CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI - Sentenza 15 maggio 2002 n. 2636 - Pres. Ruoppolo, Est. Montedoro - Cifa s.p.a. (Avv. Nicosia) c. Ministero del Lavoro e della Previdenza sociale (Avv. Stato Coaccioli) e INPS (n.c.) - (conferma T.A.R. Lombardia - Sez. I, 8 luglio 1998, n. 1691).
1. Atto amministrativo - Procedimento - Accordi procedimentali - Ex art. 11 L. n. 241/90 - Nel caso di procedimenti tendenti all'adozione di atti parzialmente vincolati - Possono essere conclusi - Condizioni - Utilità maggiore di quella della mera adozione del provvedimento finale - Necessità.
2. Atto amministrativo - Procedimento - Accordi procedimentali - Ex art. 11 L. n. 241/90 - Funzione e finalità - Individuazione - Raggiungimento di un assetto di interessi altrimenti non raggiungibile per via autoritativa - Necessità.
3. Atto amministrativo - Procedimento - Accordi procedimentali - Ex art. 11 L. n. 241/90 - Conclusione al di fuori e prima dell'avvio del procedimento - Impossibilità - Conclusione da parte dell'organo competente all'adozione del provvedimento finale o da altro organo appositamente delegato - Necessità.
4. Atto amministrativo - Procedimento - Accordi procedimentali - Ex art. 11 L. n. 241/90 - Carattere vincolante - Recesso per motivi di interesse pubblico - Possibilità.
5. Atto amministrativo - Procedimento - Accordi procedimentali - Ex art. 11 L. n. 241/90 - Possono essere conclusi, diversamente dagli accordi sostitutivi, anche in assenza di apposita previsione legislativa.
6. Atto amministrativo - Procedimento - Accordi procedimentali - Ex art. 11 L. n. 241/90 - Inadempimento da parte delle P.A. - Azioni esperibili - Azione ex art. 2932 cod. civ. - Inammissibilità - Ricorso ex art. 2 L. 205/2000 e richiesta di risarcimento del danno - Ammissibilità.
7. Atto amministrativo - Procedimento - Accordi procedimentali - Ex art. 11 L. n. 241/90 - Verbale di accordo in sede sindacale - Redatto prima dell'inizio del procedimento - Non può considerarsi un accordo procedimentale.
1. L'accordo procedimentale ex art. 11 della L. n. 241/1990, essendo concluso "al fine di determinare il contenuto del provvedimento finale" (non quindi il provvedimento discrezionale finale ma il suo contenuto), può essere adottato anche in presenza di provvedimenti finali vincolati per aspetti che possono presentare - nel quando o nel quomodo - elementi di discrezionalità e può essere stipulato se fornisce ad entrambe le parti un'utilità maggiore di quella della mera adozione del provvedimento finale.
2. L'accordo procedimentale rivela la sua peculiare funzione non nella semplice determinazione dell'esito favorevole o sfavorevole dell'istanza del privato ma nella determinazione del contenuto del provvedimento, nei casi in cui detto contenuto sia controverso o controvertibile, o contenga clausole che, in difetto di accordo, non sarebbero facilmente accettate dal privato (tanto che all'origine dell'istituto vi sarebbero - secondo una certa dottrina - i c.d. atti d'obbligo o di sottomissione frequenti nella materia delle opere pubbliche e dei patti aggiuntivi ai contratti di appalto). L'accordo, pertanto, si deve rivelare essenziale al fine di raggiungere un equilibrio sull'assetto degli interessi altrimenti non raggiungibile per via autoritativa.
3. Non possono concludersi accordi procedimentali al di fuori e prima dell'avvio del procedimento e che non siano espressione della partecipazione procedimentale tesa a stabilire nel caso concreto quale sia l'interesse pubblico. La volontà manifestata nell'accordo deve provenire dall'organo competente all'adozione del provvedimento finale o da altro organo appositamente delegato, altrimenti non vi sarebbe inidoneità dell'atto di autonomia ad impegnare l'amministrazione procedente e si potrebbe richiamare la disciplina del falsus procurator o del rappresentante senza potere (art. 1398 cod. civ.) per dedurne l'inefficacia - relativa - dell'accordo (che vincola solo gli stipulanti, salva ratifica) (art.1399 cod. civ.).
4. L'accordo procedimentale o integrativo, ha carattere vincolante, salva la possibilità di recesso da parte della P.A. per sopravvenuti motivi di pubblico interesse; esso serve a determinare il contenuto di futuri provvedimenti, esaurendo il potere discrezionale della p.a. nell'aderire o accettare l'accordo (1).
5. Mentre l'accordo procedimentale esplica la sua funzione per cui esso è possibile, in via generale, anche senza previsione legislativa espressa, in quanto esso ha la funzione di integrare concretamente il contenuto del provvedimento, l'accordo sostitutivo richiede invece una previsione di legge che lo fondi.
6. Nel caso di inadempimento dell'accordo procedimentale o integrativo: a) è inammissibile l'azione ex art. 2932 cod. civ.; b) è invece ammissibile l'azione contra silentium in caso di inerzia; c) è inoltre ammissibile l'impugnativa dell'atto difforme dall'accordo deducendo come vizio di legittimità dell'atto la contrarietà all'accordo; d) il risarcimento danni può essere chiesto in via normale come conseguenza dell'annullamento del silenzio o del provvedimento difforme dall'accordo; e) l'azione di accertamento mero dell'inadempimento e l'azione risarcitoria diretta sono ammissibili solo quando con la conclusione dell'accordo la p.a. abbia esaurito il suo potere discrezionale.
7. Un verbale di accordo in sede sindacale non può considerarsi un accordo ex art.11 della legge n. 241/1990 ove risulti che tale verbale di accordo sia intervenuto prima dell'avvio del procedimento (nella specie, si trattava del procedimento per la proroga della cassa integrazione guadagni straordinaria; ha aggiunto la Sez. VI che l'accordo in questione rientrava piuttosto tra le procedure di consultazione sindacale che precedono necessariamente l'avvio del procedimento per la concessione della cassa integrazione guadagni e, pertanto, non poteva essere definito come un accordo procedimentale sul contenuto del provvedimento finale in quanto il procedimento diretto ad adottare la determinazione sulla concessione della cassa integrazione inizia successivamente all'esaurimento delle procedure di consultazione sindacale).
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(1) Cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 20 gennaio 2000, n. 264.
FATTO
La Cifa s.p.a., operante nel settore della produzione di macchine ed attrezzature per l'edilizia, era ammessa con D.M. 28/7/1994 alla corresponsione del trattamento straordinario di integrazione salariale per crisi aziendale per il periodo dal 7/9/1993 al 6/3/1994, successivamente con decreto del 13/10/1990 il trattamento era prorogato per il periodo 7 marzo-6 settembre 1994, integrando il limite dei dodici mesi di cui all'art.1 comma 5 della legge n.223 /1991.
Perdurando la crisi del settore, la Cifa richiedeva la proroga ultrannuale di sei mesi del trattamento ai sensi dell'art. 7 comma 5 della L. n.148/1993.
La ricorrente asseriva che solo la prospettiva della concessione della proroga la induceva a rinunciare alla procedura di mobilità di cui all'art.4 della legge n.223/1991.
Si svolgeva, pertanto, l'incontro con i rappresentanti sindacali presso il Ministero del Lavoro, conclusosi con il verbale di accordo del 28/7/1994, con il quale l'azienda si impegnava, "a decorrere dal 7/9/1994" a "sospendere n.35 lavoratori per un ulteriore periodo di sei mesi, con conseguente ricorso alla CIGS per crisi aziendale" ed ad anticipare ai lavoratori, salvo buon fine, il trattamento economico di CIGS ed il Ministero del Lavoro si impegnava ad attivarsi "per l'esito positivo dell'istanza di CIGS".
Faceva seguito il provvedimento ministeriale di diniego della proroga, in data 16/3/1995, adottato sulla base dei pareri del Comitato tecnico del 20/6/1994 e 28/12/1994, con la motivazione che "la società pone in evidenza la crisi del settore di appartenenza. La situazione aziendale è la medesima riscontrata nei primi dodici mesi. Si rileva che il Comitato tecnico, già nella seduta del 20/6/1994 aveva escluso che venissero concessi ulteriori sei mesi di intervento CIGS."
