CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV - Sentenza 17 giugno 2003 n. 3402 - Pres. Salvatore, Est. Barberio - P. (Avv.ti Cornelio e Massano) c. Istituto per l'Infanzia Santa Maria della pietà (Avv.Moranti) - (conferma T.A.R. Veneto, Sez. III, n. 513/2003).
1. Atto amministrativo - Diritto di accesso - Del figlio non riconosciuto - Agli atti detenuti dall'istituto di ricovero presso il quale è nato ed allo scopo di individuare il nome della madre che aveva chiesto di non essere nominata - Non sussiste - Ragioni.
2. Atto amministrativo - Diritto di accesso - Actio ad exhibendum ex art. 25 della l. n. 241/90 - Istituto di ricovero custode di documenti relativi all'identità della madre che all'atto della nascita ha dichiarato di non voler essere nominata - E' legittimato a resistere all'azione proposta dal figlio non riconosciuto che intenda esercitare l'accesso nei riguardi di detti documenti - Ragioni.
1. Non sussiste il diritto del figlio non riconosciuto di accedere agli atti detenuti dall'istituto di ricovero presso il quale è nato al fine di individuare il nome della madre che ha chiesto di non essere nominata, atteso che, sia prima che dopo l'entrata in vigore della legge 184/1983, l'anonimato della donna che non volesse essere nominata in relazione alla nascita di un figlio non riconosciuto è tutelato, da un lato, dalla possibilità di far constare la volontà di non essere nominata nell'atto di nascita e, dall'altro, dal divieto posto a carico degli Istituti custodi di rivelare la documentazione relativa alla nascita; tali disposizioni costituiscono, ai sensi dell'articolo 24 della legge 241/1990, un caso di "divieto di divulgazione altrimenti previsti dall'ordinamento", in presenza del quale è escluso l'esercizio del diritto di accesso (1).
2. L'istituto di ricovero che sia custode dei documenti relativi all'identità della madre che all'atto della nascita ha dichiarato di non voler essere nominata è legittimato a stare in giudizio per resistere all'azione del figlio adottivo che intenda esercitare il diritto di accesso alla relativa documentazione in quanto destinatario di una disposizione (art. 9.D.L. 8 maggio 1927, n. 798) che pone a suo carico il divieto di divulgazione.
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(1) Nell'ampia motivazione della sentenza in rassegna si dà atto che anche nel sistema disciplinato dalla legge n. 184/83 era contemplata la possibilità che il genitore restasse anonimo e si richiedeva, nel caso di unione illegittima, per rendere possibile l'annotazione anagrafica, un positivo atto di volontà del medesimo, consistente nella dichiarazione alla nascita o nella dichiarazione contenuta in atto pubblico
In particolare il R.D.L. 8 maggio 1927, n. 798 prevedeva a carico dell'istituto di ricovero l'onere di compiere indagini sulle origini dell'infante, ponendo però un preciso divieto di divulgarle (art. 9, secondo cui "È rigorosamente vietato di rivelare l'esito delle indagini compiute per accertarne la maternità degli illegittimi, ed è fatta salva, ove ne ricorrano gli estremi, l'applicazione degli articoli 163 e 177 del Codice penale"; v. ora gli art. 622 e 326). Tale normativa non recava chiaramente un divieto di conoscenza, da parte dell'adottato, delle proprie origini, ma di fatto impediva che le notizie sull'identità dei genitori biologici gli fossero rivelate laddove questi non avessero espressamente consentito.
Solo nella convenzione Europea sull'adozione di Strasburgo del 24 aprile 1967, ratificata con legge 22 maggio 1974, n. 357 si è affermato esplicitamente, in linea di principio, che l'adottato e i genitori adottivi non potessero conoscere l'identità dei genitori naturali.
