SALVATORE PRISCO
(Straordinario
di Istituzioni di diritto pubblico
nella Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Napoli Federico II)
Sommario: 1. Introduzione: il Titolo V della Costituzione e la revisione ininterrotta. 2. La tutela multilivello dei diritti fondamentali come effetto di una strategia complessiva e la democrazia partecipativa nelle comunità locali. 3. La difesa civica tra strumento di giustizia sostanziale nell' amministrazione e garanzia di controllo endoprocedimentale di qualità democratica. 4. Il possibile spazio della difesa civica nel nuovo titolo V della Costituzione, tra attuazione e ipotesi di ulteriore revisione.
1. Se mi è consentita un’autocitazione, nel presentare i lavori di questo convegno sul numero del “Corriere del Mezzogiorno” che stamattina è in edicola, ho confessato un disagio personale, che non so se sia comune a chi mi ascolta. Una volta - ho ricordato in quella sede - si diceva che le Costituzioni sono fatte per durare e in effetti, per esempio, quella statunitense resiste dalla fine del Settecento, avendo ricevuto solo pochi, seppure importanti, emendamenti.
Ci sono naturalmente eccezioni, come dimostra l’esperienza costituzionale francese. Rende bene l’idea - in proposito - il noto aneddoto di Tocqueville, che, trovandosi un giorno a Londra ed avendo bisogno del testo della costituzione del suo Paese, entrò in un negozio di libri per richiederne una copia; e il proprietario, da dietro al banco di vendita, gli rispose con sussiego: “Spiacente, signore, ma qui non abbiamo pubblicazioni periodiche”.
Va registrata poi, tra le possibili varianti in punto di durata temporale delle Costituzioni, la singolare vicenda italiana di questi ultimi anni, che si sta traducendo al riguardo in un processo di revisione costituzionale formale praticamente ininterrotto, spesso convulso, frammentato e certamente contraddittorio con ogni elementare e intuibilmente giusta esigenza di stabilità dei “rami alti” dell’ordinamento.
Sta dunque in fatto che - a discutere ora di riforma del titolo quinto - mi sento come quel ministro dell’informazione di Saddam Hussein, che, appena poche ore prima della caduta della capitale, giurava con assoluta serietà che gli americani erano lontanissimi da Baghdad.
Battute a parte, per sagacia previdente degli organizzatori del convegno - naturalmente preparato incominciandovi a lavorare molti mesi fa - o per loro fortuna (che, peraltro, audaces iuvat, come dicevano i Romani…), il tema prescelto finisce per caricarsi di un’attualità davvero bruciante, poiché si è chiamati a interrogarsi su problemi e prospettive delle autonomie territoriali proprio nel momento in cui - non fra un anno, una settimana o un mese, ma precisamente domattina - il Consiglio dei Ministri licenzierà per l’appunto un disegno di legge costituzionale di revisione della recente riforma del titolo quinto. Dibattiamo cioè di assetti normativi che cambiano continuamente sotto i nostri stessi occhi, per cui diventa un po' frustrante occuparsene e sorge così addirittura il dubbio se questo nostro di ora sia destinato ad essere l’ennesimo bell’incontro di studio sul titolo quinto o se debba ritenersi, piuttosto, il suo epitaffio, per lo meno nella versione di esso che fin qui conosciamo.
2. Ciò premesso - pur con la riserva di ordine generale appena avanzata - vengo al merito del mio intervento.
Non ho potuto assistere (dirò poi perché) ai lavori di un altro importante convegno, questa volta tenuto a Milano la settimana scorsa, sulla garanzia multi-livello dei diritti. Tutto l’aggiornamento dell’organizzazione costituzionale, i nuovi o rinnovati principî amministrativi che ne scaturiscono, la dinamica della sussidarietà orizzontale e verticale mirano in effetti ad allargare le opportunità di cittadinanza attiva, le “capacitazioni” sostanziali di cittadinanza, di cui qualcuno parla. Non mi limito qui, cioè, al senso giuridico del termine (oggi divenuto esso stesso molto mobile e controverso), ma - come fanno i politologi americani - lo uso per indicare le possibilità concrete di una persona di essere parte attiva nella vita della comunità, gli strumenti che il diritto predispone per fornire a chi in essa vive la possibilità di avere “voce” nel capitolo degli affari pubblici (non solo nel momento elettorale, ma più largamente in quel “plebiscito di tutti i giorni” che dovrebbe essere la democrazia partecipativa).
