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n. 11-1999 - © copyright.

CORTE DEI CONTI, SEZ. GIUR. PIEMONTE - Sentenza 10 novembre 1999 n. 1757/EL/99 - Pres. DE FILIPPIS Est.OREFICE PM PERIN

Giudizio di responsabilità - responsabilità - elemento psicologico - colpa grave - medici - omissione accorgimenti idonei per evitare i pericoli resi manifesti da una patologia della paziente (omesso tracciato cardiotocografico in presenza di placenta previa centrale) - sussistenza.

Giudizio di responsabilità - responsabilità - rapporto di causalità - transazione tra l'amministrazione ed il terzo danneggiato - irrilevanza

È ravvisabile la colpa grave, sotto il profilo della colpa professionale specifica, nel comportamento dei medici ospedalieri che, avendo seguito una gravidanza prima del ricovero, eseguendo anche i rituali controlli periodici, omettono di adottare gli accorgimenti necessari per evitare i possibili pericoli resi manifesti da una situazione di accertata patologia della paziente (nella fattispecie omesso monitoraggio cardiotocografico in presenza di un'accertata placenta previa centrale con conseguente encefalopatia da esiti di asfissia neonatale del bambino).

La transazione stipulata tra l'amministrazione ed il terzo danneggiato non interrompe il nesso eziologico tra l'evento dannoso, costituito dal risarcimento del danno, ed il comportamento gravemente colpevole del dipendente pubblico.

 

 

DIRITTO

Come già questa Corte si è trovata ad affermare in casi analoghi, la fattispecie oggi all'esame s'inserisce in quel più ampio campo della giurisprudenza e della dottrina noto come il "diritto a nascere sani", involgente la responsabilità dei sanitari per l'attività di assistenza al parto.

E' in proposito affermato dalla più recente giurisprudenza della Corte di cassazione che i problemi connessi al comportamento colposo del medico nell'attività di assistenza al parto riguardano, sostanzialmente, due diversi profili di analisi giuridica, e cioè, da un lato, quello relativo all'ammissibilità del diritto del nascituro al risarcimento dei danni conseguenti ad un fatto (rectius comportamento) verificatosi prima della nascita, e quindi prima che egli abbia acquistato lo status di soggetto di diritto; dall'altro, quello relativo alla natura della responsabilità del medico, ed alla posizione dell'Ente ospedaliero dal quale il medico medesimo dipendeva.

Benché esuli dal compito primario del presente procedimento, va comunque ricordato che non vi è dubbio che il nascituro, già dal momento del concepimento, vada qualificato come autonomo centro d'interessi, sulla scorta del parallelismo tra biologia e diritto proposto da autorevole dottrina, secondo la quale "il concepito, che per le scienze biologiche è un individuo che si va sviluppando come uomo, può configurarsi, anche per il diritto, come un'entità autonoma che si va formando come persona", e quindi come un vero e proprio soggetto in fieri.

Emerge, in realtà, da diversi testi normativi (v. inter alia la legge n. 194/78 sull'interruzione volontaria della gravidanza), ed anche dalla Costituzione, un vero e proprio principio generale di tutela della vita e della salute del nascituro che rappresenta il substrato giuridico sul quale fondare l'eventuale responsabilità dei sanitari che hanno assistito la donna nel parto, per i danni cagionati al neonato a seguito di colpa professionale. Ciò che s'intende tutelare, in sostanza, è quell'insieme d'interessi giuridicamente rilevanti che l'ordinamento ritiene meritevoli di tutela e pertanto garantisce contro eventuali azioni pregiudizievoli di terzi; nell'ambito di tali interessi rientra sicuramente quello alla salute, e quindi all'integrità fisica del nascituro, il quale pertanto è portatore di un diritto "a nascere sano", la cui lesione può e deve essere adeguatamente risarcita, allorquando essa derivi da colpa dei sanitari che hanno assistito la madre durante la gravidanza e/o al momento del parto.

