CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V - Sentenza 27 giugno 2001 n. 3508 - Pres. Rosa, Est. Borea - Zumaglini & Gallina s.p.a. (Avv.ti Casavecchia e Videtta) c. Azienda speciale Consorzio Valle Ossola (avv.ti Locati e Scaparone) ed altro (n.c.) - (conferma, con diversa motivazione, T.A.R. Piemonte, II Sez., 26 maggio 1997 n. 265).
Giurisdizione e competenza - Contratti della P.A. - Appalto opere pubbliche - Mancato esercizio jus variandi del rapporto - Controversie - Giurisdizione amministrativa - Sussiste.
Giurisdizione e competenza - Principi generali - A.G.O. e Giudice amministrativo - Riparto della giurisdizione - Petitum sostanziale - Prevalenza sulla prospettazione della domanda - Significato.
Rientra nella giurisdizione del giudice amministrativo una controversia relativa alla determinazione della stazione appaltante di non avvalersi, nel corso dell'esecuzione di un'opera pubblica, dello jus variandi del rapporto contrattuale imponendo unilateralmente all'appaltatore un aumento delle opere fino alla concorrenza di un quinto, e di avviare invece una nuova procedura di gara, attesa la natura discrezionale del relativo potere esercitabile da parte dell'Amministrazione a tutela di un pubblico interesse (1).
La giurisdizione del giudice ordinario e quella del giudice amministrativo vanno determinate non già in base al criterio della c.d. "prospettazione della domanda" (ossia in base alla qualificazione giuridica soggettiva che l'istante attribuisce all'interesse di cui invoca la tutela), bensì in ragione del c.d. petitum sostanziale, e cioè dello specifico oggetto e della reale natura della controversia, da identificarsi in funzione della causa petendi, costituita dal contenuto della posizione soggettiva dedotta in giudizio e individuabile in relazione alla protezione sostanziale accordata in astratto alla posizione medesima dalla disciplina legale da applicare alle singole fattispecie (2).
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(1) Cfr., Cass. civ., SS.UU., 22 novembre 1983 n. 6983.
(2) V. da ult. Cass. civ., SS.UU., 12 aprile 2000 n. 130, 21 dicembre 1999 n. 915 e 9 aprile 1999 n. 231.
FATTO
Con ricorso al TAR del Piemonte la soc. Zumaglina & Gallina, dopo aver premesso di aver in precedenza realizzato, in base a delibera di affidamento da parte dell'Azienda Speciale Consorzio Depurazione acque reflue "Val d'Ossola", lavori relativi ad opere fognarie di depurazione del lago Maggiore, contestava una serie di atti dell'Azienda in questione in forza dei quali si era stabilito di estinguere il rapporto contrattuale con la ricorrente e di avviare una nuova procedura mediante licitazione privata per lavori di completamento delle suddette opere (per la realizzazione di una canalizzazione in Via Piave di Baveno, lavori per i quali si era in precedenza approvata apposita variante supplettiva). L'interessata deduceva sotto vari profili l'illegittimità delle determinazioni assunte dalla P.A., denunciandone i vizi di illogicità, incompetenza, violazione di legge. Si opponevano in primo grado la P.A. e il controinteressato ing. Pagano, eccependo il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo e contestando nel merito le pretese avversarie.
I primi giudici dichiaravano il ricorso inammissibile, in parte per difetto di giurisdizione e in parte per carenza di interesse.
DIRITTO
Ai fini di pervenire ad una adeguata puntualizzazione della controversia in esame, è necessario precisare in fatto quanto segue.
L'Azienda speciale Consorzio Depurazione acque reflue "Val d'Ossola", dopo aver affidato all'attuale appellante, con delibera del 19 marzo 1990, la realizzazione di lavori di opere fognarie -depurazione lago Maggiore- per un importo complessivo a base d'asta di circa quattordici miliardi e mezzo, approvava poi, nel marzo 1992, una perizia di variante supplettiva di completamento (canalizzazione di Via Piave, in località Baveno) predisposta dalla stessa impresa ora appellante, per un importo di poco meno di tre miliardi, rimandandone peraltro la concreta realizzazione all'assegnazione da parte della Regione Piemonte del relativo finanziamento.
