CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI - Sentenza 21 maggio 2001 n. 2807 - Pres. de Roberto - Est. de Nictolis - Ministero del lavoro e della previdenza sociale (Avv.ra G. Stato) c. Perugini (Avv. Arbia) - (conferma TAR Lazio, Sez. III bis, 21 ottobre 1998, n. 2813).
Pubblico impiego - Procedimento disciplinare - A seguito di condanna penale - Provvedimento disciplinare - Impugnazione al Collegio arbitrale - Decisione - Natura - Assimilabilità all'istituto ex art. 7 L. 300/70 - Arbitrato irrituale.
Pubblico impiego - Procedimento disciplinare - A seguito di condanna penale - Provvedimento disciplinare - Impugnazione al Collegio arbitrale - Decisione - Lodo irrituale - Ricorso - Giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo - Sussiste (per le questioni attinenti al periodo di lavoro anteriore al 30 giugno 1998)
Pubblico impiego - Procedimento disciplinare - A seguito di condanna penale - Provvedimento disciplinare - Impugnazione al Collegio arbitrale - Decisione - Ricorso - Motivi - Vizi che possano vulnerare ogni manifestazione di volontà negoziale.
Pubblico impiego - Procedimento disciplinare - A seguito di condanna penale - Provvedimento disciplinare - Impugnazione al Collegio arbitrale - Decisione - Ricorso - Motivi - Errore - Rileva quello attinente alla formazione della volontà degli arbitri - Errore di giudizio - Sindacato precluso.
Pubblico impiego - Procedimento disciplinare - A seguito di condanna penale - Provvedimento disciplinare - Impugnazione al Collegio arbitrale - Decisione - Ricorso - Motivi - Errore di diritto - Solo se essenziale e riconoscibile - Questioni di interpretazione - Inammissibilità.
La decisione del Collegio arbitrale di disciplina, in merito alle sanzioni disciplinari inflitte ai pubblici impiegati ex art. 59, co. 7, D. Lgs. 3 febbraio 1993, n. 29, non ha i requisiti per essere qualificata sentenza arbitrale, ma è invece in tutto assimilabile all'analogo istituto previsto dall'art. 7, L. 20 maggio 1970, n. 300 (statuto dei lavoratori) in tema di sanzioni disciplinari nei confronti di lavoratori subordinati privati che, secondo l'interpretazione corrente, contempla un arbitrato irrituale, impugnabile innanzi al giudice di primo grado. (1) Tale analogia sussiste anche in considerazione dell'intento che ha animato il D.Lgs. 29 del 1993, vale a dire la privatizzazione del pubblico impiego.
Per le questioni relative al periodo di lavoro anteriore al 30 giugno 1998, sussiste la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo anche se si controverte della impugnazione di un lodo irrituale emesso dal Collegio arbitrale di disciplina, in merito alle sanzioni disciplinari inflitte ai pubblici impiegati ex art. 59, co. 7, D. Lgs. 3 febbraio 1993, n. 29, atto di indiscussa natura privatistica.
Il lodo emesso in sede di arbitrato irrituale è impugnabile solo per i vizi che possano vulnerare ogni manifestazione di volontà negoziale (errore, violenza, dolo, incapacità delle parti che hanno conferito l'incarico o dell'arbitro stesso) (2)
In particolare, l'errore rilevante, a norma dell'art. 1428 c.c., è solo quello attinente alla formazione della volontà degli arbitri (e ricorrente quando questi abbiano avuto una falsa rappresentazione della realtà per non avere preso visione degli elementi della controversia o per averne supposti altri inesistenti ovvero per aver dato come contestati fatti pacifici o viceversa); mentre è preclusa ogni impugnativa per errori di giudizio, sia in ordine alla valutazione delle prove che in riferimento all'idoneità della decisione adottata a comporre la controversia. (3)
I lodi arbitrali irrituali sono impugnabili anche per errore di diritto, soltanto se l'errore degli arbitri, vertendo sulla esistenza o inesistenza di una norma giuridica, sia, oltre che essenziale, anche riconoscibile; non, invece, anche quando, traducendosi in una erronea interpretazione della norma medesima, non abbia i connotati della riconoscibilità. (nella specie, si contesta il fatto che il Collegio arbitrale non abbia ritenuto equiparabile la sentenza di patteggiamento a quella di condanna e per non avere ritenuto che l'amministrazione abbia compiuto una autonoma valutazione, in sede disciplinare, dei fatti oggetto del giudizio penale, tutte questioni di interpretazione - di soluzione, allo stato tutt'altro che pacifica).
