CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI - Sentenza 5 marzo 2002 n. 1303 - Pres. Ruoppolo, Est. Garofoli.
Atto amministrativo - Diritto di accesso - Nei confronti di gestori di pubblici servizi - Ammissibilità.
Atto amministrativo - Diritto di accesso - Nozione di servizio pubblico - Criteri di identificazione degli enti pubblici a struttura societaria - Accesso ad attività di diritto privato - Nei confronti delle Poste Italiane s.p.a. - Ammissibilità - Condizioni.
L'art. 23 della L. n. 241/1990, include nel novero dei soggetti passivi dell'accesso i "gestori" di pubblici servizi, ossia persone giuridiche normalmente operanti, quale che sia la natura giuridica assunta, in regime privatistico.
La nozione di servizio pubblico, pur non estendendosi fino a ricomprendere tutte le attività in qualche modo assoggettate a forme più o meno intense di regolamentazione pubblica, presuppone il doveroso espletamento dell'attività in ossequio al principio di imparzialità, implicante a carico dell'obbligo di improntare l'attività a caratteri di regolarità, continuità e eguale trattamento dell'utenza.
La questione relativa alla natura pubblica o privata di taluni organismi societari va esaminata senza farsi condizionare dal profilo nominalistico: è necessario verificare, in particolare, se le deviazioni dal modello societario di tipo codicistico che caratterizzano il regime giuridico di determinate strutture societarie possano considerarsi ancora compatibili, anche se indicative di una situazione di rilevanza pubblicistica, con la qualificazione privatistica delle medesime, ovvero se, comportando una consistente alterazione dello schema societario sotto il profilo genetico, organizzativo e funzionale, non debbano indurre, piuttosto, a ritenere che si sia in presenza di enti a struttura societaria, ma con natura pubblicistica.
Il criterio da utilizzare nel distinguere tra atti rientranti nell'ambito oggettivo della disciplina sull'accesso e atti destinati a rimanerne estranei va ravvisato nella sottoposizione o meno del soggetto, in sede di esercizio dell'attività di cui si chiede l'ostensione, al dovere di imparzialità, come si desume dalla scelta legislativa di ricomprendere tra i soggetti passivi della disciplina generale in tema di accesso i concessionari (ora gestori) di pubblico servizio.
Il criterio della strumentalità all'interesse pubblico sotteso alla gestione del servizio pubblico se certo va ridimensionata allorché il gestore sia un soggetto del tutto privato, tenuto, pur nel dovuto rispetto degli obblighi di servizio, al perseguimento di finalità sue proprie, non può non subire una scontata dilatazione quando la gestione è affidata a soggetti a forte impronta, se non addirittura a natura pubblica; si tratta, infatti, di soggetti per i quali il dovere di imparzialità riviene non solo dalla natura dell'attività espletata, ma anche dal persistente collegamento strutturale con il potere pubblico.
In sede di applicazione del criterio della strumentalità non possono essere obliterate le peculiarità destinate a connotare il soggetto preposto all'organizzazione ed all'erogazione del servizio stesso, attesa la necessità di distinguere a seconda che il servizio sia gestito da soggetti del tutto privati ovvero da organismi che, ad onta della veste societaria di recente assunta, continuino a presentare intense connotazioni, se non addirittura natura, pubblicistiche.
La conformazione in senso pubblicistico di talune strutture soggettive finisce inevitabilmente per ampliare il novero delle attività nel cui esercizio si impone la rigorosa osservanza del principio di imparzialità, nonché per condizionare l'individuazione degli atti che, pur non direttamente afferenti la gestione del servizio, devono essere adottati nella prevalente prospettiva del perseguimento imparziale dell'interesse pubblico, talvolta definito sulla scorta di determinazioni eteronome, non direttamente imputabili, cioè, al gestore stesso.
Ammessa la configurabilità in astratto di enti pubblici organizzati in forma societaria, è necessario accertare, in sede di concreta verifica dell'accessibilità o meno di determinati atti , che il regime giuridico cui la singola società è sottoposta si caratterizzi per la previsione di regole di organizzazione e funzionamento che, oltre a costituire una consistente alterazione del modello societario tipico (comportando una compressione della autonomia funzionale e statutaria degli organismi societari), rivelino, al tempo stesso, la completa attrazione nell'orbita pubblicistica dell'ente societario.
Nel caso della società Poste italiane, si verifica l' attribuzione legislativa, in capo a soggetti pubblici diversi da quelli che rivestono all'interno della struttura societaria la qualità di soci, di potestà il cui esercizio è destinato inevitabilmente a produrre effetti sulle fondamentali determinazioni degli organi societari, per cui trovano piena applicazione i principi sopra delineati al fine di verificare l'ostensibilità degli atti e la ricorrenza dei presupposti per l'esercizio e la soddisfazione del diritto di accesso agli atti di diritto di privato (nella specie la richiesta di accesso riguardava le schede di valutazione personale, esaminate nell'ambito della compilazione di una graduatoria che aveva condotto al trasferimento della dipendente.)
Omissis
FATTO
Con il ricorso di primo grado l'odierna appellata, dipendente della struttura CPO di Reggio Calabria delle Poste Italiane S.p.A., ha impugnato ex art. 25, L. n. 241/1990, il provvedimento con cui la citata Società ha respinto l'istanza di accesso alle schede di valutazione personale, esaminate nell'ambito della compilazione di una graduatoria che aveva condotto al trasferimento della stessa dipendente.
Si è costituita in resistenza l'intimata Società, che ha sottolineato come Poste Italiane, una volta privatizzate, operino in regime di diritto privato, di assoluta libera concorrenza, con conseguente asserita inapplicabilità della legge n. 241 del 1990.
Con la sentenza impugnata, il Giudice di prime cure, muovendo dal presupposto della piena operatività con riguardo agli atti di diritto privato dell'Amministrazione e dei concessionari di pubblici servizi delle disposizioni in tema di ostensione dei documenti, ha rimarcato la prevalenza dell'interesse pubblico rispetto all'interesse imprenditoriale allorchè il gestore pone in essere, come nella fattispecie in esame, un procedimento di natura comparativa, con esame di schede di valutazione che giustificano la successiva adozione di un provvedimento di trasferimento; al contempo, ha reputato irrilevante la circostanza, valorizzata dalla difesa delle Poste Italiane S.p.a., dell'asserita perdita del regime di monopolio nello svolgimento del servizio pubblico di cui la citata società è concessionaria.
Insorge la società appellante sostenendo l'erroneità della sentenza di cui chiede quindi la riforma.
All'udienza del 14 dicembre 2001 la causa è stata ritenuta per la decisione.
DIRITTO
L'appello è infondato e va pertanto respinto.
A sostegno del gravame, la difesa dell'appellante adduce la natura asseritamente privatistica di Poste italiane S.p.A., il carattere prevalentemente concorrenziale dell'attività dalla stessa espletata, nonché, ancora, l'assenza del nesso di strumentalità tra l'attività di elaborazione e comparazione delle schede di valutazione personale e quella di diretta gestione del servizio pubblico.
Un consapevole scrutinio delle indicate censure presuppone la ricostruzione dei profili teorici involti nella presente vicenda processuale.
Il Collegio è chiamato ad esaminare la questione, da tempo oggetto di un dibattito mai del tutto sopito, relativa all'ostensibilità degli atti di diritto privato posti in essere dai gestori di pubblici servizi: più in particolare, viene in considerazione il tema della sussumibilità entro l'ambito oggettivo di efficacia delle generali disposizioni in materia di accesso ai documenti amministrativi delle schede di valutazione personale utilizzate da Poste italiane S.p.A. in seno al procedimento volto alla compilazione di una graduatoria che ha condotto al trasferimento dell'odierna appellata.
Giova ripercorrere in modo sintetico le tappe salienti del dibattito e gli esiti cui si è pervenuti con le decisioni nn. 4 e 5/1999 dell'Adunanza plenaria.
In una prima fase dell'evoluzione pretoria, prevaleva l'indirizzo propenso a circoscrivere la sfera oggettuale del diritto di accesso ai soli atti inerenti ad attività almeno latamente riconducibile all'esercizio di potestà o, comunque, di strumenti pubblicistici (Cons. Stato, Sez. IV, 5 giugno 1995, n. 412).
