CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI - Sentenza 8 maggio 2001 n. 2568 - Pres. Giovannini, Est. Garofoli - Ministero della Pubblica Istruzione (Avv.ra Stato) c. Scotto (Avv.ti Mancino e Romolo).
Pubblico impiego - Sospensione cautelare dal servizio - Computabilità del periodo nel caso di sentenza di condanna non seguita da procedimento disciplinare - Rimessione della questione all'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato.
Va rimessa alla decisione dell'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato la determinazione del regime giuridico applicabile all'ipotesi di sospensione cautelare dal servizio di un pubblico impiegato correlata alla pendenza di procedimento penale poi conclusosi con sentenza di condanna, cui non abbia fatto seguito l'attivazione del procedimento disciplinare.
per l'annullamento
della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Veneto, Sez. II, n.1094 del 16.6.1998;
Visto il ricorso con i relativi allegati;
Visto l'atto di costituzione in giudizio dell'appellato;
Viste le memorie prodotte dalle parti a sostegno delle rispettive difese;
Visti gli atti tutti della causa;
Alla pubblica udienza del 19 dicembre 2000 relatore il Consigliere Roberto Garofoli. Udito l'avv. De Socio;
Ritenuto e considerato in fatto e in diritto quanto segue:
FATTO
1. Il prof. Scotto, docente di ruolo nella scuola media superiore, era sospeso cautelarmente dal servizio ex art. 91, d.p.r. n. 3/57: nel dettaglio, l'attuale resistente, sottoposto a procedimento penale per detenzione illegale di sostanze stupefacenti ed ivi assoggettato alla misura custodiale carceraria, era sospeso dall'amministrazione dapprima in via obbligatoria con effetto a far data dal 12.5.1986, poi in via facoltativa dal 19.10.1987 al 27.1.1992.
Riconosciuto colpevole del reato ascrittogli e condannato alla pena, condonata in base al D.P.R. n. 394/90, di anni uno e mesi quattro di reclusione e lire tre milioni di multa con sentenza del 19.4.1991, il prof. Scotto veniva riammesso in servizio con decorrenza 7.2.1992, senza che fosse attivato nei suoi confronti procedimento disciplinare.
In data 28.3.1996, il prof. Scotto - dopo aver già visto rigettata con atto del Ministero della pubblica Istruzione del 7.5.1993 la propria domanda di liquidazione delle quote di stipendio non pagate durante il periodo di sospensione cautelare - presentava istanza di dimissioni volontarie dal servizio, accolta dall'Amministrazione con effetto dal 1.9.1996.
In sede di ricostruzione dei profili contributivi ai fini del trattamento pensionistico e della liquidazione dell'indennità di buona uscita, il Provveditorato agli Studi comunicava, con atto del 14.1.1997, la non computabilità del periodo trascorso in sospensione cautelare: periodo determinante per il raggiungimento dell'anzianità necessaria alla maturazione del diritto alla pensione.
2. Con ricorso n. 1195/97 proposto dinanzi al T.A.R. del Veneto, il prof. Scotto ha chiesto l'annullamento del decreto del Provveditore agli Studi di Venezia del 6.9.1996, n. 18889, di ricostruzione della posizione giuridica ed economica ai fini del trattamento di quiescenza, nonché dell'atto dello stesso Provveditore in data 21.1.1997, n. 7191, recante il progetto di liquidazione dell'indennità di buonuscita; ha chiesto, inoltre, l'accertamento del diritto alla ricostruzione economica e previdenziale della carriera per il periodo di sospensione cautelare dal servizio, con conseguente condanna dell'Amministrazione al pagamento dell'intero trattamento di fine servizio.
Con sentenza n. 1049/98, il T.A.R. Veneto ha parzialmente accolto il ricorso annullando gli atti impugnati e dichiarando il diritto del ricorrente alla ricostruzione della sua posizione giuridica ed economica, anche agli effetti pensionistici e del trattamento di fine rapporto, per l'intera durata del periodo di sospensione cautelare, eccettuato quello (dal 12.5.1986 al 16.7.1986) durante il quale il ricorrente è stato sottoposto a misura custodiale carceraria disposta in seno al procedimento penale e conseguentemente a sospensione cautelare obbligatoria dal servizio ex art. 91, D.P.R. n. 3/57.
Con il gravame in esame, il Ministero della Pubblica Istruzione, ribadita l'eccezione di difetto di giurisdizione del Giudice amministrativo, già proposta in primo grado, ha chiesto nel merito la riforma della suindicata sentenza ed il rigetto del ricorso di primo grado.
Si è costituito il prof. Scotto, eccependo la tardività dell'appello e ribadendo le censure formulate nel precedente grado di giudizio.
3. Alle udienze del 19 dicembre 2000 e del 3 aprile 2001, la causa è stata ritenuta per la decisione.
DIRITTO
1. Va preliminarmente disattesa l'eccezione di tardività del presente gravame, formulata dalla difesa dell'appellato.
Ed invero, la sentenza del T.A.R. Veneto, notificata al Provveditorato agli Studi di Venezia in data 4 giugno 1999, risulta appellata con ricorso notificato il 20 settembre 1999, ossia l'ultimo giorno utile per proporre il gravame considerato il periodo di sospensione feriale dei termini processuali.
2. Va respinta, inoltre, l'eccezione di difetto di giurisdizione, già scrutinata e superata dal Giudice di prime cure, ma riproposta dall'odierno appellante.
Nel ribadire le argomentazioni al riguardo sviluppate nella sentenza appellata, giova rilevare che va ricondotta nell'alveo della precedente giurisdizione esclusiva del Giudice amministrativo la controversia insorta per l'accertamento del diritto del pubblico impiegato ad un maggiore trattamento retributivo, anche quando siffatta verifica sia funzionale alla modifica della base di calcolo del trattamento pensionistico.
La giurisdizione del Giudice amministrativo va riconosciuta, infatti, allorché sussista un nesso d'intima connessione tra la pretesa azionata e il rapporto d'impiego, nesso in presenza del quale le invocate implicazioni afferenti al trattamento pensionistico costituiscono una mera conseguenza della cognizione avente ad oggetto principale lo stesso rapporto.
E' quanto può sostenersi con riferimento alla vicenda processuale in esame nella quale il ricorrente in primo grado ha chiesto l'annullamento del decreto del Provveditore agli Studi di Venezia di ricostruzione della posizione giuridica ed economica ai fini del trattamento di quiescenza, nonché l'accertamento del diritto alla restitutio in integrum, anche ai fini previdenziali, per il periodo di sospensione cautelare dal servizio.
La controversia trae spunto, quindi, da una pretesa che, pur riguardando il trattamento pensionistico, richiede, per la sua soluzione, la diretta cognizione da parte del Giudice adito di profili afferenti al rapporto d'impiego e alla sussistenza e consistenza delle reciproche obbligazioni delle parti contrattuali durante un determinato periodo di svolgimento dello stesso: come tale, la vertenza rientra nei confini della pregressa giurisdizione esclusiva del Giudice amministrativo.
3. Quanto al merito, l'oggetto centrale della presente controversia è costituito dalla verifica del regime giuridico applicabile all'ipotesi, di non rara evenienza, di sospensione di pubblico impiegato correlata alla pendenza di procedimento penale poi conclusosi con sentenza di condanna, cui non faccia seguito l'attivazione del procedimento disciplinare: la soluzione di tale profilo risulta determinante in sede di definizione della vicenda, posto che, proprio sulla base della ritenuta non computabilità del periodo trascorso in sospensione cautelare dal servizio, l'Amministrazione ha proceduto alla contestata ricostruzione del trattamento giuridico ed economico dell'odierno appellato ai fini del trattamento di quiescenza.
