CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV - Sentenza 6 maggio 2002 n. 2434 - Pres. La Medica, Est. Salvatore - Zanellati e c.ti (Avv. G. Correale) c. Corte dei Conti e c.ti (Avv. dello Stato De Felice) - (conferma T.A.R. Lazio, Sez. I, 17 settembre 1991, n. 1559).
1. Pubblico impiego - Stipendi, assegni ed indennità - Termine di prescrizione dell'azione - E' quinquennale - Applicabilità sia ai crediti non contestati che a quelli contestati dall'amministrazione.
2. Pubblico impiego - Stipendi, assegni ed indennità - Termine di prescrizione dell'azione - Decorrenza - Dal momento della loro insorgenza - Norma incostituzionale che li disconosce - Irrilevanza - Applicabilità del principio anche a rivalutazione ed interessi.
1. I crediti di lavoro dei pubblici dipendenti, in base alle disposizioni normative sulla prescrizione (art. 2948 cod. civ. per i dipendenti non statali ed art. 2 legge 7 agosto 1985 n. 428 per quelli statali) - che non prevedono distinzioni nell'ambito dei crediti di natura retributiva - soggiacciono tutti alla prescrizione quinquennale (1); tale principio vale anche dopo l'entrata in vigore della legge 7 agosto 1985, n. 428, senza possibilità di distinzione tra crediti non contestati e crediti contestati dall'amministrazione (2).
2. Il dies a quo del termine quinquennale di prescrizione dei diritti di natura patrimoniale spettanti ai pubblici dipendenti inizia a decorrere dal momento in cui essi sorgono, anche nell'ipotesi in cui esista una norma incostituzionale che li disconosce, perché nulla impedisce che il titolare possa agire per farli valere denunciando nelle sedi competenti l'incostituzionalità della norma (3). Lo stessa decorrenza è applicabile anche alla rivalutazione monetaria e agli interessi legali, le quali integrano competenze accessorie fondate non su autonome fonti dell'obbligazione e, pertanto, seguono le sorti del credito principale anche ai fini della prescrizione (4).
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(1) Cfr. Cons. Stato, Sez. V, 15 giugno 1998, n. 850; id., 29 luglio 1997 n. 852; id., 17 dicembre 1996 n. 1553; Sez. VI, 20 marzo 1996 n. 476; id., 19 maggio 1989 n. 660; Sez. IV, 14 novembre 1994 n. 885.
(2) Cfr. Cons. Stato, Sez. V, 1 giugno 2001, n. 2966; Sez. VI, 28 maggio 2001, n. 2903; 16 maggio 2001, n. 2769.
(3) Cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 31 marzo 1999, n. 371; C.G.A., 18 dicembre 1993, n. 499.
(4) Cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 20 febbraio 1998, n. 158; 31 marzo 1999, n. 371.
FATTO
Gli appellanti, con distinti ricorsi al TAR del Lazio, chiedevano l'accertamento del loro diritto a percepire rivalutazione monetaria e interessi sulle somme loro corrisposte dalla Corte dei conti nel 1982 a titolo di "indennità militare" a decorrere dal loro passaggio all'amministrazione intimata.
Premesso che alla loro richiesta la Corte aveva opposto l'intervenuta prescrizione del credito, deducevano a sostegno dei gravami le seguenti censure:
1) Violazione di legge, manifesta ingiustizia, inopponibilità della prescrizione quinquennale.
Posto che nella specie non è stato esercitato un diritto accessorio, ma è stato chiesto l'esatta quantificazione del dovuto, non sarebbe applicabile il termine di prescrizione di cui all'art. 2948 del codice civile.
Altrettanto inapplicabile sarebbe il termine prescrizionale di cui all'art. 2, comma 1, del R.D.L. 19 gennaio 1939, n. 295 - come emendato con sentenza della Corte costituzionale 7 aprile 1981, n. 50 - perché nella specie si verterebbe nell'ipotesi in cui, essendo richiesto l'accertamento di una serie di condizioni, troverebbe applicazione il termine prescrizionale ordinario di dieci anni.
2). Eccesso di potere per disparità di trattamento difetto di motivazione.