Va inoltre ricordato che è pacificamente riconosciuto, sulla scorta di autorevole dottrina, che tra l'Ente ospedaliero ed il paziente si realizza un vero e proprio rapporto contrattuale, perfezionato con l'accettazione del paziente medesimo per il ricovero o per la cura; conseguentemente, la responsabilità dell'Ente medesimo dovrà configurarsi come responsabilità contrattuale derivante da un inesatto adempimento della prestazione da parte dei sanitari dipendenti dell'Ente

Secondo un prevalente orientamento della Corte di cassazione, inoltre, il contratto concluso tra l'Ente ospedaliero ed il paziente sarebbe assimilabile ad un contratto d'opera professionale, sulla base della natura professionale delle prestazioni che l'Ente, per il tramite dei suoi dipendenti, si obbliga a fornire.

Conseguenza della cennata impostazione è quella relativa al fatto che anche per tale contratto andranno applicati i parametri ex art. 2236 c.c. a mente del quale la responsabilità per i danni derivati dall'inesatto adempimento della prestazione professionale che ci si è obbligati a compiere saranno limitati alle ipotesi di dolo e colpa grave, unicamente se la prestazione implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà.

In verità, secondo l'attuale giurisprudenza della Corte di cassazione (v. inter alia Sez. III n.1127 /1998), occorre distinguere l'ipotesi in cui l'intervento sia di difficile esecuzione (poiché richiede notevole abilità, presuppone la soluzione di problemi tecnici nuovi o di speciale complessità e comporta un largo margine di rischio) da quella in cui l'intervento sia di facile o routinaria esecuzione. Nel primo caso, una volta provato dal professionista che la prestazione implica problemi tecnici di particolare difficoltà, è il paziente che deve dimostrare, ai fini dell'accertamento della responsabilità del predetto, in modo preciso e specifico, le modalità - ritenute non idonee - di esecuzione dell'atto e delle prestazioni postoperatorie. Nel secondo caso, provata dal paziente la non difficile esecuzione dell'intervento richiesto, incombe al professionista l'onere di dimostrare - al fine di andare esente da responsabilità - che l'insuccesso del proprio intervento non è dipeso dal difetto di propria diligenza o perizia. Deve, infatti, ritenersi, a quest'ultimo riguardo, che ricorra la presunzione di un'inadeguata o non diligente esecuzione della prestazione professionale, superabile solo con la prova contraria, e cioè dimostrando che l'esito infausto era stato causato dal sopravvenire di un evento imprevisto ed imprevedibile oppure dalla preesistenza di una particolare condizione fisica del paziente, non accertabile con il criterio dell'ordinaria diligenza professionale (v. Cassazione nn. 5005/96, 6220/88, 6141/78).

E' in tale quadro normativo di principi che va dunque inquadrata la fattispecie all'esame al fine del vaglio di responsabilità personali che, sì, in questa sede vanno ricercate.

Come si è già indicato in narrativa, la paziente in parola si era sottoposta, trovandosi in stato di gravidanza, ai rituali controlli periodici presso il reparto di ginecologia dell'ospedale di Ivrea, dove le visite venivano effettuate dalla dr.ssa V, dal dr. AL e dal dr. N (v. relazione peritale "Griva").

Alcuni giorni prima della data prevista per il parto, la sig.ra AM fu ricoverata nella divisione di ostetricia e ginecologia con diagnosi di «sospetta gestosi, placenta previa centrale, anemia, varici in terzigravida alla 32^ settimana con precedente taglio cesareo», così come risulta dalla stessa cartella clinica. Al momento del ricovero, la sig.ra AM presenta anemia ipocromica, importanti edemi agli arti inferiori e vistose varici.

La sig.ra AM rimase ricoverata nella predetta divisione dal 3 al 17 settembre 1988 dove venne seguita dai medici AL, V e NERI. Durante la degenza fu eseguita, in data 6.9.88, un'ecografia che confermò la "placenta previa centrale" ed una consulenza chirurgica per varici, con relativo trattamento terapeutico.

La paziente, il giorno 17 settembre 1988, a seguito di un profuso sanguinamento dei genitali esterni, fu sottoposta a taglio cesareo d'urgenza per sofferenza fetale acuta in emorragia massiva; i medici intervenuti per il predetto intervento erano il dott. AL, la dott.ssa V e il dott. C; quest'ultimo ebbe a svolgere, nell'intervento, la funzione di anestesista. Essendo l'emorragia incontrollabile, si procedette inoltre ad isterectomia totale della paziente la quale, successivamente, fu ricoverata d'urgenza presso il reparto rianimazione dell'ospedale di Ivrea per gravi problemi cardiaci sopravvenuti al parto.