L'Amministrazione ha ritenuto, quindi, di non poter tener conto - nel verificare la sussistenza del diritto del prof. Scotto al trattamento pensionistico - dell'intero periodo durante il quale lo stesso è stato sottoposto a sospensione cautelare: ciò evidentemente sul presupposto, peraltro corretto, secondo cui gli assegni dovuti al dipendente sospeso cautelarmente, aventi natura non già retributiva, ma assistenziale, non possono essere assoggettati a contribuzione previdenziale.
3.1. Con la sentenza impugnata, il Giudice di primo grado - per vero non prendendo in considerazione i più recenti orientamenti del Consiglio di Stato (cfr., in particolare, Ad. Plen., 16 giugno 1999, n. 15), nonché quelli, ancor più recenti, seguiti da altri Giudici amministrativi periferici (da ultimo, T.A.R. Puglia, sez. I, 31 marzo 2000, n. 1268)- ha affermato che il dipendente sospeso per effetto della pendenza di procedimento penale, nei cui confronti, dopo la definitiva condanna, non sia stato tempestivamente attivato il procedimento disciplinare, deve essere considerato in servizio nel periodo di sospensione e rimesso in integrum nello stato giuridico ed economico; ciò sul rilievo per cui "la sentenza penale in sé non estingue il sinallagma lavorativo, salvo il periodo di restrizione della libertà personale dovuto a misure di custodia cautelare durante la sospensione obbligatoria".
Sulla base di siffatte premesse ricostruttive, il T.A.R. Veneto, preso atto della mancata instaurazione nel caso di specie del procedimento disciplinare a carico del prof. Scotto, ha concluso affermando il diritto di quest'ultimo alla ricostruzione della posizione giuridica ed economica, anche agli effetti pensionistici e del trattamento di fine rapporto, per l'intero periodo di sospensione cautelare (dal 12.5.1986 al 27.1.1992), eccettuato quello (dal 12.5.1986 al 16.7.1986) durante il quale il ricorrente è stato sottoposto a misura custodiale carceraria disposta in seno al procedimento penale e, conseguentemente, a sospensione cautelare obbligatoria dal servizio ex art. 91, D.P.R. n. 3/57.
Secondo l'avviso del Giudice di prima istanza, quindi, il dipendente pubblico, condannato con sentenza passata in giudicato, ma mai sottoposto a procedimento disciplinare, ha diritto alla ricostruzione della posizione giuridica ed economica per l'intero periodo di sospensione cautelare -come noto avente una durata massima di cinque anni (art. 9, co. 2, l. n. 19/90)- escluso il periodo corrispondente alla sospensione cui l'Amministrazione è tenuta per effetto della sottoposizione del dipendente stesso a misura restrittiva della libertà personale: la ricostruzione spetterebbe, quindi, ad onta dell'intervenuta condanna penale e, per quel che attiene al quantum, anche per il periodo corrispondente alla pena inflitta con la stessa.
Si tratta di assunto, ad avviso del Collegio, inaccettabile, non solo alla stregua delle più recenti opzioni ermeneutiche sul punto abbracciate dal Consiglio di Stato (cfr., Ad. Plen., 16 giugno 1999, n. 15), ma anche e soprattutto sulla base di un più complessivo ripensamento dei profili giuridici coinvolti nella presente vicenda: rivisitazione che consiglia, come si dirà, una nuova rimessione della questione all'Adunanza plenaria.
4. E' opportuno prendere le mosse dalla ricostruzione del quadro normativo di riferimento, costituito, ratione temporis acti, dagli artt. 91-92 e 96-97 del T.U. degli impiegati civili dello Stato: giova solo osservare che, con riferimento alla specifica problematica portata all'attenzione del Collegio, il panorama normativo, ora innovato per effetto della sopravvenuta contrattualizzazione della complessiva materia (art. 27, C.C.N.L. Ministeri del 16 maggio 1995), non sembra offrire soluzioni differenti da quelle prospettate dalle citate disposizioni del D.P.R. n. 3/57 (nel senso della riscontrabilità di un parallelismo normativo, oltre che interpretativo, tra le due discipline cfr., del resto, il parere della Commissione speciale per il pubblico impiego del 13 luglio 1998, n. 402).
5. Come è noto, il D.P.R. n. 3/57 prevede due ipotesi di sospensione cautelare dal servizio dell'impiegato pubblico: quella dipendente dalla sottoposizione a procedimento penale e quella connessa all'attivazione, ancorché non ancora disposta, di procedimento disciplinare.
La prima delle due fattispecie è contemplata dall'art. 91 che ha riguardo, a sua volta, a due distinte ipotesi.
Da un lato, la sospensione dal servizio è prevista come obbligatoria allorché il pubblico impiegato sia colpito, nell'ambito del procedimento penale intrapreso nei suoi confronti, da misura cautelare restrittiva della libertà personale; al di fuori di questo caso, la sospensione può, e non deve, essere disposta dall'Amministrazione quando "la natura del reato sia particolarmente grave".
Senza anticipare le conclusioni cui il Collegio ritiene di pervenire all'esito dell'interpretazione sistematica della complessiva disciplina, può sin d'ora sostenersi che il citato art. 91 configura una tipica misura cautelare, collegata alla pendenza di un'accusa penale nei confronti del pubblico dipendente: misura in un caso doverosa, nell'altro rimessa alla discrezionale e sindacabile valutazione dell'Amministrazione, cui spetta verificare, non certo la probabile addebitabilità del fatto al dipendente, bensì soltanto la particolare gravità dello stesso e, pertanto, la potenzialità lesiva che la permanenza nell'ufficio dell'impiegato presenta in termini di credibilità dello stesso apparato amministrativo presso il pubblico.
E' appena il caso di sottolineare, a tale ultimo riguardo, che la disposizione in esame - nell'indicare il parametro alla stregua del quale l'Amministrazione deve determinarsi in merito alla sospensione cautelare del dipendente sottoposto in stato di libertà a procedimento penale - fa riferimento alla particolare gravità della "natura del reato", non già degli indizi da cui lo stesso è raggiunto: l'Amministrazione è chiamata, quindi, a verificare la sussistenza o meno del periculum in mora derivante dalla permanenza nell'ufficio dell'impiegato sottoposto a procedimento penale per fattispecie particolarmente grave, non anche ad effettuare una penetrante prognosi di probabile colpevolezza dello stesso, cui è invece subordinata l'applicazione delle misure cautelari demandate al giudice penale (art. 273 c.p.p.).
Diversa è l'ipotesi contemplata dal successivo art. 92, D.P.R. n. 3/57, che, sotto la rubrica "Sospensione cautelare facoltativa", fa riferimento alla sospensione disposta, per gravi motivi, indipendentemente dalla pendenza del procedimento penale, nella prospettiva quindi del procedimento disciplinare: il rapporto di intima connessione, se non di vera e propria propedeuticità, tra la misura sospensiva in questione e il procedimento disciplinare traspare dalla disposizione del secondo comma del citato art. 92, a tenore della quale "la sospensione disposta prima dell'inizio del procedimento disciplinare è revocata e l'impiegato ha diritto alla riammissione in servizio ed alla corresponsione degli assegni non percepiti, escluse le indennità o compensi per servizi e funzioni di carattere speciale o per prestazioni di carattere straordinario, se la contestazione degli addebiti, ai sensi del secondo comma dell'art. 103, non ha luogo entro quaranta giorni dalla data in cui è stato comunicato all'impiegato, nelle forme dell'art. 104, il provvedimento di sospensione".
Il quadro normativo è completato dagli artt. 96 e 97 dello stesso Testo unico degli impiegati civili.
Il primo prevede lo scomputo della sospensione sanzionatoria disposta a conclusione del procedimento disciplinare dalla sospensione cautelare sofferta in precedenza dal dipendente e la ricostituzione, dedotto l'assegno alimentare, della posizione economica relativa al periodo eccedente la misura sanzionatoria ovvero all'intero periodo di sospensione cautelare allorché vi sia stato proscioglimento disciplinare o irrogazione di sanzione meno grave.