L'omessa rivalutazione d'ufficio delle somme tardivamente corrisposte si pone in contrasto con quanto stabilito dalla Presidenza del Consiglio dei ministri con circolare n. 5314/27720/02 del 26 novembre 1986, ed ha determinato un'ingiustificata disparità di trattamento rispetto a coloro che tale rivalutazione hanno ottenuto.
3). Violazione di legge con riferimento alla sentenza della Corte costituzionale n. 52 del 9 aprile 1986.
La Corte con la richiamata sentenza ha riconosciuto l'applicabilità ai rapporti di pubblico impiego del meccanismo della rivalutazione automatica dei crediti di lavoro come previsti dagli artt. 429, comma 3 CPC e 150 delle relative disposizioni di attuazione, con la conseguenza che la prescrizione quinquennale non potrebbe decorrere da data anteriore a tale pronuncia.
L'Avvocatura generale dello Stato, costituitasi in giudizio nell'interesse delle amministrazioni intimate, contestava la fondatezza delle censure e il ricorso era respinto con la sentenza oggetto di impugnazione, contro la quale gli interessati hanno proposto appello.
L'Avvocatura generale dello Stato resiste all'appello.
DIRITTO
1. Con il primo motivo d'appello i ricorrenti ripropongono la tesi dell'inapplicabilità al caso di specie della prescrizione quinquennale, richiamandosi nuovamente al parere di questo Consiglio di Stato, Sezione III, n. 1505/89.
Il motivo è infondato.
Il primo giudice ha respinto la censura, osservando che, alla stregua del principio espresso dall'art. 429, comma 3 CPC, la rivalutazione dei crediti di lavoro non introduce un elemento ulteriore nelle ragioni creditorie del dipendente, ma opera una quantificazione di valori ontologicamente e funzionalmente coincidenti con i momenti originari di maturazione del diritto alla retribuzione.
Dalla constatazione che la rivalutazione partecipa della natura e riveste i caratteri del credito originario, il TAR ha dedotto, come logico corollario, che l'adempimento eseguito in ritardo rappresenta in realtà l'adempimento parziale di un'obbligazione unitaria, comprendente ab origine sia la retribuzione nominale sia la rivalutazione, con l'ulteriore conseguenza che la pretesa alla rivalutazione soggiace al termine prescrizionale quinquennale, atteso che all'unitarietà dell'obbligazione non può che corrispondere l'unicità di disciplina.
Quanto all'assunto che, nel caso in esame, dovrebbe trovare applicazione l'indirizzo giurisprudenziale, secondo il quale, nei casi in cui il diritto patrimoniale del dipendente deve essere riconosciuto attraverso specifici accertamenti dell'amministrazione, la prescrizione è quella ordinaria decennale, il giudice di primo grado ha rilevato come detto indirizzo non potesse trovare applicazione al caso dei ricorrenti, perché sia l'originaria pretesa a percepire l'indennità militare sia la successiva, volta ad ottenere la rivalutazione monetaria, pongono questioni che non richiedono accertamenti specifici, ma esigono solo l'interpretazione di norme integralmente vincolanti.
Per quel che concerne poi gli interessi, il TAR, per confutare la tesi dei ricorrenti, ha osservato che il termine di prescrizione quinquennale è espressamente stabilito dall'art. 2948, n. 1 codice civile.
Le considerazioni del TAR sono pienamente condivisibili, perché conformi al consolidato orientamento di questo Consiglio, secondo il quale il normale termine prescrizionale previsto per i crediti di lavoro dei pubblici dipendenti, in base alle disposizioni normative sulla prescrizione (art. 2948 Cod. civ. per i dipendenti non statali ed art. 2 legge 7 agosto 1985 n. 428 per quelli statali) - che non prevedono distinzioni nell'ambito dei crediti di natura retributiva - soggiacciono tutti alla prescrizione quinquennale (C.S., Sez. V, 15 giugno 1998, n. 850; id., 29 luglio 1997 n. 852; id., 17 dicembre 1996 n. 1553; Sez. VI, 20 marzo 1996 n. 476; id., 19 maggio 1989 n. 660; Sez. IV, 14 novembre 1994 n. 885).