A sostegno dell'opzione indicata erano addotte tre essenziali ragioni, la prima attenta alla ratio sottesa alla disciplina introdotta dalla l. n.241/1990, la seconda desunta dalla formulazione letterale delle disposizioni dalla stessa previste in tema di diritto di accesso, la terza, infine, elaborata tenendo conto delle implicazioni di più ampia portata potenzialmente ricollegabili al paventato ampliamento del diritto medesimo all'attività di diritto privato.
In primo luogo, si osservava che l'esigenza di garantire l'attuazione degli obiettivi perseguiti con la legge n. 241/1990, considerata nel suo impianto complessivo, oltre che con specifico riguardo alla disciplina del diritto di accesso, quali quelli della correttezza, del buon andamento e dell'imparzialità della pubblica amministrazione, si pone solo quando la pubblica amministrazione si presenti in veste di autorità, esercitando potestà pubbliche o godendo di situazioni di supremazia, rispetto alle quali il diritto di accesso costituirebbe "una sorta di contrappeso".
La disciplina sull'accesso è intesa quale strumento per il ristabilimento dell'equilibrio nel rapporto tra cittadino e pubblica amministrazione: in questa prospettiva il diritto di accesso è destinato ad operare solo ove sussista la necessità di una perequazione tra le posizioni, ossia nei rapporti in cui il soggetto pubblico si trovi in una condizione di potestà ed eserciti strumenti pubblicistici. Diversamente, quando l'amministrazione scende nell'arena del diritto privato non è configurabile un diritto di accesso.
D'altra parte, sul versante dell'interpretazione letterale, le disposizioni in tema di accesso utilizzano -si sosteneva- l'aggettivo "amministrativo" al fine di indicare l'esercizio di potestà pubbliche autoritative: un differente approccio interpretativo, oltre a risultare in contrasto con le indicate finalità sottese all'introduzione di una generale disciplina dell'accesso, avrebbe posto l'ente pubblico, in particolare quello economico, in una posizione deteriore rispetto ad altri operatori economici, svolgenti la medesima attività.
Ribaltando l'impianto ermeneutico elaborato nella richiamata decisione n. 412/95, la stessa quarta sezione del Consiglio di Stato ha affermato, con decisione n. 82/97, l'opposto principio secondo cui devono ritenersi documenti amministrativi, in quanto tali potenziale oggetto del legittimo esercizio del diritto di accesso garantito e disciplinato dalla legge n. 241/1990, non solo quelli relativi ad atti che siano espressione di potestà pubbliche, ed in specie manifestazione di poteri autoritativi della pubblica amministrazione, ma anche quelli relativi ad atti di diritto privato.
Si tratta di indirizzo che, pur meritevole di ulteriore ripensamento, è subito apparso più in linea con il quadro normativo complessivo.
Ed invero, l'indirizzo favorevole all'estensione del diritto di accesso agli atti di diritto privato della pubblica amministrazione rinviene nell'ampia nozione di documento fornita dal secondo comma del citato art.22, un sostegno di diritto positivo: tale disposizione, infatti, qualifica come documenti, da un lato, quelli relativi ad atti, anche interni, formati dalla pubblica amministrazione, dall'altro, quelli che, pur essendo eventualmente elaborati da soggetti terzi, anche privati, siano "comunque utilizzati ai fini dell'attività amministrativa" (cfr., da ultimo, per una rigorosa delimitazione della portata di tale disposizione Cons. Stato, Sez.VI, 22 gennaio 2001, n. 191).
A ciò si aggiunga che l'art. 23 della l. n. 241/1990, includendo nel novero dei soggetti passivi dell'accesso i "gestori" di pubblici servizi, ossia persone giuridiche, spesso aventi natura privata e, comunque, normalmente operanti, quale che sia la natura giuridica assunta, in regime privatistico, rappresenta un indubbio sintomo della bontà della tesi secondo cui il diritto di accesso può essere esercitato in relazione ad atti non aventi carattere autoritativo, ma, al contrario, adottati nell'esercizio di un'attività iure privatorum.
Sulla scorta di siffatte argomentazioni, quindi, si è sostenuto che l'attività amministrativa, cui gli artt. 22 e 23 della l. n. 241/90 correlano il diritto di accesso, ricomprende non solo quella di diritto amministrativo, ma anche quella di diritto privato, "che costituisce cura concreta di interessi della collettività, non meno della prima".
Inaugurando un terzo ed intermedio indirizzo interpretativo, la decisione n. 15 gennaio 1998, n. 14, della quarta Sezione del Consiglio di Stato, dopo aver rilevato che un'applicazione ampiamente estensiva dell'indirizzo giurisprudenziale accolto con la citata decisione n. 82 del 1997 potrebbe "condurre ad effetti ultronei rispetto ad una corretta applicazione della portata dell'impianto normativo contemplato dagli artt.22 e ss. della legge 241/90, arrivando a rendere ostensibile -sempre e comunque- ogni tipo di documento posto in essere da una persona giuridica di diritto pubblico o da una Pubblica Amministrazione", esclude l'azionabilità del "diritto" di accesso in relazione ad "attività esclusivamente privatistica e del tutto disancorata dall'interesse pubblico di settore istituzionalmente rimesso alle cure dell'apparato amministrativo; attività che si trasfonde, poi, in atti contrattuali di natura civilistica, in ordine ai quali l'Amministrazione è carente di qualsivoglia discrezionalità amministrativa e che non possono fungere da necessarie articolazioni di un procedimento amministrativo (con le finalità pubblicistiche previste dalle relative norme)".
Questo terzo indirizzo giurisprudenziale, pur avendo avuto il merito di introdurre un elemento di novità e rottura nel dibattito sviluppatosi tra sostenitori dell'accessibilità della sola attività amministrativa in senso stretto e fautori dell'ostensibilità di tutti gli atti posti in essere o utilizzati dalla pubblica amministrazione, quale che sia la natura giuridica degli stessi, ha prestato il fianco a penetranti rilievi critici attesa la difficile possibilità di configurare un'attività di diritto privato della pubblica amministrazione non finalizzata (anche solo strumentalmente) alla cura di interessi pubblici.
Ciò che in realtà non si è condiviso non è stata quindi l'avvertita esigenza di distinguere, nell'ambito dell'attività privatistica posta in essere dalla pubblica amministrazione, quella assoggettabile alla disciplina sull'accesso e quella, invece, da ritenere estranea al relativo ambito di operatività, ma solo il criterio discretivo che la citata decisione n. 14/98 ha coniato nel far luogo in concreto a siffatta delimitazione.
Il vero criterio da utilizzare nel distinguere tra atti rientranti nell'ambito oggettivo della disciplina sull'accesso e atti destinati a rimanerne estranei deve invece essere ravvisato nella sottoposizione o meno del soggetto, in sede di esercizio dell'attività di cui si chiede l'ostensione, al dovere di imparzialità.
E' quanto può desumersi dalla scelta legislativa di ricomprendere tra i soggetti passivi della disciplina generale in tema di accesso i concessionari (ora gestori) di pubblico servizio.
Non vi è dubbio, infatti, che le ragioni di tale inclusione non sono affatto estranee alle più generali motivazioni che, per espresso dettato normativo, sono alla base del riconoscimento di un generale diritto all'accesso, tra cui l'esigenza di assicurare la trasparenza dell'attività amministrativa e, soprattutto, il suo svolgimento imparziale: parametri alla stregua dei quali quindi è necessario verificare -quale che sia il regime giuridico, amministrativo in senso stretto o privatistico, dell'attività espletata- la sussistenza del diritto all'accesso.
Con maggiore impegno esplicativo, le ragioni di tale ampliamento della platea dei soggetti tenuti a soddisfare le istanze di conoscenza delle risultanze della rispettiva attività vanno ricercate nella stessa nozione di pubblico servizio, tenendo conto peraltro che, per esplicita previsione normativa, l'obiettivo perseguito con il generale riconoscimento dell'accesso è fondamentalmente quello di assicurare lo svolgimento imparziale dell'attività amministrativa: obiettivo, questo, rispetto al quale la conoscenza dei meccanismi operativi dell'ente preposto al suo esercizio, e quindi la trasparenza di quell'attività, costituisce presupposto ritenuto indefettibile.
Ed invero, anticipando quanto si rileverà nell'esaminare la contrastata nozione di servizio pubblico, può osservarsi che suo tratto peculiare è costituito dall'inabdicabile sottoposizione al canone dell'imparzialità del soggetto preposto alla gestione dell'attività: ciò spiega la ragione dell'inclusione dei gestori di pubblico servizio tra i soggetti sottoposti alla generale disciplina in tema di accesso dettata principalmente con riferimento alle pubbliche amministrazioni, come noto tenute al rispetto del principio di imparzialità per effetto di espressa previsione costituzionale (art. 97 Cost.).