Avverso tale decreto proponeva ricorso la CIFA s.p.a..
In primo luogo la Cifa assume che l'accordo del 28/7/1994 debba essere ricondotto tra gli accordi disciplinati dall'art.11 della legge n.241/1990. In tale prospettiva denuncia la violazione dell'impegno assunto con detto accordo e la contraddittorietà del provvedimento di diniego della proroga dell'accordo, risolvendosi tali due atti in valutazioni incompatibili nell'ambito dell'esercizio del medesimo potere.
Altresì censura la violazione dell'art.19 della legge n.41/1986 e degli artt.1338 e ss. cod. civ. rileva che l'amministrazione avrebbe invocato il parere del 20//1994, reso ai sensi del citato art.19, in data antecedente l'accordo ex art.11, per motivare il provvedimento negativo. A tale parere deve attribuirsi un'efficacia non vincolante e, quindi, non idonea a giustificare il diniego dell'amministrazione. Quest'ultima inoltre non poteva invocare il diritto di recesso dall'accordo non sussistendo il presupposto di esigenze non conosciute né conoscibili in sede di stipula dell'accordo. Sostiene la società che, anche dove si dovesse attribuire efficacia vincolante al parere del Comitato, allora l'Amministrazione risponderebbe per culpa in contrahendo ex art.1338 cod. civ..
Subordinatamente la Cifa invoca l'applicabilità alla fattispecie della norma di cui all'art. 1373 cod. civ. che stabilisce che, se ad una delle parti è attribuita la facoltà di recedere dal contratto, "il recesso non ha effetto per le prestazioni già eseguite". Nella specie l'amministrazione non potrebbe recedere efficacemente avendo la società già provveduto a sospendere i dipendenti e ad anticipare il trattamento economico.
Infine, censura la ricorrente la violazione, per mancata applicazione, dell'art. 7 comma 5 della legge n. 148 del 1993 e dell'art. 2 comma 3 della legge n. 223 del 1991, avendo omesso l'amministrazione di valutare le difficoltà in cui si trovava l'azienda, non imputabili alla volontà della stessa e, conseguentemente, l'eccesso di potere per erroneità ed inadeguatezza della motivazione sul punto.
Il Ministero si è costituito ed ha chiesto il rigetto della domanda, la causa è stata decisa dal Tar con la sentenza impugnata.
Il Tar ha ritenuto che l'accordo stipulato al Ministero del Lavoro non potesse rientrare in alcun modo tra gli accordi procedimentali disciplinati dalla menzionata norma, in forza dei quali l'amministrazione si obbliga a dare al provvedimento finale un determinato contenuto, concertato con gli interessati.
L'accordo in questione è stato invece inquadrato fra gli accordi in sede di procedura di consultazione sindacale di cui all'art. 5 della legge n.164/1975, come integrato dall'art. 1 della legge n. 451/1994, accordi che devono necessariamente precedere la presentazione dell'istanza di Cassa integrazione guadagni straordinaria e svolgersi presso le sedi competenti del Ministero.
Il Tar ha anche sottolineato che il tenore letterale del verbale di accordo conferma la mancanza di impegni del Ministero in ordine alla concessione della CIGS in quanto l'amministrazione, per testuale disposizione dell'accordo, doveva limitarsi ad "attivarsi per un esito positivo dell'istanza". La riprova poi della non vincolatività dell'intesa raggiunta in sede sindacale è data dalla qualificazione delle anticipazioni da corrispondersi ai lavoratori da parte dell'impresa, anticipazioni che sarebbero state elargite e "salvo buon fine" (e si volevano quindi intendere come condizionate dall'esito della procedura amministrativa).
In ultimo il giudice di primo grado sottolinea la discrezionalità del provvedimento di concessione della cassa integrazione guadagni e la sufficienza della motivazione adottata dall'amministrazione che ha considerato il difetto di circostanze sopravvenute di particolari difficoltà nell'esecuzione del piano di gestione della crisi già approvato (non potendo giustificarsi una proroga per il semplice protrarsi della crisi).
Il termine poi per la conclusione del procedimento è stato ritenuto meramente ordinatorio.
Con appello notificato in data 11-12/11/1998 la Cifa s.p.a. ha evidenziato sul piano fattuale che i provvedimenti definitivi di concessione della CIGS giungono spesso a posteriori rispetto al periodo al quale si riferiscono.
Tuttavia le esigenze aziendali richiedono invece determinazioni rapide ed immediate che, per essere utilmente adottate, invocano un quadro di certezza di diritti ed obblighi nel rapporto trilaterale tra impresa, rappresentanze dei lavoratori e pubblica amministrazione.
Per prevenire tali pericoli di incertezza si è formata la consuetudine di far precedere i provvedimenti definitivi da accordi preliminari, stipulati in sede di consultazione sindacale. Con detti accordi tanto il Ministero, quanto le parti convengono sull'opportunità del trattamento (o della sua proroga) e ne determinano specificamente il contenuto.
Nella vicenda della Cifa l'accordo è stato stipulato per due volte, il primo accordo (del 30/7/1993) ha trovato un seguito nel provvedimento di concessione del 28/7/1994 poi prorogato con D.M. 13/10/1994 (adottato senza previo accordo); il secondo (accordo del 28/7/1994) è stato seguito dal provvedimento impugnato del 16/3/1995 di diniego di ulteriore proroga.
Deduce in particolare la Cifa s.p.a. i seguenti motivi di ricorso:
1) Violazione dell'art.11 comma 2 della legge 7 agosto 1990 n.241. Inadempimento all'accordo del 28/7/1994. Eccesso di potere per contraddittorietà.
Gli accordi in questione ricadono nell'ambito di applicazione dell'art.11 della legge n. 241/1990, in quanto il loro fine è stato determinare il contenuto del provvedimento finale e, più in generale, disciplinare l'esercizio e lo svolgimento della funzione amministrativa. In base all'art.11 si applicano ai predetti accordi procedimentali "i principi del codice civile in materia di obbligazioni e contratti in quanto compatibili".
L'accordo del 28 luglio, rimasto inadempiuto, esplicava - secondo la Cifa s.p.a. - una precisa efficacia vincolante nei confronti del Ministero del Lavoro, consistente nell'imposizione allo stesso di uno specifico obbligo giuridico: quello di attivarsi "per l'esito positivo dell'istanza di CIGS" adottando tutti gli atti all'uopo necessari e coerenti con l'impegno assunto.
La norma di cui all'art.11 della legge n. 241/1990 impone alla pubblica amministrazione l'obbligo giuridico di tradurre tali accordi in atti amministrativi tipici, e comunque di adempiere in buona fede l'obbligazione assunta.
Questi obblighi sono stati violati dal Ministero che non solo non ha adottato alcun provvedimento idoneo ad assicurare il buon esito dell'istanza, ma ha addirittura interrotto il procedimento con un atto preclusivo e definitivamente negativo nei confronti dell'istanza di concessione della CIGS.
Il mancato adempimento dell'accordo comporta quindi l'illegittimità del provvedimento per violazione dell'obbligo giuridico nascente dall'art.11 della legge n. 241/1990.
Quantomeno si tratta di un'ipotesi tipica di eccesso di potere sotto il profilo della contraddittorietà, riscontrandosi valutazioni incompatibili e difetto di ragionevolezza ed atti discordi della p.a. nell'esercizio del medesimo potere.
In ogni caso sia che si tratti di violazione di legge sia che si tratti di eccesso di potere, la sostanza è l'illegittimità del provvedimento.
2) Violazione dell'art.11 comma 4 della legge 7 agosto 1990 n.241 Violazione per falsa applicazione dell'art.19 della legge 28 febbraio 1986 n.41. Violazione dell'art.1338 cod. civ..
L'unica strada legittima a disposizione dell'amministrazione per sottrarsi all'obbligo contratto in sede di accordo procedimentale sarebbe stata quella del ricorso all'istituto del "recesso unilaterale" previsto dall'art.11 comma 4, in caso di "sopravvenuti motivi di pubblico interesse".
