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Giurisprudenza
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CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V - Sentenza 20 maggio 2003 n. 2750 - Pres. Frascione, Est. Branca - Mangiapane (Avv. Franchi) c. Comune di Perugia (Avv. Segarelli) - (conferma T.A.R. Umbria, 23 aprile 1996, n. 176).

1. Giustizia amministrativa - Poteri del G.A. - Norme regolamentari - Loro disapplicazione - Possibilità - Sussiste.

2. Giustizia amministrativa - Poteri del G.A. - Norme regolamentari - Loro disapplicazione - In assenza di richiesta delle parti - Ammissibilità - Riferimento all'analogo potere che sussiste nel caso di violazione della normativa comunitaria.

3. Pubblico impiego - Segretario comunale e provinciale - Trattamento economico - Norma statutaria che riconosce al segretario il diritto ad una indennità perequativa - Disapplicazione - Necessità - Sussiste.

4. Pubblico impiego - Segretario comunale e provinciale - Trattamento economico - Diritto ad una indennità perequativa - Riconoscimento in base ai principi generali dell'adeguatezza della retribuzione ed alla disciplina di cui alla legge n. 142 del 1990 - Impossibilità.

1. Va riconosciuto al giudice amministrativo il potere di disapplicazione degli atti amministrativi illegittimi, sia con riferimento ad ipotesi di regolamenti illegittimi che sacrifichino posizioni soggettive di diritto o di interesse legittimo attribuite dalla legge (1) sia con riguardo al caso di disposizione di rango regolamentare che attribuisca un diritto in contrasto con norme sovraordinate (2).

2. Al giudice amministrativo è consentito, anche in mancanza di richiesta delle parti, sindacare gli atti di normazione secondaria al fine di stabilire se essi abbiano attitudine, in generale, ad innovare l'ordinamento e, in concreto, a fornire la regola di giudizio per risolvere la questione controversa (3). Nulla impedisce infatti di ricostruire il conflitto della norma regolamentare con la fonte legislativa come un'ipotesi di invasione da parte del regolamento dell'area già coperta dalla disciplina posta dalla fonte a ciò competente, in analogia a quanto accade nel caso di normativa nazionale disponente su materia già dotata di diversa disciplina da parte della fonte comunitaria; in entrambi i casi può prescindersi dalla proposizione e dalla celebrazione di una impugnazione tendente alla rimozione dell'atto che abbia debordato dalla sua sfera di competenza, essendo sufficiente accertare che la norma non è "idonea ad innovare" l'ordinamento sul punto e quindi non può essere applicata.

3. Va disapplicata una norma statutaria che riconosce al segretario comunale il diritto ad una indennità perequativa, atteso che essa si pone in contrasto con disposizioni di rango sovraordinato che attribuiscono alla legge dello Stato la determinazione del trattamento economico del segretario comunale.

4. L'esistenza di una disciplina di diritto positivo, risultante da specifiche disposizioni normative, esclude che il diritto del segretario comunale ad una integrazione stipendiale possa farsi discendere dai principi generali dell'adeguatezza della retribuzione alla quantità e qualità del lavoro prestato, in quanto è noto che il ricorso ai principi è ammissibile in caso di carenza di disciplina espressa della materia, non quando, invece, sia disponibile una regolamentazione specifica. Nè appare sostenibile che la legge n. 142 del 1990 abbia inteso attribuire la determinazione del trattamento economico del segretario comunale allo statuto nell'ambito dell'"ordinamento degli uffici" di cui all'art. 4, comma 2, quando al successivo art. 52, comma 2, ha richiamato il principio che il trattamento economico dei segretari comunali è regolato dalla legge, e al comma 5 ha ribadito che fino all'entrata in vigore dell'apposita legge si applica la disciplina vigente, che è di fonte legislativa (art. 25 del D.P.R. n. 749 del 1972).

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(1) Cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 29 febbraio 1996 n. 222; Sez. VI. 12 aprile 2000, n. 2183; Sez. V, 30 ottobre 2002 n. 5972; Sez. VI, 5 dicembre 2002, n. 6657.

(2) Cfr. Cons. Stato, Sez. V, 9 settembre 1995, n. 1332, Sez. VI, 6 luglio 2000, n. 3789.