Senza ricostruire l'articolato e complesso dibattito sviluppatosi nel tentativo di definire i caratteri del servizio pubblico, ora peraltro ulteriormente alimentato dall'esigenza di tracciare i confini della nuova giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo ex art. 33, D.Lgs. n. 80/98, pare sufficiente rilevare che, alla stregua della più condivisibile teoria c.d. oggettiva, assume rilievo la circostanza che l'attività sia assoggettata ad una disciplina settoriale che assicuri costantemente il conseguimento dei fini sociali.
Nell'ambito di tale opzione ricostruttiva della nozione di servizio pubblico si registrano, tuttavia, differenze per nulla trascurabili.
Un primo indirizzo, per vero sin troppo estensivo, induce a ricomprendere nella nozione di servizio pubblico tutte le attività in qualche modo assoggettate a forme più o meno intense di regolamentazione pubblica.
Ben si comprende come un'opzione interpretativa volta ad estendere in tal modo il concetto in questione finisca per prestarsi, ed in fatto si è prestata, ad agevoli e convincenti rilievi critici mossi dai fautori della opposta teoria soggettiva: quella definizione, infatti, non riesce a cogliere la linea di demarcazione tra il servizio pubblico e la mera attività economica, anch'essa normalmente assoggettata, in linea con le previsioni costituzionali (art. 41), a limitazioni e vincoli di carattere pubblico.
Quell'impostazione presta il fianco, quindi, ad una sin troppo agevole, oltre che corretta e condivisibile, obiezione: risulterebbe difficile differenziare, infatti, la semplice attività economica, anch'essa sovente assoggettata a forme più o meno penetranti di interferenza ad opera della mano pubblica, dal vero e proprio servizio pubblico.
Su altra linea si colloca, allora, l'indirizzo che, nell'intento di perimetrare in termini più puntuali la nozione in esame pur muovendo da un approccio di tipo oggettivo, indica i tratti che il regime giuridico cui l'attività è assoggettata deve in concreto presentare perchè la stessa possa assumere le sembianze del servizio pubblico.
Non è sufficiente, infatti, che l'attività sia sottoposta a misure di controllo, vigilanza o di mera autorizzazione da parte di un'amministrazione pubblica.
Ciò che contraddistingue l'attività qualificabile come servizio pubblico è la necessità, ormai ricavabile da precisi riferimenti normativi, che la stessa sia espletata in ossequio al principio di imparzialità: non senza obliterare, a quest'ultimo riguardo, che siffatto principio è destinato ad assumere una particolare conformazione quando l'attività, anzichè presentare i caratteri della funzione pubblica, consiste, per l'appunto, nella prestazione di servizi.
Ed invero, tale dovere di imparzialità si concreta in una serie di obblighi gravanti sul gestore del servizio pubblico, tra cui, non solo quello di svolgere l'attività con caratteri di continuità e regolarità, ma anche e soprattutto quello di non operare alcuna forma di favoritismo o discriminazione, ammettendo al servizio, o meglio alle prestazioni cui lo stesso è preordinato, tutti coloro che vi hanno titolo, nel rispetto, peraltro, del principio di uguaglianza dei diritti dell'utenza.
Ciò che contraddistingue, pertanto, il pubblico servizio è la sottoposizione del gestore ad una serie di obblighi, tra i quali, in specie, quelli di esercizio e tariffari, volti a conformare l'espletamento dell'attività a norme di continuità, regolarità, capacità e qualità, cui non potrebbe essere assoggettata, invece, una comune attività economica.
Alla stregua della suindicata accezione di pubblico servizio, la riconducibilità dell'attività nell'alveo pubblicistico, lungi dal poter essere desunta dalla semplice previsione di controlli o programmi, postula viceversa la sua sottoposizione, evidentemente dettata da una valutazione di particolare rilevanza delle finalità pubbliche connesse al suo corretto espletamento, ad una disciplina normativa che ne imponga l'esercizio in modo continuativo, regolare ed imparziale.
Le peculiarità che, alla stregua della suesposta ricostruzione, il pubblico servizio deve presentare appaiono, del resto, non discostarsi da quelle che possono considerarsi le caratteristiche che contraddistinguono, quantomeno sulla base di determinati atti normativi, sia pure settoriali, la nozione comunitaria di pubblico servizio o, con maggiore precisione, "di interesse economico generale".
Se, quindi, la ratio del riferimento normativo contenuto nel
previdente art. 23, L. n. 241/90, ai concessionari di pubblici servizi è quella di garantire la trasparenza di un'attività connotata, al pari di quella propria delle tradizionali pubbliche amministrazioni, dal doveroso rispetto del principio di imparzialità, non appare coerente l'indirizzo che intende limitare l'ambito oggettivo del diritto all'accesso ai soli atti emanati dal concessionario nell'ambito del rapporto di concessione, immotivatamente escludendo, invece, tutto ciò che, pur attenendo ai rapporti del concessionario con la pubblica amministrazione o con altri concessionari o anche con privati, incide sulla concreta osservanza da parte del concessionario medesimo del dovere di imparzialità.
La bontà delle suesposte argomentazioni è ora, del resto, confermata dalla riformulazione dell'art. 23, l. n. 241/1990, operata con la l. n. 265/99: per effetto della stessa, infatti, è abbandonato del tutto il riferimento ai concessionari di pubblici servizi e sono ricondotti nel novero dei soggetti passivi della disciplina in punto di accesso tutti i gestori di siffatta tipologia di attività, ancorchè, quindi, non abilitati all'esercizio della stessa in forza di apposito provvedimento concessorio.
Alla delimitazione dell'ambito oggettuale entro cui riconoscere l'operatività della disciplina in tema di accesso con riguardo agli atti posti in essere dai gestori di pubblici servizi deve quindi procedersi tenendo conto delle indicate ragioni sottese alla genesi del citato art. 23. L. n. 241/1990: non può essere più ascritto alcun rilievo dirimente al dato, meccanicistico e tendenzialmente neutro, della veste privatistica dell'atto di cui si chiede l'ostensione, dovendosi invece verificare se il segmento di attività cui la documentazione da visionare si riferisce debba essere esercitata nel rispetto
del principio di imparzialità.
Orbene, a tale risultato ermeneutico sembra giungere l'organo nomofilattico della giurisdizione amministrativa con le pronunce nn.4 e 5 del 1999.
Ed invero, l'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato ha sottolineato l'irrilevanza, in sede di delimitazione della sfera di applicabilità degli artt.22 ss., l. n. 241/1990, del regime giuridico cui risulta assoggettata l'attività in relazione alla quale l'istanza ostensiva è formulata: ciò che assume importanza, invece, è che l'attività, ancorchè di diritto privato, costituisca nella sua essenza cura di un interesse pubblico e, soprattutto, debba essere espletata nel rispetto del canone di imparzialità.
Ciò chiarito, l'Adunanza plenaria ha ritenuto di dover distinguere tra attività privatistica della pubblica amministrazione e attività dei privati concessionari di pubblici servizi, nonché, con riferimento a quest'ultima, tra attività di gestione del servizio stesso e attività residuale.
Se nessuna distinzione può essere compiuta con riguardo all'attività della pubblica amministrazione, posto che il rispetto dei principi costituzionali del buon andamento e dell'imparzialità, cui la disciplina dettata dagli artt. 22 ss., l. n. 241/1990 è esplicitamente ispirata, riguarda indifferentemente l'attività volta all'emanazione dei provvedimenti e quella con cui sorgono o sono gestiti i rapporti disciplinati dal diritto privato, con riferimento, invece, agli atti di diritto privato adottati da soggetto incaricato della gestione di un servizio pubblico, l'Adunanza plenaria giunge ad affermare l'ostensibilità di quelli che, in quanto funzionalmente inerenti alla gestione di interessi collettivi, impongano l'esigenza di garantire il rispetto dei principi di imparzialità e trasparenza.
L'accesso va quindi garantito nei casi in cui una norma comunitaria o di diritto interno imponga al gestore del pubblico servizio l'attivazione di procedimenti per la formazione delle proprie determinazioni, in specie per la scelta dei propri contraenti, nonché in relazione agli atti afferenti le scelte organizzative adottate in sede di gestione del servizio: scelte potenzialmente incidenti sulla qualità del servizio stesso, sul rispetto delle norme volte a proteggere gli utenti e sul soddisfacimento delle loro esigenze.