Tale "misura del possibile", unitamente alle critiche che avevano accompagnato il diniego assoluto introdotto dalla legge n. 184/83, hanno comportato la revisione della previsione della legge 184/1983, che ha subito modifiche da parte della legge n. 149 del 2001, nel senso che è oggi consentito all'adottato, al compimento del 25° anno d'età, l'accesso ai dati relativi alla propria origine in tutti i casi in cui sia stato riconosciuto alla nascita, fermo restando il divieto per coloro che non sono stati riconosciuti o qualora anche uno solo dei genitori biologici abbia dichiarato di non volere essere nominato o abbia manifestato il consenso all'adozione a condizione di rimanere anonimo.
Tale misura trova un limite nella protezione dell'anonimato della madre che non voglia essere nominata, tutelato prima e dopo l'entrata in vigore della legge 184/1983, per impedire che le nascite non desiderate comportassero alterazioni di stato o, peggio ancora, interruzioni della gravidanza o soppressione di neonati.
FATTO
La Signora P., nata il 30 dicembre 1956 in Venezia, presso l'Istituto per l'Infanzia S.Maria della Pietà come E. M., venne registrata all'anagrafe quale figlia di ignoti.
Dopo aver richiesto all'Istituto di conoscere l'identità della propria madre, con istanza depositata il 12 dicembre 2001 adì il Tribunale per i Minorenni di Venezia. Con decreto del 25 febbraio 2002 il Tribunale dichiarò la propria incompetenza in materia, essendo stata adottata la P. con decreto della Corte d'Appello 16 novembre 1961, pronunciata ai sensi degli articoli 312 e 313 c.c., all'epoca applicabili sia ai maggiorenni che ai minorenni e in considerazione del fatto che all'epoca dell'avvenuta adozione non esistevano norme che ponevano il divieto di conoscere l'identità dei genitori biologici.
In conseguenza di ciò la P. formalizzava la richiesta di accesso agli atti all'Istituto per l'Infanzia S.Maria della Pietà e, formatosi sulla stessa silenzio rifiuto, adiva il TAR Veneto argomentando essenzialmente, sulla scia della decisione resa in data 7 settembre 1993 dal TAR Sicilia, Sezione di Catania, nella quale si afferma che l'articolo 269 c.c. attribuisce al figlio naturale il diritto di provare la maternità e la paternità con ogni mezzo e che in tale diritto deve essere compreso quello, logicamente preliminare, di ottenere dal pubblico ufficiale notizie sull'identità del soggetto nei cui confronti condurre eventualmente l'azione.
L'Istituto si costituiva in giudizio sostenendo il diritto della madre al segreto della propria identità nei confronti del figlio non riconosciuto, diritto che deriverebbe dall'articolo 70 della legge sullo stato civile (R.D. 1238/1939) come modificata dalla legge 15 maggio 1997, n. 127 e dalle norme dettate per l'adozione speciale dalla legge 184/1983.
Il TAR Veneto, argomentando essenzialmente sul rilievo di carattere costituzionale, ai sensi dell'articolo 2 Cost., del diritto della madre alla riservatezza, rigettava il ricorso.
La P. impugna tale sentenza ai sensi dell'articolo 25, c. 5 della legge 7 agosto 1990, n. 241 , per i seguenti motivi:
1) Violazione del 2° c. lett. d) dell'art. 24 legge 7 agosto 1999, n. 241, nonché violazione degli articoli 81 e 100 c.p.c.
Il diritto alla riservatezza, posto dal TAR a sostegno della sentenza, all'epoca della nascita della P. non era tutelato da alcuna disposizione di legge. Esisteva solo un dovere di mantenere il segreto professionale cui l'Ospedale era tenuto. Tale ipotesi è regolata dall'articolo 24, c. 2 lett. d) della legge 241/90, che garantisce agli interessati la visione degli atti relativi ai procedimenti amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per curare o difendere i loro interessi giuridici.
E' interesse giuridico della P. poter agire in giudizio contro la madre naturale per ottenere da lei il risarcimento del danno per l'abbandono e la posizione di chiamato all'eredità secondo la legge ove si fosse aperta la successione.