In tal caso il provvedimento, con il quale l'amministrazione recede dall'accordo, deve dare atto di tali "sopravvenuti motivi" a pena d'illegittimità.
Nella specie manca ogni motivazione su tali sopravvenuti motivi sicché il provvedimento non è qualificabile come recesso ma come inadempimento.
Le ragioni del diniego non sono poi sopravvenute all'accordo ma si riferiscono a fatti antecedenti l'accordo medesimo, specie ove ci si riferisce al parere del 28/6/1994, mentre il recesso può essere operato per esigenze non conosciute né conoscibili al momento dell'accordo.
Inoltre il Comitato tecnico non può escludere alcunché (mentre il provvedimento di diniego asserisce che il Comitato avrebbe "escluso che venissero concessi ulteriori sei mesi dell'intervento CIGS") esprimendo solo un parere non vincolante.
Piuttosto il Ministero attraverso la stipula dell'accordo aveva dimostrato di volersi discostare dal già intervenuto parere del Comitato, sicché averlo poi ripreso in considerazione è ulteriore indice di perplessità e contraddittorietà dell'azione amministrativa.
In ultimo, nel caso si assumesse l'efficacia vincolante del parere, e la conseguente invalidità dell'accordo, il Ministero sarebbe incorso in un'ipotesi di culpa in contrahendo ex art. 1338 cod. civ..
Detta norma infatti, in applicazione della menzionata clausola generale di buona fede, impone alla parte che conosce o avrebbe dovuto conoscere l'esistenza di una causa d'invalidità del contratto, di darne notizia all'altra parte, pena il risarcimento del danno subito. E non v'è dubbio che il Ministero dovesse sapere del parere del Comitato tecnico,d'altra parte l'applicabilità dell'art. 1338 cod. civ. alla p.a. era affermata anche prima dell'entrata in vigore dell'art. 11 della legge n. 241/1990.
3) Violazione dell'art.1373 cod. civ. e dei principi vigenti in tema di esercizio del diritto di recesso,violazione del principio di affidamento e dei limiti intrinseci all'esercizio dei poteri di autotutela, eccesso di potere per carenza di motivazione.
In base all'art. 11 comma 4 il recesso è ammesso solo per "sopravvenuti motivi di pubblico interesse."
In materia di accordi l'amministrazione non è titolare di alcuno ius poenitendi, ed è drasticamente limitata la sua facoltà di ricorrere agli istituti dell'autotutela.
L'istituto del recesso ex art.11 comma 4 della legge n. 241/1990 va ricostruito in parallelo all'art. 1373 cod. civ. che con riferimento ai contratti ad esecuzione continuata o periodica, stabilisce che, se ad una delle parti è attribuita la facoltà di recedere dal contratto il recesso non ha effetto "per le prestazioni già eseguite."
L'impresa ha in realtà eseguito per intero le proprie prestazioni, così come definite in sede di accordo, ha infatti sospeso i dipendenti, ha provveduto all'anticipazione del relativo trattamento economico.
La Cifa ha quindi, sulla base dell'accordo stesso, sulla base dell'affidamento da esso ingenerato, e dell'aspettativa al rispetto dell'accordo da parte dell'amministrazione, determinato una situazione di fatto irreversibile che non può essere travolta con effetto retroattivo da un diniego intervenuto con ritardo imputabile all'amministrazione.
Il decreto è infatti intervenuto sette mesi dopo ossia una volta decorso il periodo semestrale di riferimento per la proroga , con l'inevitabile determinarsi delle relative conseguenze ed una volta che la Cifa aveva adempiuto per intero alle obbligazioni assunte.
In un caso del genere alla tardività del provvedimento consegue la sua illegittimità, poiché esso viene a cadere in un contesto irreversibilmente modificato rispetto al quale non è in grado di esplicare validamente effetti di alcun genere.
Vale cioè, a fortiori, per il recesso dall'accordo procedimentale (che non ammette ius poenitendi) il principio ricordato rispetto agli atti di autotutela che non possono produrre effetti rispetto a provvedimenti amministrativi che abbiano prodotto effetti irreversibili o situazioni consolidate od intangibili.
4) Violazione dell'art.7 comma 5 della legge 20 maggio 1993 n.148. Eccesso di potere per contraddittorietà e difetto di motivazione.
L'art.7 comma 5 della legge indicata in rubrica dispone che la proroga del termine semestrale del trattamento integrativo è ammessa, in caso di riscontrata esistenza di difficoltà anche esterne nella realizzazione del programma di gestione della crisi.
A sua volta, in sede di primo accordo in data 30/7/1993 le parti convenivano di dar vita "trimestralmente" ad incontri per esaminare l'andamento della CIGS: ciò significa che al momento del secondo accordo in data 28/7/1994 il Ministero già disponeva di tutti i dati e gli elementi conoscitivi per stabilire la sussistenza o meno dei presupposti per la concessione della proroga. La stipulazione dell'accordo costituisce riconoscimento di tali presupposti.
5) Violazione sotto altro profilo dell'art.7 comma 5 della legge 28 maggio 1993 n.148. Violazione per falsa applicazione dell'art.2 comma 3 della legge 23 luglio 1991 n.223. Eccesso di potere per erroneità ed inadeguatezza della motivazione addotta.
La motivazione sulla base della quale è stata rigettata l'istanza di proroga della CIGS è intrinsecamente inadeguata a supportare il diniego anche a prescindere dalla questione dell'inadempimento dell'accordo e della contraddittorietà.
Il provvedimento di diniego è basato sull'orientamento del Comitato tecnico che sarebbe negativo "in quanto la società pone in evidenza la crisi del settore di appartenenza. La situazione aziendale è la medesima riscontrata nei primi dodici mesi. Si rileva che il Comitato tecnico, già nella seduta del 20/6/1994 aveva escluso che venissero concessi ulteriori sei mesi dell'intervento CIGS." L'istanza, più in generale "non è supportata da positivi elementi sul piano tecnico-istruttorio".
Si fa notare che il Comitato si era già espresso negativamente sin dal 20/6/1994 con giudizio superato dall'accordo. Si considerano altri elementi: in particolare, volendo ricostruire il pensiero dell'amministrazione, la circostanza per cui la crisi del settore di appartenenza non è considerato elemento rilevante o sufficiente ad ottenere la proroga, mentre costituirebbe elemento ostativo alla proroga il permanere della medesima situazione aziendale.
L'impianto motivatorio viene considerato in contrasto con i lineamenti dell'istituto della proroga ex art.7 comma 5 della legge n.148/1993.
In base a detta norma la proroga semestrale del trattamento di integrazione straordinaria è ammessa, per i casi in cui il numero dei lavoratori interessati sia pari o inferiore a 100 "ove si riscontri l'esistenza di particolari difficoltà di ordine temporale nella realizzazione del programma di gestione della crisi, oppure vengano riscontrate difficoltà anche esterne non imputabili alla volontà dell'azienda".
Gli elementi da considerare sono dunque due: difficoltà nella realizzazione del programma, difficoltà di qualunque genere anche esterne purché non imputabili.
La crisi del settore è una difficoltà non certo riconducibile all'interessato. Si rileva la differenza fra la proroga ex art.2 comma 3 della legge n.223/1991 subordinata all'esito positivo dell'accertamento sulla regolare esecuzione del programma da parte dell'impresa, possibile solo per il primo semestre senza proroghe ulteriori e la proroga di cui all'art.7 comma 5 della legge n. 148/1993 che considera qualsiasi difficoltà purché non imputabile all'impresa.
Ragioni di crisi del settore di carattere globale non sono imputabili all'impresa e ben possono costituire il presupposto per la concessione della CIGS.
In ogni caso si conclude chiedendo l'accertamento del diritto dell'impresa ricorrente a conseguire ex art.11 comma 4 della legge n.241/1990 un indennizzo pari agli importi anticipati ai dipendenti a titolo di integrazione salariale nonché a quelli dovuti a titolo di reintegrazione dei livelli salariali ordinari, oltre interessi, rivalutazione e mora con conseguente condanna della p.a. al pagamento dei relativi importi.