Accanto a questa parte di attività, la cui rilevanza pubblicistica è per così dire in re ipsa, l'Adunanza ammette l'ostensibilità della residuale attività espletata dal gestore di pubblico servizio sempre che, all'esito di un giudizio di bilanciamento degli interessi cui la stessa è preordinata, risulti prevalente l'interesse pubblico rispetto a quello squisitamente imprenditoriale.
Nel tentativo di indicare i criteri alla stregua dei quali la suddetta valutazione comparativa deve essere compiuta, l'Adunanza fa riferimento:
L'Adunanza plenaria, dunque, delimita l'ambito entro il quale va assicurata l'ostensibilità degli atti distinguendo a seconda che soggetto passivo della richiesta di accesso sia un'Amministrazione o un concessionario (ora gestore) di pubblico servizio: pur escludendo che possa ascriversi rilievo ostativo alla natura privatistica dell'attività con riferimento alla quale l'istanza di visione è formulata, non desume dall'art. 23, L. n.241/1990, una piena equiparazione, sul versante dell'ambito di invocabilità del "diritto" di accesso, tra soggetti pubblici e privati, rimarcando, per questi ultimi, la necessità che la richiesta ostensiva riguardi l'attività di gestione del servizio o, comunque, atti alla prima avvinti da un nesso di connessione, espresso mediante il riferimento al requisito della "strumentalità".
Al di fuori dell'attività di diretta gestione del servizio, senz'altro assoggettata al pieno dispiegarsi del principio di imparzialità e, quindi, del propedeutico canone della trasparenza, si impone, per l'attività residua posta in essere dal gestore, la verifica, quindi, della strumentalità della stessa rispetto al momento propriamente organizzativo e gestionale.
Ciò posto, non può certo negarsi che quello della strumentalità sia un criterio di per sé idoneo a determinare non poche difficoltà ed oscillazioni interpretative, prestandosi in astratto ad un'applicazione quanto mai estesa, destinata a ricondurre nell'ambito di operatività della disciplina in tema di accesso tutta l'attività svolta dal gestore, in qualche modo sempre connessa, sul piano finalistico, all'attività di stretto esercizio del servizio pubblico.
Si impongono, dunque, un chiarimento ed una ridefinizione dello stesso parametro della strumentalità volti ad evitare un'eccessiva dilatazione dell'ambito oggettuale di operatività della disposizione che include i gestori di servizi pubblici tra i soggetti passivi dell'accesso: giova al riguardo considerare quanto rilevato in merito alla logica sottesa a siffatta previsione normativa, intesa a garantire la trasparenza di attività che, pur non presentando i caratteri della funzione pubblica di competenza dell'amministrazione in senso classico, sono, al pari delle prime, ontologicamente e doverosamente improntate al rispetto del principio di imparzialità.
Ritiene il Collegio che in sede di applicazione del criterio della strumentalità e di verifica, quindi, dell'effettiva estensione dell'ambito entro cui i gestori di servizi pubblici sono tenuti a garantire l'esercizio del diritto di accesso non possono essere del tutto obliterate le peculiarità destinate a connotare il soggetto preposto all'organizzazione ed all'erogazione del servizio stesso.
Anticipando le conclusioni cui si ritiene di pervenire, può dirsi che il parametro della strumentalità va definito tenendo anche conto dei profili propriamente soggettivi, attesa la necessità di distinguere a seconda che il servizio sia gestito da soggetti del tutto privati ovvero da organismi che, ad onta della veste societaria di recente assunta, continuino a presentare intense connotazioni, se non addirittura natura, pubblicistiche.
Senza innescare irragionevoli discriminazioni nel regime giuridico proprio di soggetti parimenti deputati all'esercizio di attività ascrivibili alla nozione di servizio pubblico, preme osservare che la conformazione in senso pubblicistico di talune strutture soggettive finisce inevitabilmente per ampliare il novero delle attività nel cui esercizio si impone la rigorosa osservanza del principio di imparzialità, nonché per condizionare l'individuazione degli atti che, pur non direttamente afferenti la gestione del servizio, devono essere adottati nella prevalente prospettiva del perseguimento imparziale dell'interesse pubblico, talvolta definito sulla scorta di determinazioni eteronome, non direttamente imputabili, cioè, al gestore stesso.
E' utile, al riguardo, procedere ad una sintetica illustrazione dei tratti che caratterizzano, sul versante soggettivo, taluni gestori di pubblici servizi e, tra questi, la società odierna appellante: giova in particolare verificare se e fino a che punto le anomalie che il relativo regime giuridico presenta rispetto alla disciplina comunemente propria delle altre società incidono sulla natura giuridica e, per quel che forse più conta, sulle concrete modalità di espletamento della relativa attività.
Come è noto, il problema della natura giuridica, pubblica o privata, si pone con riferimento ad una serie di enti che, pur rivestendo una forma tipicamente privatistica, qual è quella societaria, sono dal legislatore sottoposti ad una disciplina per larga parte derogatoria rispetto a quella codicistica, sintomatica, da un lato, di un particolare e a volte penetrante legame della struttura societaria con il soggetto pubblico, dall'altro, della sua strumentalità rispetto al conseguimento di finalità di chiara impronta pubblicistica, non sempre conciliabili, peraltro, con la causa lucrativa normalmente propria dello schema societario tipico.
Per una corretta ed esauriente disamina del tema è utile distinguere tre fondamentali profili, rispettivamente attinenti all'ammissibilità di previsioni legislative dirette ad introdurre, per specifiche tipologie societarie, deroghe allo schema tipico di fonte codicistica, all'astratta configurabilità di società pubbliche, nonché, infine, all'individuazione dei parametri alla stregua dei quali verificare in concreto la sussumibilità del singolo organismo a veste societaria nel paradigma pubblicistico o in quello privatistico: profili, gli ultimi due, attentamente e almeno in parte innovativamente scandagliati dalla decisione di questa Sezione 2 marzo 2001, n. 1206, riguardante proprio l'Ente Poste S.p.A.
Quanto al primo profilo, la legittimità di previsioni che, con riguardo a talune strutture societarie, introducano deroghe di disciplina rispetto al modello codicistico è stata da tempo riconosciuta dalla Corte costituzionale: si fa riferimento alla sentenza n. 35 del 5 febbraio 1992 che, pur riguardando le società finanziarie regionali ed in specie l'individuazione dell'ambito di operatività di quel limite, frapposto all'esercizio della potestà legislativa regionale, costituito dalla disciplina dei rapporti di diritto privato, assume particolare rilevanza per le affermazioni di principio in essa contenute sul tema in esame.
Con la citata sentenza, la Corte, nel valutare la legittimità costituzionale di alcune disposizioni della legge della Regione Sicilia 19 giugno 1991, n.39, istitutiva di una società finanziaria interamente capitalizzata dalla Regione e diretta ad agevolare la ricapitalizzazione dei maggiori istituti creditizi siciliani, ha in primo luogo inquadrato il rapporto tra tale organismo societario e l'ente regionale sovraordinato, qualificando le società finanziarie regionali come "strumenti operativi" attraverso i quali l'amministrazione persegue, in via indiretta, le finalità pubbliche "connesse alle proprie competenze".
Sulla base di siffatta ricostruzione in chiave pubblicistica della relazione intercorrente tra strumento societario ed ente pubblico regionale che ne possiede o sottoscrive la totalità o la maggioranza delle azioni, la Corte ha affrontato la delicata questione del rapporto tra utilizzazione pubblicistica di uno strumento proprio del diritto privato, attuantesi attraverso l'introduzione ad opera del legislatore regionale di deroghe allo schema societario tipico, e il generale limite frapposto alla potestà legislativa regionale e costituito, nell'impianto costituzionale anteriore al varo della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, dal divieto di incidere sulla disciplina dei rapporti privati.
Sul punto, la Corte riconosce che il c.d. limite di diritto privato possa subire un ridimensionamento, riconoscendo al legislatore regionale la potestà di introdurre deroghe alla disciplina civilistica ogni qualvolta le stesse siano esplicitamente preordinate ad attuare la conformazione a finalità pubblicistiche dello strumento societario e a condizione che l'ente pubblico sovraordinato possegga la totalità o la maggioranza delle azioni; le conclusioni cui la citata sentenza approda sono naturalmente, e a maggior ragione, applicabili al legislatore statale cui non è opponibile il limite rappresentato dalla disciplina dei rapporti privati.