Ottenuto, nel giugno 1995, il detto finanziamento, la P.A. statuiva di sottoporre a verifica di congruità l'offerta di cui alla perizia di variante di cui sopra, prima di addivenire alla eventuale stipula di un atto di sottomissione. A tal fine (novembre 1995) incaricava un gruppo di professionisti di verificare la congruità dei prezzi contrattuali. Tale verifica, fondata sul più recente prezziario della Regione Piemonte, giungeva alla conclusione secondo la quale l'offerta non sarebbe stata congrua, tale divenendo soltanto con un ribasso del 21% circa.
Da una seconda perizia, peraltro, disposta dalla Aministrazione a seguito delle controdeduzioni presentate dalla impresa interessata, risultava che l'offerta presentata poteva considerarsi congrua.
Tutto ciò considerato la P.A., valutate le due perizie, optava per quella alla medesima più favorevole, non accettata per contro dalla attuale appellante, e, sul rilievo altresì della preclusione derivante dall'art. 25 L. 11 febbraio 1994 n. 109 (in forza del quale non sarebbero più consentite le varianti in corso d'opera quali quella in questione), dichiarava estinto il rapporto contrattuale con l'impresa e statuiva di avviare la procedura per l'indizione di una licitazione privata ( delibera assembleare 3 giugno 1996, accompagnata contestualmente da delibera del C.d.A. di affidamento ad un professionista dell'incarico di predisporre il progetto esecutivo delle opere).
Avverso i suaccennati provvedimenti insorgeva innanzi al TAR del Piemonte la soc. Zumaglina & Gallina, deducendone l'illegittimità sotto vari profili.
I primi giudici peraltro, in sostanza aderendo ad un'eccezione opposta dalle controparti, dichiaravano da un lato il difetto di giurisdizione del G.A., con riguardo alla disposta dichiarazione di estinzione del rapporto con la predetta impresa e, dall'altro, l'inammissibilità del ricorso per carenza di interesse, con riguardo alla determinazione di far luogo ad una nuova procedura ad evidenza pubblica e conseguente affidamento dell'incarico di progettazione ad un professionista privato.
Poste tali premesse in fatto, la prima questione da esaminare riguarda naturalmente la sussistenza o meno della giurisdizione nella controversia in esame del giudice adito, negata dai primi giudici e vigorosamente riaffermata dall'appellante.
Il Collegio sul punto non ritiene di poter condividere le conclusioni negative raggiunte in primo grado.
La giurisprudenza delle SS.UU. della Cassazione è costante nel ritenere che ciò che rileva, ai fini dell'individuazione dell'oggetto della domanda giudiziale e quindi, in definitiva, per ciò che qui interessa, del riparto di giurisdizione, non è tanto il criterio della cosiddetta "prospettazione", ossia della qualificazione giuridica che l'istante dà all'interesse di cui chiede tutela, quanto invece il petitum sostanziale, e cioè lo specifico oggetto e la reale natura della controversia, da identificarsi in funzione della "causa petendi", costituita dal contenuto della posizione soggettiva dedotta in giudizio ed individuabile in relazione alla protezione sostanziale accordata, in astratto, alla posizione medesima, dalla disciplina legale da applicare alle singole fattispecie (cfr., da ultimo, fra le tante, SS.UU. 12 aprile 2000 n. 130, 21 dicembre 1999 n. 915 e 9 aprile 1999 n. 231).
