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CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V - Sentenza 6 giugno 2001 n. 3076 - Pres.ff. Baccarini, Est. Allegretta - Reggiani (Avv.ti P. Coli e D. Angelini) c. Unità Sanitaria Locale di Reggio Emilia (Avv.ti E. Coffrini e M. Colarizi) - (conferma TAR Emilia Romagna, Sezione di Parma, sentenza 15 marzo 1995, n. 125).

Atto amministrativo - Generalità - Indicazione del termine per l'impugnazione e dell'autorità alla quale è possibile ricorrere - Ex art.. 3, quarto comma, della legge n. 241/90 - Omissione - Conseguenze - Illegittimità dell'atto - Esclusione.

Pubblico impiego - Provvedimento disciplinare - Destituzione - A seguito di sentenza "patteggiata" - Nel caso in cui risulti una autonoma valutazione del comportamento tenuto dal dipendente - Legittimità.

Pubblico impiego - Provvedimento disciplinare - Destituzione - Proporzionalità tra sanzione e fatti contestati - Sindacato in s.g. - Solo per vizi logici e travisamento dei fatti.

La omessa indicazione del termine per ricorrere e dell'autorità alla quale è possibile ricorrere, prescritta dall'art. 3, quarto comma, della legge 7 agosto 1990 n. 241, non comporta l'illegittimità del provvedimento impugnato, ma può, al più, influire sugli effetti del provvedimento e sulla decorrenza del termine per la sua impugnazione (1).

E' legittimo il provvedimento di destituzione di un dipendente a seguito di condanna ex art. 444 c.p.p. (c.d. condanna "patteggiata") ove risulti che la commissione disciplinare abbia assunto a fondamento della sua decisione, non la sentenza di condanna patteggiata, bensì il comportamento tenuto dal dipendente, quale emerge, nella sua oggettiva consistenza, proprio dagli atti del procedimento penale riportati nella memoria difensiva prodotta alla commissione di disciplina dallo stesso interessato, e da costui sostanzialmente riconosciuto nell'audizione (2).

Il sindacato in sede di giudizio di legittimità in ordine alla sproporzione tra sanzione irrogata con provvedimento disciplinare e la gravità dei fatti commessi dal dipendente pubblico, concerne solo il travisamento dei fatti e manifesta illogicità.

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(1) Cfr. Con. Stato, Sez. V, 20 ottobre 1998 n. 1508, in Foro amm. 1998, fasc. 10 ed in Riv. amm. R. It. 1998, 1013.

(2) Cfr. in questa rivista CORTE DEI CONTI, SEZ. GIUR. LAZIO - Sentenza 26 febbraio 2001 n. 981, pag. http://www.giustamm.it/corte/ccontilazio_2001-981.htm  G. Gulì, Destituzione e patteggiamento, pag. http://www.giustamm.it/articoli/guli_destituz.htm

 

 

FATTO

Con ricorso notificato alla Unità Sanitaria Locale n. 9 di Reggio Emilia l'attuale appellante ha impugnato innanzi al Tribunale Amministrativo Regionale dell'Emilia Romagna, Sezione di Parma, insieme alla proposta della commissione di disciplina, la deliberazione n. 920 in data 6 ottobre 1994, con la quale il direttore generale della U.S.L., a seguito di sentenza emessa dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Reggio Emilia ai sensi degli artt. 444 e 445 c.p.p., gli ha comminato la sanzione disciplinare della destituzione.

Il ricorrente ha dedotto:

1) violazione dell'art. 9 della legge 7 febbraio 1990 n. 19, perché il procedimento disciplinare, proseguito dopo la sentenza di condanna, si sarebbe concluso oltre il termine di 90 giorni previsto a pena di perenzione;

2) violazione dell'art. 3, quarto comma, della legge 7 agosto 1990 n. 241, non recando il provvedimento impugnato l'indicazione del termine e dell'autorità cui è possibile ricorrere;