Come si ammette lealmente nella motivazione della sentenza in rassegna, per un lungo periodo, a partire dai primi anni del secondo dopo guerra e fino al mutamento di indirizzo, inaugurato dalla sentenza della Sezione V 26 febbraio 1992 n. 154, la giurisprudenza del Consiglio di Stato era fermamente contraria alla disapplicazione dei regolamenti illegittimi, rilevanti per la definizione del giudizio ma non formanti oggetto di impugnazione.

Le motivazioni di tale orientamento contrario al potere di disapplicazione del G.A., con diverse sfumature, si rifacevano al principio dispositivo che regge il processo amministrativo ed al dato normativo espresso dall'art. 5 della legge 20 marzo 1985 n. 2248, All. E, che riconosceva al solo giudice ordinario il potere di disapplicare i regolamenti se non conformi alle leggi.

Nella motivazione della sentenza in rassegna si ricorda tuttavia come la dottrina non abbia mai mancato di segnalare l'incongruenza di tali posizioni fino a che, con la richiamata sentenza della Sez. V, n. 154 del 1992, si prese atto che "ogni ordinamento non può non prevedere un meccanismo invalidante delle norme di grado inferiore che sopraggiungano ed urtino contro precetti pozioni dell'ordinamento medesimo". E poiché il meccanismo stabilito per le (sole) norme di fonte legislativa è chiaramente rappresentato dall'invio della questione alla Corte costituzionale, per le fonti subordinate alla legge la via non poteva che essere quella della disapplicazione da parte del giudice, ordinario o amministrativo, chiamato ad applicarle.

Nessuno ostacolo, in tal senso, può connettersi al disposto dell'art. 5 dell'Allegato E, sopra citato, recante la menzione del potere di disapplicazione in favore del solo giudice ordinario, dovendosi considerare che all'epoca il giudice amministrativo, appena abolito, non era ancora ricomparso sulla scena giudiziaria.

La svolta giurisprudenziale in parola non emerge dal nulla, ma rappresenta il portato, come generico influsso culturale, di quella rilevantissima innovazione che è stata la disapplicazione delle norme interne configgenti con il diritto comunitario (Cons. Stato, Sez. VI, n. 6657/2002 cit.), che proprio negli anni immediatamente precedenti la sentenza della svolta, era stato oggetto di complessa elaborazione da parte della Corte costituzionale (sentenze n. 170 del 1984 e n. 168 del 1991). La tematica della prevalenza delle fonti comunitarie, infatti, ha messo in evidenza il fenomeno del conflitto tra norme che non si traduce automaticamente nell'esigenza di un giudizio di invalidità per contrasto con la fonte sovraordinata, ma che, derivando dalla attrazione della materia disciplinata nell'area attribuita al diritto comunitario, e quindi sottratta alla legislazione nazionale, non richiede una pronuncia caducatoria in sede di impugnazione.

Può ricordarsi, infatti, che l'alto consesso, con la sentenza n. 168 del 1991, riguardante l'efficacia nell'ordinamento interno delle direttive sufficientemente dettagliate, ebbe a qualificare "non applicabile" la norma interna contrastante con esse, dichiarando inammissibile per irrilevanza la questione sollevata.

Una vicenda non molto diversa si produce quando il giudice amministrativo si trovi a dover applicare un regolamento che risulti configgente con norme di legge, e la norma regolamentare, o non sia stata impugnata, o, come nella specie, costituisca il fondamento della pretesa dedotta.

(3) Cons. Stato, Sez. V, 26 febbraio 1992, n. 154.

 

 

FATTO

Con la sentenza in epigrafe è stato respinto il ricorso proposto dal dr. Antonino Mangiapane, Segretario Generale del Comune di Perugia per l'accertamento del diritto all'indennità perequativa prevista dall'art. 51, comma 3, dello statuto comunale, o altro emolumento idoneo a garantire la preminenza del suo trattamento economico rispetto a quello degli altri dirigenti.

Il TAR ha ritenuto che la norma statutaria invocata, pur vigente, si pone in contrasto con disposizioni di rango sovraordinato che attribuiscono alla legge dello Stato la determinazione del trattamento economico del segretario comunale, e che, pertanto, la norma stessa doveva essere disapplicata dal giudice, in conformità ad un orientamento giurisprudenziale ormai affermato.

Il dr. Mangiapane ha proposto appello criticando la decisione e chiedendone la riforma.

Il Comune di Perugia resiste al gravame e ne chiede il rigetto.