Conoscere la madre naturale è il presupposto di fatto minimo per poter sperare di giungere all'identificazione del padre naturale e quindi di far valere le stesse ragioni nei confronti di lui o dei suoi eventuali eredi. La P. intende identificare la madre naturale per poterla convenire in giudizio ai sensi degli articoli 269 e ss. c.c., al fine di accertare il rapporto di filiazione naturale.
L'Istituto tra l'altro non è legittimato a resistere all'azione di accesso in quanto non ha alcun interesse giuridico proprio da difendere
2) Violazione dell'articolo 2697 c.c., assenza di prove e travisamento dei fatti.
Esiste una differenza tra il mancato riconoscimento e la volontà della madre di non essere nominata. Nel vecchio regime codicistico la dichiarazione di nascita poteva essere fatta da soggetti diversi dalla madre e da tale atteggiamento puramente negativo discendeva il mancato riconoscimento.
Con la riforma del 1997 è stato introdotto un nuovo istituto negoziale, in base al quale la madre può esprimere la volontà di non essere nominata. In mancanza dell'espressione di tale volontà -e l'Istituto non ha provato che tale espressione ci sia stata all'epoca e che quanto riferito all'anagrafe da colui che denunciò la nascita sia veritiero- anche oggi non è possibile attribuire al silenzio sull'identità il significato di un rifiuto di farsi conoscere. Il mancato riconoscimento non coincide infatti con la volontà di restare ignoti, come ben si desume dalla novella del 1997.
3) Norme di azione e norme di relazione: irrilevanza dell'articolo 70 della legge sullo stato civile vecchia o nuova formulazione, nel caso di specie.
La presente controversia non ha per oggetto lo stato civile. Un genitore che non ha riconosciuto il figlio ha diritto a non veder nominata la propria identità su un pubblico registro cui tutti possono attingere.
Ciò non ha nulla a che fare con il rapporto giuridico fra il genitore e il figlio. L'articolo 70 della legge sullo stato civile non è norma di relazione che regola i rapporti tra madre e figlio, che sono disciplinati dagli articoli 269 e ss. c.c.
4) Non applicabilità alla fattispecie in esame della normativa invocata dalla decisione impugnata.
L'adozione della Signora P., intervenuta nel 1961, era regolata dal vecchio testo del codice civile. In forza dell'articolo 300 c.c. l'adottato non perdeva i propri diritti nei confronti della famiglia di origine e quindi anche nei confronti dei genitori naturali. Conseguentemente il diritto alla riservatezza introdotto dalla vigente legislazione non riguarda minimamente il caso in esame.
5) Profili di illegittimità costituzionale della normativa invocata dalla sentenza di primo grado.
Se le norme invocate dal TAR Veneto impedissero l'esercizio dei diritti che competono al figlio naturale nei confronti della madre, si avrebbe aperta violazione degli articoli 3 e 30 della Costituzione.
a)Il comportamento della donna che abbandona il figlio certamente contravviene al primo comma dell'articolo 30 Cost. Si tratta di un comportamento illecito anche se non perseguito dall'ordinamento per motivi di opportunità. Non si comprende perché un soggetto che è stato colpito da tale illecito non possa far valere i propri diritti.
b) L'ultimo comma dell'articolo 30 Cost. stabilisce una riserva di legge sui "limiti per la ricerca della paternità". Numerose sentenze della Corte Costituzionale hanno definito i limiti entro i quali poteva muoversi il legislatore ordinario e la ricerca della paternità naturale è stata consentita prima ai figli adulterini e poi agli incestuosi. Nessuno ha mai ritenuto che potessero esserci limiti alla ricerca della maternità naturale.
c) L'accertamento della paternità è sempre consentito. Non si comprende perché solo la madre dovrebbe potersi liberare dalle proprie responsabilità ed obblighi con la semplice dichiarazione di non volere essere nominata. Se così fosse gli articoli 4, comma 7 della legge 149/01 e 2 dell'art. 2 della legge 127/1997 sarebbero incostituzionali per violazione dell'articolo 30, 1° e 4° comma Cost. e dell'art. 3 Cost.