Da questo punto di vista, non solo chi appartiene ad un Paese dell’Unione e con noi condivide la comune cittadinanza europea, ma anche lo straniero rispetto ad essa, che sia non clandestino e stabilizzato nella vita di una collettività locale, è a parer mio un componente di quest’ultima, un “cittadino” nel senso non formale che sopra precisavo.
Tra le riflessioni dell’incontro cui ora accennavo che ho potuto leggere ed apprezzare - grazie alla cortesia di una giovane collega, diligente e brillante redattrice di appunti tratti dagli interventi e poi a me spediti via Internet - vi è stata in particolare una relazione di Franco Pizzetti (e mi fa piacere che oggi l’autore sia qui con noi, così da potergli manifestare di persona e pubblicamente il mio compiacimento) sulla tutela multi-livello dei diritti nelle entità sub-statali. È infatti nelle comunità territoriali minori che si gioca oggi la partita per molti versi decisiva nel ridisegno del rinnovamento amministrativo del Paese e del nuovo Welfare.
Le tesi di questo prestigioso amico sono note. Da tempo le vengo meditando e concordo con lui sulla formula icastica che descrive il nostro come un «sistema policentrico ‘esploso’» e sulla necessità di governance che esso ormai reclama.
Orbene, credo che di tutela multi-livello dei diritti si debba parlare non solo nel senso di prendere atto che essi risultano ormai da una pluralità di documenti di vario grado e di differente forza giuridica (ma sempre tali da identificare i diritti fondamentali almeno come valori culturali, che orientano decisivamente l’interpretazione dei tecnici); non unicamente registrando che molte e diverse Corti li presidiano, potendo dunque la “lettura” assiologico-esegetica di ciascuna di esse confliggere con quella di altre; e nemmeno soltanto osservando, infine, che i diritti stessi sono incisi da una varietà di interventi che si situano in un asse cartesiano di tutele e promozioni tanto “orizzontali”, quanto “verticali”, in quest’ultimo caso riferibili a piani ordinamentali diversi; ma anche e in sintesi nel senso che la loro effettiva assicurazione risulta, insomma, dall’assunzione di una molteplicità di strategie di sostegno, a partire appunto - come accennavo - dalla garanzia della vita democratica nelle comunità locali, che del resto sono state investite per prime (e non è un caso, essendo esse quelle in cui il cittadino vive i suoi bisogni fondamentali e gode o soffre, a seconda dei casi, delle risposte - ovvero delle inefficienze e dei ritardi - degli apparati alla loro prospettazione) dalla ventata del rinnovamento istituzionale, agli inizî degli anni Novanta.
Diritti, interessi formalizzati individuali e collettivi o diffusi e più largamente bisogni sociali in via di emersione non richiedono, in sostanza, esclusivamente la via della tutela giudiziaria per essere protetti, anzi qualche volta essa è perfino eccedente e non produttiva di risultato.
Qui vengo al punto centrale: essendo personalmente un sostenitore dello sviluppo dell’istituto, mi trovavo pochi giorni fa (sciolgo qui il mistero, per chi fosse interessato a saperlo; ecco dunque perché non ero al convegno di Milano) come relatore ad un incontro nazionale di studio e di proposta sulla difesa civica, tenutosi a Taranto.
3. L’esperienza è sicuramente da valorizzare, molto al di là della - tutta sommato timida e chiaroscurale - vicenda italiana in cui essa si è variamente espressa negli ultimi tre decennî. Molti segni dimostrano che questa convinzione si sta facendo strada e d’altronde, nel Paese, l’esigenza del “giusto procedimento”, del quale ritengo che la difesa civica possa venire costruita quale garante stragiudiziale e organo di controllo (nei termini cui fra un attimo accennerò), è - a quasi un quindicennio di distanza dall’approvazione della legge 241/1990 ed accanto a quella di un processo altrettanto “giusto”, che ha trovato anch’essa consacrazione normativa, addirittura in Costituzione - ormai ben radicata, tanto che il modello in essa codificato è sentito quale irretrattabile nelle puntuali garanzie introdotte ed anzi si è mostrato capace di espansione ulteriore.