Il successivo art. 97, invece, si occupa dell'ipotesi in cui la sospensione cautelare sia stata disposta per effetto della pendenza di procedimento penale, alla stregua, dunque, dell'illustrato art. 91: nel modulare gli effetti di siffatta tipologia di sospensione cautelare in considerazione degli esiti del processo penale, l'art. 97 prende in considerazione la sola ipotesi in cui quest'ultimo si sia concluso con pronuncia assolutoria.
Nel dettaglio, la disposizione distingue a seconda della formula di assoluzione pronunciata in sede penale.
Ed invero, nel caso di formula assolutoria piena, implicante l'accertamento dell'insussistenza del fatto originariamente contestato al pubblico dipendente ovvero della non attribuibilità allo stesso, il primo comma dell'art. 97 riconosce il diritto dell'impiegato alla revoca della sospensione cautelare e alla conseguente corresponsione degli assegni non percepiti, escluse le indennità per servizi e funzioni di carattere speciale o per prestazioni di lavoro straordinario e salva deduzione dell'assegno alimentare eventualmente corrisposto.
Nella diversa ipotesi in cui il procedimento penale si conclude con sentenza, pur sempre di proscioglimento o di assoluzione, ma recante formula meno favorevole per il dipendente, il secondo comma dello stesso art. 97 dispone, invece, che la sospensione cautelare può essere mantenuta purché sia ritualmente e tempestivamente iniziato a carico dell'impiegato procedimento disciplinare.
Resta sguarnita di esplicita previsione normativa l'ipotesi, dedotta nella presente vicenda processuale, in cui il procedimento penale in relazione al quale è stata disposta, ai sensi dell'art. 91, T.U. imp. civ., la sospensione cautelare, si concluda con sentenza di condanna, anziché di proscioglimento o assoluzione.
Orbene, siffatto deficit di esplicita disciplina normativa ha dato adito ad un vivace dibattito dottrinale e giurisprudenziale che è opportuno ricostruire nelle sue tappe salienti, non trascurando di cogliere le coordinate teoriche di fondo sottese a ciascuno dei differenti indirizzi ermeneutici: coordinate afferenti alla natura e alla funzione della sospensione cautelare dal servizio, oltre che alle peculiarità destinate a connotare il nesso intercorrente tra le succitate previsioni di cui al testo unico sugli impiegati civili dello Stato.
6. In via di estrema sintesi, è possibile distinguere tre orientamenti maturati in ambito giurisprudenziale.
6.1. Alla stregua di una prima opzione ricostruttiva, per vero ormai superata dalla citata Ad. Plen. 16 giugno 1999, n. 15, la pendenza del procedimento penale e, per quel che più conta, l'esito dello stesso sono da considerare del tutto irrilevanti in sede di soluzione del problema afferente al regime cui sottoporre la posizione giuridica ed economica del dipendente cautelarmente sospeso ex art. 97, D.P.R. n. 3/57.
Nel dettaglio, la pronuncia penale di condanna è del tutto inidonea a dispiegare effetti sul provvedimento amministrativo di sospensione cautelare, dovendo attendersi in ogni caso le successive determinazioni assunte nella distinta sede disciplinare: con l'ulteriore conseguenza per cui il mancato inizio ovvero l'estinzione del procedimento disciplinare implica la decadenza con efficacia retroattiva della disposta sospensione cautelare ed il consequenziale diritto del dipendente alla piena restitutio in integrum.
Sullo sfondo di siffatto indirizzo interpretativo vi è una peculiare ricostruzione teorica dei rapporti intercorrenti tra gli artt. 96 e 97 del Testo unico degli impiegati civili dello Stato e, conseguentemente, della natura e della funzione ascrivibili alla misura della sospensione cautelare dal servizio, ancorché disposta per effetto della pendenza di procedimento penale ai sensi dell'art. 91, D.P.R. n. 3/57.
Nel dettaglio, l'assunto di fondo da cui muove l'indirizzo che si esamina è quello secondo cui non vi deve essere differenziazione alcuna tra i titoli della sospensione cautelare, agli effetti sia della compensazione dei tempi con la sanzione disciplinare successivamente irrogata all'esito del relativo procedimento, sia della necessità della restitutio economica per il periodo rimasto non coperto dalla sanzione sospensiva: soluzione, questa, che fa leva sulla ritenuta portata generale della previsione di cui al citato art. 96, asseritamente inidoneo a giustificare in via interpretativa ricostruzioni differenziate delle singole tipologie di sospensione cautelare.
La centralità che tale premessa teorica assume nella ricostruzione dei profili giuridici della questione consiglia un maggiore impegno esplicativo.
Secondo i fautori di tale primo indirizzo interpretativo, la sospensione cautelare presenterebbe sempre la medesima natura giuridica e un'identica connotazione funzionale a prescindere dal fatto che per la relativa regolamentazione debba farsi riferimento all'art. 96 o al successivo art. 97.
Il rapporto tra le due citate disposizioni andrebbe ricostruito in termini di specialità, non già di alternatività: rispetto alla prima delle due disposizioni che, senza distinguere tra le varie tipologie di sospensione cautelare, assumerebbe portata generale, la seconda si connoterebbe per il solo fatto (ritenuto tuttavia ininfluente ai fini della individuazione del regime giuridico applicabile) di avere riguardo all'ipotesi di sospensione disposta per effetto della pendenza di procedimento penale a carico del dipendente.
Siffatta peculiarità, tuttavia, non sarebbe di per sé sufficiente ad alterare la natura ontologicamente unitaria della misura in questione, destinata comunque a presentare identica struttura e unica funzione.
Ed invero, premessa teorica di fondo della tesi interpretativa che si analizza è quella secondo cui la sospensione cautelare sia in ogni caso, anche quando disposta per effetto della pendenza del procedimento penale, una misura provvedimentale di tipo strumentale rispetto agli esiti del procedimento disciplinare, di cui anticipa, per così dire, sia pure con carattere di autentica provvisorietà, gli effetti punitivi: da siffatte coordinate sistematiche si trae la logica conclusione secondo cui la suddetta anticipazione di effetti punitivi, disposta in via cautelare con il provvedimento di sospensione, è destinata a venir meno retroattivamente allorché non sia instaurato il procedimento disciplinare, con conseguente pieno ripristino della posizione giuridica ed economica del dipendente sospeso.
In via di estrema sintesi, quindi, può dirsi che alla base di tale primo filone interpretativo vi è la qualificazione della sospensione cautelare come provvedimento funzionalmente unitario, sempre adottato nella prospettiva del successivo svolgimento del procedimento disciplinare, dei cui possibili risultati punitivi costituisce una mera anticipazione attuata in via provvisoria e con finalità preventive.
La natura sempre strumentale e propedeutica ascritta alla sospensione cautelare rispetto al procedimento disciplinare implica, quindi, quali logici corollari, da un lato, l'assoluta irrilevanza degli esiti del procedimento penale, dall'altro, la constatazione dell'intima connessione registrabile tra la sorte della disposta sospensione e i risultati della procedura amministrativa: i due provvedimenti, quindi, quello cautelare e quello adottato a conclusione del procedimento disciplinare, sarebbero sempre avvinti da un indissolubile rapporto di strumentalità, di guisa che gli stessi simul stabunt simul cadent.
Il dipendente pubblico, sospeso cautelarmente perché sottoposto a procedimento penale, avrebbe diritto, quindi, seguendo tale primo orientamento, alla piena restitutio, per il solo fatto che l'Amministrazione, per qualsiasi ragione (non ultima una deplorevole inerzia), si sia determinata a non dar corso al procedimento disciplinare.
Tale circostanza, infatti, sarebbe di per se sola idonea a far sorgere in capo all'impiegato, pure condannato in sede penale, il diritto ad un'integrale ricostruzione della sua posizione giuridica ed economica per tutta la durata della sospensione cautelare, senza che debba essere detratto dal calcolo neanche il periodo corrispondente alla pena inflitta dal giudice penale.