Poste tali premesse e venendo alla fattispecie, l'assunto da cui muove la declaratoria di difetto di giurisdizione pronunciata dai primi giudici prende le mosse dalle disposizioni contenute nell'art. 344 della Legge sui Lavori pubblici 20 marzo 1865 n. 2248 e nell'art. 14 del D.P.R. 16 luglio 1962 n. 1063, ripetutamente invocate dalla società ricorrente a presupposto legittimante del ricorso e concernenti, com'è noto, il potere della P.A. di imporre unilateralmente all'appaltatore, nel corso di esecuzione di un contratto, un aumento (o una diminuzione) delle opere, fino a concorrenza di un quinto, limite oltre il quale soltanto riprende vita l'autonomia negoziale dell'appaltatore mediante esercizio, ove lo voglia, della facoltà di recesso. Muovendo da tale premessa normativa e richiamando l'analoga disposizione contenuta nell'art. 1661 c.c. con riguardo agli appalti di diritto comune, i primi giudici sono pervenuti alla conclusione che lo "ius variandi" del committente è un potere connaturato al contratto d'appalto, e che non rappresenta esercizio di poteri autoritativi, legato ad una posizione di supremazia del committente pubblico, bensì costituisce espressione di un diritto potestativo di diritto comune in quanto espressione di autonomia privata, rispetto al quale l'altra parte si trova in uno stato di soggezione, dato che la sola volontà del committente è sufficiente a incidere sul contenuto dell'accordo negoziale, a nulla rilevando il fatto che la norma imponga un obbligo di facere all'appaltore (l'esecuzione delle opere aggiuntive volute dal committente), essendo questa una conseguenza indiretta che non fa venir meno la natura di diritto potestativo dello ius variandi.
Donde l'inammissibilità della domanda per difetto di giurisdizione, a giudizio del TAR, secondo il quale la posizione soggettiva dell'appaltatore, di fronte all'esercizio dello ius variandi del committente, non potrebbe configurare un interesse legittimo, sia perché di mera soggezione e sia perché mancherebbe, nel lato attivo del rapporto, un potere pubblicistico di supremazia.
Le argomentazioni dei primi giudici, per quanto apparentemente armoniose e logiche, non appaiono, sotto più aspetti, convincenti.
In primo luogo si osserva che non sembra determinante, nel senso di escludere che nella fattispecie la sitazione azionata sia di interesse legittimo, il fatto che l'art. 1661 c.c. preveda una disposizione sostanzialmente analoga, con riguardo agli appalti di lavori privati, a quella contenuta nelle norme che disciplinano gli appalti pubblici: innanzi tutto si osserva che la figura dell'interesse legittimo, in quanto situazione soggettiva attiva che si caratterizza per aver a suo contrapposto, nel rapporto giuridico, non già un dovere o un obbligo, bensì una potestà, e cioè una situazione giuridica ugualmente attiva che si distingue dal diritto soggettivo per il fatto che i relativi poteri sono attribuiti al soggetto titolare a tutela non di propri interessi bensì di interessi di terzi, è configurabile anche nel campo del diritto privato, come ad esempio in materia di diritto societario (è il caso del socio che impugna le delibere assembleari per violazione di norme di legge o dell'atto costitutivo, art. 2377 c.c.), e di diritto di famiglia, in tema di potestà del padre di famiglia o del tutore. Considerazioni che portano quanto meno a dubitare, come giustamente osserva l'appellante, che il potere derivante dall'art. 334 L. OO.PP. e 14 D.P.R. 1063/62 abbia automaticamente mutato la sua natura pubblicistica per il fatto che il nuovo codice civile del 1942 preveda una norma in precedenza inesistente. Comunque, anche da ciò prescindendo, appare assorbente considerare che la contrapposizione diritto potestativo -soggezione su cui si basa la sentenza appellata per escludere nella specie la sussistenza in capo alla società interessata di un interesse legittimo presuppone l'avvenuto esercizio del potere (sia questo un diritto potestativo o una potestà), mentre nella specie ciò di cui ci si duole è il mancato esercizio, da parte della P.A. di tale potere, con la conseguenza che la situazione azionata va valutata (a prescindere, ovviamente, per quel che si è detto sulla irrilevanza della "prospettazione" di parte, dal fatto che nel ricorso si insista ripetutamente sul fatto che le opere in questioni rientrerebbero nel limite del sesto quinto, quasi a configurare un obbligo di affidamento delle medesime all'istante da parte della P.A.) a monte, e cioè alla luce della contrapposizione tra il potere della P.A., non ancora esercitato, e la posizione in cui si trovava l'originario contraente, in quanto tale, nei confronti della eventuale, sperata assegnazione a suo favore dei lavori supplettivi rispetto a quelli già eseguiti.