In ultimo l'atto di appello censura l'erroneità della sentenza ritenendo che l'impegno ad attivarsi per l'esito positivo dell'istanza di CIGS renda il Ministero una parte del verbale di accordo, comportando l'assunzione di una precisa obbligazione di carattere pubblicistico.
Il modulo procedimentale di cui all'art. 5 della legge n.164/1975 non esclude l'applicabilità della generalissima norma di cui all'art.11 della legge n. 241/1990.
La circostanza che il riconoscimento dei presupposti normativi per la concessione della CIGS sia di competenza del Ministero del Lavoro ai sensi dell'art. 1 comma 3 della legge n. 451/1995 conferisce agli impegni pattizziamente assunti dal Ministero stesso il valore e la forza di un vincolo contrattuale.
Si invocano il principio di buon andamento nonché la tutela della buona fede e il rispetto del principio di cooperazione per escludere che l'accordo verbale sia vincolante solo per le parti private.
Si allega altresì l'esistenza di una prassi amministrativa, o un uso di diritto pubblico, consistente nell'accordo preliminare alla concessione della CIGS concluso in sede sindacale, quale rimedio alle lungaggini procedimentali.
La certezza del tempo dell'agire amministrativo è un principio di ordine pubblico ed anche il mancato rispetto di termini ordinatori può procurare un danno.
La clausola salvo buon fine si spiega perché gli accordi ex art.11 non sono a garanzia di risultato, salvo che il discostarsene in sede di adozione del provvedimento finale richiede forma e sostanza conforme a quanto previsto dalla norma stessa.
La discrezionalità poi non osta all'applicabilità dell'art.11 della legge n. 241/1990 poiché ne è il presupposto, l'esito positivo dell'istanza non può che significare il suo accoglimento, il salvo buon fine non può che essere inteso come riferimento alle sopravvenute ragioni di pubblico interesse che consentono il recesso salvo indennizzo.
In ordine poi ai presupposti per la concessione della proroga si deduce che non è pensabile che il Ministero si sia risoluto all'accordo in assenza di una persuasione positiva relativa alla sussistenza dei presupposti per la proroga e che qualsiasi dubbio in proposito avrebbe dovuto imporre di richiedere informazioni integrative.
Il persistere di una crisi di settore è fatto sopravvenuto di per sé in grado di giustificare la proroga.Inoltre la CIFA aveva allegato la propria intenzione di utilizzare la CIGS per cercare nuovi sbocchi sui mercati esteri, poiché la mera reiterazione di periodi di crisi industriale non è fatto idoneo a determinare il diniego di intervento pubblico senza considerare che lo stesso accordo è "fatto sopravvenuto" idoneo a giustificare la proroga.
L'amministrazione si è costituita ed ha dedotto:
1) che l'accordo del 28/7/1994 non rientra fra gli accordi ex art.11 della legge n. 241/1990, accordi con i quali l'amministrazione, in veste di parte, si obbliga a dare al provvedimento finale un determinato contenuto, concertato con gli interessati.
2) che l'accordo de quo invece rientra nell'ambito delle procedure di consultazione sindacale che, ai sensi dell'art.5 della legge 20/5/1975 n.164, come integrato dall'art.1, comma 3, della legge 19/7/1994 n.451, devono obbligatoriamente precedere la presentazione dell'istanza di CIGS e svolgersi presso le sedi territorialmente competenti.
3) che l'amministrazione è solo presente a tali procedure sindacali, a mezzo di propri rappresentanti i quali, sulla base di quanto dichiarato dai responsabili aziendali, si limitano a verificare la sussistenza delle condizioni tecnico-giuridiche per l'accoglimento dell'istanza di CIGS ma senza che ciò possa costituire vincolo alcuno per l'amministrazione, trattandosi di atto di competenza del Ministro.
4) che la durata del procedimento si spiega con la sua complessità e che il termine del procedimento è ordinatorio e non perentorio.
5) che la società non ha allegato difficoltà sopravvenute, limitandosi a ribadire la persistenza della crisi del settore.
DIRITTO
L'appello è infondato.
Il punto decisivo della controversia attiene alla qualificazione del verbale di accordo del 28/7/1994 quale accordo ai sensi dell'art. 11 della legge n. 241/1990 ed alla conseguente lamentata erroneità della sentenza impugnata.
In considerazione di ciò appare opportuno premettere qualche breve cenno in via generale ai fini dell'inquadramento della tematica dei contratti ad oggetto pubblico, degli accordi ex art.11 della legge n.241/1990 ed, in particolare degli accordi c.d. procedimentali prima di passare all'esame analitico dei singoli motivi di ricorso.
Non v'è dubbio che l'introduzione della figura dell'accordo appare una delle più rilevanti novità della legge sul procedimento amministrativo collegata ad una tendenza di lungo periodo, specie nel campo della disciplina dell'economia, a valorizzare i moduli dell'azione amministrativa capaci di acquisire il consenso degli amministrati rispetto all'imposizione di misure coattive.
Va tuttavia sottolineato che, rispetto a quanto originariamente previsto nei lavori preparatori che enunciavano il principio di contrattualità dell'azione amministrativa allo "scopo - così l'art.5 del Progetto elaborato dalla Commissione Nigro - di accelerare lo svolgimento dell'azione amministrativa e disciplinare con maggiore stabilità e precisione i comportamenti propri e dei privati oltre che i diritti ed i doveri reciproci, l'amministrazione favorirà la conclusione di accordi fra di essa e gli interessati senza pregiudizio dei diritti dei terzi", nella formulazione definitiva della legge n. 241/1990 (anche sulla scorta di quanto suggerito dal parere dell'Adunanza Generale del 19/2/1987) non v'è traccia del principio del favor per la conclusione del contratto ad oggetto pubblico, e l'esito negoziale viene ammesso nei soli casi di accordi procedimentali e di accordi sostitutivi, in quest'ultimo caso in presenza di espressa disposizione di legge che preveda la possibilità di conclusione di detto accordo sostitutivo.
La mancanza di un'espressa formulazione del favor per la conclusione di accordi - a differenza di quanto avviene nell'ordinamento tedesco (art. 54 della legge federale tedesca sul procedimento amministrativo del 1976 che recita:"un rapporto giuridico di diritto pubblico può essere costituito,modificato o estinto da un contratto in quanto non sia vietato da disposizioni di legge" per cui "l'autorità può, invece di emanare un atto amministrativo, concludere un contratto di diritto pubblico, con colui che potrebbe essere destinatario dell'atto amministrativo") - comporta se non la regola per cui occorre una previsione legislativa espressa per legittimare la conclusione di accordi ad oggetto pubblico certo la ricerca di un equilibrio fra la necessità di introdurre nuove modalità dell'azione amministrativa e l'esigenza di salvaguardare in capo all'amministrazione le prerogative sue proprie.
L'art.11 distingue due ipotesi, due tipi di contratto ad oggetto pubblico aventi diverse funzioni, la prima è quella degli accordi procedimentali o preliminari al provvedimento, la seconda è quella degli accordi sostitutivi.
L'accordo procedimentale è concluso "al fine di determinare il contenuto del provvedimento finale" (non quindi il provvedimento discrezionale finale ma il suo contenuto e ciò significa che può essere adottato anche in presenza di provvedimenti finali vincolati per aspetti che possono presentare - nel quando o nel quomodo - elementi di discrezionalità e che può essere stipulato se fornisce ad entrambe le parti un'utilità maggiore di quella della mera adozione del provvedimento finale altrimenti non vi sarebbe alcun motivo pratico di stipulare l'accordo che finirebbe con l'essere un doppione del normale canale autoritativo).
L'ipotesi corrisponde ad una prassi quella per cui l'amministrazione dichiara di essere disposta ad adottare un provvedimento con un certo contenuto purché l'interessato accetti certe clausole, e il privato accetta o viceversa,il privato suggerisce che il provvedimento contenga certe clausole, per lui gravose, dal provvedimento da adottare e l'amministrazione aderisce adottando un provvedimento conforme.