Si è costituito in giudizio L'Istituto provinciale per l'infanzia S. Maria della Pietà di Venezia sostenendo:
a) che il diritto alle riservatezza ha rango costituzionale come affermato dalla Corte Costituzionale con sentenza 12 aprile 1973, n. 38 e dalla Convenzione europea dei diritti dell'uomo resa esecutiva con legge 4 agosto 18955, n. 848;
b) che nell'ambito delle norme di cui alla legge n. 241/1990 (articolo 24, c. 1) il diritto di accesso è escluso nei casi "di divieto di divulgazione altrimenti previsti nell'ordinamento";
c) che il R.D. 9 luglio 1939, n. 1238, la legge n. 127/97, la legge n. 149/2001 e il RDL n. 798/1927 contemplano casi di divieto di divulgazione dei dati relativi alla maternità
d) che in tale situazione non è possibile alcun bilanciamento degli interessi in quanto il primo comma dell'articolo 24 della legge 241/1990 non consente all'Amministrazione alcun margine di discrezionalità essendo stata la valutazione dell'interesse rimessa al legislatore, che ha appunto escluso la possibilità.
e) deve inoltre escludersi che il diritto all'anonimato della madre operi solamente nell'ambito dell'ordinamento dello stato civile, restando escluso sotto altro profilo, ad esempio quello di diritto successorio. In tal caso il diritto all'anonimato sarebbe infatti completamente frustrato
f) tutte le disposizioni a tutela dell'anonimato della madre tutelano in effetti la vita nascente, evitandone la soppressione mediante l'aborto o l'infanticidio. L'idea dell'anonimato era a base anche dell'antichissimo istituto della "ruota", che consentiva alle madri di lasciare i figli agli istituti di accoglienza senza farsi conoscere.
Con successiva memoria la P. ribadisce la propria tesi e insiste sulle proprie richieste. In particolare sostiene di essere stata adottata secondo la disciplina codicistica del 1942, onde a lei non si applicano le disposizioni successive.
DIRITTO
Viene innanzitutto all'esame l'eccezione di difetto di legittimazione a resistere dell'Istituto S. Maria della Pietà di Venezia che, secondo l'appellante, non sarebbe titolare di alcun diritto, e non potrebbe difendere in giudizio un diritto di altri all'anonimato.
L'istituto di ricovero custode dei documenti relativi all'identità della madre che all'atto della nascita ha dichiarato di non voler essere nominata è legittimato a stare in giudizio per resistere all'azione del figlio adottivo che intenda esercitare il diritto di accesso alla relativa documentazione in quanto destinatario di una disposizione (art. 9.D.L. 8 maggio 1927, n. 798) che pone a suo carico il divieto di divulgazione.
L'Istituto sta infatti in giudizio per difendere il proprio interesse a gestire la custodia degli atti in suo possesso secondo le regole poste dalla legge. Si tratta di un interesse al "munus", e alle modalità del suo svolgimento, che non può essere negato anche in relazione alle conseguenze di diverso genere che potrebbero ricadere sull'Istituto ove violasse una disposizione che gli impone di non divulgare determinate notizie. Le argomentazioni relative al diritto all'anonimato non sono pertanto volte a difendere l'interesse di un terzo, ma il proprio interesse a non divulgare documenti protetti dall'anonimato, col rischio di essere esposti a successive richieste di risarcimento del danno.
Nel merito la questione è estremamente complessa perché si tratta di stabilire se le norme vigenti all'epoca dell'adozione della Signora P. precludessero completamente la possibilità di comunicazione delle generalità della madre che intendeva conservare l'anonimato -rendendo così applicabile anche oggi il divieto di accesso di cui all'articolo 24 della legge 241/1990- ovvero se tale preclusione potesse essere superata sulla base delle disposizioni del codice civile (art. 300) che mantenevano in capo all'adottato tutti i diritti e i doveri verso la sua famiglia di origine, salve le eccezioni stabilite dalla legge. L'adozione, all'epoca, non interrompeva infatti i rapporti giuridici con la famiglia naturale; ciò che ancora accade per l'adozione dei maggiorenni, mentre per i minori la legge 4 maggio 1983, n. 184, anche nel testo modificato 28 marzo 2001, n. 149 ha stabilito che "con l'adozione cessano i rapporti dell'adottato verso la famiglia di origine, salvi i divieti matrimoniali".