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(1) Cfr. Cons. Stato, sez. VI, 23 settembre 1997, n. 1374.
(2) Cfr. Cass., sez. un., 8 agosto 1990, n. 8010.
(3) Cfr. Cass., sez. un., 8 agosto 1990, n. 8010; Cass. civ., sez. I, 10 marzo 1995, n. 2802; Cass., sez. I, 28 novembre 1992, n. 12725; Cass., sez. un., 26 gennaio 1988, n. 664.
FATTO E DIRITTO
1. Con decreto del Ministro del lavoro e della previdenza sociale 22 maggio 1997, n. 000191, veniva irrogata al Perugini Bruno, dipendente in servizio presso l'Ufficio provinciale di Roma dell'Ispettorato del lavoro quale collaboratore con la VII qualifica funzionale, la sanzione disciplinare del licenziamento senza preavviso, ai sensi dell'art. 25, co. 5, lettere a) ed e) del vigente C.C.N.L. del comparto ministeri, per avere lo stesso commesso fatti illeciti di rilevanza penale per i quali sia fatto obbligo di denuncia e per condanna passata in giudicato per delitti di cui all'art. 15, co. 1, lettere a), b), c), d), e), f), L. 19 marzo 1990, n. 55, e successive modificazioni.
1.1. Avverso il provvedimento disciplinare l'interessato proponeva ricorso al Collegio arbitrale di disciplina costituito ai sensi dell'art. 59, D.Lgs. 3 febbraio 1993, n. 29, con atto del 29 maggio 1997.
Con lodo arbitrale depositato il 23 luglio 1997 il Collegio arbitrale accoglieva il ricorso, ritenendo inapplicabile alla fattispecie l'art. 25, lettere a) e c) del C.C.N.L., in quanto l'intervenuta sentenza di patteggiamento non equivale a sentenza di condanna e i gravi fatti illeciti non possono ritenersi provati solo in base alla sentenza di patteggiamento.
2. Il Ministero del lavoro e della previdenza sociale impugnava il lodo arbitrale con ricorso al T.A.R. del Lazio, notificato il 23 ottobre 1997, lamentando la violazione e falsa applicazione dell'art. 25, co. 5, del C.C.N.L., e degli artt. 444 e 445 c.p.p., in quanto il licenziamento senza preavviso è ammesso in caso di condanna penale per il delitto di concussione, contestato al Perugini, e in quanto la sentenza penale di patteggiamento deve ritenersi equiparata a quella di condanna; inoltre l'amministrazione, in sede disciplinare, avrebbe compiuto una valutazione dei fatti autonoma rispetto a quella operata dal giudice penale.
2.1. Parte resistente si costituiva innanzi al T.A.R., eccependo la inammissibilità del ricorso, il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo, la infondatezza del ricorso nel merito.
2.2. Il giudice adito, con la sentenza in epigrafe:
- qualificava il lodo come irrituale, e come tale impugnabile con gli stessi limiti delle transazioni, ai sensi dell'art. 2113 cod. civ., sia con l'impugnazione di cui al combinato disposto dell'art. 5, L. n. 533 del 1973 e dell'art. 2113 cod. civ., sia con l'azione di nullità (art. 1418 cod. civ.), sia con l'azione di annullamento per incapacità delle parti o degli arbitri (art. 1425 cod. civ.), o per vizi del consenso (art. 1427 ss. cod. civ.), con particolare riguardo all'errore sostanziale o essenziale, restando invece esclusa ogni forma di impugnazione per errore di giudizio - in ordine alla valutazione delle prove o alla opportunità delle decisioni in concreto adottate dagli arbitri - o di diritto;
- dichiarava il ricorso inammissibile perché volto a far valere errori di giudizio o di diritto.
