CONSIGLIO DI STATO, ADUNANZA PLENARIA - Sentenza 28 febbraio 2002 n. 2 - Pres. De Roberto, Est. Farina - Ministero della Pubblica Istruzione (Avv. Stato Tortora) c. Scotto (Avv.ti Macino e Romolo) - (conferma T.A.R. Veneto, Sez. II, 16 giugno 1998 n. 1049; la questione era stata rimessa con ord. della Sez. VI, 8 maggio 2001, n. 2568).
Pubblico impiego - Sospensione cautelare dal servizio - Disposta nelle more della definizione di un procedimento penale - Omesso inizio del procedimento disciplinare dopo la condanna penale - Effetti - Conversione della misura cautelare in una sanzione definitiva di identico contenuto - Impossibilità - Diritto ad ottenere la restitutio in integrum - Spetta.
Nel caso in cui la P.A., nelle more della definizione del giudizio penale, abbia applicato nei confronti di un dipendente pubblico un provvedimento di sospensione cautelare facoltativa dal servizio ai sensi dell'art. 91 del t.u. 10 gennaio 1957, n. 3 e poi - a seguito della definitiva condanna del dipendente- non abbia iniziato nei confronti dello stesso un procedimento disciplinare, la condanna penale, intervenuta nei confronti dell'impiegato, non è suscettibile di tenere ferma la sospensione cautelare dal servizio.
In tale ipotesi (mancato inizio di un procedimento disciplinare a seguito della condanna penale), infatti, non può infatti ammettersi una conversione della misura cautelare in precedenza applicata in una sanzione definitiva di identico contenuto per effetto del semplice intervento di una condanna penale e la sanzione cautelare deve intendersi caducata, nello stesso modo di quanto accade nell'ipotesi in cui il procedimento disciplinare, tempestivamente instaurato, si estingua.
Il dipendente pubblico condannato in sede penale e sospeso dal servizio nei cui confronti non viene attivato il procedimento disciplinare ha diritto al reintegro della sua posizione, dovendosi computare a tal fine l'intero periodo di sospensione cautelare facoltativa (1).
(1) Commento di
GIULIO BACOSI
(Avvocato dello Stato)
Rito penale,
procedimento disciplinare e restitutio in integrum:
l'autorevole "punto" (di vista) della Plenaria.
1. Il fatto.
Nella seconda metà degli anni '80 un docente di ruolo di scuola media superiore, già soggetto a procedimento penale, viene reso destinatario di una misura di custodia cautelare, per poi esser rimesso in libertà il 16 di luglio del 1986.
Tale data finisce col rappresentare il dies a quo a decorrere dal quale l'Amministrazione scolastica - al fine di scongiurare immediati, imbarazzanti "rientri" - dispone per il docente in questione la sospensione cautelare c.d. "facoltativa" dal servizio.
Il provvedimento parentetico, interruttivo della regolare erogazione della prestazione lavorativa, viene peraltro expressis verbis adottato sul presupposto dell'art.91 del d.p.r. n.3 del 1957, e pertanto assunto quale "sospensione cautelare facoltativa (dal servizio)..fino alla conclusione del procedimento disciplinare".
Il docente finisce col subire una condanna alla reclusione per un torno di tempo pari ad un anno e quattro mesi; solo a partire dal 7 febbraio 1992, data del decreto ministeriale di revoca della ridetta sospensione "facoltativa" lo stesso viene quindi reimmesso pleno iure nelle funzioni di docenza, non senza, peraltro, un contestuale invito operato dal Ministero al competente Provveditore affinché curi la tempestiva instaurazione del procedimento di "merito" disciplinare.
Trascorre un decennio dal primigenio abbrivio della vicenda ed il ridetto Provveditore agli Studi di Venezia, che peraltro non ha mai raccolto l'invito, pervenutogli dagli uffici romani, ad intraprendere il procedimento disciplinare, con due decreti in data 6 settembre 1996 e 21 gennaio 1997, provvede a ricostruire all'insegnante la complessiva posizione giuridica ed economica, oltrechè ad elaborarne il progetto di liquidazione della relativa indennità di buonuscita.
Viene, nondimeno, assunto come irrilevante (ai fini tanto della predetta ricostruzione di carriera, quanto del rammentato progetto di liquidazione della buonuscita) il frangente diacronico che ha visto il docente sospeso cautelarmente dal servizio (16 luglio 1986 - 7 febbraio 1992), sospingendo quest'ultimo a reagire innanzi al locale Tar.
Il Tribunale lagunare afferma, in via pregiudiziale, la propria giurisdizione sulla proposta controversia (se ne sospettava da parte dell'intimata Amministrazione un potenziale discessus a favore della Corte dei Conti); respinge l'eccezione di prescrizione sollevata ancora dalla parte pubblica per poi, nel merito, accogliere parzialmente le censure avanzate dal ricorrente ed appuntantesi proprio sulla esclusione, asseritamente illegittima, del tratto temporale di sospensione facoltativa dal servizio dal compendio cronologico rilevante ai fini della ricostruzione di carriera e del connesso progetto di liquidazione della indennità di buonuscita.
Il resistente Ministero della Pubblica Istruzione (oggi Ministero dell'Istruzione) grava in appello la sentenza del Tar dei Dogi adducendo innanzi al Consiglio di Stato due ordini di censure, con la prima delle quali, in rito, viene ribadito il presunto difetto di giurisdizione del Tar a conoscere vertenze, quali quella di pertinenza, concernenti in realtà l'accertamento del diritto a pensione, o comunque questioni connesse a tale accertamento.
Nel merito la difesa pubblica - con argomentazione, prima facie, tutt'altro che periclitante - nega alla fattispecie in parola l'applicazione dell'art. 96 del datato t.u. sugli impiegati civili dello Stato n. 3 del 10 gennaio 1957 (disposizione che farebbe leva sul necessario espletamento di una sequenza disciplinare "di merito", nella specie non avutasi, al fine di legittimare l'irrilevanza del periodo di sospensione "cautelare" dal servizio in rapporto alla eventuale restitutio in integrum), per abbracciare la tesi che vede piuttosto operativo, in ipotesi quali quella all'esame, il successivo art.97.
Quest'ultima disposizione, in particolare, prevedrebbe delle "eccezionali ipotesi di indennizzo" per il pubblico dipendente già soggetto a procedimento penale, garantendone la restitutio in integrum nel solo caso di proscioglimento o di assoluzione, ma vietando - sulla base di uno stringente ragionamento a contrario - tale reintegrazione in ipotesi, come quella di specie, in cui l'imputato pubblico dipendente sia stato alfine condannato, quand'anche al provvedimento di sospensione cautelare non abbia poi fatto seguito un autentico procedimento disciplinare.
In altri termini, il fatto che sia intervenuta condanna è evenienza idonea a scongiurare, nell'ottica fatta propria dall'Amministrazione (e, per essa, dall'Avvocatura dello Stato) la possibilità che il dipendente che fu imputato abbia ricostruita la carriera, anche a fini pensionistici; e ciò non soltanto con riferimento al periodo in cui lo stesso sia stato materialmente privato della libertà personale, ma financo in relazione al circuito temporale che lo abbia visto - pur fisicamente libero - nondimeno "facoltativamente" sospeso dal servizio ad iniziativa della p.a. datoriale.