L'ordinamento dello Stato civile (R.D. 9 luglio 1939, n. 1238) prevedeva peraltro che la dichiarazione della nascita potesse essere fatta anche da un procuratore della madre (art. 70) e che se la nascita era da unione illegittima le indicazioni relative ai genitori dovessero essere fatte soltanto per i genitori che rendessero personalmente la dichiarazione o che avessero fatto constatare per atto pubblico il proprio consenso ad essere nominati (art. 73).
Ciò vuol dire che anche nel precedente sistema era contemplata la possibilità che il genitore restasse anonimo e si richiedeva, nel caso di unione illegittima, per rendere possibile l'annotazione anagrafica, un positivo atto di volontà del medesimo, consistente nella dichiarazione alla nascita o nella dichiarazione contenuta in atto pubblico
All'ipotesi di abbandono alla pubblica assistenza di un illegittimo si applicava inoltre il R.D.L. 8 maggio 1927, n. 798 che prevedeva a carico dell'istituto di ricovero l'onere di compiere indagini sulle origini dell'infante, ponendo però un preciso divieto di divulgarle (art. 9: È rigorosamente vietato di rivelare l'esito delle indagini compiute per accertarne la maternità degli illegittimi, ed è fatta salva, ove ne ricorrano gli estremi, l'applicazione degli articoli 163 e 177 del Codice penale. N.d.r. ora art. 622 e 326).
Tale normativa non recava chiaramente un divieto di conoscenza, da parte dell'adottato, delle proprie origini, ma di fatto impediva che le notizie sull'identità dei genitori biologici gli fossero rivelate laddove questi non avessero espressamente consentito.
Solo nella convenzione Europea sull'adozione di Strasburgo del 24 aprile 1967, ratificata con legge 22 maggio 1974, n. 357 si affermò esplicitamente nell'ordinamento italiano, in linea di principio, che l'adottato e i genitori adottivi non potessero conoscere l'identità dei genitori naturali.
Tale principio fu fatto proprio dalla legge sulle adozioni n. 184 del 1983, che negò recisamente il diritto dell'adottato a conoscere le proprie origini biologiche.
Con legge 27 maggio 1991, n. 176 fu poi ratificata dall'Italia la Convenzione internazionale dei diritti del fanciullo, che all'articolo 7 prevede che "il fanciullo è registrato immediatamente al momento della sua nascita e da allora ha diritto ad un nome, ad acquisire una cittadinanza e, nella misura del possibile, a conoscere i suoi genitori".
Tale "misura del possibile", unitamente alle critiche che avevano accompagnato il diniego assoluto introdotto dalla legge n. 184/83 hanno condotto alla revisione della succitata previsione della legge 184/1983, che ha subito modifiche da parte della legge n. 149 del 2001, nel senso che è oggi consentito all'adottato, al compimento del 25° anno d'età, l'accesso ai dati relativi alla propria origine in tutti i casi in cui sia stato riconosciuto alla nascita, fermo restando il divieto per coloro che non sono stati riconosciuti o qualora anche uno solo dei genitori biologici abbia dichiarato di non volere essere nominato o abbia manifestato il consenso all'adozione a condizione di rimanere anonimo.
La P. afferma che, non esistendo all'epoca della sua nascita, un divieto espresso di comunicazione dei dati relativi all'origine biologica, nel suo caso i nuovi divieti non possono trovare applicazione; afferma inoltre che tale diniego contrasterebbe con l'articolo 300 del codice civile, a lei applicabile, che prevede la conservazione dei diritti e doveri dell'adottato nei confronti della famiglia di origine. A sostegno della sua tesi esibisce la sentenza con la quale il Tribunale di Venezia ha declinato la propria competenza affermando che a lei non si applica la speciale disciplina introdotta dalla legge n. 184/1983 anche in considerazione del fatto che all'epoca dell'avvenuta adozione non esistevano norme che ponevano il divieto di conoscere l'identità dei genitori biologici.
