CONSIGLIO DI STATO, ADUNANZA PLENARIA - Sentenza 18 novembre 1999 n. 22 - Pres. Laschena, Est. Di Napoli - D. ed altro (Avv. Campagnola) c. Ministero di Grazia e Giustizia (Avv.ra Stato) - (conferma T.A.R. Lecce, I Sez., 21 giugno 1993, nn. 523 e 524 - la questione era stata rimessa con ordinanza della Sez. IV 16 marzo 1999 n. 281).
Pubblico impiego - Mansioni e funzioni - Svolgimento mansioni superiori - Differenze retributive - In genere non spettano.
Pubblico impiego - Mansioni e funzioni - Svolgimento mansioni superiori - Art. 36 Cost. - Applicazione automatica - Impossibilità.
Nessuna norma o principio generale desumibile dall'ordinamento consente la retribuibilità in via di principio delle mansioni superiori comunque svolte nel campo del pubblico impiego. L'esercizio di mansioni superiori rispetto alla qualifica rivestita, peraltro, contrasta con il buon andamento e l'imparzialità dell'Amministrazione nonché con la rigida determinazione delle sfere di competenza, attribuzioni e responsabilità proprie dei funzionari (regola di organizzazione necessaria all'applicazione dell'art. 28) (1).
L'art. 36 Cost., il quale sancisce il principio di corrispondenza della retribuzione dei lavoratori alla qualità e quantità del lavoro prestato, non può trovare incondizionata applicazione nel rapporto di pubblico impiego, concorrendo in detto ambito altri principi di pari rilevanza costituzionale, quali quelli previsti dall'art. 98 Cost. (che nel disporre che «i pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione» vieta che la valutazione del rapporto di pubblico impiego sia ridotta alla pura logica del rapporto di scambio) e quali quelli previsti dall'art. 97 Cost., contrastando l'esercizio di mansioni superiori rispetto alla qualifica rivestita con il buon andamento e l'imparzialità dell'Amministrazione, nonché con la rigida determinazione delle sfere di competenza, attribuzioni e responsabilità proprie dei funzionari.
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(1) Ha aggiunto l'Ad.Plen. che: "La materia è ora disciplinata dall'art. 56 del D.L.vo n. 29 del 1993 (nel testo sostituito con l'art. 25 del D.L.vo n. 80 del 1998), che (come già l'art. 56 comma 2 nel testo originario) sembra confermare l'indirizzo elaborato dal Consiglio di Stato. Detta norma prevede espressamente la retribuibilità dello svolgimento delle mansioni superiori, ma (comma 6) ne rinvia l'applicazione in sede di attuazione della nuova disciplina degli ordinamenti professionali prevista dai contratti collettivi e con la decorrenza da questi stabilita. «Fino a tale data, in nessun caso lo svolgimento di mansioni superiori rispetto alla qualifica di appartenenza può comportare il diritto a differenze retributive o ad avanzamenti automatici nell'inquadramento professionale del lavoratore» (art. 56 citato comma 6). Le parole «a differenze retributive o» sono state soppresse dall'art. 15 del D.L.vo 29 ottobre 1998 n. 387 (pubblicato sulla G.U. 7 novembre 1998 n. 261), ma ovviamente con effetto dalla sua entrata in vigore, sicché l'innovazione, esulando dall'ambito temporale coinvolto dalla presente vertenza, non esplica su di essa alcuna efficacia".
DIRITTO - La sentenza appellata ha disconosciuto il diritto dei ricorrenti, impiegati di ruolo del Ministero di grazia e giustizia, ad una retribuzione corrispondente alle mansioni superiori esercitate per l'inapplicabilità al pubblico impiego dell'art. 13 dello Statuto dei lavoratori e dell'art. 2126 Codice civile. Ha altresì escluso l'applicabilità diretta al pubblico impiego dell'art. 36 Costituzione.
Gli appellanti hanno riproposto la domanda di adeguamento della retribuzione alle superiori mansioni esercitate. Deducono al riguardo la violazione dell'art. 13 dello Statuto dei lavoratori, dell'art. 2126 Cod. civ., dell'art. 36 della Costituzione, nonché di note decisioni della Corte costituzionale (nn. 57 del 1989 e 296 del 1990) e del Consiglio di Stato (Ap. n. 2 del 1991).
La Quarta Sezione reputa condivisibile in via di principio la tesi difensiva dell'Amministrazione, che adduce l'impossibilità di attribuire il maggior trattamento economico corrispondente alle funzioni superiori svolte in ipotesi diverse da quelle stabilite dal Legislatore e riconosciute dalla giurisprudenza della Corte costituzionale e di questo Consiglio.
Tuttavia, ha deferito la questione all'Adunanza plenaria sul presupposto che potrebbe esservi spazio per una diversa interpretazione, anche per la peculiare situazione degli appellanti, giacché nella fattispecie lo svolgimento di mansioni superiori, assegnate con atto formale su posto vacante e disponibile, si è protratto nel tempo.