3) violazione degli artt. 444 e 445 c.p.p., eccesso di potere per errore e falsità sui presupposti di fatto, per difetto di istruttoria, per contraddittorietà, illogicità, carenza ed inidoneità della motivazione, perché, non risolvendosi in una vera e propria sentenza di condanna, la sentenza "patteggiata" non avrebbe efficacia nei giudizi civili e amministrativi quale fonte di accertamento positivo del fatto contestato e della responsabilità dell'imputato e, pertanto, il fatto avrebbe dovuto essere ricostruito autonomamente nel corso del procedimento disciplinare, senza alcun riferimento al capo d'imputazione o alla condanna, e perché dagli elementi probatori agli atti del procedimento penale risulterebbe con chiarezza che il ricorrente non ha commesso i reati imputatigli;

4) eccesso di potere per inidoneità, insufficienza, illogicità e carenza di motivazione; violazione di legge; inosservanza del principio di proporzionalità fra il provvedimento disciplinare e la fattispecie considerata, in quanto generica sarebbe la contestazione degli addebiti, che non sarebbe stata neppure in seguito precisata; la proposta della commissione di disciplina mancherebbe di ogni elemento probatorio per l'accertamento dei fatti; non si comprenderebbe a quali fatti l'Amministrazione abbia inteso riferirsi, e, d'altra parte, varrebbero le considerazioni di cui al precedente motivo se si fossero considerati il capo d'imputazione e la sentenza, mentre avrebbe dovuto farsi riferimento all'interrogatorio degli imputati; mancherebbe, infine, ogni motivazione sulla scelta di una sanzione così grave, che risulterebbe sproporzionata;

5) violazione dell'art. 4 della legge n. 19 del 1990 ed eccesso di potere per disparità di trattamento, per violazione dei principio di eguaglianza, per illogicità e irrazionalità, atteso che la condanna a pena condizionalmente sospesa non avrebbe potuto di per sé sola costituire motivo per l'applicazione di una sanzione espulsiva, così come non sarebbe di ostacolo per l'accesso ad un posto di lavoro, considerata anche la prognosi positiva in ordine all'astensione da ulteriori reati formulata dal giudice penale;

6) eccesso di potere per erroneità dei presupposti di fatto, in quanto l'adibizione a compiti amministrativi senza alcun contatto con i malati escluderebbe uno dei presupposti presi a base della motivazione dell'atto impugnato.

Con la sentenza n. 125 del 15 marzo 1995 il T.A.R. ha respinto il ricorso.

Di qui l'appello in esame, col quale l'interessato sostanzialmente ripropone i motivi di gravame dedotti in primo grado, contestando le ragioni sulle quali si fonda la sentenza, di cui chiede, in conclusione, l'annullamento. Per l'effetto, chiede che siano annullati gli atti impugnati; con ogni conseguenza di legge e con vittoria di spese, competenze ed onorari di giudizio.

Si è costituita in giudizio la U.S.L. intimata, la quale ha controdedotto all'appello, chiedendone il rigetto perché infondato nel merito.

La causa è stata trattenuta in decisione all'udienza pubblica del 23 gennaio 2001.

DIRITTO

L'appello è infondato.

Al primo motivo di censura - con cui il ricorrente ha riproposto il corrispondente mezzo dedotto in primo grado, incentrato sulla violazione dell'articolo 9 della legge 7 febbraio 1990 n. 19 per essere stato superato il termine di 90 giorni previsto a pena di perenzione per la conclusione del procedimento disciplinare dopo sentenza di condanna - l'appellante ha sostanzialmente rinunciato nella memoria del giorno 8 gennaio 2001. Pur in mancanza di un'espressa e formale rinuncia, egli, infatti, ammette la sopravvenuta irrilevanza della doglianza, in relazione alle pronunce della Corte Costituzionale 28 maggio 1999 n. 197 e dell'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato n. 6 del 25 gennaio 2000, con le quali è stato dichiarato non applicabile il termine suddetto nel caso in cui la sentenza penale di condanna del pubblico dipendente consegua a patteggiamento, come appunto è accaduto nel caso in esame.

Secondo l'insegnamento ora riferito, la censura, ad ogni modo, va respinta.

Del pari infondato è l'assunto, di cui al secondo motivo, che la violazione dell'art. 3, quarto comma, della legge 7 agosto 1990 n. 241, per omessa indicazione del termine per ricorrere e dell'autorità alla quale è possibile ricorrere, comporti l'illegittimità del provvedimento impugnato.