Superato questo primo ostacolo, occorre verificare se e quando tali difformità di regime giuridico consentano di riconoscere alla società per azioni la qualificazione pubblicistica: si tratta di una problematica che, a causa del crescente impiego dello strumento delle società per azioni per il perseguimento di finalità di interesse pubblico predeterminate sul piano legislativo, ha assunto via via maggior rilievo negli anni più recenti.
Si è in presenza di una problematica particolarmente delicata, la cui analisi appare densa di consistenti difficoltà determinate proprio dal fatto che ci si trova su una linea di confine tra pubblico e privato, dovendosi conciliare con la causa lucrativa tipica dello schema codicistico della società per azioni l'autonoma rilevanza nell'ambito dello stesso organismo societario dell'interesse pubblico.
Punto di partenza dell'analisi è la constatazione della cosiddetta neutralità del modello societario rispetto alle finalità che con lo stesso si intendono perseguire.
Questo processo di neutralizzazione dello schema societario è andato, del resto, progressivamente ampliandosi, involgendo, per effetto dei diversi interventi legislativi, non più soltanto la causa del contratto, bensì anche profili attinenti al momento genetico, a quello funzionale ed, infine, a quello organizzativo.
L'attenzione, quindi, va inevitabilmente spostata sull'analisi di tale specialità di regime giuridico cui sono sottoposti, in relazione a ciascuno dei suindicati profili, alcuni enti a struttura societaria, primi fra tutti quelli preposti, per espressa previsione legislativa, all'espletamento di compiti di interesse pubblico: proprio con riferimento a tali organismi si è parlato di società di diritto speciale o singolare, connotate tanto dalla funzionalizzazione alla realizzazione di obiettivi, indicati dallo stesso legislatore, non sempre agevolmente conciliabili con la causa societaria tipica, quanto dalla sottoposizione a discipline giuridiche comportanti una più o meno intensa compressione dell'autonomia negoziale e statutaria.
Il tema va affrontato senza farsi condizionare dal profilo nominalistico: è necessario verificare, in particolare, se le deviazioni dal modello societario di tipo codicistico che caratterizzano il regime giuridico di determinate strutture societarie possano considerarsi ancora compatibili, anche se indicative di una situazione di rilevanza pubblicistica, con la qualificazione privatistica delle medesime (da cui occorre pur sempre prendere le mosse), ovvero se, comportando una consistente alterazione dello schema societario sotto il profilo genetico, organizzativo e funzionale, non debbano indurre, piuttosto, a ritenere che si sia in presenza di enti a struttura societaria, ma con natura pubblicistica.
Quanto alla configurabilità in astratto di enti pubblici organizzati in forma societaria, si può osservare che, pur non mancando chi, aderendo ad un orientamento negli ultimi anni recessivo, sostiene l'incompatibilità in via di principio tra ente pubblico e schema giuridico delle società per azioni, va progressivamente guadagnando terreno la tesi contraria per cui è possibile riconoscere alla società per azioni, qualora ricorrano determinate condizioni, natura di ente pubblico.
A conforto della tesi per così dire possibilista vi è, del resto, un preciso e testuale dato normativo: si fa riferimento all'art. 18 della legge finanziaria 22 dicembre 1984, n. 887 che, nel prevedere la costituzione dell'AGE Control s.p.a., espressamente l'ha definita "s.p.a. con personalità giuridica di diritto pubblico".
La disposizione citata costituisce argomento convincente a sostegno della tesi favorevole all'astratta compatibilità tra struttura societaria e natura pubblica dell'ente, essendo tale sintesi espressamente operata dallo stesso legislatore.
A tale conclusione può dirsi ormai pervenuta la stessa giurisprudenza a seguito di un percorso culminato proprio con la citata decisione 2 marzo 2001, n. 1206.
La questione è stata scandagliata, come noto, in primo luogo dal
Giudice delle leggi nella sentenza n. 466 del 28 dicembre 1993 al fine di verificare l'assoggettabilità degli enti economici trasformati in società per azioni, ma ancora legati a filo doppio con l'Amministrazione statale, al controllo della Corte dei conti: controllo concernente, a tenore dell'art. 12 della L. 259/58, "la gestione finanziaria degli enti pubblici ai quali l'Amministrazione dello Stato o un'azienda autonoma statale contribuisce con apporto al patrimonio in capitale o servizi ovvero mediante concessione di garanzia finanziaria".
Orbene, la Corte costituzionale, accogliendo il ricorso proposto dalla Corte dei conti, ha sostenuto che il giudice contabile conserva la titolarità del potere di controllo sulle società per azioni costituite a seguito della trasformazione di I.R.I., E.N.I., E.N.E.L. e I.N.A. fino a quando permanga una partecipazione esclusiva o maggioritaria dello Stato al capitale azionario di tali società.
La Corte, in particolare, dopo aver individuato il punctum dolens della problematica in oggetto nella formulazione letterale del citato art. 12, ha sostenuto di poter superare l'ostacolo frapposto dal dato testuale facendo leva su due fondamentali argomenti.
In primo luogo, ha rilevato la necessità di superare il dato letterale facendo luogo ad un'interpretazione dell'art. 12 tale da "adeguarlo" al dettato costituzionale, in particolare all'art. 100, 2° co., e alla funzione del controllo previsto da quest'ultima disposizione, già collegata dalla stessa Corte, con sentenza n.35 del 1962, «all'interesse preminente dello Stato (costituzionalmente rilevante per l'art. 100 Cost.) che siano soggette a vigilanza le gestioni relative ai finanziamenti che gravano sul proprio bilancio, sottoponendole in definitiva al giudizio del parlamento»: tale finalità, ha rimarcato la Corte nella sentenza n. 466/1993, "può giustificare la permanenza del controllo in questione anche nei confronti delle nuove società" fino a quando la gestione delle stesse possa incidere sul bilancio statale.
Il secondo argomento utilizzato per superare il riferimento testuale operato dall'art. 12 agli "enti pubblici" è quello dello stemperamento, sul piano tanto normativo quanto giurisprudenziale, della dicotomia tra ente pubblico e società di diritto privato, desunto alla stregua di una triplice considerazione: il crescente impiego della società per azioni per perseguire finalità di interesse pubblico, l'adesione comunitaria ad una nozione "sostanziale" d'impresa pubblica, l'accertata possibilità di individuare nelle nuove società per azioni derivate dai precedenti enti pubblici "connotazioni proprie della loro originaria natura pubblicistica".
Nella motivazione della sentenza, pur cogliendosi spunti di grande interesse (quali, in particolare, la rilevazione di tratti pubblicistici nelle società per azioni derivanti dall'intervenuta trasformazione dei precedenti enti pubblici, nonché, anche, la constatazione della natura di "diritto speciale" riconosciuta a dette società), non si rinviene ancora l'espressa affermazione della natura pubblica delle stesse: affermazione, peraltro, a rigore necessaria per dare soluzione alla questione interpretativa innescata dal citato art.12, l. n. 259/58, laddove limita ai soli "enti pubblici" quella specifica forma di sindacato demandata al Giudice contabile.
La questione della natura giuridica delle società per azioni derivanti dalla trasformazione degli enti pubblici economici e degli enti di gestione è stata esaminata in sede giurisprudenziale anche al fine di dare soluzione ad altra fondamentale implicazione, quella della individuazione del giudice deputato a conoscere le controversie in cui tali enti siano coinvolti: la questione è stata esaminata prima che il panorama normativo fosse completamente stravolto per effetto del varo del D.Lgs. n. 80/98.
Si fa riferimento, in particolare, alla decisione n. 498 del 20 maggio 1995 con cui la sesta Sezione del Consiglio di Stato ha dovuto preliminarmente stabilire se le controversie riguardanti i contratti di appalto stipulati dalle Ferrovie dello Stato, trasformate in società per azioni per effetto di delibera del CIPE, adottata a norma dell'art. 18 l. 359/1992, rientrassero nell'ambito giurisdizionale del giudice ordinario ovvero in quello del giudice amministrativo.