La Sezione rimettente pone in risalto - è questo l'argomento centrale dell'ordinanza - che l'assegnazione del dipendente a mansioni superiori non confligge con principi basilari dell'ordinamento, ma solo con la stretta legalità, e con l'organizzazione, che ancora la retribuzione del dipendente al suo incardinamento nell'Ente ed ai corrispondenti meccanismi di erogazione della spesa, basati su ruoli di spesa fissa.
L'insieme dei predetti criteri non attiene a principi giuridici o etici fondamentali dell'ordinamento, ma a disposizioni normative soggette all'evoluzione della struttura del pubblico impiego.
Il problema sottoposto a questa Adunanza consiste dunque nel verificare la retribuibilità o meno del servizio prestato dal pubblico dipendente per adempiere compiti di una superiore qualifica.
Al riguardo vanno richiamate alcune recenti decisioni, sintomatiche della soluzione negativa del problema, emergente in modo sempre più netto nella giurisprudenza di questo Consiglio. Tale orientamento, con le puntuali ed esaurienti motivazioni che lo sorreggono, merita di essere condiviso in questa sede, perché nessuna norma o principio generale desumibile dall'ordinamento consente la retribuibilità in via di principio delle mansioni superiori comunque svolte nel campo del pubblico impiego.
Si è anzitutto affermato che nel relativo ambito le mansioni svolte dal dipendente, superiori a quelle dovute sulla base del provvedimento di nomina o di inquadramento, sono del tutto irrilevanti ai fini sia economici sia di progressione in carriera, salvo che la legge non disponga altrimenti. Ciò in quanto il rapporto di pubblico impiego non è assimilabile al rapporto di lavoro privato, perché gli interessi coinvolti hanno natura indisponibile ed anche perché l'attribuzione delle mansioni e del correlativo trattamento economico devono avere il loro presupposto indefettibile nel provvedimento di nomina o di inquadramento, non potendo tali elementi costituire oggetto di libere determinazioni dei funzionari amministrativi (V Sez., 30 ottobre 1997 n. 1219).
Questo Consesso ha pure chiarito che, al fine di rendere rilevanti le mansioni superiori adempiute da un pubblico dipendente, non è invocabile l'art. 2126 Cod. civ., il quale oltre a non dare rilievo alle mansioni svolte in difformità dal titolo invalido, riguarda un fenomeno del tutto diverso (lo svolgimento di attività lavorativa da parte di chi non è qualificabile pubblico dipendente) ed afferma il principio della retribuibilità del lavoro prestato sulla base di atto nullo o annullato. Esso, pertanto, non incide in alcun modo sui principi concernenti la portata dei provvedimenti che individuano il trattamento giuridico ed economico dei dipendenti pubblici e non consente di disapplicare gli atti di nomina o di inquadramento, emanati in conformità delle leggi e dei regolamenti, specie se divenuti inoppugnabili (V Sez., 17 maggio 1997 n. 515).
Il carattere supplementare ed integrativo dell'art. 2103 Cod. civ., come sostituito dall'art. 13 L. 20 maggio 1970 n. 300 (c.d. Statuto dei lavoratori), per quanto riguarda l'obbligo di adeguare il trattamento economico alle mansioni esercitate, è da tempo pacifico nella giurisprudenza di questo Consiglio. Sicché tale norma può essere applicata al settore dell'impiego pubblico soltanto nei limiti previsti da norme speciali (V Sez., 11 maggio 1989 n. 274).
Il principio della irrilevanza giuridica ed economica dello svolgimento, in tutte le sue forme, di mansioni superiori nell'ambito del pubblico impiego -salvo che tali effetti derivino da un'espressa previsione normativa - è un dato acquisito alla giurisprudenza di questo Consiglio (vedi, tra le recenti: IV Sez., 17 maggio 1997 n. 647; C.G.A., 27 maggio 1997 n. 197; V Sez., 30 aprile 1997 n. 429, 24 marzo 1997 n. 290, 28 gennaio 1997 n. 99; VI Sez., 26 giugno 1996 n. 860 e 10 febbraio 1996 n. 189).
L'Adunanza plenaria intende confermare il predetto orientamento e le argomentazioni che lo sostengono nella controversia deferitale (a cui resta estranea, come alla fine si vedrà, la più recente normativa), limitandosi a constatare che per i dipendenti dello Stato il principio è stato accolto dall'art. 33 del D.P.R. 10 gennaio 1957 n. 3, laddove afferma che l'impiegato ha diritto allo stipendio ed agli assegni per carichi di famiglia «nella misura stabilita dalla legge».
Qualche ulteriore considerazione merita, a causa del continuo richiamo che ne fanno i ricorrenti quando agiscono per vedersi compensato l'espletamento di mansioni superiori, l'interrogativo se tale pretesa possa rinvenire il suo diretto fondamento nell'art. 36 Cost., che sancisce il principio di corrispondenza della retribuzione alla qualità e quantità del lavoro prestato. La norma, ad avviso del Collegio, non può trovare incondizionata applicazione nel rapporto di pubblico impiego, concorrendo in detto ambito altri principi di pari rilevanza costituzionale.