Tale conclusione -almeno in parte seguita dal Giudice di prime cure nella presente vicenda processuale- pur paradossale nelle sue conseguenze pratiche ed applicative, pare tuttavia coerente con le premesse teoriche di fondo sopra illustrate, dal Collegio, peraltro, non condivise.
Sul primo versante, non è chi non veda la singolarità ed inspiegabilità delle conseguenze applicative cui quell'indirizzo conduce: il dipendente, sospeso perché sottoposto a procedimento penale, e successivamente condannato con sentenza definitiva, ha diritto a vedersi riconosciuti gli assegni non percepiti, maggiorati di interessi e rivalutazione, in relazione all'intero periodo di sospensione, durante il quale non è stata eseguita alcuna prestazione lavorativa.
Senonchè, sul piano squisitamente giuridico, quella conclusione risulta in perfetta sintonia con la rimarcata unitarietà funzionale delle varie forme di sospensione cautelare e con la riconosciuta natura sempre strumentale della misura sospensiva rispetto al procedimento disciplinare, di cui quella anticiperebbe, in via cautelare e provvisoria, gli effetti punitivi: effetti destinati quindi a venir meno retroattivamente allorché faccia difetto, per l'appunto, quel procedimento disciplinare cui la disposta sospensione è legata da un costante nesso di propedeuticità.
Con la suddetta impostazione teorica appare coerente, peraltro, l'affermata ininfluenza della condanna penale, ritenuta irrilevante sotto un duplice profilo.
Da un lato, infatti, la sentenza penale non spiega alcun effetto immediato sulla sorte della pronuncia cautelare, in via esclusiva legata alle conclusioni del successivo procedimento disciplinare; dall'altro, lo stesso periodo corrispondente alla pena inflitta non può essere detratto in sede di ricostruzione della posizione giuridica ed economica cui il dipendente ha diritto in assenza del procedimento disciplinare.
La ritenuta strumentalità della sospensione rispetto al solo procedimento disciplinare giustifica, infatti, sul piano della coerenza logico-giuridica, entrambi i risultati applicativi suillustrati.
6.2. Negli indirizzi dello stesso Consiglio di Stato è di recente emersa l'esigenza di stemperare e ridimensionare gli esiti applicativi che inevitabilmente derivano dalla ricostruzione teorica seguita nelle pronunce incasellabili nel suillustrato orientamento.
Già in sede consultiva, infatti, si è sostenuto che, intervenuta una sentenza definitiva di condanna, alla sospensione condizionale della pena inflitta in sede penale non può riconoscersi l'effetto dell'attribuzione di ulteriori benefici al pubblico dipendente, sicché va in questi casi senz'altro esclusa l'applicazione del meccanismo della restitutio in integrum per il periodo di tempo relativo alla condanna concretamente non scontata (cfr. il citato parere della Commissione speciale del pubblico impiego n. 402 del 13 luglio 1998, nonché quello reso dalla stessa Commissione in data 5 febbraio 2001).
Sulla stessa linea si è mossa la Quinta Sezione del Consiglio di Stato affermando che, in caso di estinzione del pur intrapreso procedimento disciplinare, spetta al dipendente, già sospeso cautelarmente, la restitutio in integrum, fatta eccezione del periodo corrispondente alla pena detentiva inflitta dal giudice penale, ancorché non debba essere scontata per effetto della concessa sospensione condizionale (17 dicembre 1998, n. 1808).
Ad analoga conclusione è quindi pervenuta l'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato che, nella più volte citata pronuncia n. 15/99, ha sostanzialmente condiviso la sopra esposta limitazione all'operatività del meccanismo ripristinatorio: ed invero, l'Adunanza ha sostenuto che il dipendente, condannato dopo essere stato sospeso cautelarmente per pendenza del processo penale, ha diritto alla ricostruzione della posizione giuridica ed economica per il periodo di sospensione cautelare, previa deduzione del periodo corrispondente non solo alla sospensione dalla qualifica irrogata all'esito del procedimento disciplinare (nel caso di specie regolarmente azionato), ma anche alla pena detentiva inflitta dal giudice penale, ancorché non scontata.
Senonchè, a tale risultato, certo innovativo rispetto alla precedente impostazione, il Consiglio perviene senza rinnegare le premesse ricostruttive sottese all'orientamento precedentemente seguito, volto, come noto, a disconoscere qualsiasi rilievo alla intervenuta condanna penale.
La stessa Adunanza plenaria, infatti, ribadisce a chiare lettere che gli artt. 96 e 97 del Testo unico degli impiegati civili dello Stato, lungi dal dettare discipline tra loro in rapporto di regola ad eccezione, si riferiscono a distinti momenti del procedimento disciplinare: entrambe le disposizioni, quindi, avrebbero riguardo ad una misura provvedimentale funzionalmente unitaria, disposta nella esclusiva prospettiva del procedimento disciplinare, rispetto al quale la sospensione avrebbe in ogni caso natura strumentale e propedeutica.
Ricostruzione, questa, del panorama normativo e dei profili strutturali e funzionali della sospensione cautelare di cui all'art. 97, D.P.R. n. 3/57 difficilmente coniugabile, ad avviso del Collegio, con le conseguenze, invece, desunte in punto di doverosa detraibilità dal meccanismo della restitutio in integrum del periodo corrispondente alla pena detentiva inflitta con la sentenza definitiva, ancorché sospesa: in altri termini, il Collegio esprime perplessità in ordine alla armonizzabilità con l'assunto teorico secondo cui la sospensione cautelare è sempre disposta nell'esclusiva prospettiva dello svolgimento del procedimento disciplinare, cui risulta avvinta da un nesso di intima strumentalità, l'affermata scomputabilità, in sede di ricostruzione della posizione del dipendente sospeso, del periodo corrispondente alla pena inflitta con sentenza, ossia in una sede del tutto distinta e separata rispetto all'eventuale iter amministrativo diretto allo scrutinio della responsabilità disciplinare dell'impiegato.
Siffatte perplessità non risultano, del resto, fugate dalle osservazioni svolte nel citato parere della Commissione speciale per il pubblico impiego del 5 febbraio 2001.
Con tale parere la Sezione mostra di aderire alla tesi che considera la sospensione cautelare quale provvedimento funzionalmente collegato sempre e solo al successivo procedimento disciplinare, in tal modo negando qualsiasi rilievo, in sede di ricostruzione della posizione giuridica ed economica del dipendente, alla sentenza penale di condanna: la stessa, infatti, è espressamente ritenuta inidonea a "costituire il titolo giuridico per stabilizzare, ai fini patrimoniali, il provvedimento cautelare", da "riportare nell'ambito del procedimento disciplinare".
Senonchè, pur muovendo da tale assunto di assoluta separatezza tra gli esiti del processo penale e la regolamentazione della posizione del dipendente durante il periodo di sospensione cautelare, la stessa Sezione consultiva afferma che "la sentenza penale, oltre il caso positivamente disciplinato di assoluzione con formula piena, assume rilevanza autonoma e diretta, al fine degli effetti della sospensione, solo ove l'amministrazione, per scelta consapevole o comportamento negligente, non dia seguito al procedimento disciplinare. Soltanto in tal caso, infatti, il periodo detentivo comminato dal giudice penale costituisce ostacolo per una piena reintegrazione anche se non concretamente scontato, essendo evidente che il giudizio di qualificazione della sospensione e di imputabilità al dipendente della rottura del rapporto sinallagmatico tra le rispettive prestazioni per la parte di tempo coperta dalla condanna è stato fatto dal giudice penale e non può essere sostituito da un apprezzamento dell'amministrazione".
Orbene, l'attribuzione di un sia pur parziale rilievo alla sentenza penale di condanna in sede di verifica del diritto alla restitutio in integrum (come si dirà condiviso dal Collegio, sia pure sulla scorta di un diverso percorso ricostruttivo, anche attento alle recentissime novità di fonte legislativa) non pare del tutto in sintonia con quanto sostenuto dalla stessa Sezione consultiva in merito alla qualificazione giuridica della sospensione cautelare, intesa come provvedimento adottato nella esclusiva prospettiva del procedimento disciplinare, oltre che con la conseguente affermazione di inidoneità della statuizione giurisdizionale "a costituire il titolo giuridico per stabilizzare, ai fini patrimoniali, il provvedimento cautelare".