Nel motivare la dichiarata sussistenza della giurisdizione del giudice amministrativo sulla controversia promossa avverso la delibera del direttore generale delle Ferrovie S.p.a. di affidamento a trattativa privata dell'esecuzione dei lavori per il rinnovamento dell'armamentario ferroviario per il quinquennio 1993-1997, il Consiglio di Stato ha, in primo luogo, rilevato che "la F.S. S.p.a. concreta una figura sui generis di concessionario ex lege a contenuto vincolato e cioè definito per relationem ai compiti di cui era già titolare l'Ente F.S.", osservando che si è in presenza di "una classica concessione traslativa nella quale le finalità pubblicistiche di cui è attributario il concedente vengono realizzate dal concessionario": quest'ultimo, pertanto, assume la veste di sostituto e organo indiretto della Pubblica amministrazione, i cui atti sono da considerare soggettivamente e oggettivamente amministrativi.
Sennonché, la sesta Sezione del Consiglio di Stato ha ritenuto di dover ricercare un'ulteriore ragione giustificativa dell'affermata giurisdizione del giudice amministrativo, quasi mostrando di essere mossa dall'intento di estendere l'efficacia della decisione adottata a tutti gli enti societari sorti a seguito della privatizzazione formale, a prescindere, quindi, dalla sussistenza o meno di un atto concessorio: ha esaminato, pertanto, la complessa questione della natura giuridica delle suddette società.
E' in questa seconda parte del percorso argomentativo che è consentito cogliere alcuni interessanti rilievi concernenti la questione della natura giuridica delle società derivanti dalla trasformazione degli enti economici.
Dopo aver richiamato la citata pronuncia del Giudice costituzionale, ha concluso rilevando che tali società, affidatarie della cura di rilevanti interessi pubblici, conservano inalterata la propria connotazione pubblicistica con la conseguenza che, "malgrado la trasformazione, sono destinate a rimanere (pubbliche) in quanto di rilevanza strategica o perché temporaneamente sotto il controllo pubblico. In tali fattispecie è lecito concludere che l'adozione della forma societaria si presenta come modulo per rendere l'attività economica più efficace e più funzionale, fermo restando che l'impresa mantiene sotto molteplici profili uno spiccato rilievo pubblicistico".
Il Consiglio di Stato, pertanto, spingendosi oltre quanto sostenuto dal Giudice costituzionale, che era giunto a sostenere la conservazione, da parte delle società in questione, di connotazioni pubblicistiche, espressamente afferma che le stesse, nonostante l'intervenuta trasformazione degli enti pubblici economici e degli enti di gestione da cui derivano, sono destinate a rimanere pubbliche: vi è, pertanto, nella pronuncia del giudice amministrativo quell'ulteriore passaggio la cui mancanza ha caratterizzato la sentenza n. 466/93 della Corte costituzionale.
Il percorso giurisprudenziale sembra ormai giunto al suo naturale traguardo con la decisione 2 marzo 2001, n.1206 con la quale questa Sezione, dopo avere escluso che la controversia afferente la legittimità degli atti adottati dalle Poste Italiane s.p.a. nell'ambito di una procedura concorsuale per la scelta del fornitore di assegni postali da destinare all'espletamento del servizio di bancoposta sia riconducibile entro i confini della giurisdizione esclusiva ex art.33, D.Lgs. n.80/98, che, nella nuova formulazione introdotta dall'art.7, L. n.205/2000, ha riguardo ai pubblici servizi afferenti non già il credito, ma la "vigilanza sul credito", l'ha ricondotta nella generale giurisdizione di legittimità del Giudice amministrativo.
Esclusa l'applicabilità al caso di specie dei nuovi criteri di riparto, la sesta sezione si è infatti impegnata nel verificare la sostenibilità della giurisdizione amministrativa sulla scorta di un differente approccio, inteso a scorgere nella società Poste italiane i connotati propri dell'ente pubblico e a qualificare, quindi, come soggettivamente, oltre che oggettivamente, amministrativi gli atti dalla stessa adottati in seno alla procedura di gara espletata per l'aggiudicazione della fornitura degli assegni di conto corrente postale.
Le peculiarità della fattispecie hanno indotto ad affrontare il profilo afferente la giurisdizione focalizzando la questione della configurabilità, nell'ambito dell'ordinamento nazionale, di enti pubblici a struttura societaria.
Trattandosi, infatti, di appalto di fornitura di importo inferiore alla soglia implicante l'operatività della disciplina di fonte europea, la Sezione non ha potuto ascrivere rilievo decisivo e centrale, in sede di scrutinio della natura soggettivamente amministrativa degli atti di gara, alla incasellabilità, pure riconosciuta dal Collegio, delle Poste s.p.a. nella nozione comunitaria di organismo di diritto pubblico (cfr., al riguardo, Cons. Stato, sez. VI, 28 ottobre 1998, n. 1478): ha dovuto, quindi, dare soluzione alla questione di giurisdizione utilizzando principalmente i parametri di individuazione della natura pubblica dell'ente elaborati entro i confini nazionali.
Al riguardo, non solo si è espressamente escluso che "la semplice veste formale di s.p.a. sia idonea a trasformare la natura pubblicistica di soggetti che, in mano al controllo maggioritario dell'azionista pubblico, continuano ad essere affidatari di rilevanti interessi pubblici", ma si è valorizzato, nel corroborare l'indirizzo favorevole alla astratta configurabilità di enti pubblici a struttura societaria, l'art.18, co. 9, l. n.887/84: disposizione che, come rilevato, qualifica l'Agecontrol s.p.a. come "s.p.a. con personalità giuridica di diritto pubblico".
Il vero problema, in realtà, non è tanto nell'ammettere in astratto la configurabilità di un tal genere di enti pubblici, quanto quello di verificare in concreto quando e alla stregua di quali criteri sia possibile ricondurre nella sfera del pubblico i singoli organismi societari sottoposti ad un regime giuridico in parte divergente da quello di tipo codicistico.
Ben si comprende, infatti, che una mera deviazione rispetto alla disciplina ordinaria, per quanto indicativa di una certa rilevanza pubblicistica, propria di quel determinato organismo societario, non può considerarsi per ciò solo sufficiente a tal fine, se non affiancata da una serie di anomalie di struttura e di funzionamento tali da denotare lo stretto legame della società all'ente pubblico e la reale capacità di quest'ultimo di incidere dall'esterno -e non semplicemente mediante il normale funzionamento dei meccanismi societari- sull'attività dell'ente, sì da garantirne la coerenza rispetto alle finalità pubbliche che attraverso lo stesso si intende perseguire.
Il semplice riconoscimento legislativo, in capo all'ente pubblico, del potere di nomina dei componenti del consiglio di amministrazione della società, per esempio, se certo è sintomatico del rilievo in senso lato pubblicistico che la società stessa presenta, non può tuttavia indurre, singolarmente considerato, a qualificare come pubblico l'ente societario medesimo, non comportando un'alterazione dei normali meccanismi di funzionamento propri del modello: ed invero, una volta nominato, l'amministratore entra a far parte della società, all'interno della quale dovrà operare, in assenza di ulteriori anomalie di funzionamento legislativamente contemplate, secondo le regole codicistiche e a prescindere dall'originario rapporto fiduciario che ha determinato la sua nomina.
E' quanto, del resto, sostenuto dalle Sezioni unite di Cassazione con riferimento alle società per azioni a capitale pubblico locale maggioritario.
Con sentenza 6 maggio 1995, n. 4991, il Giudice della giurisdizione ha accolto la tesi della natura privatistica delle società in parola che, quali persone giuridiche private, operano "nell'esercizio della propria autonomia negoziale, senza alcun collegamento con l'ente pubblico": il rapporto tra la società e l'ente locale " è di assoluta autonomia, sicché non è consentito al comune incidere unilateralmente sullo svolgimento del rapporto medesimo e sull'attività della società per azioni mediante l'esercizio di poteri autoritativi o discrezionali".
La Suprema Corte, in particolare, lungi dall'escludere in radice e aprioristicamente la natura pubblicistica della società a prevalente partecipazione pubblica in ragione, appunto, della loro veste societaria, e quasi mostrando di condividere l'orientamento secondo cui il riconoscimento di tale natura richiede la previsione di regole di organizzazione e di funzionamento comportanti una consistente alterazione del modello societario tipico, sostengono -nell'argomentare la natura privatistica- che la legge non introduce "alcuna apprezzabile deviazione, rispetto alla comune disciplina privatistica delle società di capitali, per le società miste incaricate della gestione di servizi pubblici istituiti dall'ente locale...La posizione del comune all'interno della società è unicamente quella di socio di maggioranza, derivante dalla <<prevalenza>> del capitale da esso conferito; e soltanto in tale veste l'ente pubblico potrà influire sul funzionamento della società,...avvalendosi non già di poteri pubblicistici che non gli spettano, ma dei soli strumenti previsti dal diritto societario, da esercitare a mezzo dei membri di nomina comunale presenti negli organi della società (v. art. 2459 c.c.)".