3. Avverso tale sentenza ha proposto appello il Ministero del lavoro e della previdenza sociale, osservando che con il ricorso di primo grado non venivano dedotti errores in judicando, bensì il vero e proprio vizio del consenso che palesemente inficiava la determinazione degli arbitri per avere questi ignorato un elemento di fatto essenziale.
Sussistevano perciò tutti i presupposti per l'annullamento del lodo arbitrale per vizi del consenso.
3.1. Si è costituito l'appellato, deducendo l'infondatezza dell'appello e riproponendo l'eccezione di difetto di giurisdizione del giudice amministrativo, già sollevata in prime cure e non esaminata dal T.A.R.
4. Il Collegio ritiene pregiudiziale l'esame dell'eccezione di difetto di giurisdizione del giudice amministrativo.
4.1. L'art. 59, co. 7, D.Lgs. 3 febbraio 1993, n. 29, prevede che le sanzioni disciplinari inflitte ai pubblici impiegati possono essere impugnate dinanzi al Collegio arbitrale di disciplina dell'amministrazione di appartenenza.
La legge tuttavia nulla dice in ordine ai mezzi di impugnazione della decisione del Collegio arbitrale di disciplina.
4.2. La decisione del Collegio arbitrale di disciplina non ha i requisiti per essere qualificata sentenza arbitrale, ma è invece in tutto assimilabile all'analogo istituto previsto dall'art. 7, L. 20 maggio 1970, n. 300 (statuto dei lavoratori) in tema di sanzioni disciplinari nei confronti di lavoratori subordinati privati (C. Stato, sez. VI, 23 settembre 1997, n. 1374).
Anche avverso le sanzioni disciplinari irrogate a lavoratori privati è ammissibile il ricorso ad un collegio di conciliazione e arbitrato.
Secondo la interpretazione corrente, l'art. 7, statuto dei lavoratori contempla un arbitrato irrituale, e il relativo lodo è impugnabile innanzi al giudice del lavoro, giudice di primo grado, e non innanzi al giudice di appello, come avverrebbe se si trattasse di arbitrato rituale (arg. da Pret. Milano, 16 agosto 1983; Pret. Modena, 13 ottobre 1989; Pret. Salerno, 8 settembre 1993; Pret. Roma, 14 febbraio 1995).
L'analogia tra l'istituto di cui all'art. 59, D.Lgs. n. 29 del 1993 e quello di cui all'art. 7, statuto lavoratori sussiste non solo in considerazione della formulazione pressoché identica delle due norme, ma anche in considerazione dell'intento che ha animato il D.Lgs. n. 29 del 1993, vale a dire la privatizzazione del pubblico impiego.
L'obiettivo della privatizzazione è perseguito anche attraverso la previsione dell'attribuzione alla giurisdizione del giudice ordinario delle controversie in materia di pubblico impiego (art. 68, D.Lgs. n. 29 del 1993, come novellato dall'art. 29, D.Lgs. 31 marzo 1998, n. 80, e art. 45, co. 17, D.Lgs. n. 80 del 1998).
4.3. Il lodo arbitrale irrituale emesso dal Collegio arbitrale di disciplina è dunque un atto di natura privatistica, che riposa sulla volontà delle parti, in relazione al quale occorre stabilire se abbia giurisdizione il giudice amministrativo o quello ordinario.
Va rilevato che solo per le controversie di pubblico impiego <<relative a questioni attinenti al periodo del rapporto di lavoro successivo al 30 giugno 1998>> sussiste la giurisdizione del giudice ordinario (art. 45, co. 17, D.Lgs. n. 80 del 1998).
Nel caso di specie, la controversia è di epoca anteriore, vertendo sul lodo arbitrale emesso il 23 luglio 1997, ed essendo il ricorso al T.A.R. stato proposto con atto notificato il 23 ottobre 1997.
Per le controversie relative al periodo del rapporto di pubblico impiego anteriore al 30 giugno 1998, vi è la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.
La giurisdizione, proprio perché esclusiva, investe sia qualunque atto che incida sul rapporto di impiego, sia esso pubblicistico o paritetico, sia, in termini più ampi, il rapporto di impiego, a prescindere dalla esistenza o meno di un atto amministrativo.