6.3. Prima di passare ad una più analitica disamina del percorso logico seguito dal Consiglio nel sostenere il suillustrato secondo indirizzo ermeneutico, sì da porre in risalto le ragioni che inducono questo Collegio a deferire nuovamente la questione all'Adunanza plenaria, giova completare l'illustrazione delle opzioni interpretative affermatesi nel dibattito dottrinale e giurisprudenziale.
Alla stregua di una terza posizione, seguita dal Giudice contabile (cfr., ex multis, Corte conti 3 marzo 1988, n. 1907 e 27 novembre 1992, n.69), oltre che da diversi Giudici amministrativi periferici (v. T.A.R. Campania, sez. Napoli, 5 gennaio 1999, n. 39, T.A.R. Marche, 14 maggio 1999, n. 635, T.A.R. Puglia, Bari, sez. I, 31 marzo 2000, n. 1268), il descritto quadro normativo si presta ad una lettura radicalmente differente, non solo per quel che attiene alle conseguenze applicative, ma anche, e prima ancora, con riguardo agli assunti ricostruttivi di fondo.
In sintesi, le pronunce riconducibili a tale terzo orientamento sostengono:
Che, avuto riguardo al tenore dell'art. 97 del testo unico, in caso di adozione della sospensione cautelare collegata alla pendenza di procedimento penale, la misura sospensiva resta ferma quanto agli effetti prodotti anche nella eventualità che la pubblica Amministrazione non dia corso al procedimento disciplinare (semprechè, ovviamente, vi sia stata sentenza penale di condanna);
Che, conseguentemente, soltanto nelle ipotesi, da ritenere tipiche e tassative, individuate dalla citata disposizione del D.P.R. n. 3/57 (id est, proscioglimento o assoluzione passata in giudicato perché il fatto non sussiste o perché l'imputato non lo ha commesso) deve farsi luogo al meccanismo della restitutio in integrum;
Che, quindi, la condanna a pena detentiva del pubblico impiegato, anche quando non scontata, determina l'interruzione, per fatto e colpa dello stesso impiegato, del sinallagma tra prestazione e retribuzione, sicché devono considerarsi insussistenti i presupposti idonei a giustificare il ripristino retroattivo dello status del dipendente a suo tempo cautelarmente sospeso.
7. Orbene, quest'ultimo orientamento merita, ad avviso del Collegio, una rinnovata attenzione, imposta, non solo dalla consistenza persuasiva della complessiva ricostruzione teorica del quadro normativo allo stesso sottesa, ma anche da importanti e recentissime novità legislative, nonché da taluni spunti interpretativi che, forniti dal Giudice costituzionale con riferimento alla compatibilità con la Grundnorm della disciplina riguardante altra tipologia di sospensione cautelare dal servizio (quella prevista dall'art. 15, co. 4-septies, l. n. 55/90 e succ. mod.), sembrano assumere almeno indirettamente un rilievo non trascurabile nella soluzione della questione oggi esaminata.
E' opportuno ribadire che l'ipotesi portata al vaglio del Collegio -quella cioè di dipendente cautelarmente sospeso perché sottoposto a procedimento penale, poi conclusosi con condanna, ma non assoggettato a procedimento disciplinare- non riceve nel testo unico degli impiegati civili espressa previsione.
L'art. 97, infatti, che pure si occupa dei rapporti tra sospensione disposta in dipendenza di procedimento penale e esiti di quest'ultimo, ha riguardo al solo caso in cui interviene sentenza di proscioglimento o comunque di assoluzione: solo in tal caso la restitutio in integrum può essere ancora esclusa (sempre che la formula assolutoria non sia piena), ma subordinatamente all'instaurazione ed alla sfavorevole conclusione del procedimento disciplinare.
Al contrario, l'art. 97 non prende in considerazione la diversa ipotesi in cui il procedimento penale, in dipendenza del quale la sospensione cautelare è stata disposta, si concluda sfavorevolmente: orbene, questo silenzio legislativo appare ragionevolmente spiegabile se si valorizzano le peculiarità della sospensione cautelare disposta, ai sensi degli artt. 91 e 97, per effetto della pendenza di procedimento penale, al contempo sottoponendo a rivisitazione critica l'assunto della unitarietà funzionale delle differenti tipologie di misure sospensive contemplate dal D.P.R. n. 3/57.
Ad avviso del Collegio, infatti, è opportuno riconsiderare i rapporti tra le illustrate disposizioni di cui agli artt. 91 e 97, da un lato, 92 e 96, dall'altro; è necessario, conseguentemente, tenere in debito conto le specifiche peculiarità che le diverse misure di sospensione cautelare presentano, tanto per quel che attiene ai presupposti di adozione, quanto per quel che riguarda i profili funzionali.
Analisi, questa, indispensabile per procedere ad una corretta soluzione della problematica portata all'attenzione del Collegio.
Da un lato, il Testo unico del '57 ha riguardo all'ipotesi in cui l'Amministrazione, intendendo procedere alla contestazione di un fatto disciplinarmente rilevante nella prospettiva dell'instaurazione o prosecuzione del relativo procedimento, ritenga di adottare una misura squisitamente cautelare e strumentale, valutata opportuna al fine di garantire il buon andamento dell'azione amministrativa, oltre che il sereno dispiegarsi dello stesso giudizio disciplinare: in tale prima ipotesi, non può dubitarsi che la misura sospensiva, avente natura spiccatamente cautelare, sarà ab initio condizionata all'instaurazione ed alla successiva conclusione del procedimento disciplinare, dei cui potenziali esiti è istituzionalmente preordinata ad anticipare gli effetti, sia pure con finalità meramente preventive.
L'intimo nesso tra siffatta tipologia di sospensione e procedimento disciplinare traspare con evidenza dall'esame degli artt. 92 e 96 del testo unico, in forza dei quali, ove il procedimento stesso non sia iniziato o, se iniziato, si estingua ovvero si concluda con il proscioglimento degli addebiti, la misura sospensiva, ex post rivelatasi priva di giustificazione, va ritirata retroattivamente con conseguente ripristino ex tunc della posizione giuridica ed economica del dipendente.
La soluzione normativa fornita dai citati artt. 92 e 96 pare del tutto coerente con i profili funzionali della indicata tipologia di misura sospensiva: si tratta di provvedimento, di tipo strumentale, adottato dall'Amministrazione nella esclusiva prospettiva dello svolgimento del procedimento disciplinare di cui anticipa, con finalità preventive e per l'appunto cautelari, i possibili effetti punitivi: la sospensione è, in questo caso, meramente anticipatoria del possibile esito del procedimento disciplinare, con la conseguenza per cui la sorte della stessa è inevitabilmente connessa ai risultati di quello.
Ben diversa è, invece, la fattispecie contemplata dagli artt. 91 e 97 del Testo unico degli impiegati civili, come noto diretti a disciplinare l'ipotesi in cui la misura sospensiva sia collegata alla pendenza di procedimento penale.
Come è stato evidenziato nel dibattito sviluppatosi al riguardo, in questo caso, la sospensione può considerarsi coordinata al futuro procedimento disciplinare in modo del tutto mediato ed indiretto, posto che la stessa si correla, in via diretta ed immediata, alla pendenza di un'accusa penale nei confronti del pubblico dipendente: la stessa misura rinviene il suo fondamento applicativo in valutazioni di opportunità che prescindono dalla penetrante verifica della probabile fondatezza degli addebiti, per concentrarsi, invece, sulla lesività che la permanenza nell'ufficio di un impiegato accusato di reati particolarmente gravi presenta per il prestigio e la credibilità dell'Amministrazione verso il pubblico.