Non v'è dubbio in primo luogo che il potere della P.A. sia discrezionale e finalizzato a tutela di un pubblico interesse: potere che è discrezionale perchè così lo configurano le norme di riferimento ("occorrendo in corso di esecuzione un aumento o una diminuzione di opere." recita l'art. 344 L. OO.PP.; "l'amministrazione durante l'esecuzione dei lavori può ordinare.", precisa l'art. 14 D.P.R. n. 1063/62), ed è finalizzato ovviamente al miglior perseguimento del pubblico interesse specifico così come qualunque potere affidato alla P.A.. Dall'altro lato, poi, occorre tenere conto che le opere in questione, a prescindere da ogni considerazione sul fatto che queste rientrassero nel limite del sesto quinto, come sostiene parte ricorrente, ovvero ne esorbitassero, come invece si afferma ex adverso, costituivano indubbiamente una integrazione, un completamento di quelle già dalla medesima ricorrente realizzate ed affidatele a suo tempo a mezzo di trattativa privata, con conseguente non ingiustificata aspettativa di quest'ultima di poterne ottenere l'assegnazione per sé (aspettativa, del resto, giova aggiungere, come poi si preciserà meglio, corroborata dal comportamento della P.A.); da tutto ciò consegue che non appare possibile mettere in dubbio l'esistenza in capo all'istante di una situazione giuridica qualificata, e cioè, una volta esclusa la configurabilità di un diritto a causa della discrezionalità del potere della P.A., di un interesse legittimo.
In conclusione ritiene il Collegio che, a differenza di quanto affermato dai primi giudici con riguardo alla parte del ricorso che riguarda il mancato esercizio dello ius variandi, e cioè la mancata assegnazione alla società interessata dei lavori di completamento di cui è questione, sussista la giurisdizione del giudice amministrativo.
Con la precisazione che nessun rilievo in contrario (per riaffermare, cioè, che la P.A. nella specie abbia fatto esercizio di una normale autonomia negoziale e non di poteri autoritativi) può da ultimo attribuirsi all'espressione usata nell'atto impugnato ove si parla di chiusura o estinzione del rapporto contrattuale preesistente, trattandosi espressamente di mera declaratoria, ovvero di presa d'atto, attinente ad una vicenda contrattuale di per sé già conclusa, posto che i lavori originariamente appaltati erano stati da tempo già portati a termine, senza alcuna manifestazione di volontà negoziale: salva la determinazione negativa, frutto una valutazione discrezionale, in applicazione, come si è visto dell'art. 344 L. OO.PP., e quindi di contenuto provvedimentale nell'esercizio di un potere autoritativo, di non far luogo alla assegnazione a favore dell'originario contraente dei lavori conseguenti alla perizia di variante e supplettiva della quale si è detto, e di procedere invece alla indizione di una gara ad evidenza pubblica. Così inquadrata la fattispecie in esame, ancor più evidente risulta quanto si è detto, e cioè che, nei confronti di una tale duplice determinazione, l'imprenditore, già legato da un precedente contratto, si trova di fatto in una posizione peculiare e qualificata, idonea cioè a configurare un interesse legittimo come tale da far valere recta via innnanzi al G.A. (cfr. in tema C. Civ., SS.UU., 22 novembre 1983 n. 6983).
Venendo dunque al merito, occorre precisare, come si è in precedenza detto accennando al comportamento tenuto nella vicenda in esame dalla P.A., che in un primo tempo, una volta cioè ottenuto il finanziamento regionale del quale si è detto, la P.A. medesima si era orientata nel senso di ritenere possibile l'affidamento dei lavori di completamento di cui alla perizia di variante supplettiva a suo tempo approvata alla stessa impresa che aveva eseguito i lavori originariamente previsti, e cioè alla attuale appellante. Ciò risulta dal fatto che, escludendosi, giustamente, come pure si è visto, la sussistenza di un obbligo alla stipula dell'atto di sottomissione, si è comunque ritenuto di sottoporre a verifica di congruità l'offerta economica presentata, prima di accedere -eventualmente e discrezionalmente, si ribadisce- alla richiesta assegnazione dei relativi lavori. Soltanto a conclusione della procedura, e cioè dopo le due perizie di congruità delle quali si è fatto cenno, la P.A. si è determinata nel senso di non poter aderire all'importo dell'offerta presentatale, non ritenendosi sufficiente il ribasso del 13%, come quello cioè concordato al momento di affidamento dei lavori precedenti, in luogo di quello accertato come congruo dalla prima perizia, pari al 21%.