L'accordo preliminare mira alla prevenzione del contenzioso e realizza una posizione mediana fra posizioni altrimenti inconciliabili, aventi ad oggetto il contenuto del provvedimento (non l'esito genericamente favorevole del procedimento).
L'art.11 poi - secondo una impostazione dottrinale autorevole - minus dixit quam voluit: esso in tale prospettiva non servirebbe solo a determinare una delle opzioni possibili per l'amministrazione sul piano contenutistico ma avrebbe proprio la funzione di consentire delle deroghe al principio di tipicità degli atti amministrativi con ciò risultando uno strumento per far conseguire alle parti un'utilità ulteriore rispetto a quella che sarebbe consentita dal provvedimento finale.
Anche senza prestare adesione alla teorica da ultimo esaminata - poiché l'esame delle notevoli implicazioni di tale prospettiva esula dalla portata della presente controversia - può affermarsi che l'accordo procedimentale rivela la sua peculiare funzione non nella semplice determinazione dell'esito favorevole o sfavorevole dell'istanza del privato ma nella determinazione del contenuto del provvedimento, nei casi in cui detto contenuto sia controverso o controvertibile, o contenga clausole che, in difetto di accordo, non sarebbero facilmente accettate dal privato (tanto che all'origine dell'istituto vi sarebbero - secondo una certa dottrina - i c.d. atti d'obbligo o di sottomissione frequenti nella materia delle opere pubbliche e dei patti aggiuntivi ai contratti di appalto).
L'accordo si deve rivelare essenziale al fine di raggiungere un equilibrio sull'assetto degli interessi altrimenti non raggiungibile per via autoritativa.
Di qui anche la peculiare collocazione dell'art.11 nel Capo III della legge che disciplina le forme della partecipazione procedimentale ed i suoi possibili esiti anche negoziali tanto che può dirsi che l'esito negoziale è un possibile epilogo di una vicenda partecipativa e comunque di un procedimento già iniziato.
Il Capo III infatti disciplina la partecipazione al procedimento dei soggetti direttamente incisi dall'atto finale (art.7) che devono essere informati del suo avvio (art.8); l'intervento dei soggetti che possono ricevere pregiudizio dal provvedimento finale (art.9); la facoltà di prendere visione degli atti nonché di presentare memorie scritte e documenti (art.10) il tutto in vista di una definizione dell'affare che sia autoritativa o concordata , ma definita comunque attraverso la partecipazione procedimentale tesa al perseguimento dell'interesse pubblico.
L'accordo rivela un nesso strettissimo con la partecipazione procedimentale, tanto che può dirsi che non vi può essere accordo senza che vi sia stato avvio del procedimento, per cui può senz'altro dirsi che non possono concludersi accordi al di fuori e prima dell'avvio del procedimento e che non siano espressione della partecipazione procedimentale tesa a stabilire nel caso concreto quale sia l'interesse pubblico.
La volontà manifestata nell'accordo deve provenire dall'organo competente all'adozione del provvedimento finale o da altro organo appositamente delegato, altrimenti non vi sarebbe inidoneità dell'atto di autonomia ad impegnare l'amministrazione procedente e si potrebbe richiamare la disciplina del falsus procurator o del rappresentante senza potere (art. 1398 cod. civ.) per dedurne l'inefficacia - relativa - dell'accordo (che vincola solo gli stipulanti, salva ratifica) (art.1399 cod. civ.).
Secondo un'impostazione restrittiva l'accordo sarebbe poi sempre conseguente ad una decisione unilaterale dell'amministrazione di completare in via discrezionale il contenuto di un provvedimento che, altrimenti, potrebbe essere adottato in via unilaterale per cui dovrebbe essere sempre preceduto da una fase di scelta (del genere adozione di un atto di delibera a contrarre) che dia conto, con una motivazione apposita ,delle ragioni per cui l'amministrazione scende dal piano pubblicistico autoritativo a quello privatistico.
In tal modo esisterebbero sempre in sequenza procedimentale un provvedimento ed un contratto, una disciplina unilaterale seguita da una disciplina convenzionale dei reciproci diritti ed obblighi.
La prospettiva tuttavia non può essere accolta e non appare più rispondente al dettato normativo: l'azione autoritativa non è rimpiazzata dal principio del favor per il contratto, ma, nel testo della legge n. 241/1990, provvedimento e contratto sono posti sullo stesso piano quali esiti del procedimento partecipato.
La legge prevede solo l'accordo (sia pure preliminare a un provvedimento negoziato nel suo contenuto), per cui non occorre postulare una precedente determinazione di tipo provvedimentale (la determinazione pubblicistica di concludere l'accordo o di aderirvi).
L'atto autoritativo non è più il solo strumento della cura di interessi pubblici, essenziale è il fine pubblico, fungibili sono gli strumenti attraverso cui perseguirlo (il fine pubblico può essere perseguito anche attraverso la diretta negoziazione del contenuto del provvedimento finale).
Il diritto privato assunto dalla sfera pubblica si rivela in sé neutro strumento organizzatorio (e si pensi al fenomeno delle società miste) o modulo convenzionale o pattizio dell'agire amministrativo (accordo ex art.11 della legge n. 241/1990) utilizzabile , nei casi previsti della legge ed entro i limiti di meritevolezza dell'art. 1322 cod. civ..
Ciò premesso in via generale risulta chiaro che il verbale di accordo in sede sindacale per cui è processo non è un accordo ex art.11 della legge n. 241/1990.
In primo luogo si deve osservare che tale verbale di accordo è intervenuto prima dell'avvio del procedimento per la proroga della cassa integrazione guadagni straordinaria. Infatti si tratta di un accordo raggiunto in sede sindacale previsto dall'art.5 della legge 20/5/1975 n.164, disposizione in base alla quale "nei casi di eventi oggettivamente non evitabili che rendano non differibile la contrazione o la sospensione dell'attività produttiva, l'imprenditore è tenuto a comunicare alle rappresentanze sindacali aziendali o, in mancanza di queste, alle organizzazioni sindacali di categoria dei lavoratori più rappresentative operanti nella provincia la durata prevedibile della contrazione o sospensione ed il numero dei lavoratori interessati.
Qualora vi sia sospensione o riduzione dell'orario di lavoro superiore a sedici ore settimanali si procede a richiesta dell'imprenditore o degli organismi rappresentativi dei lavoratori di cui al comma precedente ad un esame congiunto in ordine alla ripresa dell'attività produttiva e ai criteri di distribuzione degli orari di lavoro.
All'atto della presentazione delle richieste di integrazione salariale ordinaria o straordinaria dovrà darsi comunicazione dell'esecuzione degli adempimenti di cui al presente articolo."
La norma citata è poi richiamata dall'art. 1 del d.l. 16/5/1994 n.299 conv. in l. n.451/1994, che prevede che il trattamento straordinario di integrazione salariale è concesso con decreto del Ministro del Lavoro e della previdenza sociale entro quaranta giorni dalla richiesta nel caso di crisi aziendale ed entro centoventi giorni dalla richiesta nel caso di ristrutturazione,riorganizzazione e conversione aziendale. Tal fine l'esame congiunto di cui all'art. 5 della legge 20 maggio 1975 n. 164 si svolge presso l'Ufficio provinciale del lavoro della massima occupazione.Nel caso in cui l'esame congiunto riguardi unità produttive ubicate in diverse province della stessa regione o di più regioni.esso si svolge, rispettivamente, presso l'ufficio regionale del lavoro e della massima occupazione o presso la Direzione Generale dei rapporti di lavoro del Ministero del Lavoro e della previdenza sociale."
L'accordo de qua agitur rientra quindi tra le procedure di consultazione sindacale che precedono necessariamente l'avvio del procedimento per la concessione della cassa integrazione guadagni e, pertanto, non può essere definito come un accordo procedimentale sul contenuto del provvedimento finale in quanto il procedimento diretto ad adottare la determinazione sulla concessione della cassa integrazione inizia successivamente all'esaurimento delle procedure di consultazione sindacale.