Questa seconda tipologia di sospensione cautelare è, quindi, assimilabile a quella prevista e disciplinata dall'art. 15, co. 4-septies, l. 19 marzo 1990, n. 55, come modificato dalla l. 18 gennaio 1992, n. 16, che, nella formulazione precedente alla novella introdotta con l. n. 475/99, disponeva l'immediata e doverosa sospensione dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche, i quali avessero riportato condanna, anche non definitiva, per determinate fattispecie delittuose tassativamente indicate ovvero fossero stati rinviati a giudizio per taluni delitti ovvero assoggettati ad una misura di prevenzione, anche non definitiva, in quanto indiziati di appartenere ad associazione di tipo mafioso.
E' agevole cogliere, infatti, l'unitarietà funzionale delle tipologie di sospensione previste e disciplinate rispettivamente dagli artt. 91, T.U. imp. civ., e 15, co. 4-septies, l. 19 marzo 1990, n. 55, come modificato dalla l. 18 gennaio 1992, n. 16.
In entrambi i casi, infatti, si tratta di misura, di natura pur sempre cautelare, ma collegata alla sola pendenza di un'accusa penale nei confronti dell'impiegato pubblico: misura volta, quindi, a proteggere un fondamentale interesse pubblico -non privo come si dirà di copertura costituzionale- in attesa del successivo accertamento (nella specie giudiziale).
Il parallelismo tra le due indicate misure sospensive e la suddetta connotazione funzionale delle stesse sono stati, del resto, posti in evidenza in un'importante sentenza del Giudice delle leggi, quasi contestuale alla ricordata pronuncia n. 15/99 dell'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato (Corte cost., 3 giugno 1999, n. 206).
Nella suddetta sentenza, infatti, il Giudice costituzionale -chiamato a pronunciarsi sulla compatibilità costituzionale dell'art. 15, co. 4-septies, l. 19 marzo 1990, n. 55, come modificato dalla l. 18 gennaio 1992, n. 16 (ma prima delle ulteriori ed incisive modifiche apportate dalla l. 13 dicembre 1999, n. 475), nella parte in cui prevede una sospensione automatica ed obbligatoria, dovuta per il solo fatto che nel procedimento penale afferente a gravi tipologie di reati siano intervenuti taluni provvedimenti (tra i quali, prima della modifica apportata con la citata l. n. 475/99, il mero rinvio a giudizio)- ha rimarcato il parallelismo riscontrabile tra siffatta disposizione e quella di cui all'art. 91, D.P.R. n. 3/57.
In entrambi i casi -sostiene, infatti, la Corte costituzionale- si è in presenza di una "misura cautelare, collegata alla pendenza di un'accusa penale nei confronti del funzionario pubblico": con specifico riguardo alla misura sospensiva di cui al citato art. 15, co. 4-septies, strutturalmente e funzionalmente assimilata dalla stessa Corte a quella di cui all'art. 91, D.P.R. n. 3/57, la Consulta pone in risalto che trattasi di misura cautelare "tendente a proteggere un interesse nell'attesa di un successivo accertamento (nella specie giudiziale)".
Orbene, gli spunti ricostruttivi desumibili dalla citata sentenza della Corte costituzionale (ai cui pregevoli apporti motivazionali sarà necessario fare ulteriore riferimento nell'esaminare ulteriori profili della materia che ci occupa) paiono corroborare l'assunto di fondo da cui si sono prese le mosse, in forza del quale la sospensione cautelare prevista dagli artt. 91 e 97, D.P.R. n. 3/57, presenta connotazioni funzionali idonee a distinguerla nettamente da quella di cui agli artt. 92 e 96 dello stesso articolato normativo: connotazioni consistenti, principalmente, nella immediata correlazione della misura in questione alla mera pendenza del procedimento penale, non anche, se non in via del tutto mediata, a quello disciplinare.
Questa differente ricostruzione -a favore della quale il Consiglio di Stato si è già sia pur dubitativamente espresso (cfr. Sez. IV, 22 dicembre 1998, 1854)- impone di rimeditare i rapporti tra la disposta sospensione e gli esiti di quel procedimento penale al quale la stessa è correlata.
8. Il legislatore, come rilevato, prende espressamente in considerazione la sola ipotesi in cui il procedimento penale si concluda con esito favorevole: nel dettaglio prevede, come ormai noto, che in caso di assoluzione piena il dipendente abbia sempre ed automaticamente diritto alla integrale ricostruzione della posizione giuridica ed economica per l'intera durata della sospensione cautelare.
Siffatta previsione normativa assume significato per una fondamentale ragione che è utile esplicare nella prospettiva di un più corretto approccio ermeneutico alla specifica questione portata al vaglio del Collegio, quella della disciplina applicabile all'ipotesi inversa, non contemplata dal legislatore, in cui il processo penale si sia definito con condanna del pubblico impiegato.
In primo luogo, il Collegio ritiene necessario identificare le esigenze che hanno indotto il legislatore ad introdurre siffatta disposizione: analisi opportuna tanto al fine di delineare i caratteri e la natura ascrivibili alla norma in questione quanto con l'intento di cogliere le ragioni della mancata disciplina della fattispecie contraria, caratterizzata dall'esito sfavorevole del processo penale.
L'esigenza avvertita dal legislatore del '57 di far luogo all'espressa enunciazione di una regola solo apparentemente scontata -qual è quella in forza della quale il dipendente cautelarmente sospeso a causa della pendenza del procedimento penale ha diritto all'integrale restituito in integrum allorché con sentenza passata in giudicato sia accertata la sua piena innocenza- va rinvenuta nel carattere spiccatamente derogatorio che quella stessa enunciazione assume rispetto al principio cardine volto a connotare il rapporto di impiego e il suo concreto dispiegarsi alla cui regolamentazione è per l'appunto preordinato il D.P.R. n. 3/57: il principio di necessaria corrispettività tra le due fondamentali prestazioni, quella retributiva posta a carico del datore e quella avente ad oggetto l'espletamento dell'attività lavorativa da parte del dipendente.
In altri termini, l'art. 97, co. 1, del D.P.R. n. 3/57 prende in considerazione in modo espresso l'ipotesi in cui l'impiegato sospeso sia assolto con formula piena nel procedimento penale proprio al fine di evitare che, ad onta di siffatto esito del processo in vista del quale è stato adottato il provvedimento cautelare, possa operare il principio generale che subordina l'obbligo retributivo sempre e comunque all'effettivo espletamento della prestazione lavorativa, nel caso di specie non consentito per effetto del provvedimento sospensivo.
Può sostenersi, quindi, che la previsione contenuta in apertura del citato art. 97 abbia natura eccezionale, in quanto volutamente derogatoria rispetto al principio fondamentale di tendenzialmente doverosa sinallagmaticità delle due prestazioni: principio connaturato alla stessa intrinseca essenza del rapporto di impiego.
Si tratta, peraltro, di eccezione con la quale, nel porre a carico dell'Amministrazione il "rischio dell'accusa infondata", il legislatore ha giustamente inteso salvaguardare il dipendente di cui sia stata accertata l'innocenza all'esito di quello stesso procedimento penale la cui pendenza ha determinato l'adozione del provvedimento di sospensione.
D'altra parte, il carattere del tutto eccezionale della disciplina in questione pare confermato dalla previsione di taluni limiti destinati a ridimensionare il pur riconosciuto diritto del dipendente sospeso e poi assolto alla piena restitutio in integrum: lo stesso art. 97, co. 1, D.P.R. n. 3/57, infatti, esclude che l'impiegato abbia diritto alle indennità ed ai compensi "per servizi o funzioni di carattere speciale", oltre che "per prestazioni di lavoro straordinario".