Si riscontrerebbe infatti, in entrambi i casi, una frattura del sinallagma contrattuale tra parte pubblica e privato prestatore di lavoro, restando irrilevante, con riguardo alla seconda delle ipotesi considerate (impiegato fisicamente libero, e tuttavia non reintegrato nella posizione lavorativa), che sia stato o meno successivamente intrapreso procedimento disciplinare nei confronti del dipendente ab origine cautelarmente (e "facoltativamente") sospeso dal servizio.
Proposto controricorso dall'appellato vincitore in prime cure, la VI Sezione del Consiglio di Stato provvede in primis a rigettare la istanza di sospensione dell'esecuzione interposta dall'Amministrazione scolastica con riguardo alla gravata pronuncia del Tar Veneto (ordinanza n.1870 dell'8 ottobre 1999), per poi riaffermare, in rito, la riconducibilità delle fattispecie quali quella all'esame alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo in materia di c.d. "pubblico impiego" (si ricade temporalmente sotto l'egida del vecchio regime ante-decreto 80.98).
Viene, da ultimo, rimesso all'Adunanza Plenaria, con decisione all'uopo (n.2658 del 19 dicembre 2000 - 8 maggio 2001) il vaglio della questione che ha costituito il perno del pronunciamento veneziano, ovvero la significatività o meno, pro-dipendente ed a fini di relativa ricostruzione della carriera e di conseguente liquidazione della indennità di buonuscita, del periodo in cui lo stesso, già sottoposto a procedimento penale, pur libero (ovvero non più destinatario di misura custodiale o comunque idonea a restringerne la libertà personale) - e come tale in condizioni di erogare le proprie energie lavorative - sia stato reso dall'Amministrazione destinatario di un provvedimento cautelare di sospensione c.d. "facoltativa" dal servizio, con conseguente materiale interruzione del sinallagma contrattuale, senza che a tale evenienza abbia poi fatto seguito la tempestiva instaurazione di un rituale procedimento disciplinare.
2. La decisione della Plenaria.
Il Collegio - in ciò concordando con quanto già premesso dalla Sezione Sesta in sede di rimessione - prende le mosse dalla considerazione onde la fattispecie de qua (pendenza di un processo penale, contemporanea irrogazione da parte della p.a., in via cautelare, della sospensione c.d. "facoltativa" dal servizio, successiva condanna dell'imputato pubblico dipendente e difetto di un procedimento disciplinare a carico del medesimo da parte dell'Amministrazione datoriale) non trovi un esplicito riscontro, in termini di disciplina, nel vigente contesto ordinamentale, con ciò implicitamente denunciando quella agonicità normativa solo in parte colmata (almeno stando ai primi commenti in proposito) dalla recente legge n.89 del 2001, in ogni caso inapplicabile ratione temporis alla fattispecie in considerazione.
Vengono quindi passati in rapida rassegna dall'Adunanza - con la consueta, paludata "solennità" - i tre orientamenti giurisprudenziali che hanno tentato nel corso degli anni di colmare la ridetta "falla" normativa.
Il primo dei quali, più tradizionale, ha da sempre recisamente escluso, ai fini della eventuale ricostruzione della carriera di un dipendente già ex facultate sospeso dal servizio, che possa assumersi rilevante la pendenza di un procedimento o, dipoi, di un processo penale, e lo stesso definitivo esito di quest'ultimo, quand'anche nel senso della condanna di tale dipendente, in difetto di una sequenza disciplinare successivamente all'uopo orchestrata dalla p.a. nella relativa veste di datore di lavoro.
Da questa prospettiva, pertanto, anche nell'ipotesi in cui il ricorrente abbia alfine subito una condanna penale, ciò costituirebbe una evenienza comunque inidonea ad intaccarne il diritto alla piena ricostruzione della carriera, pur con riferimento al periodo in cui il sinallagma tra la prestazione lavorativa ed i pertinenti riconoscimenti giuridico-economici sia stato infranto ad iniziativa cautelare dell'Amministrazione, ogniqualvolta questa abbia poi omesso di tradurre la "cautela sospensiva" nel "merito" del conseguente procedimento disciplinare.
Al cospetto di un incalzante bradisismo giuridico che connota la materia sondata, vien quindi fatto all'Adunanza di registrare un secondo orientamento pretorio, giunto a conclusioni del tutto opposte rispetto a quello testè passato in rassegna, e peraltro già dubitativamente richiamato dalla stessa Sezione rimettente.
Nel relativo solco si collocano quelle decisioni intese a ritenere pienamente fungibili - al fine di escludere il riconoscimento al dipendente del trattamento economico (anche pensionistico) direttamente correlato al periodo in cui lo stesso è stato cautelarmente sospeso dal servizio - tanto il successivo provvedimento irrogativo della sanzione disciplinare (all'esito del relativo procedimento all'uopo instaurato), quanto l'eventuale sentenza di condanna penale, pur in difetto di attivazione del ridetto procedimento disciplinare da parte della p.a.
Con riguardo a quest'ultima opzione ermeneutica, affiora dall'iter motivazionale della pronuncia in commento, additato quale autorevole precedente (almeno prima facie) conforme, la decisione della stessa Adunanza n.15 del 1999; si tratta tuttavia - come lo stesso Collegio ha cura di precisare - di una decisione in realtà intervenuta su fattispecie diversa da (seppure in qualche modo analoga a) quella neosottoposta al Supremo Consesso Amministrativo.
Lì, al contrario che qui, alla sospensione cautelare aveva fatto seguito, oltre alla sentenza di condanna, anche un rituale procedimento disciplinare a carico del dipendente-imputato, con conclusiva irrogazione di un provvedimento di sospensione dalla qualifica; se ne era tratto l'autorevole precipitato giuridico onde avrebbe dovuto assumersi ben ricostruibile la carriera del dipendente in rapporto a quella frazione di sospensione cautelare non cronologicamente "coperta" da altro titolo "di merito", quale appunto la sospensione disciplinare dalla qualifica o la sentenza di condanna del giudice penale, a quest'ultimo fine da intendersi in effetti come pienamente fungibili.
Viene, da ultimo, scandagliato un terzo orientamento pretorio (fatto proprio, in specie, da qualche Tar e dalla Corte dei Conti), inteso ad assumere negativamente rilevante - a fini di eventuale ricostruzione della carriera del dipendente - la intervenuta sospensione cautelare dal servizio, quand'anche la p.a. non vi abbia fatto seguire un procedimento disciplinare, ogniqualvolta comunque penda un procedimento penale a carico del dipendente, escluso il solo caso in cui il giudizio penale si concluda con sentenza che neghi la pretesa punitiva dello Stato (assoluzione).
In altri termini, stando a questo terzo corno dell'alternativa, poggiante su una rigorosissima esegesi del dato normativo, l'adozione di un provvedimento di sospensione cautelare "facoltativa" a causa della pendenza di un procedimento penale sarebbe circostanza comunque idonea (fatto salvo il successivo intervento "sanante" di una sentenza di assoluzione) a spezzare inesorabilmente il sinallagma che avvince la prestazione lavorativa da un lato ed il correlato trattamento economico (anche de futuro) dall'altro, a nulla rilevando la circostanza che l'ipotesi disciplinarmente rilevante non sia stata in seguito vagliata nel "merito" attraverso un procedimento avviato alla bisogna dalla competente p.a..