La sig.ra AM viene quindi ricoverata presso l'Ospedale di Ivrea con accertati problemi circolatori e placenta previa centrale, in una situazione di grave anemia.

E' pacifico, nella scienza medica, che la placenta previa centrale comporta, rispetto alla popolazione ostetrica generale, un rischio più elevato di mortalità e di morbosità sia materna che neonatale. Si tratta in sostanza di una patologica inserzione della placenta all'estremo inferiore del corpo uterino che può causare metrorragie intense e frequenti con grave anemia della madre; anche il feto risente della situazione poiché sono compromessi gli scambi materno-fetali. La placenta previa centrale, inoltre, predispone ad un rischio più elevato di complicazioni del secondamento e del puerperio. Ove occorra, l'orientamento terapeutico prevede l'estrazione del feto attraverso il taglio cesareo.

Ed all'indicazione di taglio cesareo concorreva anche un'altra circostanza, e cioè che la donna proveniva da altro intervento analogo. E' ben nota, infatti, la tendenza in ginecologia a praticare, per motivi precauzionali, il taglio cesareo laddove una precedente gravidanza si sia prodotta nello stesso modo.

Se questo era il quadro generale al momento del ricovero, è il caso di esaminare il controverso punto del c.d. "progetto assistenziale ostetrico", da talune perizie indicato come mancante, e dalla difesa dei convenuti come invece non involgente le competenze degli stessi.

Il Collegio ritiene che non sia tanto al "nomen juris" che si debba far riferimento, quanto piuttosto alla sostanza degli accertamenti fatti ed alle conoscenze acquisite durante la gravidanza della sig.ra AM.

Che la paziente fosse affetta da placenta previa centrale era dato conosciuto anteriormente al ricovero ospedaliero (cfr. relazione peritale "Sismondi"), così come lo stato anemico, così come era ovviamente conosciuto il pregresso taglio cesareo. Ma prima del ricovero (cfr. relazione peritale "Griva") erano gli stessi medici, oggi convenuti, a seguire la gravidanza della sig.ra AM.

Ora, è evidente che qui non si parla del c.d. "progetto assistenziale ostetrico" che comunemente viene concepito nell'ambito del ricovero ospedaliero, ma piuttosto di cosa abbiano fatto quei medici che hanno seguito la gravidanza e che erano gli stessi a seguire la paziente in ambito ospedaliero, conoscendo la situazione sanitaria della stessa "ab initio" per evitare o scongiurare possibili pericoli resi manifesti da una situazione di accertata patologia della paziente.

In una parola, tale personale sanitario non ha fatto nulla, nel senso di aver trattato la sig.ra AM, oggetto delle descritte indicazioni, come una paziente qualunque che si apprestasse al più tranquillo dei parti.

Ed è qui che il Collegio concorda con le analisi peritali lì dove si denuncia l'imprudenza nel non avere concepito un piano adeguato di assistenza: il trasferimento in utero presso un presidio ospedaliero, in grado di minimizzare la latenza tra un'eventuale emorragia acuta e l'estrazione fetale e dotato di un centro di terapia intensiva neonatale, avrebbe costituito una scelta maggiormente protettiva nei confronti di un feto di bassa età gestazionale a rischio di ipossiemia e di anticipazione urgente della nascita.

A tal proposito si ricorda che la dottrina medica (Cotton, 1980; Neri, 1980; Silver, 1984) suggerisce in casi analoghi l'ospedalizzazione della paziente quando il feto inizia ad avere ragionevoli probabilità di sopravvivenza in caso di estrazione urgente per emorragia acuta (28-32 settimane), nonché la tempestiva induzione farmacologica della maturità polmonare fetale e l'anticipazione programmata della nascita dopo le 34 settimane di gestazione previo accertamento della maturità polmonare fetale mediante amniocentesi.