Tali procedure - come avviene nel moderno sistema di relazioni industriali - sono intermediate in via amministrativa, ad esse presenziano rappresentanti dell'amministrazione, i quali si limitano a prendere atto della volontà delle parti sociali e solitamente si impegnano, ma in via generale, e non certo assumendo in merito precise obbligazioni, ad assicurare i migliori sforzi dell'amministrazione per la composizione del conflitto sociale originato dalla crisi aziendale.
La presenza di rappresentanti dell'amministrazione vale a garantire un utile avvio della procedura di concessione della Cassa integrazione guadagni straordinaria ed a verificare l'esistenza delle condizioni per la presentazione della domanda ma non comporta né può comportare l'assunzione di obblighi procedimentali che si proiettino sul provvedimento finale, poiché tali obblighi si assumono rispetto ad un procedimento già esistente, a fronte cioè di chiare e motivate istanze delle parti in un contraddittorio pieno e non rispetto a procedimenti ancora da avviare.
Va altresì considerato che alla riunione ha assistito il Direttore Generale del Ministero, ossia un organo palesemente incompetente all'adozione del provvedimento finale né munito di apposita delega alla conclusione dell'accordo (come si evince dall'art. 1 del d.l. n.299/1994 competente all'atto di proroga della CIGS è il Ministro).
In ultimo si deve rilevare che il tenore delle espressioni usate- invero sintetiche e di stile - è tale da consentire di riportare gli impegni assunti al novero dei c.d. migliori sforzi (o "best efforts") o delle generiche assicurazioni volte ad assicurare serietà e sollecitudine nella valutazione della pratica per garantirne il buon esito: infatti il verbale si chiude semplicemente affermando che il Ministero del Lavoro si attiverà per l'esito positivo dell'istanza di CIGS. L'espressione, che nella sua ellitticità può creare qualche dubbio e che potrebbe per il futuro essere sostituita da clausola meno equivoca, deve però essere interpretata secondo buona fede, nel contesto in cui è stata resa che è contesto extraprocedimentale tale quindi da non poterla fare intendere come accordo procedimentale ex art. 11 della legge n. 241/1990.
Va altresì considerato che anche a volere ritenere formato un accordo sulla attivazione per l'esito positivo (ossia affinché si abbia un esito positivo della vicenda) tale intesa non può essere configurata come accordo "sul contenuto del provvedimento finale", non essendo in discussione alcuna clausola di detto provvedimento, ma semplicemente, anche nella prospettazione dell'appellante, solo il suo esito favorevole.
In tal senso appare anche sotto questo profilo che una sintetica intesa sull'esito favorevole di una certa istanza non possa ricondursi al tipo di accordo disciplinato dall'art. 11 della legge n. 241/1990 che, per quanto è stato evidenziato in termini generali, ha lo scopo non solo e non tanto di rimpiazzare sic et simpliciter i modelli autoritativi dell'azione amministrativa ma di sostituire l'atto imperativo garantendo un disegno consensuale degli interessi in giuoco che si integri nel contenuto del provvedimento (tanto che si qualificano anche i detti accordi come accordi "integrativi").
Un recente decisum della Sezione (CdS VI 20/1/2000 n.264) ha sottolineato la vincolatività dell'accordo procedimentale o integrativo, salva la possibilità di recesso per sopravvenuti motivi di pubblico interesse, ma anche la circostanza per cui esso serve a determinare il contenuto di futuri provvedimenti, esaurendo il potere discrezionale della p.a. nell'aderire o accettare l'accordo (si trattava del potere governativo di manovra delle quote saccarifere).
Sul piano della determinazione del contenuto del provvedimento l'accordo procedimentale esplica la sua funzione per cui esso è possibile, in via generale, anche senza previsione legislativa espressa. Ma ciò in quanto esso abbia la funzione di integrare concretamente il contenuto del provvedimento.
L'accordo sostitutivo richiede invece una previsione di legge che lo fondi.
Se fosse possibile, al di fuori di un'espressa previsione di legge, concludere accordi integrativi che abbiano solo lo scopo di garantire un certo esito dell'istanza del privato e non di determinare concretamente il contenuto del provvedimento (e non vi è determinazione concreta al di fuori di ogni effettiva negoziazione del contenuto del provvedimento) la norma che consente la conclusione di accordi sostitutivi solo in casi tassativi sarebbe facilmente elusa mediante la stipula di accordi preliminari (o procedimentali) aventi solo la finalità di anticipare il provvedimento finale e mediante l'attivazione di rimedi giurisdizionali in forma specifica.
Sarebbe in tal modo reintrodotta in modo surrettizio quella regola di contrattualità come modulo generale dell'azione amministrativa che era nel testo del progetto di legge redatto dalla Commissione Nigro ma non venne mantenuta nel testo finale della normativa, proprio sua.
Ne deriva la non riconducibilità allo schema di cui all'art. 11 della legge n. 241/1990 del verbale in contestazione.
La non definitività degli impegni assunti dal Ministero sul piano della mera logica dei migliori sforzi è ulteriormente testimoniata dalla dichiarazione aziendale di corrispondere ai lavoratori, salvo buon fine, il trattamento economico di CIGS.
Né può dirsi che la clausola "salvo buon fine", si riferisce al potere di recesso poiché altro è recedere da un accordo già concluso (con corresponsione di indennizzo che tutela sufficientemente l'azienda anche nei confronti dei lavoratori tanto da non rendere strettamente necessaria tale clausola di cautela), altro è attivare, d'intesa con l'amministrazione interessata un procedimento la cui conclusione non è scontata (tanto che essa- ove positiva - può convenientemente identificarsi con il buon fine richiamato nel verbale, con necessità di prevedere una restituzione dei pagamenti indebiti).
L'obbligo di buona fede e di rispetto del canone di buon andamento non impone poi la considerazione del verbale quale accordo ex art.11 della legge n. 241/1990.
E' senz'altro vero che le amministrazioni che intervengono nel conflitto sindacale ed industriale si pongono in una logica di mediazione che ha fatto discorrere di stato neo-corporativo, e non v'è dubbio sulla circostanza che nell'intervenire nella dinamica delle relazioni industriali esse debbano improntare la loro azione ai principi di buona fede ed al generale canone del buon andamento.
Ma giova altresì ricordare che il valore primario che impronta di sé l'agire amministrativo è il rispetto del canone di legalità che costituisce un preciso limite alla scelta dell'agire mediante moduli convenzionali, per cui deve concludersi che il contesto nel quale è stata conclusa l'intesa sindacale (pre-procedimentale), la presenza di rappresentanti dell'amministrazione non competenti e non investiti di potere decisorio in ordine al provvedimento finale ma svolgenti un mero ruolo di mediazione, l'assenza di ogni effettiva negoziazione sui presupposti e sul concreto contenuto del provvedimento finale tale da comportare la consumazione della discrezionalità amministrativa nell'accordo, la genericità dell'impegno assunto dall'amministrazione ad interporre i suoi buoni uffici (impegno ad attivarsi per un esito positivo dell'istanza), la presenza di clausole di cautela a contorno della stessa azione dell'impresa (con riguardo all'anticipazione del trattamento economico) sono tutti elementi che, interpretati secondo il principio di buona fede alla luce del tipo legale dell'accordo integrativo di cui all'art. 11 della legge n. 241/1990 escludono che nella specie ricorra tale accordo ad oggetto pubblico.
Né è stata provata l'invocata prassi amministrativa di far precedere la concessione della CIGS da tali accordi preprocedimentali in sede sindacale, prassi che comunque - anche ove fosse stata provata - non avrebbe potuto avere alcuna rilevanza perché distonica rispetto al dato normativo che assegna al Ministero in sede di consultazione sindacale un semplice ruolo di mediazione anticipata per l'avvio di una soluzione concordata del conflitto.
Veniamo ora all'esame dei singoli motivi di ricorso.
I primi tre sono rivolti all'atto di diniego e lamentano la violazione dell'art.11 della legge n.241/1990 nonché, sostanzialmente la contraddittorietà dell'azione amministrativa, la violazione del principio di buona fede e la violazione dell'art.1373 cod. civ. e dei principi vigenti in tema di recesso.