Per le questioni relative al periodo di lavoro anteriore al 30 giugno 1998, sussiste perciò la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo anche se si controverta della impugnazione di un lodo irrituale, atto di indiscussa natura privatistica.
A sostegno di tale soluzione deve osservarsi:
- nell'ambito della giurisdizione esclusiva sono ammesse le azioni di accertamento e di condanna, ed è ammessa l'impugnazione di atti paritetici, a riprova dell'affermazione che si tratta di giurisdizione sul rapporto, non circoscritta al mero annullamento di un provvedimento amministrativo;
- l'estensione della giurisdizione esclusiva alla cognizione del rapporto, anche senza la mediazione di un atto amministrativo in senso stretto, trova conferma positiva nell'art. 34, D.Lgs. 31 marzo 1998, n. 80, che, nell'attribuire al giudice amministrativo la giurisdizione esclusiva in materia di urbanistica e di edilizia, afferma espressamente che la stessa verte non solo su atti e provvedimenti, ma anche su <<comportamenti>> della pubblica amministrazione;
- il legislatore ha riconosciuto la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, oltre che sui provvedimenti amministrativi, sui negozi giuridici tra privati e amministrazione, determinativi del contenuto di provvedimenti, o sostitutivi degli stessi (art. 11, L. 7 agosto 1990, n. 241): e la decisione del Collegio arbitrale di disciplina, che, quale lodo irrituale, ha natura di negozio giuridico fondato sulla volontà delle parti, si inserisce a pieno titolo nella logica di una <<amministrazione per accordi>>, in cui i conflitti di interessi tra pubblico e privato vengono risolti con strumenti negoziali.
5. Affermata, dunque, la giurisdizione del giudice amministrativo sulla presente controversia, occorre esaminare la questione della ammissibilità o meno di una impugnazione del lodo arbitrale irrituale volta a dedurre errori di giudizio o di diritto.
5.1. Giova premettere che nell'arbitrato irrituale le parti conferiscono ad arbitri l'incarico di determinare il contenuto sostanziale di un accordo per la composizione di una lite tra loro insorta, sostituendosi ad esse nel fissare un regolamento negoziale, destinato ad assumere il valore di una loro diretta manifestazione di volontà: ciò comporta la natura negoziale sia dell'arbitrato irrituale, che del lodo emesso in esito allo stesso.
Ne consegue che il lodo emesso in sede di arbitrato irrituale è impugnabile solo per i vizi che possano vulnerare ogni manifestazione di volontà negoziale (errore, violenza, dolo, incapacità delle parti che hanno conferito l'incarico o dell'arbitro stesso) (Cass., sez. un., 8 agosto 1990, n. 8010).
5.2. In particolare, l'errore rilevante deve presentare, a norma dell'art. 1428 c.c. i requisiti della essenzialità e della riconoscibilità e vertere su taluno degli elementi indicati nell'art. 1429 c.c., che le parti abbiano debitamente prospettato agli arbitri stessi; dunque l'errore rilevante è solo quello attinente alla formazione della volontà degli arbitri e ricorrente quando questi abbiano avuto una falsa rappresentazione della realtà per non avere preso visione degli elementi della controversia o per averne supposti altri inesistenti ovvero per aver dato come contestati fatti pacifici o viceversa; mentre è preclusa ogni impugnativa per errori di giudizio, sia in ordine alla valutazione delle prove che in riferimento all'idoneità della decisione adottata a comporre la controversia (Cass., sez. un., 8 agosto 1990, n. 8010; Cass. civ., sez. I, 10 marzo 1995, n. 2802; Cass., sez. I, 28 novembre 1992, n. 12725; Cass., sez. un., 26 gennaio 1988, n. 664).
Deve dunque senz'altro escludersi la impugnabilità del lodo arbitrale per errori di giudizio, cioè errori di valutazione dei fatti, ferma restando l'esatta rappresentazione degli stessi.
5.3. Quanto agli errori di diritto, giova osservare che gli stessi non sono del tutto irrilevanti, ai sensi dell'art. 1429 cod. civ., quale causa di annullamento degli atti negoziali: e, invero, l'art. 1429, n. 4, considera essenziale, e dunque possibile causa di annullamento del negozio, l'errore di diritto che sia <<stato la ragione unica o principale del contratto>>; l'errore di diritto, poi, oltre che determinante, deve essere riconoscibile dall'altro contraente (art. 1428 cod. civ.).