Altrove ed in più occasioni ho provato a tracciare un bilancio di quanto si è compiuto finora in materia di difesa civica e a scrutare le piste lungo le quali si muovono i passi della crescente consapevolezza di dover dare uno stabile assetto ed una definitiva identità ad una figura dalle molte facce. Vorrei invece qui sfruttare l’occasione che mi viene cortesemente offerta per affrontare profili della tematica che in precedenza avevo lasciato più sullo sfondo.
In questa fase riformatrice del titolo quinto (ma più in generale della Costituzione, con gli importanti interventi di integrazione ed emendamento sull’articolo 111, che appunto ricordavo, o sugli articoli che hanno permesso di legittimare il voto degli italiani all'estero o - ancora - che hanno consentito di “coprire” ora, nella Carta fondamentale, le ormai imprescindibili azioni positive, idonee a promuovere la partecipazione politica femminile), anche a proposito dell’art. 97 vedrei intanto necessario integrarne il primo comma, nel senso di precisare che - ai fini degli obbiettivi di imparzialità e buon andamento dell’amministrazione qui richiamati - lo Stato, le Regioni e gli enti locali, ciascuno per le rispettive attribuzioni, introducono obbligatoriamente istituti di difesa civica.
Se poi non si voglia chiamarli così, non è certo il caso di bloccarsi su di un’espressione, ormai peraltro entrata in uso e che presenta un certo radicamento. L’essenziale è prevedere strumenti di mediazione e prevenzione dei conflitti o - più largamente - luoghi istituzionali di compensazione e composizione dei motivi di contrasto tra cittadini e amministrazioni pubbliche, in ordine al concreto funzionamento di queste ultime.
Molte costituzioni contemporanee prevedono in verità questa modalità soft di primo intervento in tema, prima o in luogo del percorso di tutela giudiziaria. Si tratta di un necessario completamento delle protezioni possibili nello “Stato costituzionale”, come opportunamente segnala ora un recentissimo saggio di Häberle, il quale parla al riguardo - con la sua consueta sensibilità alla tematica dei diritti (in senso lato) - di un nuovo status activus processualis nella società aperta orientata alla piena valorizzazione della persona umana.
Da noi, è noto come oggi sia pressocché generalizzata la previsione statutaria di difensori di civici pubblici regionali e degli enti locali, benché ne sia fortemente differenziato il grado di rendimento pratico, quando essi siano in concreto istituiti; manca invece un ufficio di difesa civica nazionale “generalista” ed anzi la tendenza attuale è - su questo piano - di prevedere figure settoriali, pubbliche o private, che ne esercitino le funzioni caso per caso, modellandosi in linea tendenziale sulle “autorità garanti indipendenti”.
In concreto, è quest’ultimo il punto di sofferenza, essendo ufficî di tal fatta affidati ad organismi interni al settore o all’apparato da vigilare; occorrerebbe insomma prevedere pressocché dappertutto più solide garanzie di esercizio indipendente della funzione loro affidata, in modo tale che - pur nella ribadita non neutralità rispetto al valore, che essi tutelano, del funzionamento trasparente e corretto del sistema erogatorio di prestazioni, sia possibile un equo bilanciamento tra le aspettative della cittadinanza o dell’utenza e l’esigenza (anch’essa ineliminabile) di tenere conto dell’interesse generale, come rappresentato ed incarnato dall’amministrazione di settore o territorialmente caratterizzata.
Tanto la mancata previsione costituzionale dell’istituto, quanto l’assenza di un ufficio nazionale sono comunque vere e proprie lacune del nostro ordinamento, tanto più ove si consideri che sia il trattato di Maastricht, sia il testo in itinere della Carta di riorganizzazione del diritto comunitario primario, che la Convenzione di Laeken sta licenziando, fanno spazio al Mediatore europeo (si badi alla denominazione della figura), a presidio della “vita democratica dell’Unione”.