Si tratta di motivi logicamente connessi e tutti costruiti sul presupposto della qualificazione dell'accordo del 28/7/1994 come accordo procedimentale ex art.11 della legge n.241/1990 la cui inosservanza si riflette sulla legittimità della determinazione finale che si assume -nella tesi dell'appellante - contraria al tenore dell'accordo.
Essendosi appena accertata la non riconducibilità del verbale del 28/7/1994 all'accordo ex art.11 ciò dovrebbe essere sufficiente a rigettare i predetti tre motivi costruiti tutti sul presupposto della incidenza dell'inosservanza dell'accordo sulla legittimità della successiva azione amministrativa.
E' stata altresì avanzata - sin dal primo grado e riproposta in appello - azione di accertamento dell'inadempimento dell'accordo ai fini del riconoscimento del diritto al pagamento dell'indennizzo di cui all'art.11 comma 4 della legge n. 241/1990.
Ciò, in via generale, pone il problema dell'ammissibilità dei predetti motivi di ricorso in via impugnatoria e della rilevanza dell'inadempimento degli accordi ex art.11 della legge n. 241/1990 sulla legittimità dell'azione amministrativa successiva o ai soli fini risarcitori o della possibile compresenza di tutte le azioni predette.
Ove infatti si ritenesse che l'unica conseguenza dell'inosservanza dell'accordo fosse il pagamento dell'indennizzo di cui all'art. 11 comma 4 della legge n. 241/1990 (o il risarcimento del danno) allora si dovrebbe concludere per l'inammissibilità dei primi tre motivi di ricorso diretti all'annullamento del diniego di concessione della cassa integrazione guadagni per pretesa violazione dell'art.11 della legge n. 241/1990 .
Il rapporto fra le diverse azioni potrebbe essere anche impostato in termini di alternatività o di cumulo con evidenti conseguenze sul relativo regime processuale.
Trattandosi di questione di ammissibilità e non di merito, quindi di questione logicamente pregiudiziale rispetto a quella della fondatezza dei motivi, essa va trattata, in considerazione della sua novità ed importanza di massima pure in presenza dell'accertata (in via preliminare) non riconducibilità dell'accordo concluso in sede sindacale ex art. 5 della legge n. 164/75 all'accordo ex art.11 della legge n. 241/1990, incidendo sulle ragioni ( processuali o sostanziali ) della eventuale reiezione delle azioni proposte in giudizio.
In dottrina sull'inadempimento dell'accordo procedimentale sono state avanzate diverse tesi.
Una prima tesi sostiene che il privato sarebbe solo titolare di un'azione risarcitoria ossia di un diritto soggettivo al risarcimento danni per responsabilità contrattuale della pubblica amministrazione.
Una seconda tesi sostiene che il privato sarebbe in realtà titolare di una situazione di interesse legittimo tutelabile attraverso il ricorso amministrativo secondo lo schema del silenzio .
Una terza tesi ritiene che il privato possa esperire, a fronte dell'inadempimento della p.a. un'azione di accertamento e, successivamente, in ottemperanza, ottenere il provvedimento desiderato che l'amministrazione ha omesso di emanare.
Una quarta tesi, minoritaria, ritiene possibile l'esperimento dell'azione ex art. 2932 cod. civ. ossia l'esecuzione forzata in forma specifica a tutela del contratto preliminare, così rappresentando la sequenza accordo-provvedimento come la sequenza contratto preliminare -contratto definitivo.
In caso di provvedimento difforme da quanto pattuito, come nella specie, il privato vanterà un interesse legittimo all'annullamento del provvedimento nella parte difforme dall'accordo, della sola clausola difforme ove vi sia un interesse comune alla conservazione del provvedimento, di tutto il provvedimento ove la difformità sia particolarmente grave ed incidente sul complesso della regolamentazione adottata.
Una volta ottenuto l'annullamento del provvedimento il privato potrà poi agire per il risarcimento danni.
Ora sul tema si deve ritenere che l'art. 2932 cod. civ. non sia applicabile alla sequenza accordo ex art.11 l. 241/1990 - provvedimento finale poiché stante la legge abolitiva del contenzioso (l. n.2248/1865 all. e) ed i suoi noti limiti, nonché la circostanza che gli accordi in questione sono pur sempre contratti ad oggetto pubblico, stipulati nell'interesse pubblico, deve ritenersi che la sentenza non possa tener luogo del provvedimento non emanato, poiché l'emissione del provvedimento è qualcosa di diverso dalla conclusione del contratto definitivo (senza dire che l'accordo sul contenuto del provvedimento potrebbe non esaurire del tutto la discrezionalità amministrativa) ed il provvedimento implica sempre l'esercizio di poteri autoritativi che non può che essere attribuito ad organi amministrativi e non all'autorità giurisdizionale.
La condanna ad un facere sarà possibile quando l'adempimento all'accordo riguardi non l'esercizio di funzioni pubblicistiche ma un fare avente contenuto materiale o negoziale.
Tuttavia non può neanche concludersi che il privato abbia solo una tutela risarcitoria, specie ora che la nuova giurisdizione amministrativa è stata - con la legge n. 205/2000 - ricostruita in termini di pienezza.
In presenza di inerzia amministrativa successiva all'accordo il privato potrà agire con lo strumento del silenzio dall'accordo derivando un obbligo di provvedere all'adozione di un provvedimento di un certo contenuto (e quindi in questo caso il procedimento diretto all'annullamento del silenzio si porrà come preliminare ad un'azione di ottemperanza "contra silentium", in rito speciale ex art. 21 bis l. n. 205/2000 idonea ad emanare il provvedimento voluto; sul tema del silenzio di recente CdS Ad. plen. 9/1/2002 n. 1 che ha escluso in via generale la sostituzione della P.A.).
In presenza di un provvedimento difforme dall'accordo il privato potrà impugnare il provvedimento per violazione dell'art.11 della legge n.241/1990 in quanto violativi dell'accordo procedimentale ed, ottenuto l'annullamento potrà richiedere il risarcimento danni.
Poiché l'inadempimento può essere visto anche come incidente su un'obbligazione ove l'amministrazione non abbia più alcuna discrezionalità da esercitare in sede di adozione del provvedimento finale sarà ammissibile un'azione di accertamento dell'inadempimento ed una successiva azione di ottemperanza o risarcitoria, anche senza previo annullamento del silenzio o dell'atto difforme.
La condanna al pagamento di un indennizzo sarà legata al recesso legittimo, non all'inadempimento, sicché l'azione relativa presuppone la qualificazione dell'azione amministrativa come recesso per sopravvenuti motivi di interesse pubblico.
Ciò premesso su un piano di ricostruzione generale della fattispecie si deve concludere che il rapporto fra le azioni di accertamento, annullamento e risarcitorie in tema di inadempimento dell'accordo procedimentale o integrativo è complesso ma può essere così sintetizzato:
è inammissibile l'azione ex art.2932 cod. civ.;
è ammissibile l'azione contra silentium in caso di inerzia;
è ammissibile l'impugnativa dell'atto difforme dall'accordo deducendo come vizio di legittimità dell'atto la contrarietà all'accordo;
il risarcimento danni può essere chiesto in via normale come conseguenza dell'annullamento del silenzio o del provvedimento difforme dall'accordo;
l'azione di accertamento mero dell'inadempimento e l'azione risarcitoria diretta sono ammissibili solo quando con la conclusione dell'accordo la p.a. abbia esaurito il suo potere discrezionale.
Ciò premesso il primo motivo di ricorso, con il quale si impugna il diniego di CIGS e si denuncia la violazione dell'art.11 della legge n.241/1990, l'inadempimento dell'accordo del 28/7/1994 e l'eccesso di potere per contraddittorietà è ammissibile ma infondato.
Infatti per quanto detto sopra il verbale del 28/7/1994 non è un accordo integrativo del provvedimento finale.