Ciò posto, è necessario osservare che anche nelle giurisprudenza meno recente, se, per un verso, è stata esclusa la natura pubblica della società per azioni quando questa, pur interamente patrimonializzata e quindi gestita dai pubblici poteri, titolari della totalità delle azioni, non è però sottoposta ad una disciplina speciale tale da caratterizzarne in senso pubblicistico la natura, per altro verso, è emersa la tendenza a riconoscere carattere pubblico a quelle società assoggettate ad una disciplina legislativa volta, da un lato, ad imporre loro il perseguimento di un determinato fine, dall'altro, ad introdurre deroghe in senso pubblicistico al regime tipico delle società per azioni.
In ambito dottrinale, superata la tesi ostile alla astratta ammissibilità di società pubbliche, si è delineata una diversità di vedute in sede di individuazione dei concreti parametri alla stregua dei quali acclarare la natura pubblica del singolo organismo societario.
Al riguardo, si sono registrati due fondamentali indirizzi.
Per il primo, implicante un'estensione del novero degli enti pubblici a struttura societaria, va esclusa la natura privata per tutte le società per azioni istituite con atto legislativo che ne determina quanto meno la denominazione, lo scopo e la necessaria pertinenza ad un soggetto pubblico per una quota almeno maggioritaria, perché in tal caso l'esistenza e la destinazione funzionale della figura soggettiva è predeterminata con atto normativo e resta indisponibile alla volontà dei propri organi deliberativi.
Su altro fronte, si è osservato che l'istituzione per legge o, su specifica autorizzazione legislativa, ad opera di una Pubblica Amministrazione, la determinazione in via legislativa di denominazione e scopo, nonché, infine, la prescritta pertinenza della società all'ente pubblico per una quota maggioritaria, se certo rappresentano il nucleo indefettibile di requisiti di cui occorre verificare l'esistenza onde procedere ad una qualificazione in senso pubblicistico dell'organismo societario, non esauriscono, ancora, il novero degli elementi necessari a far transitare nell'alveo pubblicistico un ente avente forma tipicamente privatistica: si è sostenuto, quindi, che l'indicazione legislativa nel senso della forma societaria dell'ente, pur non incompatibile con una qualificazione pubblicistica, impone all'interprete un ulteriore sforzo, volto alla ricerca di elementi sintomatici della pubblicità dell'ente destinati ad integrare quelli formulati nel tentativo di dare una soluzione alla più generale problematica della concreta individuazione degli enti pubblici.
Alla stregua dell'orientamento più restrittivo, pertanto, è necessario che il regime giuridico cui la singola società è in concreto sottoposta si caratterizzi per la previsione di regole di organizzazione e funzionamento che, oltre a costituire una consistente alterazione del modello societario tipico (comportando una compressione della autonomia funzionale e statutaria degli organismi societari), rivelino, al tempo stesso, la completa attrazione nell'orbita pubblicistica dell'ente societario.
Si fa riferimento, in particolare, all'attribuzione legislativa, in capo a soggetti pubblici diversi da quelli che rivestono all'interno della struttura societaria la qualità di soci, di potestà il cui esercizio è destinato inevitabilmente a produrre effetti sulle fondamentali determinazioni degli organi societari: è quanto si verifica per molti enti assoggettati ad un processo di privatizzazione meramente formale, non ancora seguito da una privatizzazione sostanziale.
Questo seconda opzione ermeneutica è stata fatta propria dal Consiglio di Stato che, riconosciuta la configurabilità nel nostro ordinamento di enti pubblici con forma societaria, ha elaborato i criteri destinati, in sede applicativa, ad orientare l'interprete nel discernere tra società private e società pubbliche.
L'impianto motivazionale della citata decisione 2 marzo 2001, n.1206 è interamente connotato dal corretto sforzo diretto ad individuare le anomalie che, sul piano genetico, organizzativo e funzionale, caratterizzano la società Poste italiane.
Già sotto il profilo genetico la società deriva dalla "trasformazione" del precedente Ente, prevista dall'art. 1, co. 2, della legge n. 71/94 ed attuata con delibera C.I.P.E. del 18.12.1997: la stessa costituzione della struttura societaria in questione, pertanto, è avvenuta non per effetto di un contratto o comunque di un atto di autonomia, bensì di "un intervento legislativo ed in assenza di una pluralità di soci".
Quanto al funzionamento dell'organismo societario, il Consiglio di Stato passa in rassegna le norme che disciplinano la titolarità e, in particolar modo, l'esercizio dei diritti dell'azionista.
Si tratta di previsioni dirette ad introdurre, con riguardo alle Poste s.p.a., peculiarità di funzionamento nella sostanza non dissimili da quelle contemplate dall'art. 15, 2° co., l. n.359/92, così come modificato dal d.l. 23 aprile 1993 n.118, conv. con modific. nella l. 23 giugno 1993 n.202, in forza della quale il Ministro del Tesoro, al quale è stata attribuita la titolarità delle azioni delle società rivenienti dalla privatizzazione formale dei precedenti enti di gestione e degli altri enti economici, esercita i diritti dell'azionista secondo le direttive del Presidente del Consiglio, d'intesa con il Ministro del bilancio e della programmazione economica e con il Ministro dell'industria, del commercio e dell'artigianato.
Con riferimento a siffatta previsione di carattere generale, non si era mancato di porre in risalto, per un verso, la natura pubblica delle "direttive" e dell'intesa, per altro verso, il riconoscimento in capo al Presidente del Consiglio ed ai Ministri in essa indicati della legittimazione all'esercizio dei poteri dell'assemblea: legittimazione che non deriva dal diritto di proprietà privata delle azioni (che non hanno) e che quindi non può essere ricondotto ad altro che alla loro posizione di autorità politiche.
Dalla previsione dell'obbligo del Ministro del Tesoro di esercitare i diritti dell'azionista d'intesa con altri Ministri consegue che le concrete modalità di tale esercizio non sono il risultato di autonome determinazioni del socio, ossia del titolare delle azioni, bensì del concerto tra lo stesso e altri soggetti del tutto estranei, almeno formalmente, alla struttura organizzativa dell'ente societario.
Sempre con riguardo alle società derivanti dalle prime privatizzazioni formali, si era rimarcato che, in forza dell'art. 16 della legge 359/92, il Ministro del Tesoro deve predisporre e trasmettere, d'intesa con altri Ministri, al Presidente del Consiglio un programma di riordino delle partecipazioni di cui all'art. 15 della stessa legge: programma inteso alla valorizzazione delle partecipazioni nelle società in questione "anche attraverso le previsione di cessioni di attività e rami di aziende, scambi di partecipazioni, fusioni, incorporazioni e ogni altro atto necessario al riordino" e sul quale le competenti commissioni parlamentari esprimono il proprio parere prima che sia approvato dal Consiglio dei Ministri.
Come è evidente, quindi, il Ministro del Tesoro, titolare delle azioni delle società derivate dalla "trasformazione" degli enti di gestione, appare fortemente condizionato, nell'esercizio dei suoi diritti di azionista, dall'obbligo di tener conto delle direttive del Presidente del Consiglio, dell'intesa da raggiungere con altri Ministri, nonché, ancora, più a monte, del programma di riordino elaborato in sede pubblica: si è senza alcun dubbio in presenza di importanti deroghe rispetto al regime societario tipico che, nel comportare una consistente alterazione dei normali meccanismi di funzionamento degli organismi societari de quibus e una compressione di non poco conto dell'autonomia funzionale degli organi societari con potestà deliberante (derivante dall'aver almeno in parte vincolato le procedure ordinarie di formazione della volontà sociale ad intese e soprattutto ad un atto -il programma- elaborati in sede pubblicistica), costituiscono dati normativi il cui rilievo non è consentito sottovalutare nel verificare la natura privata o pubblica delle società in questione.
Lo stesso circuito logico è ora seguito dal Consiglio di Stato con specifico riferimento alla società Poste italiane.
Con l'intento di dimostrare la stretta strumentalità della società al perseguimento di finalità pubblicistiche e la sua persistente attrazione in orbita pubblicistica, la sesta sezione pone in risalto quelle deroghe rispetto al modello societario tipico introdotte con lo scopo di consentire alla mano pubblica di "indirizzare le attività societarie a fini di interesse pubblico generale" senza seguire i normali meccanismi di funzionamento delle strutture societarie.