Se l’integrazione costituzionale appena suggerita (la cui introduzione, del resto, fallì già nella Commissione bicamerale D’Alema) fosse però ritenuta un'ambizione eccessiva, occorrerebbe allora operare attraverso fonti subcostituzionali.
Ritiene in proposito taluno che il riparto di funzione legislativa che risulta oggi dalla Costituzione inibirebbe un intervento dello Stato in questo campo, nella forma di una legge di sostegno dell’istituto che, sia pur con snellezza, ne fissasse almeno l’obbligatoria previsione e le garanzie minime imprescindibili di indipendenza, rinviando alle fonti di autonomia la disciplina puntuale dei modi di investitura e delle funzioni.
Al contrario, credo che la competenza esclusiva dello Stato sulla giustizia amministrativa possa consentire siffatto intervento uniformizzante, nel senso che sia dunque obbligatoria l'introduzione in linea tendenziale, per tutti gli enti a base territoriale, del difensore civico o perlomeno la garanzia che vengano svolte da un organo pubblico imparziale le funzioni che sono in atto ad esso affidate, quando è stato concretamente istituito.
Leggo cioè l’espressione “giustizia amministrativa” nel modo in cui lo fa uno dei miei maestri, Giuseppe Abbamonte. Nelle lezioni scritte e in quelle orali (chi non avesse mai ascoltato queste ultime si è perso davvero molto della vivacissima personalità dello studioso), egli ha sempre insegnato e ripetuto che in tale locuzione sta qualcosa che è ben di più della semplice e formale garanzia giurisdizionale, bensì c’è un'istanza di giustizia sostanziale di cui è fondamentale darsi carico, specialmente nello “Stato di prestazioni”.
Il difensore civico - o comunque strumenti di mediazione e garanzia (pre-giudiziaria e in luogo di essa) di ascolto, ponderazione e soddisfazione per quanto possibile di diritti, interessi legittimi individuali e collettivi o diffusi e in definitiva anche di bisogni e situazioni da proteggere di soggetti deboli, che non fossero ancora riuscite ad attingere un sufficiente grado di formalizzazione, ma siano aspettative serie - è in quest’ottica determinante; lo è senz’altro, inoltre (e senza dubbio alcuno, in questo caso, che la copertura uniforme della norma riservata alla competenza legislativa esclusiva dello Stato sia possibile), nell'ipotesi che si debba garantire in concreto quella erogazione dei livelli essenziali delle prestazioni civili e sociali, la cui determinazione generale e di principio è sicuramente riservata alla legge esclusiva dello Stato e che rappresenta la frontiera attuale dell’eguaglianza sostanziale.
In ragione di tali possibili fondamenti, dunque, l'attuale articolo 11, c 1°, del testo unico degli enti locali - a mente del quale il difensore civico può essere introdotto negli Statuti degli enti locali - va emendato nel senso di dire che esso deve esservi introdotto.
Ribadisco: se non si voglia chiamarlo difensore civico, lo si denomini in un altro modo, anche se termine e figura hanno ormai una loro tradizione; se non si voglia gravare ciascun ente, anche piccolissimo, dell’onere relativo (è seria l’obiezione, giustamente avanzata da una dottrina, che non sia opportuno cadere in una sorta di ombudsmania), possono venire previsti - come in più casi già si fa - moduli consortili o convenzionali, ad esempio addossando interventi e costi connessi al difensore civico regionale o provinciale, su proposta dell’ente e sentito l’oggi istituendo - a mente dell’art.123 Cost., ultimo comma - Consiglio delle autonomie locali (si veda, del resto, quanto si dirà più oltre, in tema di iniziative legislative in corso).
Va però senz’altro fatta salva la funzione e conseguentemente, pur prevedendosi l’elezione - con quorum elevati, non disponibili in via unilaterale dalle forti maggioranze numeriche che attualmente i diversi sistemi elettorali consentono di esprimere - di chi ricopre la carica dal seno stesso degli organi degli enti sui quali principalmente ricadranno gli effetti della sua azione (soluzione che appare preferibile a quella dell’elezione diretta da parte del corpo elettorale della rispettiva collettività, che inevitabilmente la politicizzerebbe), occorre garantirlo da revoche sospette e immotivate o da frettolose abrogazioni della norma statutaria che lo prevede - quali oggi si danno, purtroppo, diffusamente - seppure a prezzo di inibirgli un cursus honorum politico-amministrativo immediatamente successivo alla scadenza del mandato.