Tale assunto appare ancor più grave se si pensa come sia ipotizzabile (v. relazione peritale "Sismondi") un rapporto causale tra l'emorragia massiva materna ed il danno neurologico neonatale.

Ma di ciò il personale sanitario non sembra preoccuparsi, anche dopo l'ecografia effettuata in ospedale e che conferma pienamente le indicazioni predette.

E veniamo all'assistenza ospedaliera.

Per ciò che concerne la sorveglianza fetale, nel periodo intercorrente tra il ricovero (2.9.88) e l'espletamento urgente del taglio cesareo (17.9.88) registrazioni cardiotocografiche del battito cardiaco fetale furono ripetutamente prescritte: peraltro, nessun tracciato cartaceo è allegato alla cartella clinica e nessun CTG è refertato sulla cartella stessa. In altre parole, non è dato sapere se tali esami furono realmente compiuti e soprattutto, volendo credere alla loro effettuazione, che esiti abbiano dato.

Ciò che è, in proposito utile sottolineare, da un punto di vista oggettivo, è che le perizie ammettono che già all'epoca degli eventi in esame, la cardiotocografia era una metodica di sorveglianza fetale ormai ampiamente diffusa e che, segnatamente (v. perizia Sismondi), "dopo le 28 settimane di gestazione, nel feto ad alto rischio ipossico (come nella fattispecie, dove sussistevano placenta previa centrale ed anemia materna con HB<9 g/dl) il mancato ricorso al monitoraggio cardiotocografico è da ritenersi negligenza grave.A partire dalle 28-30 settimane di età gestazionale nel feto ad alto rischio ipossico il monitoraggio cardiotocografico riveste indicazione obbligata .la non conservazione e/o la non refertazione di registrazioni effettuate sarebbe d'altra parte censurabile trattandosi di informazioni irrinunciabili ai fini della formulazione di un corretto progetto assistenziale (questo sì, quello ospedaliero).

Tale ultima carenza assume poi connotazioni davvero poco chiare, poiché la difesa dei convenuti sostiene che i tracciati sarebbero stati archiviati separatamente dalla cartella clinica. Invero risulta in atti che, al di là di una nota del Direttore sanitario dell'U.S.L. n.40 di Ivrea in data 19 aprile 1994, con la quale s'invita fermamente il primario della divisione di ostetricia e ginecologia ad allegare i tracciati eseguiti alle cartelle cliniche, in data 5 luglio 1995, il responsabile del Servizio AA.GG. e Legali dell'U.S.L. n.9 Ivrea-Caluso-Cuorgnè comunicava alla Compagnia Assitalia che nella cartella clinica della paziente non risultavano allegati cardiotocogrammi, né essi risultavano giunti presso l'Archivio clinico del Presidio ospedaliero di Ivrea.

Quindi, tale documentazione, che non è stata prodotta neppure in occasione dell'odierna udienza, appare del tutto indisponibile, con grave nocumento di chi avrebbe dovuto provare la correttezza del proprio operato professionale.

Infatti, in giurisprudenza è consolidato l'orientamento che vede il nesso eziologico tra la condotta omissiva del sanitario e l'evento illecito che ad essa abbia fatto seguito (Cass. Pen. IV sez. n. 119/1995); in ragione di ciò qualora i medici convenuti avessero effettuato i previsti tracciati si sarebbero potute avere delle serie e apprezzabili possibilità di successo nell'attività di assistenza al parto, perché una frequente ed efficace auscultazione del battito fetale avrebbe evitato le conseguenze negative del mancato rilievo dello stato di sofferenza del nascituro.

Nessun rilievo può, quindi, essere dato all'affermazione contenuta, in ambedue le deduzioni presentate, che i tracciati siano stati regolarmente eseguiti, perché dell'esistenza di essi non vi è prova alcuna.

La difesa dei convenuti ha poi sostenuto che avendo l'Amministrazione transatto con i coniugi AM circa l'entità del risarcimento, sarebbe venuto meno il nesso di causalità legittimante la sussistenza dell'ipotesi di responsabilità.

Il Collegio non ritiene di poter aderire all'assunto che vede l'interruzione del nesso di causalità sulla scelta discrezionale dell'amministrazione in ordine alla conduzione della causa, costituendo ciò un elemento autonomo in grado di arrestare il predetto nesso eziologico tra il comportamento del sanitario e il possibile evento dannoso costituito dal risarcimento del danno.