Non solo l'art. 98 della Costituzione, nel disporre che «i pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione», vieta che la valutazione del rapporto di pubblico impiego sia ridotta alla pura logica del rapporto di scambio, ma l'operatività dell'art. 36 nell'ambito del pubblico impiego trova un limite invalicabile nell'art. 97 della Carta fondamentale.
L'esercizio di mansioni superiori rispetto alla qualifica rivestita, infatti, contrasta con il buon andamento e l'imparzialità dell'Amministrazione nonché con la rigida determinazione delle sfere di competenza, attribuzioni e responsabilità proprie dei funzionari (regola di organizzazione necessaria all'applicazione dell'art. 28).
Riguardo al buon andamento, è agevole osservare che l'opera dì chi svolge mansioni superiori non può identificarsi con quella di chi appartiene ad un ruolo diverso e la cui maggiore qualificazione professionale, significativa di una più elevata qualità del lavoro prestato, è stata oggettivamente accertata con apposita selezione concorsuale (che, a norma del comma 3 del citato art. 97, rappresenta la regola per l'accesso a pubblici impieghi).
L'affidamento di mansioni superiori a pubblici dipendenti avviene spesso con criteri che non garantiscono l'imparzialità dell'Amministrazione.
L'art. 97 comma 1 autorizza al limite norme di organizzazione dei pubblici uffici che, per esigenze eccezionali di buon andamento dei servizi, consentono l'assegnazione temporanea di dipendenti a mansioni superiori alla loro qualifica senza diritto a variazioni del trattamento economico (cfr. Ap. dec. 4 settembre 1997 n. 20).
In conclusione, nell'ambito del pubblico impiego è la qualifica e non le mansioni il parametro al quale la retribuzione è inderogabilmente riferita, considerato anche l'assetto rigido della Pubblica amministrazione sotto il profilo organizzatorio, collegato anch'esso, secondo il paradigma dell'art. 97, ad esigenze primarie di controllo e contenimento della spesa pubblica.
Ciò comporta che l'Amministrazione sia tenuta ad erogare la retribuzione corrispondente alle mansioni superiori solo quando una norma speciale consenta tale assegnazione e la maggiorazione retributiva, circostanza che manca nella fattispecie.
Ovviamente, lo si rileva per completezza, il dipendente può reagire all'utilizzazione illegittima da parte della P.A. in mansioni superiori alla qualifica rivestita, utilizzando i rimedi anche giurisdizionali che l'ordinamento gli consente (ma senza poter accampare alcun diritto ad una indennità aggiuntiva).
In tempi recenti l'art. 57 del D.L.vo 3 febbraio 1993 n. 29 ha introdotto (in attuazione della delega legislativa contenuta nell'art. 2, lett. n), della L. 23 ottobre 1992 n. 421) una nuova, completa disciplina dell'attribuzione temporanea di mansioni superiori, riconoscendo entro certi limiti rilevanza economica a detta attribuzione, con disposizioni peraltro innovative del pregresso sistema nel quadro di «privatizzazione» del pubblico impiego (conforme, IV Sez., 12 novembre 1996 n. 1205, in questa Rassegna 1996, I, 1694).
La norma, tuttavia, è stata abrogata dall'art. 43 del D.L.vo 31 marzo 1998 n. 80 senza avere avuto mai applicazione (la sua operatività è stata più volte differita: da ultimo, al 31 dicembre 1998 con l'art. 39 comma 17 della L. 27 dicembre 1997 n. 449).
La materia è ora disciplinata dall'art. 56 del D.L.vo n. 29 del 1993 (nel testo sostituito con l'art. 25 del D.L.vo n. 80 del 1998), che (come già l'art. 56 comma 2 nel testo originario) sembra confermare l'indirizzo elaborato dal Consiglio di Stato.
Detta norma prevede espressamente la retribuibilità dello svolgimento delle mansioni superiori, ma (comma 6) ne rinvia l'applicazione in sede di attuazione della nuova disciplina degli ordinamenti professionali prevista dai contratti collettivi e con la decorrenza da questi stabilita. «Fino a tale data, in nessun caso lo svolgimento di mansioni superiori rispetto alla qualifica di appartenenza può comportare il diritto a differenze retributive o ad avanzamenti automatici nell'inquadramento professionale del lavoratore» (art. 56 citato comma 6).
Le parole «a differenze retributive o» sono state soppresse dall'art. 15 del D.L.vo 29 ottobre 1998 n. 387 (pubblicato sulla G.U. 7 novembre 1998 n. 261), ma ovviamente con effetto dalla sua entrata in vigore, sicché l'innovazione, esulando dall'ambito temporale coinvolto dalla presente vertenza, non esplica su di essa alcuna efficacia.
Per le considerazioni sin qui esposte gli appelli sono infondati e devono essere respinti.
Sussistono, tuttavia, giusti motivi per compensare fra le parti le spese del secondo grado di giudizio.