Ci si troverebbe pertanto al cospetto di un caso in cui la sospensione cautelare dal servizio sarebbe rilevante "in negativo" per il dipendente a causa del solo e semplice collegamento con una accusa penale che abbia fatto del medesimo un imputato (salva assoluzione), riprendendo uno schema analogo a quello già scolpito dall'art.15 comma 4-septies della legge n.55 del 1990 (come introdotto dalla legge n.16 del 1992), a mente del quale il dipendente pubblico va immediatamente sospeso dal servizio quando, oltrechè condannato anche in via non definitiva in relazione a determinati delitti, ovvero sottoposto a misure di prevenzione, sia stato anche solo rinviato a giudizio in relazione ai delitti predetti.
Il principio generale cui si parametra tale filone decisionale appare dunque quello per cui l'obbligo retributivo va ineludibilmente subordinato alla prestazione lavorativa, onde entrambi i poli necessariamente stanno e cadono insieme: mancata la prestazione lavorativa, in ogni caso non può essere riconosciuto alcun trattamento economico alla stessa correlato, in disparte il solo caso in cui il processo penale si concluda nel senso dell'innocenza del dipendente, come esplicitamente affermato dall'art.97 del t.u. n.3 del 1957.
Con riguardo a quest'ultima eventualità - osserva il Collegio con espressione icastica - viene posto a carico dell'Amministrazione dal menzionato orientamento il "rischio dell'accusa infondata", sicchè una sospensione cautelare "avventata" concomitante ad un processo penale, che si veda alfine sottratto il relativo titolo giustificativo in forza di una successiva pronuncia di assoluzione, imporrà la piena ricostruzione della carriera.
Al contrario, il fatto che il t.u. abbia sottaciuto la diversa ipotesi della condanna del dipendente "imputato" porterebbe a ritenere - stando sempre all'ipotesi giurisprudenziale in rassegna - che in tale ultimo caso, a prescindere dall'avvenuta attivazione (o meno) di un procedimento disciplinare, sia lo stesso riconoscimento di relativa colpevolezza in sede penale a sorreggere ed insieme giustificare l'infrangersi del sinallagma ad iniziativa della parte pubblica datoriale e la conseguente, negata ricostruibilità della carriera in rapporto al periodo in cui il dipendente stesso è stato reso destinatario effettuale di un provvedimento di sospensione cautelare dal servizio.
Una conclusione in tal senso - quella, peraltro, ritenuta preferibile dalla VI Sezione rimettente - troverebbe un addentellato sistematico anche nel di recente reintrodotto (ad opera della summenzionata legge n.87 del 2001) art.653 c.p.p., a palmare tenor del quale viene ormai attribuita efficacia di giudicato (con riguardo al successivo procedimento disciplinare) proprio alla sentenza penale irrevocabile di condanna del dipendente, quanto all'accertamento che il fatto penalmente rilevante si è effettivamente verificato e che lo steso è riconducibile all'impiegato medesimo.
Il menzionato neoinnesto precettivo paleserebbe la indiscussa idoneità proprio della condanna penale ad imputare l'avvenuta effrazione del rapporto sinallagmatico al dipendente cautelarmente sospeso dal servizio, con l'ulteriore conseguenza onde lo stesso non potrebbe in seguito dirsi legittimato a pretendere, con riferimento a quel frangente temporale, la ricostruzione della relativa carriera a fini giuridici, economici e pensionistici.
Il Collegio, prima di scardinare quanto convintamente propugnato dalla VI Sezione rimettente sull'onda del trend pretorio in parola, ne passa in rassegna le ulteriori argomentazioni addotte a conforto della vagliata opzione ermeneutica:
a) il fatto che la sospensione "facoltativa" dal servizio conservi in ogni caso la propria natura cautelare, potendo conseguentemente ritenersi armonizzabile con la Costituzione;
b) l'evenienza per cui della stessa non potrebbe conseguentemente predicarsi alcuna consistenza sanzionatoria, essendo la stessa correlata ad un procedimento penale (e non già disciplinare), e dovendosi essa, ad un tempo, ritenere strettamente aderente al noto principio civilistico che facoltizza una parte a non dare seguito esecutivo al proprio impegno contrattuale nell'eventualità che la controparte non faccia altrettanto (un pur vago richiamo al risaputo canone inadimpleti non est adimplendum, di cui all'art.1460 c.c.);
c) la considerazione onde, per irrogare la sospensione facoltativa "non restituibile in integrum" occorrerebbe comunque la intervenuta contestazione al dipendente - in sede penale - di un reato particolarmente grave, potenzialmente idoneo a compromettere il prestigio della p.a. datoriale in caso di autorizzata permanenza del dipendente in questione nell'ufficio ricoperto;
d) la possibilità, giammai negata, di adire il giudice competente al fine di ottenere una verifica di legittimità dell'operato dell'Amministrazione che abbia cautelarmente sospeso un dipendente dal servizio, se del caso anche ex post, ovvero nel tempo in cui la negata legittimità del provvedimento (per acclarata insussistenza dei relativi presupposti) possa giovare alla più volte menzionata ricostruzione della carriera;
e) infine, il limite temporale (5 anni) fissato alla sospensione cautelare dall'art.9 della legge n. 55 del 1990: una barriera capace di garantire il contemperamento tra opposti interessi (quello della p.a. alla non compromissione della propria immagine e quello del dipendente alla salvaguardia del proprio status giuridico-economico) da assumersi entrambi come costituzionalmente garantiti (rispettivamente, articoli 97 e 36 Cost.).
In realtà - ed è finalmente la Plenaria a prendere la parola - già ad uno sguardo d'emblée né la pur invocata Carta Costituzionale, né il dato letterale, né quello sistematico paiono congiurare nel senso di una confortabilità della rigorosa tesi da ultimo scandagliata e pur decisamente abbracciata dalla Sezione rimettente.
Movendo, ante omnia, dalla lettera normativa che affiora dal sistema ordinamentale vigente, il Collegio si dà subito cura di ribadire - in ciò mostrandosi sintonizzato sulla medesima lunghezza d'onda del giudice a quo - la natura "cautelare" del provvedimento di sospensione dal servizio, per come chiaramente evincibile:
a) dall'art.91 del t.u. n.3.57, con riferimento al caso in cui il dipendente resone destinatario sia stato sottoposto a procedimento penale, o comunque sia stato colpito da misura restrittiva della libertà personale;
b) dall'art.92, con riferimento alla diversa ipotesi in cui quegli sia sottoponibile, ovvero sia stato già sottoposto a procedimento disciplinare;
con la precisazione onde - escluso il caso della intervenuta misura restrittiva della libertà personale - sulla eventuale irrogazione della sospensione cautelare nelle altre due fattispecie (pendenza di un procedimento penale, ovvero di una sequenza disciplinare) regna incontrastata la discrezionalità dell'Amministrazione.
La misura, continua coerentemente l'Adunanza, proprio perché cautelare, è da circoscriversi diacronicamente come temporanea, oltre che "esplicitamente e logicamente preordinata" ad un evento al verificarsi del quale il sommario vaglio che l'aveva sottesa deve necessariamente essere scalzato e sostituito da un nuovo, più approfondito e definitivo esame della fattispecie.
A tal proposito, ed in questa ottica, solo determinate e specifiche condanne penali (con riferimento, evidentemente, a reati particolarmente gravi) potrebbero legislativamente ritenersi idonee ad espropriare l'Amministrazione di quel potere discrezionale istituzionalmente tributatole dall'ordinamento e funzionale al perseguimento dell'interesse pubblico; quella potestà esercitata - nel contesto del successivo procedimento disciplinare - attraverso la novella ponderazione di una cornice fattuale che, già a suo tempo scandagliata in modo sommario in occasione della cautela, impone, una volta intervenuta la sentenza penale di condanna, una più completa ed approfondita rivisitazione dei singoli passaggi che ne hanno compendiato le concrete coordinate.