Siffatta affermazione contrasta con la giurisprudenza della Corte dei Conti che individua l'avvio dell'azione per responsabilità amministrativa indiretta dal momento del giudicato di condanna dell'amministrazione, divenuto definitivo, o dal momento in cui viene stipulata una transazione tra l'amministrazione e il terzo danneggiato (cfr. C.d.C. I sez. centrale n. 130/1998).

Un'opinione, come quella sostenuta dai convenuti, implicherebbe, di conseguenza, che l'azione pubblica di responsabilità non potrebbe aver corso quando la p.a., anziché resistere in giudizio, preferisca transigere.

Invero, l'amministrazione transige quando la sua posizione in giudizio si appalesa assai debole (questa constatazione è emersa anche nell'ultima relazione del Prof. Martini sopra citata) e quando ritiene, attraverso tale attività, di poter contenere la misura del danno economico.

Dagli atti acquisiti si evince che il legale della società assicurativa che ebbe a gestire il contenzioso - avv. Giovanni BIGLIA - ha sostenuto che a fronte di una richiesta di risarcimento, da parte della famiglia AM di 3 miliardi di lire, si poteva far fronte con un accordo che prevedeva un esborso di lire 1.050.000.000, che doveva essere ritenuto assai favorevole per l'Ente sanitario, in quanto anche se non poteva essere immaginabile che il giudice ordinario liquidasse ai danneggiati una somma di 2 miliardi (somma richiesta oltre la quota del massimale previsto) era, comunque, prevedibile la condanna per un importo di alcune centinaia di milioni (cfr. lettera dell'avv. BIGLIA del 5 settembre 1995 indirizzata all'U.S.L. 9 di Ivrea).

Queste considerazioni vennero fatte dall'avv. BIGLIA sulla considerazione che l'Ente non poteva considerarsi, per questa vicenda, in una «botte di ferro».

Quanto sopra comporta che l'amministrazione, attraverso la transazione, abbia contenuto l'esborso finanziario, ragion per cui non appaiono convincenti le considerazioni in ordine ad una mala gestio dell'accordo transattivo.

Non convince, poi, l'assunto difensivo che vede la transazione come un atto che non può aver conseguenze per i convenuti, in quanto la caratteristica propria del giudizio di responsabilità amministrativa è data dal fatto che esso è diretto ad accertare se l'esborso di pubblico denaro è causalmente collegato a comportamenti gravemente negligenti dei pubblici dipendenti; per tale motivo non ha rilevo alcuno la tipologia di atto che ha comportato la spesa dell'Ente pubblico, ma occorre solo verificare se questa non si sarebbe realizzata quando il comportamento del pubblico dipendente fosse stato conforme alla diligenza, prudenza e perizia che è lecito attendersi dal personale sanitario appartenente alla struttura pubblica.

Conclusivamente e per tutte le ragioni esposte questo Collegio non può esimersi dalla valutazione di una condotta degli odierni convenuti quantomeno censurabile; appaiono infatti ravvisabili elementi indicativi di un'assistenza quantomeno imperfetta, causalmente rilevante e probabilmente determinante nella produzione dell'evento dannoso.

Ravvisati quindi gli aspetti di una colpa professionale specifica, nella forma della colpa grave, questo Collegio conclude per il riconoscimento della patrimoniale responsabilità in capo agli odierni convenuti, quantificando peraltro il danno, difformemente dalla richiesta attrice, in parti uguali, tenuto conto del ruolo assistenziale paritario svolto prima e dopo il ricovero ospedaliero da entrambi i convenuti.

Le spese di giustizia seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte dei conti, Sezione giurisdizionale per la regione Piemonte, definitivamente pronunciando, condanna i sigg. V ed AL al pagamento in favore dell'Erario della somma complessiva pari a £ 50.000.000, ripartita in parti uguali rispettivamente di £ 25.000.000, oltre rivalutazione monetaria ed interessi legali, da computarsi secondo legge.

Le spese legali seguono la soccombenza.

Manda alla Segreteria per gli adempimenti di rito.

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