Il Collegio ritiene che le ragioni sostenute dall'appellante non possano essere condivise.
Quanto al difetto di competenza dichiarato dal Tribunale dei minorenni, si deve affermare che tale pronuncia attiene esclusivamente alla circostanza che l'adozione non fu pronunciata in base alla legge 184/1983, che a tale giudice devolve tutte le controversie derivanti dalla sua applicazione, bensì al codice civile. Le ulteriori considerazioni in essa contenute non possono pertanto fare stato tra le parti.
Se peraltro, all'epoca dell'adozione della P., non esisteva un espresso divieto di conoscere l'identità dei genitori biologici da parte del figlio non riconosciuto, l'ordinamento consentiva e tutelava l'anonimato della madre che non voleva essere nominata e faceva divieto agli istituti di ricovero che fossero venuti a conoscenza della sua identità, di rivelarla. In altri termini, non esisteva un espresso divieto di conoscenza, ma esistevano disposizioni volte ad impedirla attraverso la diffusione dei dati relativi alla identità della madre.
Tali disposizioni si rivelerebbero del tutto prive di valore se fossero interpretate nel senso che il figlio non riconosciuto poteva all'epoca violare l'anonimato e pretendere la rivelazione della propria origine dagli Istituti di ricovero.
Si deve pertanto concludere che all'epoca in cui la P. fu adottata esisteva un divieto di accesso alle informazioni relative all'identità dei genitori biologici, divieto desumibile da un lato dalla tutela accordata all'anonimato e dall'altro dal divieto posto a carico degli Istituti, di rivelare l'identità della madre nel caso di figli non riconosciuti, a prescindere da una successiva adozione. Si tratta pertanto di uno dei casi nei quali l'articolo 24, primo comma della legge 241/90 esclude il diritto di accesso.
Tutte le ambiguità sono scomparse nella vigente legislazione, nella quale si fa salvo (art. 70 dell'ordinamento sullo stato giuridico come introdotto dall'articolo 2 della legge 127/97) il rispetto dell'eventuale volontà della madre di non essere nominata; si introduce un espresso divieto di conoscenza delle origini biologiche laddove non vi sia stato un riconoscimento da parte dei genitori naturali e afferma che l'adozione spezza definitivamente il legame con la famiglia di origine, non si può però affermare che nella precedente legislazione esistesse un diritto alla conoscenza delle origini espressamente tutelato dall'ordinamento e prevalente sulla tutela dell'anonimato, espressamente disciplinata. Tanto ciò è vero che esiste oggi un forte movimento mondiale per l'affermazione della tutela del diritto a conoscere le proprie origini, che è stato proclamato, come si è visto, anche dalla dichiarazione dei diritti del fanciullo "nella misura del possibile". Tale misura trova un limite nella protezione dell'anonimato della madre che non voglia essere nominata, tutelato prima e dopo l'entrata in vigore della legge 184/1983 per impedire che le nascite non desiderate comportassero alterazioni di stato o, peggio ancora, interruzioni della gravidanza o soppressione di neonati.
La domanda della P. non può pertanto trovare accoglimento.
Sussistono tuttavia giusti motivi per compensare le spese di giudizio.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione IV, respinge l'appello in epigrafe e compensa le spese del giudizio.
Ordina che la presente decisione sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Roma dal Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Quarta, nella camera di consiglio del
29 aprile 2003 con l'intervento dei Signori:
Paolo Salvatore Presidente
Livia Barberio Corsetti relatore Consigliere
Antonino Anastasi Consigliere
Anna Leoni Consigliere
Nicola Russo Consigliere
L'ESTENSORE IL PRESIDENTE
Depositata in segreteria in data 17 giugno 2003.