In sostanza, pur se espressa mediante elezione dalla comunità di riferimento, seppur tramite la mediazione dei relativi organismi rappresentativi, il difensore civico deve vedere rafforzata la propria possibilità di azione successiva indipendente, quanto a modalità funzionali.
Occorre peraltro evitare di concepirlo (e costruirlo) come una sorta di para-magistrato; la mediazione è altro: è analisi del caso, proposta di soluzioni in primo luogo equitative (e transattive quando è possibile; Giovanni Cosi, che la studia da tempo brillantemente, la definisce un modo per rendere “giustizia senza giudizio”), che riposano sull’autorevolezza e il prestigio di chi le avanza e per le quali sono decisive per un verso la sua indipendenza (anche, ma non solo intellettuale), per l’altro l’informalità e la non onerosità (economica, ma non soltanto) dell’accesso all’istanza di protezione, nonché la tempestività e l’aderenza al bisogno specifico della soluzione infine trovata e da ultimo, perché no?, anche una certa fantasiosità della “sanzione” che dovesse colpire - se ne fosse il caso - il funzionario neghittoso e/o inefficiente.
È essenziale, però ed in ogni caso, che si realizzi un controllo indipendente - e condotto durante il medesimo dipanarsi del processo decisionale - su come si amministrano le risorse pubbliche, tra le quali va ricompresa ovviamente l’informazione istituzionale dovuta al cittadino, che è anzi la prima fra tutte, in funzione di finalità, assieme, di efficienza e di trasparenza.
Sottolineo: un controllo non esterno - perché tale non sarebbe quello del difensore civico, né potrebbe esserlo per intervenuta abrogazione costituzionale di tale tipo di sindacato (ma non credo proprio che non si possano invece e comunque ipotizzare controlli interni, che infatti sono oggi molteplici: si pensi per tutti a quello di efficienza, all’audit, come si dice con termine inglese) - e nemmeno non dico successivo-giurisdizionale (che anzi sarebbe, proprio tramite la figura di cui sto discutendo, da deflazionare), ma anche solo formale-legale.
La soluzione del 3° comma dell’art. 11 del vigente T.U.E.L., che fa del difensore civico una versione debole dei vecchi Co.re.co., appare al tempo stesso irrealistica e rinunciataria, perché da un lato pretende che il difensore civico controlli (eventualmente e ad istanza della minoranza) la maggioranza che, in larga misura, l’ha espresso e può revocarlo o non riconfermarlo, dall’altro sacrifica la prospettiva invece più moderna e promettente del controllo possibile: quello che dovrebbe piuttosto risolversi in uno scrutinio preventivo rispetto all’efficacia (e dunque in itinere) di qualità democratica endoprocedimentale, per così dire (sono debitore della suggestione a Massimo Villone), un riferimento e una radice forte per legittimare il quale si ritrova inoltre - sul piano costituzionale - nell'ultimo comma dell'attuale art. 118. Vi sono cioè un ampio spazio da coprire ed un ruolo essenziale da svolgere per queste forme di mediazione (le si chiamino poi come le si voglia) nell'ambito e per fini di garanzia anche della corretta esplicazione della sussidiarietà orizzontale, alla quale - già in atto e ancora di più in prospettiva - è oggi inevitabile affidare un peso crescente nella gestione delle politiche di welfare e di solidarietà sociale (un esempio significativo, quanto alla rappresentanza extraprocedimentale di soggetti deboli, è nella legittimazione del difensore civico, ex art. 36 l. 104/1992, a costituirsi parte civile nei procedimenti penali aventi ad oggetto reati di carattere sessuale, rapina, reati contro la persona e collegati alla prostituzione, ove l’offeso sia portatore di handicap).
4. Da ultimo, uno sguardo ai lavori legislativi in corso conforta l’osservatore che sia alla ricerca di possibili spazî per allocare l’azione della difesa civica, nonché per argomentare l’esigenza e la praticabilità di un sostegno normativo minimo ed uniforme all’esistenza dell’istituto e alla sua garanzia di indipendenza, da assicurare tramite legge generale esclusiva dello Stato e fatta salva la diversità di discipline concrete di attuazione da parte delle fonti di autonomia.