Quanto al primo degli indicati limiti frapposti all'azionabilità del diritto alla restitutio in integrum, la giurisprudenza si è a più riprese espressa nel senso che lo stesso vada escluso con riferimento a quelle voci del trattamento economico legate ad esigenze contingenti e variabili e, per quel che più conta, "collegate da uno stretto rapporto di causalità con l'attività effettivamente svolta dal dipendente": persino in caso di assoluzione, dunque, il principio di necessaria corrispettività conserva margini pur circoscritti di concreta operatività allorché il nesso di reciprocità tra le due prestazioni fondamentali del rapporto di impiego risulti particolarmente stretto.
Ciò chiarito in merito alla natura eccezionale e derogatoria della previsione di cui all'art. 97, co. 1, D.P.R. n. 3/57, è agevole comprendere le ragioni sottese alla scelta del legislatore di non dettare alcuna regolamentazione con riguardo al diverso caso di condanna del dipendente cautelarmente sospeso: il silenzio del legislatore pare, infatti, del tutto ragionevole sulla scorta di quanto meno due ordini di ragioni.
Da un lato, infatti, mancano, con riguardo all'ipotesi in cui il processo penale si sia concluso con il riconoscimento della colpevolezza del dipendente cautelarmente sospeso, le esigenze che, in via del tutto eccezionale, hanno indotto il legislatore del '57 ad introdurre, con il primo comma del citato art. 97, una disciplina destinata a costituire una profonda rottura del principio di necessaria corrispettività del rapporto di lavoro: sembra logico ritenere, allora, che il legislatore abbia volutamente obliterato siffatta ipotesi nella lucida consapevolezza del riespandersi applicativo, in caso di condanna, del principio di doverosa sinallagmaticità, implicante il venir meno dell'obbligo retributivo a fronte dell'inoperatività del rapporto di impiego a latere subiecti.
D'altra parte, siffatta ricostruzione di stampo teleologico è rafforzata se si muove dalla tesi volta a sostenere l'esigenza di un collegamento funzionale tra la sospensione cautelare e il procedimento penale.
Ed invero, essendo la prima disposta per effetto della sussistenza di un'accusa penale nei confronti del pubblico dipendente, la sua efficacia non può che essere convalidata allorché la fondatezza di quella stessa accusa risulti confermata dal giudicato penale di condanna.
Tale risultato interpretativo, lungi dal risultare in contrasto con il principio di autonomia del procedimento disciplinare rispetto a quello penale, costituisce, ad avviso del Collegio, logico corollario della suesposta ricostruzione funzionale dell'istituto in esame, oltre che ragionevole applicazione di fondamentali principi civilistici.
Da un lato, infatti, resta fermo che non possono irrogarsi autonome sanzioni disciplinari se non all'esito del successivo ed eventuale procedimento disciplinare.
Il principio di autonomia del procedimento disciplinare non può tuttavia essere invocato in sede di definizione del regime giuridico applicabile agli effetti di una misura sospensiva disposta quale mera, ancorché non necessaria, conseguenza della intrapresa indagine penale a carico di un funzionario pubblico, poi riconosciuto effettivamente colpevole.
Siffatta connotazione funzionale del provvedimento sospensivo induce a ritenere che -allorchè il procedimento penale si concluda con il riconoscimento della fondatezza di quell'accusa che aveva indotto l'Amministrazione a dubitare della compatibilità con la tutela del proprio prestigio dell'ulteriore permanenza del dipendente nell'ufficio- debbano trovare necessaria applicazione i generali principi civilistici diretti a disciplinare il dispiegarsi dei rapporti contrattuali di tipo sinallagmatico, quale è quello di lavoro.
In definitiva, qualora il processo penale si concluda con la condanna dell'imputato, deve ragionevolmente ritenersi che l'interruzione del sinallagma tra prestazione lavorativa e quella retributiva, verificatasi per tutta la durata della misura sospensiva, sia interamente attribuibile all'impiegato, sicché va decisamente escluso, alla stregua dei generali principi in tema di inadempimento dell'obbligazione lavorativa (art. 1218 c.c.), il diritto del funzionario al ripristino dello status quo ante e l'obbligo della P.A., quindi, di far luogo ad una spesso costosa ricostruzione sotto ogni profilo, giuridico, previdenziale, economico, con tutti gli accessori, con riferimento a periodi durante i quali la prestazione lavorativa non è stata eseguita: il dipendente, ferme le autonome ed ulteriori determinazioni assunte nella sede disciplinare, potenzialmente implicanti nei casi contemplati dalla legge la destituzione, ha solo diritto alla immediata riammissione in servizio, con conseguente revoca della misura cautelare adottata.
Il suesposto indirizzo pare ora ancor più corroborato, nelle sue premesse teoriche e ricostruttive, dalle recentissime novità introdotte dalla legge 8 marzo 2001, n. 97, recante "Norme sul rapporto tra procedimento penale e procedimento disciplinare ed effetti del giudicato penale nei confronti dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche".
Ed invero, tale intervento legislativo, pur riguardando questione diversa da quella portata all'attenzione del Collegio, introduce un principio, di sicura portata dirompente, idoneo ad ulteriormente irrobustire la trama argomentativa sottesa all'indirizzo accolto dal Collegio in punto di regime giuridico cui assoggettare gli effetti della sospensione cautelare disposta nei confronti del dipendente pubblico sottoposto a procedimento penale conclusosi con condanna definitiva cui non faccia seguito l'attivazione del procedimento disciplinare.
La novità cui si fa riferimento è quella contenuta nel nuovo comma 1-bis dell'art. 653 c.p.p. a tenore del quale "la sentenza penale irrevocabile di condanna ha efficacia di giudicato nel giudizio per responsabilità disciplinare davanti alle pubbliche autorità quanto all'accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità penale e all'affermazione che l'imputato lo ha commesso".
Orbene, tale disposizione -pur afferente ai rapporti tra procedimento penale e quello disciplinare, sulla cui autonomia finisce per incidere in senso almeno in parte limitativo- assume un sia pure indiretto rilievo nella soluzione della questione che si esamina.
Ed invero, per effetto di tale novità legislativa, la condanna penale passata in giudicato, riconoscendo con effetto vincolante anche nella distinta sede amministrativa l'attribuibilità al dipendente del fatto oggetto di quell'accusa in funzione della quale la sospensione cautelare è stata disposta, è idonea a costituire il titolo giuridico cui agganciare il giudizio di addebitabilità all'impiegato del mancato funzionamento del rapporto sinallagmatico.
Ne consegue, quindi, che deve trovare applicazione, per il periodo di sospensione, il principio di necessaria corrispettività implicante il venir meno dell'obbligo retributivo allorché sia rimasto interrotto il rapporto di impiego per colpa del lavoratore.
Orbene, tale approccio interpretativo pare al Collegio non scalfito, nella sua validità teorica e ragionevolezza applicativa, dai rilievi di armonizzabilità con fondamentali principi costituzionali, formulati anche in sede particolarmente autorevole (cfr. il citato parere n. 402/98 della Commissione speciale pubblico impiego del Consiglio di Stato).
E' stato chiamato in causa, in particolare, il principio di presunzione di non colpevolezza dell'imputato fino a condanna penale (art. 27 Cost.) per inferirne che "la sola sottoposizione di un pubblico dipendente all'azione penale non può essere considerata, di per sé, come elemento idoneo a giustificare misure di tipo sanzionatorio che, ad una successiva sede disciplinare, risultino in qualche modo eccessive o sproporzionate": è stato anche notato che "il prolungarsi del procedimento penale non può evidentemente ritorcersi a danno dell'incolpato".
Il Collegio ritiene le suindicate perplessità non coniugabili con il quadro normativo, come sopra ricostruito, oltre che superabili alla stregua di una più complessiva considerazione dei diversi principi costituzionali coinvolti e della relativa composizione effettuata dal legislatore ordinario.
In via preliminare, infatti, va ribadito che, alla stregua del suesposto indirizzo interpretativo, dal Collegio considerato meritevole di una rinnovata attenzione, la sospensione disposta per effetto della pendenza del procedimento penale conserva certo natura cautelare, non assumendo di per sé carattere sanzionatorio.