Alla pubblica udienza dell'11 marzo 2003 la causa veniva trattenuta in decisione.

DIRITTO

Il primo mezzo di gravame si risolve nella contestazione del potere, esercitato dal primo giudice, di disapplicare l'atto normativo, nella specie lo statuto del comune, invocato dal ricorrente quale fondamento del diritto rivendicato, perché ritenuto contrastante con norme di rango legislativo.

Secondo l'appellante il TAR si sarebbero uniformato ad una isolata decisione della Sezione (19 settembre 1995 n. 1332) e non avrebbe tenuto conto dell'indirizzo giurisprudenziale prevalente, che si assume contrario all'attribuzione al giudice amministrativo del potere di disapplicare gli atti amministrativi a contenuto normativo che non abbiano formato oggetto di apposita impugnazione (ad es. Sez. V, 18 agosto 1997 n. 918).

In particolare si osserva che l'Amministrazione dispone del potere di annullamento di ufficio e che pertanto non sarebbe legittimata ad invocare in giudizio l'inapplicabilità di una norma che ben potrebbe rimuovere esercitando l'autotutela.

A tale riguardo è da osservare, in primo luogo, come il riconoscimento al giudice amministrativo del potere di disapplicazione si sia è andato progressivamente affermando nella giurisprudenza, sia con riferimento ad ipotesi di regolamenti illegittimi che sacrifichino posizioni soggettive di diritto o di interesse legittimo attribuite dalla legge (Sez. IV, 29 febbraio 1996 n. 222; Sez. VI. 12 aprile 2000, n. 2183; Sez. V, 30 ottobre 2002 n. 5972; Sez. VI, 5 dicembre 2002, n. 6657) sia con riguardo al caso, che qui interessa, di disposizione di rango regolamentare che attribuisca un diritto in contrasto con norme sovraordinate (oltre Sez. V, 9 settembre 1995, n. 1332, Sez. VI, 6 luglio 2000, n. 3789).

Va dato atto all'appellante che per un lungo periodo, a partire dai primi anni del secondo dopo guerra e fino al mutamento di indirizzo, inaugurato dalla sentenza della Sezione V 26 febbraio 1992 n. 154, la giurisprudenza del Consiglio di Stato era fermamente contraria alla disapplicazione dei regolamenti illegittimi, rilevanti per la definizione del giudizio ma non formanti oggetto di impugnazione. Le motivazioni, con diverse sfumature, si rifacevano al principio dispositivo che regge il processo amministrativo ed al dato normativo espresso dall'art. 5 della legge 20 marzo 1985 n. 2248, All. E, che riconosceva al solo giudice ordinario il potere di disapplicare i regolamenti se non conformi alle leggi.

Ma la dottrina non ha mai mancato di segnalare l'incongruenza di tali posizioni fino a che, con la richiamata sentenza n. 154 del 1992 si prese atto che "ogni ordinamento non può non prevedere un meccanismo invalidante delle norme di grado inferiore che sopraggiungano ed urtino contro precetti pozioni dell'ordinamento medesimo".

E poiché il meccanismo stabilito per le (sole) norme di fonte legislativa è chiaramente rappresentato dall'invio della questione alla Corte costituzionale, per le fonti subordinate alla legge la via non poteva che essere quella della disapplicazione da parte del giudice, ordinario o amministrativo, chiamato ad applicarle.

Nessuno ostacolo, in tal senso, poteva connettersi al disposto dell'art. 5 dell'Allegato E, sopra citato, recante la menzione del potere di disapplicazione in favore del solo giudice ordinario, dovendosi considerare che all'epoca il giudice amministrativo, appena abolito, non era ancora ricomparso sulla scena giudiziaria.

E' stato anche rilevato come la svolta giurisprudenziale in parola non emerga dal nulla, ma rappresenti il portato, come generico influsso culturale, di quella rilevantissima innovazione che è stata la disapplicazione delle norme interne configgenti con il diritto comunitario (Cons. St., Sez. VI, n. 6657/2002 cit.), che proprio negli anni immediatamente precedenti la sentenza della svolta, era stato oggetto di complessa elaborazione da parte della Corte costituzionale (sentenze n. 170 del 1984 e n. 168 del 1991).