Più nel dettaglio, una volta intervenuta sentenza penale non assolutoria ai sensi dell'art.530 c.p.p. (il fatto non sussiste, ovvero l'impiegato non lo ha commesso), e pertanto, segnatamente, una volta intervenuta sentenza di condanna, toccherà all'Amministrazione datoriale valutare
- quel peculiare interesse pubblico che si rapporta alla pedissequa osservanza dei doveri congeniti al rapporto di servizio (disattesi dal dipendente dentro o fuori dell'ufficio, a seconda della singola fattispecie che lo ha visto condannato)
- in una con l'altro, inerente alla opportunità (o meno) di affidare all'impiegato riottoso quegli stessi compiti già in precedenza affidatigli, ovvero di affidargliene altri, ovvero ancora di sollevarlo temporaneamente da ogni incarico attraverso una sanzione (c.d. "merito disciplinare").
Da questa prospettiva, assumere che la sentenza penale di condanna - pur in difetto di un successivo procedimento disciplinare - sia idonea ad automaticamente convertire la misura cautelare della sospensione dal servizio in altra misura di carattere afflittivo significherebbe ineludibilmente espropriare la p.a. della chance, ad essa riservata dall'ordinamento, di rivalutare il fatto (pur penalmente rilevante) accertato in sentenza alla luce del complessivo quadro in cui esso si è iscritto e delle stesse conseguenze penali che ne sono derivate al dipendente (tipo di reato acclarato; entità della pena inflitta), al precipuo scopo di parametrarlo agli interessi pubblici per come supra esemplificati (e gravitanti massime attorno alla eventuale inopportunità di una permanenza del dipendente stesso nella precipua orbita dell'Ufficio di appartenenza).
In definitiva, per i Giudici di Palazzo Spada in seduta Plenaria già stando al semplice dato letterale evincibile dagli articoli 91 e 92 del t.u. n. 3 del 1957, ed al relativo riferimento alla "cautelarità" del provvedimento di sospensione dell'impiegato dal servizio, si appalesa insopprimibile la garanzia di un ulteriore apprezzamento in capo alla P.A. datoriale quanto a definitiva stabilizzazione in sede disciplinare (e specie a fini di successiva ricostruzione della carriera del dipendente) degli effetti della intervenuta sentenza penale di condanna.
Sempre tale "apprezzamento riservato" all'Amministrazione appare al Collegio - questa volta sotto il profilo più propriamente sistematico - naturaliter immanente a quel microcosmo precettivo che compendia l'intera "materia della disciplina", ovvero a quell'articolato del testo unico del 1957 (articoli da 78 a 123) attraverso il quale vengono normati presupposti e fasi del procedimento disciplinare nei confronti del dipendente pubblico (a tutt'oggi, ormai, con riferimento ai soli dipendenti "non contrattualizzati").
Se il legislatore non ha previsto esplicitamente l'ipotesi della sentenza penale di condanna del dipendente alla quale non abbia fatto seguito - ad iniziativa della p.a. interessata - l'instaurarsi di un procedimento disciplinare, ciò è stato con ogni probabilità giammai per endogena ritrosia verso il necessario avvicendarsi delle ridette autonome fasi sequenziali, quanto piuttosto per la rara configurabilità di una simile evenienza, a fronte della prevedibilmente "normale" reazione della parte datoriale pubblica, sul piano disciplinare, all'intervenuto accertamento della imputabilità di un fatto di reato ad un proprio dipendente.
Nulla sospinge dunque, secondo il Supremo Collegio, a ritenere irrilevante l'instaurazione del ridetto procedimento disciplinare, che deve anzi ritenersi imprescindibile anche al fine di evitare - sempre con riguardo alla successiva ed eventuale richiesta di restitutio in integrum da parte del dipendente interessato - conseguenze discrepanti a fronte di fattispecie sostanzialmente analoghe, quali quella in cui tale procedimento disciplinare, pur tempestivamente instaurato a seguito del pronunciamento penale, si sia poi estinto.
In sostanza, una volta intervenuta sentenza penale di condanna dell'impiegato pubblico, l'ipotesi di omesso abbrivio ad un procedimento disciplinare andrebbe pienamente assimilata, quanto a regime giuridico applicabile ed a consistenze effettuali sostenibili in tema di eventuale ricostruzione della carriera del dipendente (anche a fini pensionistici), a quella di pur intervenuta instaurazione di tale procedimento e di successiva estinzione del medesimo.
Una indiretta conferma della tesi prospettata il Collegio estrapola dalle maglie della vigente disciplina in materia di destituzione (la "massima" delle sanzioni disciplinari), irrogabile al pubblico dipendente in conseguenza di intervenuta, grave condanna penale dello stesso: una destituzione notoriamente "automatica" nel solo caso in cui alla condanna segua l'interdizione perpetua dai pubblici uffici, occorrendo, in diversa ipotesi, ancora una volta il dipanarsi all'uopo di una sequenza procedimentale con finalità disciplinari, ad iniziativa dell'Amministrazione di riferimento.
Lo stesso Giudice delle Leggi del resto già nell'1988 - con la sentenza n.971 del 14 ottobre (in seguito ripresa, tra le altre, dalla sentenza n.197 del 27 aprile 1993) - pronunciandosi, cassandola, sulla disposizione di maggior peso a tal proposito [l'art.85 lettera a) del testo unico del 1957], aveva evidenziato la irrazionalità, e conseguente frizione con l'art.3 Cost., di una relativa ermeneusi sganciata dalla necessità di conservare in ogni caso in capo alla p.a. datoriale un autonomo potere di valutazione, sul piano disciplinare e nel contesto di un procedimento instaurato all'uopo, dei fatti che avevano condotto al pronunciamento penale.
Il procedimento disciplinare viene pertanto ribaditamente assunto da Palazzo Spada come la "naturale sede" della ridetta, autonoma valutazione avente ad oggetto il contegno del dipendente penalmente condannato, quand'anche tale vaglio non sia funzionale alla relativa destituzione, quanto piuttosto, ed in ogni caso, alla concreta irrogabilità di quella che, col privarlo dello stipendio fino ad un massimo di 5 anni e col negarne il computo, in pari tempo, dell'anzianità di servizio (a fini tanto economici che giuridici), si atteggia ad autentica sanzione nei confronti del medesimo.
Affidato alle cure della p.a., in caso di intervenuta pronuncia di condanna del dipendente in sede penale, ovvero anche solo di semplice iscrizione dello stesso nel registro delle notizie di reato, appare dunque al Supremo Collegio essere il concreto potere di adottare "misure correlative a [quel]la violazione dei doveri dell'impiegato" che la fattispecie penale indefettibilmente reca seco.