Ciò premesso, va in primo luogo sgomberato il campo dalle censure d'ordine formale che investono gli atti impugnati.
Non ha pregio innanzi tutto la denuncia di incompetenza avanzata nei confronti della delibera assembleare, nell'assunto che questa si sarebbe attribuita arbitrariamente la natura di "atto fondamentale di indirizzo", al fine di sostituirsi di fatto al C.d.A. nell'adozione di un normale atto di gestione spettante a quest'ultimo (art. 15 statuto). Si osserva in primo luogo che, come risulta in atti, l'assegnazione dei lavori all'impresa appellante era stata, a suo tempo, nel 1990, deliberata proprio dall'assemblea consorziale, ed è quindi consequenziale il fatto che ora, trattandosi di prendere atto dell'avvenuto compimento dei lavori originariamente assegnati e di determinarsi in ordine alle modalità di affidamento dei lavori di completamento di cui alla perizia di variante supplettiva della quale si è detto, sia stata la stessa assemblea a deliberare. In secondo luogo poi, non va trascurato il fatto che nello stesso giorno, a seguire, il C.d.A. ha provveduto all'affidamento ad un professionista dell'incarico di redazione del progetto esecutivo dei predetti lavori di completamento, con ciò in sostanza facendo propria (senza alcuna necessità di una nuova valutazione e motivazione della fattispecie, contrariamente a quanto si vorrebbe) la determinazione di non dar corso ad un nuovo contratto con l'appellante e di dar vita invece ad una procedura ad evidenza pubblica. Infine, non va sottaciuto il fatto che, nell'auto-qualificarsi come "atto fondamentale di indirizzo", come tale di competenza del massimo organo dell'ente, la delibera assembleare ha inteso evidentemente e non illogicamente attribuire una particolare solennità e valenza formale ad un provvedimento che poneva fine ad una vicenda complessa che si trascinava da anni: ciò che, a giudizio del Collegio, a prescindere dal riparto di competenze formalmente previsto dallo statuto, e tenuto conto della sovraordinazione dell'Assemblea rispetto al C.d.A., appare sufficiente in ogni caso a disattendere la dedotta censura (ben diverso sarebbe ovviamente il caso ove fosse stato l'organo sottoordinato ad adottare un atto di competenza dell'Assemblea).
Ugualmente infondate o irrilevanti sono le altre censure d'ordine formale: quanto alla previsione di spesa, questa, pur se non contenuta nella delibera assembleare, si trova in quella contestualmente adottata dal C.d.A., e tanto basta; quanto alla asserita mancanza dei pareri di legittimità del segretario e tecnico contabile del direttore (art. 20 c. 2 statuto) la censura appare ssotanzialmente infondata in fatto, posto che la delibera assembleare, costitutiva, come si è visto, della volontà dell'ente, è assistita dalla firma del segretario, mentre quella del C.d.A. , contenente l'impegno di spesa, risulta controfirmata dal direttore. E ciò a prescindere, in generale, dal fatto che la sottoposizione delle deliberazioni degli enti locali ai pareri di legittimità e regolarità tecnico-contabile di cui all'art. 53 L. 8 giugno 1990 n. 142 assume rilevanza essenzialmente al fine di di individuare i responsabili in via amministrativa e contabile delle deliberazioni, ma non vale di per sé, in caso di omissione, a comportare necessariamente l'illegittimità delle deliberazioni medesime.
