CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV - Sentenza 16 novembre 2000 n. 6110 -
Pres. Pezzana, Est. Rulli - C. (Avv. Gabriella Spata) c. Ministero della difesa (Avv.ra Stato) - (conferma TAR Puglia-Lecce, Sez. I, 30 ottobre 1995 n. 261).Pubblico impiego - Procedimento disciplinare - Termine per la conclusione previsto dall'art. 9, comma 2, della L. n. 19/1990 - Riguarda solo il procedimento di adozione della sanzione e non la fase della successiva comunicazione.
Pubblico impiego - Procedimento disciplinare - A seguito di condanna ex art. 444 c.p.p. (cd. patteggiamento) - Autonoma valutazione dei fatti - Necessità - Riferimento a fatti non contestati o ragionevolmente fondati emersi in sede penale - Possibilità.
Il termine previsto dall'art. 9, secondo comma, della legge n. 19 del 1990 (entro il quale deve concludersi il procedimento disciplinare) riguarda il solo procedimento di adozione della sanzione disciplinare, ma non la sua comunicazione che è fase autonoma attinente alla efficacia della misura e non alla sua validità.
Se è vero che, ai fini del giudizio disciplinare a carico di un pubblico dipendente non è sufficiente, per affermarne la relativa responsabilità, la circostanza che nei confronti dello stesso sia stata pronunziata una sentenza di condanna ai sensi dell'art.444 c.p.p., dovendo l'organo disciplinare procedere ad una autonoma valutazione della rilevanza dei fatti, è altrettanto vero che a tale pronunzia penale può farsi tuttavia riferimento per ritenere accertati quei fatti emersi nel corso del procedimento penale, che o non siano contestati oppure, in base ad un ragionevole apprezzamento delle risultanze processuali, appaiano fondatamente ascrivibili all'interessato (1). Ciò in quanto la scelta dell'imputato di rinunziare alla facoltà di contestare l'accusa al fine di sottrarsi all'onere del processo e di beneficiare di una riduzione della pena, non pone questi nella medesima posizione posizione di chi, all'esito del medesimo processo, sta stato prosciolto.
L'esistenza di una sentenza di patteggiamento non può, quindi, essere invocata per considerare tamquam non essent tutte le circostanze emerse in sede penale, restando a carico dell'Amministrazione soltanto l'obbligo di valutare autonomamente tali circostanze ai fini della rilevanza disciplinare e di accertare e valutare quegli altri elementi che emergano in sede disciplinare.
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(1) Cfr. in termini, tra le altre, Cons. di Stato, Sez. VI, 2 aprile 1998, n. 428.
FATTO
Con la sentenza in epigrafe precisata il Tribunale amministrativo regionale per la Puglia ha respinto il ricorso proposto dall'allora cap. Antonio C. per ottenere l'annullamento del decreto ministeriale (del 30.9.1992) che aveva disposto nei suoi confronti l'applicazione della sanzione disciplinare della perdita del grado per rimozione.
Il Tribunale adito ha in proposito osservato:
- il termine di 90 gg. previsto dall'art. 9 della legge n. 19 del 7 febbraio 1990 non può ritenersi perentorio;
- la sentenza penale di patteggiamento emessa nei confronti del C. non può ritenersi priva di qualsiasi effetto nel procedimento disciplinare iniziato dopo la sua adozione;
- inesistenza della denunciata disparità di trattamento rispetto alla più lieve sanzione irrigata al maresciallo Lorenzo, essendo diverso il ruolo dei compartecipi e diversa, per il grado rivestito, la posizione dei due militari.
Il sig. C. appella la detta decisione ritenendola erronea per i seguenti motivi:
a) anche a voler ritenere non perentorio il termine in questione, il suo mancato rispetto deve essere giustificato da documentate ragioni eccezionali, che, nella specie, non esistevano;
b) il provvedimento di rimozione è stato comunicato solo il 7 gennaio 1993 rispetto alla data di adozione del decreto impugnato in primo grado (30.9.1992) ed il detto termine deve ritenersi comprensivo anche della fase di comunicazione;
c) la sentenza ex art.444 c.p.p. non è pronunzia di condanna con la conseguenza che incombeva sull'Amministrazione un onere di accertamento e di valutazione dei fatti che nella specie è completamente mancato;
d) ribadisce, ancora, la disparità di trattamento e conclude perché la decisione appellata sia annullata.