In particolare, si è rimarcato che "l'unico azionista (Ministro del Tesoro, del Bilancio e della Programmazione economica) non esercita i propri diritti autonomamente, ma di intesa con il Ministro delle Comunicazioni": Ministro, quest'ultimo, cui, pertanto, si riconosce titolo per incidere sulle scelte gestionali ad onta della sue estraneità alla compagine societaria.
Proseguendo nell'indicazione delle anomalie di regime giuridico, questa Sezione ha osservato che "lo stesso statuto è definito congiuntamente dai due ministeri", ulteriormente evidenziando che "la società è tenuta a stipulare con il Ministero delle Comunicazioni un contratto di programma, che tenga conto delle direttive del Presidente del Consiglio dei Ministri": peculiarità di disciplina che, complessivamente considerate, inducono il Giudice amministrativo a concludere nel senso della "completa attrazione nell'orbita pubblicistica della s.p.a.".
Le suesposte argomentazioni intese a rimarcare la peculiarità riscontrabili nel regime giuridico delle società in questione e, in particolare, delle Poste italiane S.p.A. assumono un rilievo dirimente in sede di soluzione della presente vicenda processuale.
Le indicate anomalie di struttura e di funzionamento, senz'altro idonee a porre in risalto lo stretto legame della società al potere pubblico e la reale capacità di quest'ultimo di incidere dall'esterno -e non semplicemente mediante il normale funzionamento dei meccanismi societari- sull'attività dell'ente, sì da garantirne la coerenza rispetto alle finalità pubbliche che attraverso lo stesso si intende perseguire, non possono non assumere rilievo nel delimitare l'estensione dell'ambito di attività posto in essere dal Poste S.p.A. che, in quanto assoggettata al parametro dell'imparzialità, deve reputarsi ostensibile ai sensi della generale disciplina in tema di accesso.
Giova, al riguardo, tenere conto di quanto sostenuto dalla Adunanza Plenaria nelle decisioni nn. 4 e 5 del 1999, con le quali è stata affermata l'integrale sottoposizione alla disciplina in tema di accesso dell'attività propria delle pubbliche Amministrazioni, senza che assuma alcun rilievo la distinzione tra sfera pubblica e privata della stessa: sullo sfondo di tale ricostruzione vi è l'assunto secondo cui l'attività di diritto privato dell'amministrazione non è attività libera se non in senso formale, non è, in altri termini, manifestazione di intrinseca volontà di soddisfacimento dei propri interessi alla stregua dell'autonomia privata, ma resta al contrario vincolata in funzione di un interesse collettivo il cui appagamento è proiezione dell'essenza stessa dell'amministrazione.
E' il vincolo di scopo, infatti, l'elemento che consente di distinguere l'attività amministrativa, anche se esercitata nelle forme del diritto privato, da quella di un soggetto qualsiasi, comportandone l'assoggettamento ai precetti di trasparenza e di imparzialità posti a fondamento dell'intera disciplina sull'accesso ai documenti.
Ove si limitasse l'operatività del principio costituzionale di imparzialità ad alcune delle attività dell'amministrazione "si accetterebbe in realtà che l'imparzialità non sia l'appannaggio che di una parte circoscritta della complessiva attività amministrativa, di guisa che questa, considerata appunto nel suo complesso, non potrebbe seriamente dirsi imparziale".
Di tali rilievi, validi con riguardo alle Amministrazioni in senso classico, è necessario fare adeguata applicazione nel delimitare il segmento di attività in relazione al quale i gestori di pubblici servizi sono tenuti ad assicurare il dispiegarsi del principio di trasparenza.
Se nessun dubbio può sorgere con riguardo all'attività propriamente gestionale, certamente ostensibile quali che siano le peculiarità proprie del soggetto preposto all'esercizio del servizio, più complessa risulta la selezione delle residue attività da assoggettare al principio di trasparenza in quanto strumentali al perseguimento imparziale dell'interesse pubblico sotteso alla gestione stessa.
Orbene, la particolare conformazione pubblicistica di taluni gestori, tra cui certo l'odierna appellante, in uno alle indicate anomalie di struttura e di funzionamento sintomatiche del persistente e stretto legame tra gli stessi e la mano pubblica, oltre che della reale capacità di quest'ultima di incidere dall'esterno -e non semplicemente mediante il normale funzionamento dei meccanismi societari- sull'attività del gestore, sì da garantirne la coerenza rispetto alle finalità pubbliche che attraverso lo stesso si intende perseguire, non possono non condizionare l'individuazione delle operazioni che, pur non riguardanti la gestione in senso stretto, sono da considerare avvinte alla stessa da un nesso di strumentalità.
In altri termini, la strumentalità delle residuali attività rispetto all'efficace gestione va intesa in senso più elastico allorchè l'organismo societario deputato all'espletamento del servizio sia sottoposto -in forza dello statuto giuridico che disciplina i profili soggettivi dell'ente, prima ancora che quelli oggettivi concernenti l'attività- ad un vincolo di scopo, attestante la sua necessaria funzionalizzazione ad un interesse, di tipo spiccatamente pubblico, definito sulla scorta di determinazioni proprie di soggetti estranei alla compagine societaria.
E' quanto si verifica con riguardo alle Poste S.p.A., attese le rimarcate anomalie di disciplina.
Da un lato, infatti, l'unico azionista (Ministro del Tesoro, del Bilancio e della Programmazione economica) non esercita i propri diritti autonomamente, ma di intesa con il Ministro delle Comunicazioni": ministro, quest'ultimo, cui, pertanto, si riconosce titolo per incidere sulle scelte gestionali ad onta della sue estraneità alla compagine societaria.
Dall'altro, lo stesso statuto è definito congiuntamente dai due ministri, con uno dei quali (quello per così dire esterno alla piattaforma organizzativa) la società è tenuta a stipulare un contratto di programma, che tenga peraltro conto delle direttive del Presidente del Consiglio dei Ministri.
La strumentalità all'interesse pubblico sotteso alla gestione del servizio pubblico, quindi, se certo va ridimensionata allorchè il gestore sia un soggetto del tutto privato, tenuto, pur nel dovuto rispetto degli obblighi di servizio, al perseguimento di finalità sue proprie, non può non subire una scontata dilatazione quando la gestione è affidata a soggetti a forte impronta, se non addirittura a natura pubblica; si tratta, infatti, di soggetti per i quali il dovere di imparzialità riviene non solo dalla natura dell'attività espletata, ma anche dal persistente collegamento strutturale con il potere pubblico.
In questa accezione allargata di strumentalità non può non rientrare l'attività in relazione alla quale è stata presentata nel caso di specie la richiesta di accesso, in prima battuta respinta dalla società odierna appellante.
Ed invero, l'attività di elaborazione delle schede di valutazione personale utilizzate da Poste italiane S.p.A. in seno al procedimento volto alla compilazione di una graduatoria suscettibile di incidere sulla scelta del personale da assegnare ad una sede, anziché ad un'altra, non può non essere improntata al rispetto di quel principio di imparzialità destinato a condizionare il modus operandi dell'organismo in questione, anche per quel che attiene alle determinazioni non direttamente riguardanti la gestione, ma in qualche modo intese al perseguimento efficace dell'interesse pubblico a quella sotteso: si è al cospetto, infatti, di attività di cui non è possibile escludere l'incidenza potenziale sulla qualità di un servizio, il cui rilievo pubblicistico va valutato tenendo conto non solo della dimensione oggettiva, ma anche di quella propriamente soggettiva.
L'illustrata ricostruzione induce, quindi, a reputare non persuasive le censure con le quali la difesa dell'appellante deduce la natura asseritamente privatistica di Poste italiane S.p.A., il carattere prevalentemente concorrenziale dell'attività dalla stessa espletata, nonché, ancora, l'assenza del nesso di strumentalità tra l'attività di elaborazione e comparazione delle schede di valutazione personale e quella di diretta gestione del servizio pubblico; parimenti ininfluente risulta la dedotta privatizzazione del rapporto di lavoro, come del resto già sostenuto da questa Sezione, ancorchè con riguardo agli atti dell'Amministrazione in senso classico (8 marzo 2000, n.1159).
L'appello va dunque respinto.
Sussistono giustificate ragioni per dichiarare interamente compensate tra le parti le spese del doppio grado di giudizio.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Sesta, respinge l'appello. Dichiara interamente compensate tra le parti le spese del doppio grado di giudizio.
Depositata il 5 marzo 2002.