Venendo ora alle censure d'ordine sostanziale, priva di pregio appare innanzi tutto la doglianza relativa al fatto che la P.A. avrebbe ritenuto di far luogo alla perizia di congruità dei prezzi in base ad un equivoco, e cioè nella convinzione di dover dare applicazione ad una norma, contenuta nell'art. 6, comma 19, della L. 24 dicembre 1993 n. 537, di fatto abrogata dall'art. 44 L. 23 dicembre 1994 n. 724. La censura, pur se in fatto appare esatto che la disposizione che prevedeva il giudizio di congruità sui contratti e sui relativi atti aggiuntivi di cui alla L. finanziaria del dicembre 1993 risulta abrogata dalla legge finanziaria dell'anno successivo, e quindi in epoca anteriore all'adozione degli atti qui impugnati, non appare rilevante. La censura risente dell'impostazione data al ricorso secondo la quale, trattandosi di opere rientranti nel sesto quinto, la P.A. sarebbe stata in sostanza tenuta ad assegnare direttamente le opere all'istante nella sua qualità di precedente affidatario; si è detto, peraltro, trattando della giurisdizione sulla controversia in esame, che nessun diritto poteva vantare l'interessato, ma soltanto una aspettativa, sia pur qualificabile come interesse legittimo. Ne consegue che la P.A., in presenza dei poteri discrezionali che le spettavano, ben poteva, a prescindere dall'esistenza o meno di uno specifico vincolo di legge, condizionare la propria eventuale scelta ad una previa verifica di congruità dei prezzi offerti. E ciò anche a prescindere dal fatto che già l'art. 21 R.D. 25 maggio 1895 n. 359, all'epoca vigente (sarà abrogato solo dall'art. 31 D.P.R. 21 dicembre 1999 n. 554), prevedeva nuove analisi dei prezzi in caso di approvazione di lavori non previsti dai contratti.
Influenzata dall'erroneo convincimento di aver titolo all'affidamento dei lavori alle stesse condizioni di quelli espletati in precedenza, sempre in forza dell'assunto che non sarebbe superato il limite del sesto quinto, e cioè sulla base di un ribasso del 13%, appare altresì la doglianza con la quale si contesta la pretesa della P.A. ad un ulteriore ribasso dell'8%, per un totale del 21%. Ineccepibilmente infatti la P.A., nell'esercizio dei suoi poteri discrezionali di scelta, ha posto come condizione l'ulteriore ribasso, e non vale neppure affermare, trattandosi di una inammissibile ingerenza in questioni di merito a detta P.A. soltanto spettanti, che l'affidamento dei lavori in questione all'impresa appellante avrebbe rappresentato la scelta più conveniente, tenuto conto che la somma risparmiata con il ribasso aggiuntivo preteso sarebbe stata in gran parte assorbita dalle spese relative alle due perizie e alla nuova progettazione esecutiva ora disposta. E ciò senza tener conto che alla conclusione negativa alla quale ora ci si oppone la P.A. era pervenuta anche in forza dell'art. 25 L. 11 febbraio 1994 n. 109, nel testo all'epoca vigente di cui all'art. 8 ter L. 2 giugno 1995 n. 216, che non prevede, tra le varianti previste, la tipologia della variante in questione: a prescindere da ogni dubbio se tale disposizione potesse o meno formalmente considerarsi in vigore, ne risulta infatti evidente la ratio legis che mira ad evitare, a tutela sia del pubblico interesse che della concorrenza, ogni possibile elusione del principio generale in base al quale gli appalti devono essere aggiudicati mediante procedure ad evidenza pubblica, principio rispetto al quale l'affidamento diretto costituisce deroga ed eccezione: deroghe ed eccezioni che, ove anche previste, sono solo consentite e non certamente imposte, con la conseguenza che ove l'amministrazione appaltante, pur in presenza in ipotesi di una possibilità di deroga, opti invece per la gara ad evidenza pubblica, la relativa scelta appare comunque ineccepibile.
L'appellante non può essere seguito neppure ove contesta il fatto che la P.A., dopo aver disposto ben due perizie sui prezzi offerti, con esiti contrastanti, avrebbe in definitiva optato, illogicamente e imotivatamente, per la prima, che, a differenza della seconda, aveva ritenuto non congrui i prezzi offerti.