Si è costituita in giudizio l'Amministrazione della difesa che chiede la reiezione dell'appello perché infondato.
L'interessato ha, infine, depositato memoria difensiva nella quale, dopo aver ricordato la pronunzia della Corte Costituzionale circa la legittimità costituzionale dell'art. 9, secondo comma, della legge n. 19 del 1990, osserva che proprio da questa pronunzia può rinvenirsi la fondatezza delle doglianze relativa alla necessità di un autonomo accertamento dei fatti oggetto del procedimento penale che nella specie è assolutamente mancata.
Alla pubblica udienza del 14 marzo 2000, su concorde richiesta delle parti, la controversia è stata spedita in decisione.
DIRITTO
1. Ai fini del decidere giova puntualizzare le circostanze di fatto che hanno dato origine alla controversia.
Il sig. Antonio C., capitano dell'Arma Aeronautica, in servizio presso il Comando del 32° gruppo Radar di Otranto, con sentenza n. 168 del 28 giugno 1992 emessa dal Tribunale penale di Lecce, veniva condannato, con i benefici di legge, alla pena, concordemente richiesta dalle parti ex art. 444 c.p.p. di anni uno e mesi sei di reclusione, nonché alla multa di £.1.600.000 perché imputato del reato di "millantato credito aggravato in concorso".
Iniziato il procedimento disciplinare sulla base degli elementi emersi in sede penale, al sig. C. venivano contestati, in data 30 giugno 1992, la violazione dei doveri attinenti al giuramento prestato in qualità di ufficiale e di quelli del grado rivestito e delle funzioni del proprio stato, nonché un comportamento gravemente lesivo del prestigio e della reputazione delle Forze Armate e del Corpo di appartenenza.
Il detto procedimento si concludeva con la decisione del Consiglio di disciplina, adottata nella seduta del 10 agosto 1992, ed approvata dal Ministro con decreto del 14 settembre 1992, che ritenevano l'ufficiale "non meritevole di conservare il grado", ed infine con l'irrogazione della sanzione disciplinare della rimozione per perdita del grado (D.M. 30.9.1992).
La procedura così delineata è stata ritenuta corretta dal giudice di primo grado ed immune dai vizi prospettati.
2. In questa sede l'allora cap. C. contesta le conclusioni alle quali è pervenuto il T.A.R. ritenendo che, pur dopo la sentenza della Corte Costituzionale n. 197 del 28 maggio 1999, la procedura seguita dall'Amministrazione sia comunque da annullare per aver dilatato, senza alcuna giustificazione, i tempi di definizione del procedimento, comprensivi anche della fase di comunicazione e per aver omesso quell'autonomo accertamento dei fatti necessario perché non completo quello in sede penale.
3. Le argomentazioni e le tesi difensive svolte dal C. nell'atto di appello e nella successiva memoria difensiva non possono essere condivise.
Egli afferma, in primo luogo, che il termine previsto dall'art. 9, secondo comma, della legge n. 19 del 1990 (entro il quale deve concludersi il procedimento disciplinare) sarebbe comprensivo anche della fase di comunicazione del provvedimento centrale e conclusivo del procedimento stesso che potrà dirsi "portato a termine" quando quest'ultimo è pervenuto nella sfera giuridica del destinatario così che la sanzione della perdita del grado per rimozione a lui inflitta e comunicata solo il 7 gennaio 1993 doveva ritenersi ormai estinta.
In proposito il Collegio ritiene sufficiente ricordare l'interpretazione giurisprudenziale della norma, già espressa da questo Consiglio, che è nel senso di collocare all'interno del termine di cui si discute il solo provvedimento di adozione della sanzione disciplinare, ma non la sua comunicazione che è fase autonoma attinente alla efficacia della misura e non alla sua validità.
Da ciò consegue che il procedimento disciplinare qui contestato, iniziato il 1° luglio 1992 e concluso, con il decreto ministeriale di irrogazione della sanzione, in data 30 settembre dello stesso anno, risulta ampiamente contenuto nei termini previsti dalla norma in esame.