L'esclusione del diritto alla restitutio del dipendente cautelarmente sospeso e poi in sede penale condannato poggia, non già certo sul riconoscimento del carattere sanzionatorio del provvedimento sospensivo, bensì su una ben diversa e composita base giuridica: da un lato, la constatazione della indicata connotazione funzionale di quella misura, in via immediata correlata al procedimento penale, anziché a quello disciplinare, dall'altro, la consequenziale applicazione di fondamentali e generali principi civilistici afferenti alla distribuzione tra le parti contrattuali delle conseguenze derivanti dalla mancata esecuzione delle corrispettive prestazioni, ora ancor più destinati ad assumere rilievo in considerazione del carattere vincolante ascritto alla sentenza penale di condanna per quel che attiene all'accertamento dell'addebitabilità del fatto al dipendente.
Sempre in via preliminare, preme osservare che, diversamente dalla misura sospensiva contemplata dal richiamato art. 15, co. 4-septies, l. n.55/90, di cui, peraltro, ad onta della sua natura obbligatoria, è stata riconosciuta l'armonizzabilità con i principi costituzionali (Corte cost. n.206/99), quella prevista dall'art. 91, D.P.R. n. 3/57, con riguardo al dipendente sottoposto in stato di libertà a procedimento penale presenta carattere facoltativo: la stessa, infatti, può essere adottata dall'Amministrazione a condizione che la natura del reato contestato sia particolarmente grave, dovendo emergere, quindi, il nesso tra la specifica tipologia di illecito penale addebitato al pubblico impiegato e le funzioni pubbliche dallo stesso svolte, con la conseguente valutazione afferente alla possibile compromissione della credibilità dell'Amministrazione derivante dalla sua permanenza nell'ufficio.
Ciò posto, giova osservare che la rispondenza del singolo provvedimento sospensivo ai suindicati presupposti legalmente stabiliti ben si presta al controllo giurisdizionale, sicché già sotto questo primo aspetto la posizione del dipendente non può dirsi del tutto priva di tutela: ben può verificarsi, infatti, che quel sindacato sortisca effetti favorevoli per il dipendente il quale conseguentemente avrà diritto alla ricostruzione, ad onta della eventuale condanna penale.
Ed invero, il controllo demandato al Giudice adito mediante impugnazione del provvedimento sospensivo verte su oggetto radicalmente differente rispetto a quello sottoposto al vaglio del Giudice penale: il primo, infatti, lungi dal dover scandagliare la reale addebitabilità del fatto al dipendente, dovrà verificare se l'Amministrazione abbia fatto legittimo uso del potere discrezionale rimessole dall'art. 91, T.U. n. 3/57, concernente la compatibilità con la salvaguardia del prestigio dell'apparato amministrativo verso il pubblico della permanenza in servizio di un impiegato sottoposto a procedimento penale per una grave e specifica tipologia di reato.
Al fine di armonizzare per quanto possibile il rispetto del principio di corrispettività con le ragioni del dipendente, può anche ipotizzarsi che l'Amministrazione, sollecitata dallo stesso impiegato, rivaluti, sia pure ex post, la sussistenza dei presupposti di adottabilità della misura sospensiva allorché l'impiegato sia stato condannato in sede penale, ma per fattispecie del tutto diversa da quella che ha costituito oggetto dell'originaria accusa penale dalla stessa Amministrazione presa in considerazione nel porre in essere il provvedimento cautelare: non può escludersi, cioè, che in caso di radicale derubricazione della fattispecie penale, l'Amministrazione, su istanza del privato, cui non spetta in linea di principio il diritto alla restitutio, debba verificare che effettivamente sussistessero, alla luce della nuova ipotesi di reato in relazione alla quale è intervenuta condanna, i presupposti richiesti dall'art. 91, co. 1, D.P.R. n. 3/57, per far luogo alla sospensione cautelare.
Ciò premesso, sembrano superabili gli illustrati rilievi di costituzionalità.
Ed invero, la ribadita natura cautelare del provvedimento sospensivo esclude che possa essere invocato il parametro costituito dal principio di presunzione di non colpevolezza: le misure cautelari, infatti, operano per definizione prima dell'accertamento definitivo della colpevolezza in ordine a reati ai quali pure si collegano.
Quel principio potrebbe essere chiamato ragionevolmente in causa allorché la misura, presentando un carattere obiettivamente eccessivo rispetto alla sua funzione cautelare, dovesse apparire del tutto sproporzionata ed incongrua.
A tale riguardo, peraltro, è opportuno tener conto che siffatta esigenza di proporzionalità va rapportata, non già al fatto costituente reato, quanto piuttosto al pregiudizio derivante all'interesse pubblico dalla permanenza in servizio dell'impiegato sottoposto a procedimento penale: non si prospetta, dunque, un'esigenza di graduazione della misura in relazione al fatto, ma di adeguatezza della stessa in relazione all'esigenza cautelare.
Ciò chiarito e ribadito che si tratta di misura sospensiva immediatamente correlata al procedimento penale, è necessario porre in risalto la contrapposizione tra due esigenze, entrambe munite di copertura costituzionale: da un lato, quella del dipendente a non subire un'irragionevole compressione dei propri diritti, dall'altro, quella dell'Amministrazione a che non sia incrinato il fondamentale rapporto di fiducia dei cittadini verso l'istituzione.
Esigenza, questa, riconducibile al principio di buon andamento dell'amministrazione (art. 97 Cost.) e al corretto dispiegarsi del rapporto "politico" intercorrente tra gli utenti dell'attività amministrativa e coloro i quali, occupando uffici pubblici, sono tenuti ad assolvere i loro compiti "con disciplina ed onore" (art. 54, co. 2, Cost.), "al servizio esclusivo della Nazione" (art. 98, co. 1, Cost.).
Tenendo conto della consistenza delle due indicate esigenze occorre considerare il tema della congruenza della misura sospensiva, allorché correlata alla pendenza di procedimento penale ai sensi degli artt. 91 e 97, T.U. n. 3/57.
Orbene, il ragionevole bilanciamento tra l'esigenza cautelare, che pure potrebbe protrarsi anche oltre tale limite, e quella di non comprimere eccessivamente l'interesse del dipendente, allorché l'accertamento della responsabilità penale si protragga nel tempo, è stato operato dallo stesso legislatore con disposizione di carattere generale, la cui efficacia va estesa a tutte le misure di sospensione disposte "per effetto del procedimento penale" (cfr. Corte Cost. n. 206/99): ai sensi dell'art. 9, co. 2, l. n. 17/90, infatti, il provvedimento di sospensione cautelare dal servizio, adottato a causa del procedimento penale, "conserva efficacia, se non revocato, per un periodo di tempo comunque non superiore a cinque anni", sicché, decorso tale termine, va revocato di diritto.
9. La persistente adesione di alcuni Giudici amministrativi periferici a siffatto indirizzo interpretativo, nonché la necessità, meditatamente avvertita dal Collegio, di riconsiderare l'intera problematica, nei suoi profili ricostruttivi e nei suoi risvolti applicativi, anche alla luce delle indicate novità di fonte giurisprudenziale e legislativa, induce a far luogo ad una nuova rimessione del problema all'Adunanza plenaria, utile al fine di evitare il formarsi di inopportuni contrasti giurisprudenziali.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Sesta, rimette la decisione all'Adunanza Plenaria.
Ordina che la presente decisione sia eseguita dall'Autorità amministrativa.
Così deciso in Roma, il 19 dicembre 2000 ed il 3 aprile 2001, dal Consiglio di Stato in sede giurisdizionale - Sez.VI - nella Camera di Consiglio, con l'intervento dei Signori:
Giorgio GIOVANNINI Presidente
Calogero PISCITELLO Consigliere
Paolo NUMERICO Consigliere
Luigi MARUOTTI Consigliere
Roberto GAROFOLI Consigliere Est.
Depositata l'8.5.2001.