La tematica della prevalenza delle fonti comunitarie, infatti, ha messo in evidenza il fenomeno del conflitto tra norme che non si traduce automaticamente nell'esigenza di un giudizio di invalidità per contrasto con la fonte sovraordinata, ma che, derivando dalla attrazione della materia disciplinata nell'area attribuita al diritto comunitario, e quindi sottratta alla legislazione nazionale, non richiede una pronuncia caducatoria in sede di impugnazione.

Può ricordarsi, infatti, che l'alto consesso, con la sentenza n. 168 del 1991, riguardante l'efficacia nell'ordinamento interno delle direttive sufficientemente dettagliate, ebbe a qualificare "non applicabile" la norma interna contrastante con esse, dichiarando inammissibile per irrilevanza la questione sollevata.

Una vicenda non molto diversa si produce quando il giudice amministrativo si trovi a dover applicare un regolamento che risulti configgente con norme di legge, e la norma regolamentare, o non sia stata impugnata, o, come nella specie, costituisca il fondamento della pretesa dedotta.

Con avviso del tutto condivisibile, infatti, la sent. n. 154/92 afferma che "al giudice amministrativo è consentito, anche in mancanza di richiesta delle parti, sindacare gli atti di normazione secondaria al fine di stabilire se essi abbiano attitudine, in generale, ad innovare l'ordinamento e, in concreto, a fornire la regola di giudizio per risolvere la questione controversa" (corsivo aggiunto).

Nulla impedisce infatti di ricostruire il conflitto della norma regolamentare con la fonte legislativa come un'ipotesi di invasione da parte del regolamento dell'area già coperta dalla disciplina posta dalla fonte a ciò competente, in analogia a quanto accade nel caso di normativa nazionale disponente su materia già dotata di diversa disciplina da parte della fonte comunitaria.

In entrambi i casi può prescindersi dalla proposizione e dalla celebrazione di una impugnazione tendente alla rimozione dell'atto che abbia debordato dalla sua sfera di competenza, essendo sufficiente accertare che la norma non è "idonea ad innovare" l'ordinamento sul punto e quindi non può essere applicata.

Nella fattispecie in esame non è seriamente dubitabile che l'invocata norma dello statuto comunale, in disparte la contraddittorietà intrinseca rappresentata dal richiamo alla disciplina legislativa del trattamento economico del segretario generale e la previsione di un trattamento integrativo, non costituiva fonte abilitata a disporre sulla materia.

Ed invero, appare non sostenibile che la legge n. 142 del 1990 abbia inteso attribuire tale area di intervento allo statuto nell'abito dello "ordinamento degli uffici" di cui all'art. 4 comma 2, quando al successivo art. 52, comma 2, ha richiamato il principio che il trattamento economico dei segretari comunali è regolato dalla legge, e al comma 5 ha ribadito che fino all'entrata in vigore dell'apposita legge si applica la disciplina vigente, che è di fonte legislativa (art. 25 del d.P.R. n. 749 del 1972).

La contestualità delle richiamate disposizioni, ad di là del problema teorico se possa definirsi come vera riserva di legge quella che non sia disposta dalla Costituzione, porta ad escludere che si sia inteso attribuire alla fonte statutaria la facoltà di innovare la disciplina vigente, che, oltre tutto, si colloca in linea di piena continuità con le fonti legislative anteriori, come ricordato dai primi giudici.

L'esistenza di una disciplina di diritto positivo, risultante da specifiche disposizioni normative, infine, esclude che il diritto del segretario comunale ad una integrazione stipendiale possa farsi discendere dai principi generali dell'adeguatezza della retribuzione alla quantità ed alla quantità del lavoro prestato, che dovrebbero sovrapporsi in via interpretativa, secondo l'assunto, alla legislazione vigente.

Ma è noto che il ricorso ai principi è ammissibile in caso di carenza di disciplina espressa della materia, non quando come nella specie sia disponibile ed applicabile una regolamentazione specifica.

In conclusione l'appello non può essere accolto.

La spese possono essere compensate.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Quinta, rigetta l'appello in epigrafe;

dispone la compensazione delle spese;

ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'Autorità Amministrativa.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio dell'11 marzo 2003 con l'intervento dei magistrati:

Emidio Frascione Presidente

Corrado Allegretta Consigliere

Goffredo Zaccardi Consigliere

Marco Lipari Consigliere

Marzio Branca Consigliere est.

L'ESTENSORE IL PRESIDENTE

f.to Marzio Branca f.to Emidio Frascione

Depositata in segreteria il 20 maggio 2003.

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