L'interesse pubblico a tale potere sotteso, se da un lato va perseguito dall'Amministrazione attraverso una autonoma e ponderata valutazione delle circostanze che gravitano attorno alla ipotesi violativa di specie, per come specificamente atteggiatasi, dall'altro appare financo limitato nella relativa, concreta soddisfazione, da un'articolata schiera di precetti quali, in particolare:
- quello inteso a fissare alla p.a. un termine perentorio per l'inizio del procedimento disciplinare nei confronti del dipendente colpito da sentenza irrevocabile di condanna;
- quello che ne impone un epilogo entro una ben precisa scadenza;
- ovvero, ancora, quello che sanziona l'inerzia superiore ai 90 giorni con l'estinzione della sequenza disciplinare, e con l'ulteriore, grave precipitato compendiantesi nella impossibilità di rinnovare il procedimento estinto (art.120 del t.u. n.3.57).
Si tratta di un vero e proprio, pedissequo "onere di tempestività" gravante sull'Amministrazione in materia punitivo-sanzionatoria, a globalizzante ed estrema salvaguardia del quale l'art.9 comma 2° della legge n.19 del 1990 ha financo previsto una perdita di efficacia in ogni caso del provvedimento cautelare di sospensione dal servizio, ove la relativa operatività si sia protratta per un periodo superiore a 5 anni (salvo revoca antecedente).
Si tratta di dati di sistema che consentono all'Adunanza - in relazione al commendevole obiettivo dalla stessa divisato - di adeguatamente sorreggere il "peso specifico" che essa intende tributare alle autonome valutazioni dell'Amministrazione rispetto alle coordinate processualpenalistiche di volta in volta rilevanti.
Ad uscirne indefettibilmente valorizzata è quella potestà discrezionale pubblica in qualche modo già tradottasi nel provvedimento cautelare di sospensione dal servizio, e che deve (ove si intenda negare al dipendente la invocata restitutio in integrum) successivamente trovare un qualche "compimento" nella affermata o denegata irrogabilità del provvedimento punitivo "di merito", all'esito di un procedimento all'uopo cadenzato dal legislatore e da assumersi ancora una volta quale "naturale sede di valutazione" della fattispecie già sottoposta e/o vagliata dal giudice penale.
L'ultimo scorcio di percorso motivazionale si appunta, ad ulteriore conferma di quanto già esplicitato in luoghi precedenti, su quanto disposto dalla Corte Costituzionale con la recente sentenza n.206 del 3 giugno 1999, intervenuta in sede di vaglio della conformità alla Carta Fondamentale dell'art.15 comma 4.septies delle legge n.55.90, laddove impone la automatica sospensione dal servizio dei dipendenti pubblici in presenza delle condizioni elencate al comma 1 del medesimo articolo, con particolare riferimento a talune fattispecie di intervenuta condanna penale nonché, in relazione a determinati delitti (ma l'ipotesi è stata poi espunta dall'ordinamento con la legge n.475.99), anche a seguito di semplice rinvio a giudizio.
Il Giudice delle Leggi si è pronunciato nel senso della piena costituzionalità della disposizione in quanto - così come già l'art.91 comma 1° del t.u. del 1957 - interpretabile nel senso della previsione, in essa contenuta, di una mera misura cautelare, e non già di una "sorta di sanzione anticipata" irrogabile al dipendente.
In altri termini, l'accusa penale collegata al rinvio a giudizio è in grado di porre potenzialmente in pericolo taluni interessi dell'Amministrazione ove l'impiegato che ne sia stato reso destinatario sia fisicamente mantenuto nel pieno delle sue funzioni; di qui la sospensione dello stesso dalla prestazione lavorativa, ferma restando la necessità, una volta intervenuta la eventuale sentenza penale di condanna, di un'autonoma verifica, in sede disciplinare, delle ulteriori conseguenze che potrebbero discenderne sul rapporto di servizio, traducibili in una apposita sanzione.
Il Collegio tira dunque le fila dell'indagine letterale e sistematica condotta - anche alla luce dei menzionati pronunciamenti della Corte - sul sistema ordinamentale vigente sostenendo che, intervenuta una sentenza penale di condanna di un dipendente, la mancata attivazione del procedimento disciplinare nei prescritti termini da parte dell'Amministrazione competente - al fine di assicurarsi l'autonomo, cadenzato e garantito vaglio della fattispecie già oggetto di scrutinio in sede processuale penale - sortisce il medesimo effetto riconducibile ad un procedimento disciplinare iniziato e lasciato estinguere per inerzia della parte pubblica medesima.
Ne risulta infatti definitivamente travolta, quanto a potenziali ricadute negative sul trattamento giuridico ed economico del dipendente, la operatività effettuale della eventuale sospensione dal servizio anteriormente disposta a titolo di cautela, con conseguente pieno diritto del dipendente medesimo alla piena restitutio in integrum della propria posizione anche previdenziale.
3. Spunti di riflessione
Volendo rimanere aderenti allo specimen della questione affrontata e risolta dal Supremo Consesso Amministrativo, viene in primo luogo da riflettere su come ci si trovi verosimilmente dinanzi ad una delle ultime decisioni in materia di c.d. "pubblico impiego" (oggi, più correttamente, "impiego alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni") riconducibili all'Adunanza Plenaria.
Come già anticipato più sopra, appare difatti plausibilmente e senza soverchi problemi sostenibile come la disciplina che ha fatto da sfondo all'autorevole pronunciamento in epigrafe possa, in futuro, venire in rilievo limitatamente alle non numerose controversie che investano il rapporto tra Amministrazione e pubblici dipendenti c.d. "non contrattualizzati" (magistrati, avvocati e procuratori dello Stato).
Quanto agli altri, non solo sarà notoriamente il giudice ordinario a conoscerne, ma muterà lo stesso quadro normativo cui fare riferimento da parte di un'Amministrazione sempre più assimilata ad una parte datoriale privata, e che con ogni probabilità rinverrà le guide lines del proprio potere disciplinare in disposizioni convenzionalmente gemmate all'esito di negoziazioni con le controparti sindacali e, alfine, cristallizzate nei contratti collettivi di pertinenza dei singoli comparti, a livello tanto generale quanto integrativo.
Qualcosa, tuttavia, non muterà.
E non si tratta sic et simpliciter della pur riscontrata ed originale riproposizione, con riguardo alla sede procedimentale (quand'anche contenziosa), del noto rapporto di strumentalità tra sommaria "cautela" ed approfondito "merito", senz'altro ben più collaudato in riferimento al binario normativo ed attizio di stampo processuale, ma che si mostra comunque coerente con una tendenza di fondo del Supremo Consesso Amministrativo ad in qualche modo assimilare l'Autorità amministrativa a quella giurisdizionale (è sufficiente, in proposito, un richiamo alla decisione n.9 del 2001 in materia di autorizzazioni paesistiche e di rapporti tra l'Autorità statale "controllante" e regionale "controllata").
Nel quadro di un diritto amministrativo palesantesi sempre più ectoplasmatico (in forza della sostanziale e pur progressiva evaporazione di principi e/o concetti da sempre connaturati alla sua stessa consistenza, quali quello di "discrezionalità" o di "interesse legittimo"), ed al cospetto di quella che, a seconda della diversa faccia di una medesima medaglia di volta in volta considerata, può essere definita come "deprovvedimentalizzazione" ovvero "contrattualizzazione" del relativo settore ordinamentale (oltre che della anamorfosi del relativo processo), affiora prepotente nell'immaginario degli addetti ai lavori la sensazione di trovarsi ormai dinanzi ad una sorta di diritto civile "speciale", in cui una delle parti di un rapporto che resta tendenzialmente paritario (salvo eccezioni funzionali al miglior perseguimento dell'interesse collettivo) è individuabile nella pubblica amministrazione.