Detto orientamento è stato ribadito anche di recente (cfr. C.d.S., Sez. V, 1 giugno 2001, n. 2966; Sez. VI, 28 maggio 2001, n. 2903; 16 maggio 2001, n. 2769), precisandosi al riguardo che dopo l'entrata in vigore della legge 7 agosto 1985, n. 428, tutti i crediti di lavoro dei pubblici dipendenti si prescrivono nel termine di cinque anni, senza possibilità di distinzione tra crediti non contestati e crediti contestati dall'amministrazione.
Per quel che concerne la decorrenza del termine di prescrizione dei diritti di natura patrimoniale spettanti ai pubblici dipendenti, si è precisato che il dies a quo inizia a decorrere dal momento in cui essi sorgono, anche nell'ipotesi in cui esista una norma incostituzionale che li disconosce, perché nulla impedisce che il titolare possa agire per farli valere denunciando nelle sedi competenti l'incostituzionalità della norma (Cfr., C.d.S., Sez. VI, 31 marzo 1999, n. 371; CSI, 18 dicembre 1993, n. 499).
Alle stesse conclusioni si è pervenuti in merito alla rivalutazione e agli interessi, le quali integrano competenze accessorie fondate non su autonome fonti dell'obbligazione e seguono pertanto le sorti del credito principale anche ai fini della prescrizione (cfr., Con. St., Sez. VI, 20 febbraio 1998, n. 158; 31 marzo 1999, n. 371).
2. A conclusioni negative deve pervenirsi anche in ordine ai motivi secondo e terzo del ricorso.
Con riferimento al contenuto della circolare della Presidenza del Consiglio dei ministri n. 5314/27720/02 del 26 novembre 1986, con la quale le amministrazioni erano invitate a liquidare d'ufficio la rivalutazione delle somme tardivamente corrisposte, è agevole osservare da un lato, che l'invito è evidentemente riferito a pagamenti futuri, e, dall'altro lato, che esso non esonerava certo il dipendente dall'azionare le proprie pretese alla rivalutazione, al fine di evitare il verificarsi dell'evento prescrizionale.
Per quanto attiene alla sentenza della Corte costituzionale n. 52 del 9 aprile 1986, esattamente il primo giudice ha osservato che detta pronuncia, con cui la Corte ha dichiarato la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale delle norme di cui agli artt. 429, comma 3 CPC e 150 delle relative disposizioni di attuazione, sul rilievo che il "diritto vivente" assicurava ai dipendenti pubblici lo stesso meccanismo rivalutativo previsto per i dipendenti privati, non ha prodotto né effetti additivi né riflessi innovativo sul regime prescrizionale dei crediti di lavoro.
Ne deriva l'infondatezza della tesi che, per effetto della richiamata pronuncia della Corte, la prescrizione dovesse decorrere dalla data della sentenza medesima.
Quanto ai diritti di natura patrimoniale spettanti ai pubblici dipendenti, si è precisato che il dies a quo inizia a decorrere dal momento in cui essi sorgono, anche nell'ipotesi in cui esista una norma incostituzionale che li disconosce, perché nulla impedisce che il titolare possa agire per farli valere denunciando nelle sedi competenti l'incostituzionalità della norma (Cfr., C.d.S., Sez. VI, 31 marzo 1999, n. 371; CSI, 18 dicembre 1993, n. 499).
L'appello deve, pertanto, essere respinto.
Le spese del grado di giudizio seguono la soccombenza e si liquidano in dispositivo.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sez. IV) respinge l'appello.
Condanna i ricorrenti in solido a rimborsare alle amministrazioni intimate le spese e gli onorari del secondo grado di giudizio, che liquida in complessive lire due milioni.
Ordina che la presente decisione sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Roma addì 16 ottobre 2001 dal Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione IV), riunito in Camera di Consiglio con l'intervento dei signori:
Giovanni Paleologo Presidente
Domenico La Medica Consigliere
Costantino Salvatore Consigliere est.
Anselmo Di Napoli Consigliere
Ermanno De Francisco Consigliere
L'ESTENSORE IL PRESIDENTE
Depositata il 6 maggio 2002.