L'errore di diritto rilevante quale vizio del consenso è quello che si traduce in una erronea rappresentazione dei fatti a causa di una erronea premessa giuridica.
Si tratterà, di regola, di errore sulla esistenza o inesistenza di una norma giuridica, e non di un errore di interpretazione e valutazione della portata della norma medesima.
Ciò in quanto ai sensi del combinato disposto dell'art. 1428 e dell'art. 1429 c.c. l'errore quale vizio del consenso deve essere non solo essenziale, ma anche riconoscibile. E sono di regola riconoscibili gli errori di rappresentazione, che hanno carattere oggettivo, e dunque sono percepibili anche dai terzi, e non anche gli errori di valutazione e di apprezzamento, che implicano valutazioni strettamente soggettive, non sempre percepibili dai terzi.
5.4. In sintesi, l'errore rilevante come vizio del consenso, sia esso di fatto o di diritto, è quello che verte sulla esistenza o inesistenza, e non sulla valutazione o interpretazione, rispettivamente, di fatti e norme giuridiche.
L'errore di diritto, per essere rilevante, deve essere, oltre che essenziale, anche riconoscibile, e ciò si verifica di regola ove si tratti di errore sulla esistenza o inesistenza della norma, e non anche ove si tratti di errore di interpretazione (argomenta da Cass. civ., sez. lav., 29 agosto 1996, n. 7629; Cass. civ., sez. II, 1 marzo 1995, n. 2340; Cass. civ., sez. un., 8 gennaio 1981, n. 180)
5.5. Tanto premesso, deve perciò consentirsi una limitata impugnabilità dei lodi arbitrali irrituali anche per errore di diritto: ma solo quando l'errore degli arbitri, vertendo sulla esistenza o inesistenza di una norma giuridica, sia, oltre che essenziale, anche riconoscibile; non, invece, anche quando, traducendosi in una erronea interpretazione della norma medesima, non abbia i connotati della riconoscibilità.
5.6. Nel caso di specie, il ricorso dell'amministrazione avverso il lodo arbitrale deduce l'errore di diritto per non avere il Collegio arbitrale ritenuto equiparabile la sentenza di patteggiamento a quella di condanna e per non avere ritenuto che l'amministrazione abbia compiuto una autonoma valutazione, in sede disciplinare, dei fatti oggetto del giudizio penale.
Ma in tal modo vengono dedotti errori di giudizio, ed errori di diritto vertenti non già sulla esistenza o inesistenza di norme giuridiche, ma sulla interpretazione delle stesse.
E' infatti questione di interpretazione - di soluzione, allo stato, tutt'altro che pacifica - stabilire se la sentenza penale di patteggiamento possa essere o meno equiparata a quella di condanna ai fini del successivo procedimento disciplinare (confronta, per diverse opinioni sull'argomento: C. Stato, sez. IV, 26 gennaio 1999, n. 76; C. Stato, comm. spec. pubblico impiego, 13 luglio 1998, n. 487), ed è questione di interpretazione stabilire se l'amministrazione abbia o meno compiuto una autonoma e sufficiente valutazione, in sede disciplinare, dei fatti oggetto del processo penale.
6. Per quanto esposto, l'appello va respinto.
Sussistono tuttavia giusti motivi, stante la novità delle questioni, per compensare integralmente tra le parti le spese e gli onorari del presente grado di giudizio.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (sezione sesta), definitivamente pronunciando sul ricorso in epigrafe, lo respinge.
Compensa interamente tra le parti le spese, i diritti e gli onorari di lite.
Ordina che la pubblica amministrazione dia esecuzione alla presente decisione.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 27 febbraio 2001, con la partecipazione di:
Alberto de Roberto - Presidente
Calogero Piscitello - Consigliere
Luigi Maruotti - Consigliere
Giuseppe Romeo - Consigliere
Rosanna De Nictolis - Cons. rel. ed est.
Depositata il 21 maggio 2001.