Ecco il precipitato di una forma mentis pericolosamente capace di obnubilare quella che è una delle più autentiche caratteristiche di questa affascinante branca della scienza giuridica, ovvero la trasversalità.
Si tratta, con riferimento ancora al diritto amministrativo, di un ramo del sistema innegabilmente vicino all'esperienza civilistica, dalla quale mutua ormai diversi principi e canoni in vista del concreto assetto dei rapporti tra parte pubblica e parte privata (o anche tra le stesse parti pubbliche), come innegabilmente dimostra l'esperienza giurisprudenziale sviluppatasi attorno a talune disposizioni della fondamentale legge n.241 del 1990, prima fra tutte l'art.11 sui c.d. accordi "procedimentali" e "provvedimentali".
Non difettano tuttavia, e la pronuncia della Plenaria in rassegna ne costituisce un illuminante esempio, significativi punti di contatto anche con lo stesso crinale penalistico del sistema, tanto con riguardo alla materia sostanziale che processuale.
Con riferimento alla prima, sarà sufficiente por mente a tutta la problematica che ruota attorno alla figura dell'eccesso di potere, ed a come esso si atteggia, anche solo potenzialmente, all'interno di talune fattispecie di reato quali l'abuso d'ufficio o la corruzione; ovvero al rilievo del "silenzio" della p.a. in rapporto alla possibile configurazione del delitto di omissione di atti d'ufficio; ovvero, ancora, alle questioni che investono la possibile disapplicazione di atti amministrativi da parte del giudice penale, con particolare riferimento alla materia urbanistica (art.20 della legge n.47.85), o ambientale-paesaggistica; ovvero, e da ultimo, alla possibilità che norme penali "in bianco" siano integrate nella relativa, concreta valenza punitiva dalla mediazione di specifici o non meglio additati provvedimenti amministrativi, come nel "classico" caso dell'art.650 c.p..
Un esempio di stampo pretorio è più che mai recente in proposito, oltre che pienamente pertinente alla problematica affrontata e risolta dalla pronuncia della Plenaria in commento: la V Sezione del Consiglio di Stato, con la decisione n. 5832 del 15 novembre 2001, ha ritenuto che la contestazione al (e dunque, a fortiori, la acclarata commissione da parte del) dipendente di fatti di reato specificamente attinenti alla sfera dell'Amministrazione, e che traggano origine proprio dalle funzioni da quegli esercitate - tipici i casi dell'abuso d'ufficio, della corruzione, della concussione, della turbata libertà degli incanti e via dicendo - è evenienza idonea a ritenere sufficientemente motivato il provvedimento di relative sospensione cautelare dal servizio sulla scorta del semplice richiamo a tali figure criminose.
Venendo al versante processuale, campeggia in primis proprio il rapporto che intercorre tra processo e sentenza penale, da un lato, e procedimento amministrativo disciplinare, dall'altro.
Emblematica la questione della rilevanza o meno da tributarsi, a fini disciplinari, alla sentenza penale emessa a seguito di c.d. "patteggiamento", a lungo considerata dalla giurisprudenza amministrativa quale pronuncia minus habens, in quanto non implicante una accertata responsabilità penale in capo al "condannato", con conseguente non assimilabilità della stessa ad una pronuncia di condanna esitata da un pubblico (e più completamente istruito) dibattimento; impossibile pretermettere, ancora una volta, un richiamo alla testè menzionata decisione della V Sezione n. 5832 del 2001, che ha, al contrario, ritenuto pienamente equiparabile a fini disciplinari la sentenza "patteggiata" a quella di condanna, quanto ad accertamento di responsabilità del dipendente ed a conseguente, possibile adozione, sulla relativa base, di un provvedimento di sospensione cautelare dal servizio (per i dipendenti degli Enti locali la ridetta equiparazione è peraltro expressis verbis sancita dall'art.58 comma 2° del t.u. n. 267 del 2000).
Tornando al caso di specie, colpisce la vigoria con la quale l'Adunanza difende il potere di autonoma valutabilità - da riconoscersi all'Amministrazione con riferimento all'eventuale esercizio del potere disciplinare - del fatto criminoso (o pseudo-tale) riconducibile al dipendente, e già oggetto di scrutinio in sede processualpenalistica.
In una fase in cui è la stessa figura dell'interesse legittimo (o quantomeno la relativa, anodina locuzione), come ormai da più parti denunciato, a "perdere quota", potrebbe difatti apparire tutt'altro che peregrina la sensazione di assistere ad una sorta di "canto del cigno" proprio di quella discrezionalità valutativa della p.a. che da sempre ha costituito il più autentico oggetto del potere pubblico, l'ineludibile contraltare dell'interesse legittimo medesimo.
Con maggior pacatezza si deve piuttosto, e con ogni probabilità, riconoscere come la discrezionalità, al pari del contratto, del potere, della situazione giuridica soggettiva, rappresenti uno schema insopprimibile in un contesto ordinamentale evoluto e raffinato, al di là di come si voglia poi concretamente definire la figura sottesa all'interesse che al relativo dispiegarsi si contrappone.
E se, con riferimento alle relazioni interprivate, si contano non da ieri innumerevoli contributi intesi ad evidenziare contesti precettivi dall'esame dei quali emerge prepotente la disomogeneità delle posizioni rivestite da ciascuna delle parti dialoganti - è la datata, ma sempre accattivante questione dei poteri privati e dell'interesse legittimo nel diritto civile, con particolare riguardo alle materie della famiglia, dei rapporti societari o di quelli che avvincono il prestatore al datore di lavoro - non mancano significativi terreni d'elezione dell'interfaccia potere-soggezione nell'ambito dello stesso diritto penale e processuale penale.
L'esempio più lampante appare quello scolpito nell'art.132 del "codice Rocco", notoriamente rubricato "Potere discrezionale del giudice nell'applicazione della pena: limiti"; dinanzi ad una cornice edittale predefinita tra un minimo ed un massimo, si consente al giudice penale, in piena coerenza con le coordinate di cui al principio di legalità della pena, di scegliere la sanzione in concreto irrogabile al reo e di parametrarla ad una serie di indici, funzionalizzando tale potere punitivo (cui non può che corrispondere la "soggezione" dell'imputato destinatario della condanna) ad un preciso interesse pubblico, quello all'attuazione della pretesa punitiva statale in misura il più possibile aderente ai due poli, rispettivamente, della gravità del reato e della capacità a delinquere del colpevole (art.133 c.p.).
E' quello che, mutatis mutandis, accade tutte le volte in cui la legge affida alla p.a. la potestà di scegliere tra diverse opzioni in vista del perseguimento dell'interesse pubblico dalla stessa di volta in volta istituzionalmente perseguito: a rilevare è dunque, nuovamente, il principio di legalità, nel suo proteiforme atteggiarsi a fondamento e limite del potere amministrativo.
E' quello che, più in specie, accade allorché l'Amministrazione datoriale, sovrapponendosi alle valutazioni già operate in sentenza dal giudice penale (ovvero dal titolare dell'accusa in sede di richiesta di rinvio a giudizio; cfr. a tal proposito la recente legge n.89 del 2001 che, nel ridisegnare i rapporti tra processo penale e procedimento disciplinare, ha previsto anche talune fattispecie di rilevanza della mera "ipotesi punitiva" formulata dal p.m. al G.u.p.), decida di non dar corso alla pretesa punitiva riconnettibile alla probabile violazione, da parte del pubblico impiegato, dei doveri afferenti al relativo ufficio, siccome presumibile dalla intervenuta condanna penale (o dalla menzionata richiesta di rinvio a giudizio).