Eguale conclusione deve raggiungersi con riferimento al secondo ed al terzo motivo di ricorso che evidenziano anche il difetto di condizioni per l'esercizio del diritto di recesso ex art. 11 comma 4 della legge n.241/1990 nonché la violazione dell'art. 19 della legge 28 febbraio 1986 n.41 per avere valorizzato un parere tecnico precedente l'accordo e quindi irrilevante, nonché per aver violato l'obbligo di buona fede ex art. 1338 cod. civ., l'art.1373 cod. civ. e principi vigenti in materia di recesso e di autotutela (in presenza di situazioni consolidate ed irreversibili).
Orbene è vero che in presenza dell'accordo integrativo del procedimento l'amministrazione è vincolata nella sua azione, salvo il diritto di recesso, ma ciò che deve escludersi nella specie, per quanto detto è proprio la sussistenza dell'accordo per cui le censure avanzate in ordine al cattivo esercizio del potere di recesso sono prive di pregio avendo l'amministrazione deciso l'adozione di un provvedimento finale contrario ad un mero accordo concluso in sede sindacale fra le parti sociali, senza che la p.a. ne fosse parte.
Va altresì rilevato che il parere del Comitato tecnico è un parere non vincolante, ma che costituisce la base ultima per la determinazione ministeriale in tema di concessione della Cassa integrazione guadagni per cui non si vede come possa avere efficacia viziante l'aver tenuto conto di un parere intervenuto prima del verbale di accordo sindacale, quando lo stesso Comitato tecnico in data 28/12/1994 si è nuovamente riunito (dopo la nuova istanza di proroga della CIGS) ed ha confermato il giudizio già espresso in data 28/6/1994.
Quanto poi al richiamo alle norme civilistiche di cui agli artt. 1338 cod. civ. e 1373 cod. civ. esso si appalesa non legittimo in quanto dette norme divengono applicabili solo in presenza di un accordo ex art. 11 della legge n. 241/1990 ma non in presenza di un semplice accordo fra parti sociali concluso con la mediazione della p.a..
La violazione dei principi in tema di autotutela non ha rilievo poiché il provvedimento impugnato conclude un procedimento di primo grado.
Il mancato rispetto del termine di cui all'art. 1 comma 3 della legge n. 451/1994 non ha efficacia viziante essendo solo il predetto termine un termine ordinatorio.
Da tutto quanto esposto deriva il rigetto per infondatezza dei primi tre motivi di ricorso.
Va invece rigettata per inammissibilità la proposta azione di accertamento dell'inadempimento poiché l'azione è proponibile in via autonoma solo in presenza di una consumazione integrale del potere discrezionale della p.a. in relazione alla conclusione dell'accordo ex art.11 l. n.241/1990 ma nel caso di specie l'accordo, come prospettato dall'appellante, a prescindere dalla sua concreta insussistenza, non esauriva certo l'ampiezza dei poteri discrezionali di concessione della CIGS (sul quomodo e sul quando). In ogni caso l'accordo non sussiste per cui l'azione è anche infondata.
Ne consegue anche il rigetto dell'azione di condanna irritualmente proposta con riguardo al pagamento dell'indennizzo (che è obbligo connesso solo all'esercizio legittimo del recesso) e che va intesa come azione risarcitoria limitata alla misura di detto indennizzo, egualmente infondata poiché l'amministrazione ha solo concluso negativamente il procedimento in assenza di brevi atti di autovincolo o di obblighi assunti in via contrattuale sul contenuto del provvedimento.
In ultimo si devono analizzare il quarto ed il quinto motivo del ricorso che sono relativi al malgoverno del potere di concessione della CIGS considerato indipendentemente dall'accordo sindacale del 28/7/1994 e le censure di erroneità avanzate sul punto avverso la sentenza impugnata.
In proposito si deve rilevare che l'art. 7 comma 5 della legge 20 maggio 1993 n.148 dispone che la proroga semestrale del trattamento integrativo è ammessa in caso di riscontrata esistenza di difficoltà anche esterne nella realizzazione del programma di gestione della crisi.
Il provvedimento impugnato così motiva: "la società pone in evidenza la crisi del settore di appartenenza. La situazione aziendale è la medesima riscontrata nei primi dodici mesi. Il Comitato tecnico già nella seduta del 20/6/1994 aveva escluso che venissero concessi ulteriori sei mesi dell'intervento CIGS."
L'esistenza di una procedura di incontri trimestrali per verificare l'andamento del programma di gestione della crisi non è argomento per ritenere contraddittorietà dell'azione amministrativa o che l'amministrazione abbia mutato orientamento, poiché non sono state richiamate specifiche risultanze di detti incontri che escludano l'assunto su cui si basa il diniego ossia che la situazione aziendale è rimasta immutata dopo i primi dodici mesi di CIGS ed il verbale di accordo sindacale va interpretato come semplice condizione per la presentazione dell'istanza di proroga.
Quanto poi alla riconducibilità della situazione di crisi alla particolari difficoltà di cui all'art. 7 comma 5 della legge n.148/1993 giova rilevare che le condizioni della proroga sono legate alla esistenza di sopravvenute difficoltà di ordine temporale nell'attuazione del piano di gestione già approvato o alla esistenza di difficoltà anche esterne, non imputabili alla volontà dell'azienda che ne abbiano ritardato l'attuazione.
La proroga, in sostanza, si può concedere in presenza di un credibile programma di ristrutturazione, riorganizzazione o conversione aziendale.
Il giudizio sinteticamente espresso sulla permanenza della situazione di crisi, si risolve in un giudizio sull'inadeguatezza del programma di gestione della crisi a far fronte alla situazione del mercato.
Di fronte a ciò, l'ampiezza della discrezionalità amministrativa da riconoscersi alla p.a. concedente la CIGS e la complessità dei parametri tecnici valutabili, non è censurabile.
L'azienda avrebbe dovuto specificare quali fossero state le difficoltà sopravvenute che avevano determinato la mancata realizzazione del programma nei primi dodici mesi previsti oppure, in alternativa, quali difficoltà esterne non ragionevolmente prevedibili (e quindi non imputabili) avessero determinato lo slittamento dell'attuazione del piano di gestione della crisi.
L'azienda invece non ha evidenziato nessun concreto impedimento alla realizzazione del piano incontrato dalla società nel corso della sua attuazione limitandosi ad allegare la persistenza della crisi del settore.
Tale motivazione non può ricollegarsi ad una difficoltà esterna non imputabile (e quindi non ragionevolmente prevedibile) in quanto già addotta nella precedente istanza di crisi aziendale.
Inoltre - anche a voler ricondurre la situazione di crisi alla sopravvenuta difficoltà - l'adeguatezza del piano di gestione da valutarsi discrezionalmente dalla p.a. può essere revocata in dubbio, dopo un periodo di erogazione della CIGS di dodici mesi che abbia lasciato immutata la situazione aziendale.
La disciplina della CIGS deve infatti essere letta nel quadro dei principi comunitari della concorrenza e degli aiuti di Stato e quindi non deve tradursi in un aiuto di Stato "al funzionamento delle imprese in crisi" (circostanza questa che ha condotto alla dichiarazione ad es. di illiceità della legge Prodi sull'amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi), legato solo alla esistenza oggettiva della situazione di crisi ma deve essere connesso alla tutela del lavoro ed a comportamenti dell'impresa che rivelino una sua dinamicità e la capacità di superare la crisi aziendale, fatti questi tutti da valutarsi in un giudizio altamente discrezionale rimesso all'autorità politica.
In presenza di tali circostanze l'azione della p.a. appare corretta e legittima.
Sussistono giusti motivi per compensare le spese processuali.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Sesta, respinge il ricorso in appello indicato in epigrafe.
Compensa tra le parti le spese di giudizio.
Ordina che la presente decisione sia eseguita dall'Autorità amministrativa.
Così deciso in Roma, il 5 febbraio 2002, dal Consiglio di Stato in sede giurisdizionale - Sez.VI -, riunito in Camera di Consiglio, con l'intervento dei Signori:
Giovanni RUOPPOLO Presidente
Sergio SANTORO Consigliere
Alessandro PAJNO Consigliere
Luigi MARUOTTI Consigliere
Giancarlo MONTEDORO Consigliere Est.
Depositata il 15 maggio 2002.