In primo luogo, sul piano della legge ordinaria (e precisamente in ordine all’esecuzione dell’attuale titolo V), nel cosiddetto d.d.l. “La Loggia”, recante «Disposizioni per l’adeguamento dell’ordinamento della Repubblica alla legge costituzionale 18 ottobre 2001 n. 3» e che si trova ora all’esame del Senato, viene previsto che i decreti legislativi - che il Governo è delegato ad adottare in prima battuta per la “mera ricognizione” dei principî fondamentali che si traggono dalle leggi vigenti, nelle materie di cui all’art.117, c. 3, Cost. - considerino prioritariamente, tra l’altro, le “disposizioni statali rilevanti per garantire l’unità giuridica ed economica, la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i livelli civili e sociali,…il rispetto dei principî generali in materia di procedimenti amministrativi” (ivi, art.1, c.6, lett.b).
Nell’attuazione della delega di cui
all’art.
Di particolare rilievo, nella ricognizione che qui si viene facendo, è la circostanza che lo statuto dell’ente debba stabilire “i principî di organizzazione e funzionamento dell’ente, le forme di controllo, anche sostitutivo, nonché le garanzie delle minoranze e le forme di partecipazione popolare” (art. 4, c. 2).
Si aggiunga infine la considerazione del fatto che “le funzioni amministrative non diversamente attribuite spettano ai comuni, che le esercitano in forma singola o associata, anche mediante le comunità montane e le unioni dei comuni” (art 7, 1, cpv.).
In astratto, non si parla in alcun punto espressamente di difesa civica; in concreto, la si presuppone ampiamente, nel senso che in ciascuno dei punti sopra indicati e per ognuno degli oggetti visti, le funzioni da essa storicamente svolte - per riprendere letteralmente la rivelatrice espressione impiegata dal legislatore a proposito di funzioni degli enti locali in generale - sono attestate dalla vicenda effettiva della democrazia locale ed ineliminabili; vale a dire che non devono più intendersi nemmeno quali facoltative, ma come necessarie, eventualmente in forme consortili o avvalendosi di enti di coordinamento.
Se infine si compie un esame del testo dell’ulteriore revisione costituzionale del titolo V - che personalmente ho effettuato alla stregua della bozza che ho visto circolare in queste ultime ore e che ho molto sommariamente esaminato appena pochi minuti fa, perché un quotidiano economico, come potete vedere, ne pubblica oggi l’articolato, assicurando che esso è sostanzialmente conforme a quello che dovrebbe diventare ufficiale domani - si constata agevolmente che anch’esso apre diverse opportunità all’introduzione, con legge dello Stato, di un livello minimo omogeneo di esistenza e garanzia di una figura e di una funzione, come quelle di cui si è discusso.
Infatti, il testo proposto per il nuovo art. 117 Cost della Costituzione dall’attuale maggioranza, abolendo la nozione di potestà concorrente e introducendo una più netta ripartizione tra norme generali (statali) e puntuali (delle regioni), fa salva la disciplina con legge esclusiva dello Stato, ancora una volta, della: “… giustizia amministrativa” (comma 3, lettera f); nonché delle “norme generali sul procedimento amministrativo” (ivi, lettera h); della “determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale” (lettera n); ed ancora: dell’“ordinamento generale delle…funzioni fondamentali di comuni, province e città metropolitane e loro unioni” e dell’“ordinamento generale degli enti di autonomia funzionale” (lettera o).
______________
* Intervento al convegno di Caserta (10/11 aprile 2003) su "Regioni ed Enti locali dopo la riforma del titolo V della Costituzione fra attuazione e ipotesi di ulteriore revisione". Quella che qui si legge è la versione - rivista e integrata direttamente dall’autore - dell’intervento orale al convegno, del quale è stato deliberatamente mantenuto nella stesura scritta l’originario tono colloquiale. Si ringraziano Enrico Bonelli, Giovanna De Minico, Michele Della Morte, Paola Mazzina per averne discusso amichevolmente con l’estensore il contenuto.