Sul punto la motivazione data appare infatti ampia ed esaustiva, giacchè, dopo aver dato atto che la seconda perizia, invocata dall'appellante, in asserita mancanza di dati di riferimento per appalti di settore, aveva preso a parametro essenziamente listini di ditte specializzate, e cioè i prezzi di mercato, tenendo conto delle particolari condizioni in cui dovranno essere realizzate le opere, ha sottolineato viceversa il fatto che la prima perizia (dall'appellante stesso contestata) si fondava su dati certi, e cioè sull'elenco prezzi regionale aggiornato al 1995 (la perizia è del dicembre dello stesso anno), ritenendolo perciò attendibile e maggiormente in grado di tutelare gli interessi dell'ente. E se poi si considera che la perizia in questione, che pur si fonda su di una analisi puntuale dei singoli prezzi unitari offerti e posti a confronto con il prezziario regionale, ha cura di precisare che, con riguardo alle opere i cui prezzi non sono riportati in detto prezziario, si sono assunti come parametro i prezzi di mercato "sulla base di specifiche informazioni e della esperienza personale" dei periti, appare sostanzialmente irrilevante l'affermazione dell'appellante secondo la quale la suddetta perizia al medesimo contraria sarebbe inficiata dal fatto che il surriferito elenco prezzi regionale non conterrebbe i prezzi relativi alle opere di depurazione, e quindi non terrebbe conto delle particolarità delle opere da realizzare. Né, si aggiunge, può essere validamente considerato come prova della perplessità della P.A. il fatto che questa, dopo la prima perizia, si sia determinata a chiederne un'altra, dopo le contestazione dell'impresa interessata, dato che tale circostanza, ferma restando l'ineccepibilità delle conclusioni poi raggiunte, secondo quanto si è visto, dimostra soltanto lo scrupolo al quale si è attenuta la P.A., disponendo un supplemento istruttorio, prima di porre fine alla controversa questione.
Le conclusioni negative alle quali si è pervenuti in ordine alla mancata assegnazione, in via diretta, dei lavori di completamento dei quali si è detto, rendono poi evidente l'inammissibilità delle ulteriori censure concernenti da un lato la determinazione di far predisporre un nuovo progetto esecutivo, quando già ne esisteva uno pronto, quello predisposto dalla stessa impresa interessata, e, dall'altro, di affidarne il relativo incarico direttamente al medesimo professionista che a suo tempo aveva redatto i precedenti progetti, senza previa selezione mediante esame dei curricula dei vari professionisti eventualmente interessati, come dispone, in via transitoria, l'art. 17, comma 12, L. n. 109/94 cit. E' evidente infatti che, una volta definitivamente preclusa la via dell'affidamento diretto a suo favore, l'impresa istante non ha alcun interesse concreto a far valere l'illegittimità della scelte consequenzialmente operate dalla P.A. per dare avvio ad una nuova procedura, questa volta ad evidenza pubblica, dato che un eventuale accoglimento delle censure in esame non comporterebbe comunque di fatto il soddisfacimento della pretesa fatta valere (di avere direttamente per sé l'appalto delle opere), ed anzi, a ben vedere, varrebbe soltanto ad intralciare la nuova procedura obbligando la P.A. ad un rinnovo degli atti e quindi ad allontanare nel tempo la possibilità di conseguire comunque il bene voluto mediante una possibile, utile partecipazione alla gara che la P.A. ora intende svolgere.
In conclusione, pronunciando sull'appello proposto, il Collegio, ritenuta la giurisdizione sulla controversia, rigetta nel merito il ricorso.
Sussistono validi motivi per procedere alla compensazione delle spese del grado.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in s.g. (Sez. V), definitivamente pronunciando sull'appello proposto dalla Zumaglini & Gallina s.p.a., rigetta nel merito il ricorso proposto.
Compensa tra le parti le spese del grado di giudizio.
Ordina che la presente decisione sia eseguita dalla Autorità Amministrativa.
Così deciso in Roma, addì 27 febbraio 2001, dal Consiglio di Stato in s.g. (Sez. V), riunito in Camera di Consiglio con l'intervento dei seguenti Magistrati:
Salvatore Rosa - Presidente
Andrea Camera - Consigliere
Piergiorgio Trovato - Consigliere
Vincenzo Borea - Consigliere est.
Marco Pinto - Consigliere
L'ESTENSORE IL PRESIDENTE
F.to Vincenzo Borea F.to Salvatore Rosa
IL SEGRETARIO
F.to Franca Provenziani
Depositata in segreteria il 27/06/2001.