Poter scegliere in funzione (ed a garanzia) di un interesse alieno rispetto a quello proprio del soggetto agente, secondo precisi criteri prefissati dalla legge, resta dunque, assieme alla composizione spontanea degli opposti interessi tra i paciscenti, uno - e non certo l'ultimo - tra i fili che intessono la trama dell'impianto normativo vigente, del quale la Plenaria resta in qualche modo il più fedele, insieme, baluardo ed interprete.
FATTO
1. Con ricorso in appello, notificato il 20 settembre 1999 e depositato il 22, il Ministero della pubblica istruzione chiede la riforma della sentenza del Tribunale amministrativo regionale del Veneto, Seconda Sezione, indicata in epigrafe, con la quale è stato parzialmente accolto il ricorso dell'intimato, docente di ruolo nella scuola media superiore, avverso due decreti del Provveditore agli studi di Venezia, in data 6 settembre 1996 e 21 gennaio 1997, recanti, rispettivamente, ricostruzione del trattamento giuridico ed economico e progetto di liquidazione dell'indennità di buonuscita.
2. La sentenza impugnata, affermata la giurisdizione del giudice amministrativo, ha ritenuto illegittimi i provvedimenti, nella parte in cui non comprendono il periodo di sospensione cautelare c.d. facoltativa dal servizio, disposta per il docente dal 16 luglio 1986 - data in cui egli è stato rimesso in libertà dopo la sottoposizione ad una misura di custodia cautelare - sino al giorno in cui è cessata la sospensione stessa.
3. Queste le censure proposte:
il giudice ammnistrativo è privo di giurisdizione in materia riguardante l'accertamento del diritto a pensione;
nel caso in esame, non trova applicazione l'art. 96 del t.u. approvato con d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3 (norma che contempla la sospensione dalla qualifica, a titolo di sanzione, ed il computo di essa nella sospensione cautelare subita dall'inquisito), bensì l'art. 97. Qui si dispone la restitutio in integrum in casi di proscioglimento o di assoluzione. Perciò, in caso di sentenza di condanna, come in quello in esame, nessuna reintegrazione può essere fatta. Si soggiunge, inoltre, che la sospensione cautelare prevista dall'art. 91 del medesimo t.u. è obbligatoria in ogni caso. Si precisa, infine, che le ipotesi di restitutio, previste dall'art. 97, sono da considerare "eccezionali ipotesi di indennizzo". Quando vi sia condanna, la sospensione è stata subita giustamente: viene perciò criticata la giurisprudenza secondo la quale il sinallagma delle prestazioni tra amministrazione e dipendente è impedito soltanto nei periodi di restrizione della libertà personale.
4. Con controricorso depositato il 31 dicembre 1999, la parte appellata eccepisce la tardività dell'appello, notificato il 20 settembre 1999, rispetto alla data di notificazione della sentenza impugnata, notificazione eseguita il 4 giugno 1999. E perciò la scadenza del termine per impugnare la decisione è anteriore.
5. La domanda di sospensione della esecuzione della sentenza appellata è stata respinta dalla Sesta Sezione, con ordinanza n. 1870 dell'8 ottobre 1999.
La medesima Sezione, con decisione n. 2568 del 19 dicembre 2000 - 8 maggio 2001, definite alcune questioni, ha rimesso all'Adunanza plenaria la questione di diritto risolta dal primo giudice in senso favorevole all'attuale resistente.
6. All'udienza del 29 ottobre 2001, dopo la discussione, il ricorso è stato trattenuto in decisione.
DIRITTO
1. L'appellato, docente di ruolo nella scuola media superiore, è stato sospeso dal servizio a decorrere dal 16 luglio 1986, con decreto ministeriale in data 19 ottobre 1987. Il provvedimento è stato adottato, con espresso riferimento all'art. 91, 1° comma, prima ipotesi, "quale sospensione cautelare facoltativa . fino alla conclusione del procedimento penale", al quale l'interessato era stato sottoposto.
Intervenuta sentenza di condanna alla pena della reclusione di un anno e quattro mesi, con d.m. 7 febbraio 1992 (art. 1) la sospensione è stata revocata dalla data del medesimo provvedimento, vale a dire dopo oltre cinque anni.
Con lo stesso atto (art. 3), si è stabilito che il competente Provveditore curasse "il seguito che consegue a carico del docente ai fini disciplinari".
Per ragioni che in questa sede non assumono rilievo, e che la parte appellante non ha comunque chiarito, non è stato instaurato alcun procedimento disciplinare.
2. Sono stati impugnati in primo grado due provvedimenti del Provveditore agli studi recanti, rispettivamente ricostruzione del trattamento giuridico ed economico e progetto di liquidazione dell'indennità di buonuscita. E' stato escluso dal computo il periodo intero di sospensione.
3. Si discute della computabilità del suddetto periodo.
4. Il primo giudice ha affermato la giurisdizione, ha respinto l'eccezione di prescrizione ed ha accolto il ricorso con riguardo alla computabilità del periodo di sospensione non seguito da un procedimento disciplinare.
5. Con il ricorso in appello sono proposti due motivi:
difetto di giurisdizione del giudice amministrativo, perché si tratterebbe di questioni connesse a domanda di accertamento del diritto a pensione;
non applicabilità dell'art. 96, che segue unicamente alla conclusione del procedimento disciplinare, ma del solo art. 97 del t.u. citato, per il quale la restitutio in integrum deve essere disposta unicamente nei casi, ivi specificati, di proscioglimento o assoluzione. Non mai, invece, quando sia stata pronunziata sentenza di condanna.
6. La Sesta Sezione, con la decisione che rimette all'Adunanza plenaria la questione di merito, ha stabilito, su eccezione della parte privata, che l'appello è tempestivo. Ha anche confermato la sentenza del primo giudice sulla appartenenenza delle dedotte questioni, di diritto alla retribuzione ed alla restitutio in integrum, alla - pregressa, ma allora sussistente - giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo sul rapporto di pubblico impiego.
Su tali questioni non occorre perciò pronunziare.
7. Viene condotto, poi, un approfondito esame delle disposizioni in materia di sospensione cautelare dal servizio, in relazione alla pendenza di procedimento penale, contenute negli artt. 91 - 92 e 96 - 97 del t.u. 10 gennaio 1957, n. 3, da applicare al caso concreto in ragione del tempo dei provvedimenti in discussione e degli effetti di essi.
In proposito, va esplicitamente condivisa l'affermazione, secondo la quale è sguarnita di espressa previsione normativa la situazione che si esamina nel presente giudizio, in cui alla sospensione cautelare è seguita una sentenza di condanna, senza, tuttavia, l'instaurazione di un procedimento disciplinare.
Tre orientamenti giurisprudenziali sono stati individuati.
7.1. Per il primo di essi, sono irrilevanti pendenza del procedimento penale e suo esito, per definire il regime della posizione giuridica ed economica del dipendente cautelarmente sospeso, poiché, in ogni caso, è nella sede disciplinare che è riposta tale definizione. Sicché, se questa viene a mancare, si ha caducazione della sospensione e restitutio in integrum.