Tale omissione, invero, può influire al più sugli effetti del provvedimento e sulla decorrenza del termine per la sua impugnazione, ma non anche sulla sua legittimità (cfr. Con. Stato, sez. V, 20 ottobre 1998 n. 1508) e, comunque, nella specie, non ha impedito all'interessato di proporre tempestiva impugnazione.

Neppure le restanti censure, che possono essere trattate congiuntamente, meritano alcun consenso.

Si sostiene che la commissione disciplinare ed il direttore generale hanno fondato la destituzione sull'esclusiva base della sentenza di patteggiamento, senza che sia stato eseguito alcun autonomo accertamento dei fatti, né alcuna autonoma valutazione degli atti del fascicolo penale e, pertanto, sull'erroneo presupposto della responsabilità del ricorrente per i reati (rapina, violenza carnale, violenza privata ed atti osceni) di cui era stato imputato e che, invece, dagli atti da lui stesso depositati nel corso del procedimento disciplinare, non risulterebbero essere stati da lui connessi.

L'Amministrazione avrebbe dovuto indicare quali fatti riteneva di contestare al ricorrente e quali riteneva effettivamente accaduti, valutandone poi la compatibilità con la prosecuzione del rapporto di lavoro. La contestazione degli addebiti invece sarebbe stata del tutto generica e mancherebbe ogni motivazione sulla scelta di una sanzione tanto grave da risultare sproporzionata.

La condanna a pena sospesa non avrebbe potuto di per sé sola costituire motivo per l'applicazione di una sanzione espulsiva, e ben avrebbe potuto l'incolpato essere addetto a compiti amministrativi senza alcun contatto con i malati.

Al riguardo occorre mettere in rilievo, al contrario, che la commissione disciplinare ha assunto a fondamento della sua decisione, non la sentenza di condanna patteggiata, bensì il comportamento tenuto dal ricorrente, quale emerge, nella sua oggettiva consistenza, proprio dagli atti del procedimento penale riportati nella memoria difensiva prodotta alla commissione di disciplina dallo stesso interessato, e da costui sostanzialmente riconosciuto nell'audizione in data 14 settembre 1994.

Per un verso, quindi, nessun particolare accertamento dei fatti era necessario e, per altro verso, come si legge negli atti impugnati, quei fatti hanno determinato la sanzione, non per la loro qualificazione penale, bensì per essere stati ritenuti inequivoca espressione di "mancanza di senso morale e di qualsiasi etica" ed "in grave contrasto con i doveri di fedeltà (onore, decoro) del pubblico dipendente"; doveri di cui si occupa l'art. 84 del T.U. del D.P.R. 10 gennaio 1957 n. 3, nella specie applicato.

Del comportamento dell'incolpato, dunque, l'Amministrazione ha compiuto un'autonoma valutazione, in contraddittorio con l'appellante, al quale non è certo mancata la possibilità di formulare tutte le difese ritenute più opportune e con piena cognizione di causa.

Quanto alla lamentata sproporzione tra sanzione irrogata e gravità dei fatti commessi, consolidato orientamento giurisprudenziale ne esclude il sindacato in sede di giudizio di legittimità, se non per travisamento dei fatti e manifesta illogicità; vizi che, nel caso in esame, non sussistono. I fatti considerati, invero, sono quelli stessi ammessi dall'incolpato e la decisione disciplinare risulta assistita da congrua motivazione.

Per tutto quanto precede, l'appello si rivela infondato e dev'essere respinto.

Sussistono, per altro, giusti motivi per compensare tra le parti le spese del presente grado di giudizio.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Quinta, respinge l'appello in epigrafe.

Compensa tra le parti le spese del presente grado di giudizio.

Ordina che la presente decisione sia eseguita dall'Autorità amministrativa.

Così deciso in Roma dal Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Quinta, nella camera di consiglio del 23 gennaio 2001 con l'intervento dei Signori:

Stefano Baccarini Presidente ff.

Corrado Allegretta Consigliere rel. est.

Paolo Buonvino Consigliere

Filoreto D'Agostino Consigliere

Vincenzo Borea Consigliere

L'ESTENSORE IL PRESIDENTE F.F.

F.to Corrado Allegretta F.to Stefano Baccarini

IL SEGRETARIO

F.to Luciana Franchini

DEPOSITATA IN SEGRETERIA il 06-06-2001.

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