al giudice rilevanti poteri istruttori.
RC, 15.10.02
[1] Cfr. A. Proto Pisani, Appunti sull’appello civile, in Foro It., 1994, V, col. 193.
[2] Cfr. A. Proto Pisani, op. cit.
[3] Sono inappellabili le sentenze emesse secondo equità a norma dell’art. 114 c.p.c., quelle emesse dal Giudice di Pace in tema di opposizione a sanzioni amministrative, le sentenze che si sono pronunciate solo sulla competenza, quelle emanate nel rito del lavoro che decidano contoversie di valore inferiore alle vecchie 50.000 lire.
[4] Trattasi del ricorso per saltum.
[5] Inoltre, ai sensi dell’art. 346 c.p.c., si considerano rinunciate le le domande ed eccezioni non accolte in primo grado e non espressamente riproposte in appello.
[6] Analogamente alla domanda riconvenzionale, l’appello incidentale si propone con comparsa di risposta da depositarsi in cancelleria all’atto della costituzione almeno 20 giorni prima dell’udienza di comparizione. Scopo dell’appello incidentale è quello di evitare contrasto tra giudicati e far si che gli appelli proposti dalle altre parti processuali (avverso la stessa sentenza) successivi all’appello principale, si innestino su di quest’ultimo.
[7] Per le eccezioni a tale divieto vedi il paragrafo n. 2.
[8] Cfr. Satta – Punzi, Diritto processuale civile, Padova, 1996.
[9] In conseguenza di ciò la domanda nuova resta impregiudicata, non essendo stata oggetto di valutazione in sede di merito, e può essere riproposta in un futuro giudizio non formandosi alcun giudicato in relazione ad essa, così Satta–Punzi, op. cit.
[10] L’importo de quo - previsto dalla legge n. 533/73 - non è stato mai aggiornato per cui ne è scemata la sua rilevanza; in ogni caso, l’attuale controvalore in euro è pari ad euro 29 ai sensi dell’art. 51 del decreto legislativo n. 213/98.
[11] Quanto al concetto di “gravissimo danno” esso va inteso in senso più ampio del “danno grave ed irreparabile” di cui all’art. 373 c.p.c.; per verificarne la sussistenza, il giudice deve effettuare una comparazione tra l’entità del credito e la situazione patrimoniale del datore di lavoro: ricorrerà un gravissimo danno quando l’entità del credito, paragonata alle capacità patrimoniali del datore di lavoro, sia tale da mettere quest’ultimo in gravi difficoltà economiche.
[12] Trattasi delle domande relative agli interessi, frutti ed accessori maturati dopo la sentenza impugnata, nonché il risarcimento dei danni sofferti dopo la sentenza stessa; conf. Cass. 08.03.1990 n. 1863). Altra eccezione consentita riguarda le domande restitutorie: domande formulate dal soccombente in primo grado che abbia compiuto – in ragione dell’immediata esecutività della sentenza – una prestazione in favore della parte vittoriosa e che, in sede di appello, chiede al giudice di appello la restituzione di ciò che ha dato.
[13] Il divieto di proporre domande ed eccezioni nuove in appello ha natura di ordine pubblico e la sua violazione va rilevata anche d’ufficio e persino in sede di legittimità (Cass. 18.09.1995 n. 9874) e non può ammettersi sanatoria per accettazione del contraddittorio (Cass. 10.12.1985 n. 6232). Conf. Cass. 21.01.1984 n. 526.
[14] Secondo la dottrina e la giurisprudenza maggioritarie, per accertare quando ci si trovi dinanzi ad una domanda nuova, occorre confrontare la domanda di appello con quella di primo grado (in pratica, le conclusioni delle parti); conf. ex plurimis: costituisce domanda nuova, come tale inammissibile in appello, quella che essendo fondata su elementi e circostanze non prospettati in precedenza, importa un mutamento dei fatti costitutivi del diritto ed introduce un nuovo tema di indagine e di decisione che altera l’oggetto sostanziale dell’azione ed i termini della controversia, Cass. 20.04.1998 n. 4008).
[15] Il divieto di proporre eccezioni nuove, si riferisce esclusivamente alle eccezioni in senso stretto o proprio e non anche ai fatti impeditivi o estintivi del diritto che il giudice possa o debba rilevare d’ufficio (Cass. 24.06.1998 n. 6272, 06.09.19995 n. 9373). Per un’efficace critica al divieto in esame: Sassoni, “Sull’appello nel processo del lavoro”, 258 e ss.
[16] Cfr. F. Luiso, “Diritto processuale civile”, IV, Milano, 2000.