4. Quanto all'ulteriore censura, puntualizzata dall'appellante dopo ricordata la sentenza della Corte Costituzionale circa la perentorietà del termine in discussione, va osservato che se è vero che, ai fini del giudizio disciplinare a carico di un pubblico dipendente non è sufficiente, per affermarne la relativa responsabilità, la circostanza che nei confronti dello stesso sia stata pronunziata una sentenza di condanna ai sensi dell'art.444 c.p.p., dovendo l'organo disciplinare procedere ad una autonoma valutazione della rilevanza dei fatti, è altrettanto vero che a tale pronunzia penale può farsi tuttavia riferimento per ritenere accertati quei fatti emersi nel corso del procedimento penale, che o non siano contestati oppure, in base ad un ragionevole apprezzamento delle risultanze processuali, appaiano fondatamente ascrivibili all'interessato (in termini, tra le altre, cfr. Cons. di St. -VI° Sez.- 2 aprile 1998, n. 428).
Ciò in quanto la scelta dell'imputato di rinunziare alla facoltà di contestare l'accusa al fine di sottrarsi all'onere del processo e di beneficiare di una riduzione della pena, non pone questi nella medesima posizione posizione di chi, all'esito del medesimo processo, sta stato prosciolto.
L'esistenza di una sentenza di patteggiamento non può, quindi, essere invocata per considerare tamquam non essent tutte le circostanze emerse in sede penale, restando a carico dell'Amministrazione soltanto l'obbligo di valutare autonomamente tali circostanze ai fini della rilevanza disciplinare e di accertare e valutare quegli altri elementi che emergano in sede disciplinare.
E nel caso in esame, contrariamente a quanto sostenuto dall'appellante, l'Amministrazione della difesa non si è limitata a recepire acriticamente le risultanze delle indagini preliminari compiute dal P.M., ma, come risulta chiaramente dal rapporto finale redatto dall'ufficiale inquirente il 29 luglio 1992 e dal verbale della riunione del Consiglio di disciplina del 10 agosto 1992, ha espressamente valutato gli elementi raccolti ai fini penali (intercettazioni telefoniche, verbali delle testimonianze acquisite dall'A.G. ed altro) e le dichiarazioni dello stesso C., per concludere nel senso che queste ultime non fossero sufficienti a dimostrare la estraneità dell'ufficiale ai fatti a lui addebitati; e siffatte conclusioni non appaiono illogiche né immotivate.
Ed appare ugualmente ragionevole il fatto che l'Amministrazione sia stata rafforzata nelle proprie conclusioni dal rilievo che in ogni caso la sentenza pronunziata ex art. 444 c.p.p. può essere adottata solo nell'ipotesi che non vi sia spazio alcuno per il proscioglimento dell'inquisito ai sensi dell'art. 129 c.p.p. (e cioè quando il fatto non sussiste o che l'imputato non lo ha commesso ovvero che il fatto non costituisce reato).
5. Relativamente alla denunciata disparità di trattamento rispetto alla sanzione, ben più lieve, adottata nei confronti del maresciallo Pietro Lorenzo, coinvolto nella medesima vicenda, la decisione del giudice di primo grado, che ne ha rilevato la insussistenza, va confermata atteso che la posizione di quest'ultimo militare, per il grado rivestito e per il ruolo marginale svolto, deve ritenersi diversa e di minore spessore facendo così venir meno il presupposto imprescindibile del vizio denunziato che è quello della assoluta coincidenza fra la situazione dedotta in giudizio e quella chiamata a raffronto. E ciò è tanto vero che anche la sentenza penale ha previsto, per il Lorenzo, una pena di minima entità.
6. In conclusione l'appello proposto dal sig. C. non può essere accolto e la decisione impugnata va confermata sia pure
con una più puntuale motivazione necessaria dopo la ricordata pronunzia della Corte Costituzionale intervenuta nelle more del giudizio.
Le spese e gli onorari dei due gradi di giudizio possono, per giusti motivi, essere compensati
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione quarta, definitivamente pronunziando, respinge il ricorso indicato in epigrafe e, per l'effetto, conferma la decisione impugnata con le precisazioni contenute nella parte motiva.
Compensa, tra le parti, le spese e gli onorari dei due gradi di giudizio.
Ordina che la presente decisione sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Roma il 14 marzo 2000, in camera di consiglio, con l'intervento dei seguenti magistrati:
Aldo Pezzana Presidente
Domenico La Medica Consigliere
Pietro Falcone Consigliere
Filoreto D'Agostino Consigliere
Dedi Rulli Consigliere, estensore
L'ESTENSORE IL PRESIDENTE
Depositata il 16.11.2000.