[17] Il mezzo di prova deve ritenersi nuovo qualora venga dedotto in relazione a circostanze per le quali sia stato espletato in primo grado altro mezzo probatorio o quando si chieda l’ammissione di mezzo identico a quello già dedotto in primo grado ma relativo a circostanze diverse; in tal senso, Cass. 30.03.1995 n. 3808, Cass. 18.02.1995 n. 1802, Cass. 16.02.1994 n. 1506, Cass. 05.02.1991 n. 1075.
[18] Conf. Cass. 07.01.1998 n. 56; nel senso dell’ammissibilità purchè si tratti di documenti relativi a fatti per i quali non si siano già verificate decadenze e che comunque non comportino necessità di ulteriori indagini istruttorie sulla loro autenticità: Cass. 22.01.1998 n. 309, Cass. 10.05.1995 n. 5068, Cass. 19.08.1995 n. 8927, Cass. S.U. 28.11.1994 n. 10127.
[19] Ex plurimis, Cass. 08.03.1986 n. 1567, Cass. 01.06.2000 n. 7284.
[20] Così F.Luiso, Diritto processuale civile, IV, Milano, 2000. Conf. Cass. N. 92/3167, Cass. n. 92/4338 e n. 92/11323, Cass. 23.01.1999 n. 655, Cass. 08.11.1999 n. 12414. Per Cass. 05.08.2000 n. 10335, nonché per Cass. n. 90/972, Cass. n. 90/3709, Cass. n. 90/3436, Cass. n. 90/3438, i documenti devono anche essere depositati con gli atti introduttivi (comunque prima dell’udienza di discussione)e non solo indicati in questi. Per Cass. 25.01.2000 n. 817, nel rito del lavoro i documenti, ancorchè non indicati nel ricorso, possono essere introdotti fino all’udienza di discussione anche in appello, senza incorrere nelle preclusioni di cui agli artt. 414, 416, 437 c.p.c.
[21] Cfr. A. Proto Pisani, op. cit., il quale reputa, pertanto, superflua la previsione dell’art. 345 c.p.c., rivelandosi sostanzialmente ripetitiva dell’art. 184 bis c.p.c..
[22] In tal senso A Proto Pisani , op. cit.; conf., in riferimento al solo giuramento estimatorio, Attardi, Le nuove disposizioni sul processo civile, Milano, 1995.
[23] In termini, Attardi, op. cit.
[24] Cfr. A. Proto Pisani, op. cit.
[25] Cfr. A. Proto Pisani, op. cit.
[26] In termini, Montesano–Vaccarella, Manuale di diritto processuale del lavoro, pag. 333.
[27] Cfr. A.Proto Pisani, op. cit.
[28] Così P. Sandulli e A.M. Socci, Il processo del lavoro, Milano, 2000 : “una prova (…) o è rilevante o è irrilevante, tertium non datur. Sicchè l’espressione usata dal legislatore (…) non significa altro che un invito al giudice di appello ad essere … parco nell’ammissione delle nuove prove (…)”
[29] In tal senso: F. Luiso, op. cit.; per lo stesso autore si tratterebbe non di una regola ma piuttosto di una tendenza, i cui confini vanno delimitati dalla prassi applivativa, alla chiusura dell’appello a nuova istruttoria, ibidem.
[30] Sostengono tale tesi Satta- Punzi, op. cit.
[31] Sono indispensabili, ai fini della decisione, quelle prove necessarie per superare l’incertezza su fatti costitutivi di diritti, così Cass. n. 5714/96.
[32] Tarzia, Manuale del processo del lavoro, Milano, 1999.
[33] In tal senso Mazzocchi, in Riv. Trim. Dir. e Proc. Civ. , 1981, p. 959.
[34] Di “venata discrezionalità” scrive Sassani, in AA.VV., Il processo del lavoro nell’esperienza della riforma, 1985.
[35] Cfr. C. Mandrioli, Diritto processuale civile, III, Torino, 2000.
[36] Cass. 16.05.2000 n. 6342; Cass. 08.04.1998 n. 2614; Cass. 08.06.1998 n. 6441; Cass. n. 7611/95, n. 6441/95, Cass. 18.08.97 n. 7641, Cass. 23.04.97 n. 3523. Contra P. Sandulli, A.M. Socci, op. cit., ma anche, con riferimento al solo rito del lavoro, Cass. n. 20.05.2000 n. 6592.
[37] Cass. n. 5714/96, n. 7652/86, n. 1028/80, n. 1370/86, n. 989/86; Cass. 07.01.1998 n. 56.
[38] Per Cass. 21.06.1986 n. 4142, l’indispensabilità va intesa come impossibilità di fornire la prova con altri mezzi.