7.2. Per il secondo orientamento, assumono rilevanza tanto la sanzione disciplinare, quanto la sentenza di condanna (è questa la soluzione accolta da Ad. Plen. n. 15 del 16 giugno 1999, che si è limitata a conoscere, però, degli effetti di una condanna penale in relazione ad una sospensione cautelare, ma in presenza, anche, di un provvedimento di sospensione dalla qualifica irrogato a conclusione di un giudizio disciplinare. Va, in questo caso, operata la ricostruzione di carriera per il periodo che non trovi copertura nella sanzione disciplinare, né in quella penale inflitte. La caducazione della sospensione cautelare è, dunque, rimasta ferma. Il titolo giuridico impeditivo di parte della ricostruzione della posizione del dipendente è stato rinvenuto in altri provvedimenti sopravvenuti). Su questo indirizzo esprime dubbi la decisione in esame.
7.3. Un terzo orientamento è quello ravvisato in pronunzie del giudice delle pensioni ed in sentenze di giudici amministrativi di primo grado, per le quali la sospensione cautelare resta ferma anche quando la P.A. non dia corso al procedimento disciplinare.
Su quest'ultimo filone giurisprudenziale, il provvedimento di remissione sottolinea, di nuovo, le diversità delle ipotesi regolate dagli artt. 92 e 96 del t.u. da quelle contemplate dagli artt. 91 e 97, in cui la misura sospensiva è collegata ad un procedimento penale. Qui il coordinamento con il futuro intervento disciplinare sarebbe del tutto mediato e indiretto. La sospensione sarebbe assimilabile a quella introdotta (per effetto della l. 18 gennaio 1992, n. 16) con l'art. 15, comma 4-septies, della legge 19 marzo 1990, n. 55, nei riguardi dei dipendenti pubblici - oltre che condannati, anche in via non definitiva, per determinati delitti o sottoposti a misure di prevenzione - rinviati a giudizio per specifici delitti. In ambedue i casi sussiste il collegamento alla sola pendenza di un'accusa penale, con un parallelismo riconosciuto da C. cost. 3 giugno 1999, n. 206.
Ancora, la previsione restitutoria dell'art. 97, comma 1, si giustifica con l'esigenza di non fare operare, in caso di accertata innocenza, il principio generale che subordina l'obbligo retributivo alla prestazione lavorativa e con quella di porre a carico dell'amministrazione il "rischio dell'accusa infondata".
Il silenzio sulla diversa ipotesi della condanna è dato dalla ragione che mancano, con il riconoscimento della colpevolezza, le esigenze derivanti dal proscioglimento e l'interruzione del sinallagma è da ritenere che "sia interamente attribuibile all'impiegato". Di questo indirizzo viene individuata conferma nella legge 8 marzo 2001, n. 97, che, col nuovo comma 1-bis dell'art. 653 c.p.p., introduce il principio per cui nel procedimento disciplinare la sentenza irrevocabile di condanna ha efficacia di giudicato quanto all'accertamento della sussistenza del fatto, alla sua illiceità penale ed all'affermazione che l'imputato lo ha commesso: l'attribuibilità del fatto è idonea a costituire il titolo giuridico sull'addebitabilità all'impiegato del mancato funzionamento del rapporto sinallagmatico.
La conclusione appare armonizzabile, secondo il remittente, con i princìpi costituzionali: la sospensione conserva la natura cautelare. Non ha carattere sanzionatorio, tenuto conto, da un lato, della sua correlazione con il procedimento penale, anziché con quello disciplinare, e, dall'altro, del principio civilistico sulle conseguenze della mancata esecuzione delle corrispettive prestazioni. Inoltre, l'adozione della sospensione facoltativa è subordinata alla natura particolarmente grave del reato contestato ed alla valutazione della possibile compromissione del prestigio dell'amministrazione, derivante dalla permanenza nell'ufficio dell'impiegato. Su ciò non viene a mancare la tutela giurisdizionale, che sarebbe possibile, in determinati casi, anche per una verifica ex post sulla sussistenza dei presupposti della misura. Vi sarebbe, in definitiva, la contrapposizione fra due esigenze munite di copertura costituzionale: il bilanciamento fra di esse è rinvenibile nel termine di efficacia di cinque anni, al quale l'art. 9 della legge n. 19/1990, sottopone la sospensione cautelare.
8. Sembra di potersi rilevare che il problema posto non possa risolversi, nel modo suggerito, né per l'elemento testuale delle norme di cui si discute, né per considerazioni di ordine sistematico, né alla stregua della necessaria verifica di compatibilità della tesi esaminata con i princìpi enunciati dalla Corte costituzionale.
8.1. Sul piano letterale sono da considerare due punti: a) ambedue gli artt. 91 e 92 del t.u. 10 gennaio 1957, n. 3, stabiliscono la natura cautelare del provvedimento di sospensione dal servizio del dipendente, tanto se sia sottoposto a procedimento penale, quanto se sia colpito da misura restrittiva della libertà personale (art. 91, prima e seconda ipotesi), quanto se sia sottoposto o sottoponibile a procedimento disciplinare (art. 92); b) la prima e la terza delle ipotesi suddette prevedono la misura sospensiva su valutazione discrezionale della P.A.
Il carattere cautelare dà al provvedimento che dispone la sospensione un'impronta di provvisorietà, che esige, di regola, un riesame, più approfondito e definitivo, allorché abbia a verificarsi l'evento, al quale la temporaneità della misura è esplicitamente e logicamente preordinata.
L'apprezzamento discrezionale, rimesso alla P.A., esige un nuova ponderazione, in ordine al fatto originariamente preso in considerazione secondo una cognizione incompleta, dato che la cura del pubblico interesse da perseguire le è, di norma, riservato e non è affidato ad altri organi pubblici - salvo casi particolari, espressamente previsti, come effetto di determinate condanne penali. A questo interesse si accompagna - dopo una pronunzia penale che non sia di assoluzione (art. 530 c.p.p.) perché il fatto non sussiste o perché l'impiegato non lo ha commesso, e perciò anche dopo qualsiasi sentenza di condanna - quello correlativo ai doveri osservati o meno dall'impiegato, in ufficio o al di fuori, e quello connesso con le esigenze della stessa amministrazione di affidare determinati compiti al dipendente, anche con riguardo alle funzioni assegnate o assegnabili.
Queste prime osservazioni fanno emergere la considerazione che sarebbe trascurato o impedito l'apprezzamento di ogni ulteriore interesse pubblico, se, per effetto di una sentenza di condanna, intervenisse un'automatica conversione della misura cautelare in una misura di carattere afflittivo, senza una rivalutazione del fatto, definitivamente accertato, del tipo di reato e della conseguente pena inflitta, e cioè senza una rivalutazione di un insieme di variabili ad ampio spettro, pur nell'ambito di una responsabilità irretrattabilmente riconosciuta.
E' proprio la natura del provvedimento di sospensione che non sembra ammettere la sua "stabilizzazione", senza ulteriori apprezzamenti della P.A.
8.2. Sul piano sistematico, si può, innanzi tutto, porre in rilievo che se non vi sono norme che regolano l'ipotesi di sopravvenuta pronunzia di colpevolezza, ciò non comporta la configurazione di una lacuna circa il regime degli effetti di tale sentenza sulla posizione giuridica ed economica dell'impiegato sospeso dal servizio; e che, se parti lacunose si rinvengano, esse possono agevolmente colmarsi.
Gli artt. 91, 92, 96 e 97, presi in esame con l'appello e con la decisione di rimessione, vanno letti nel contesto del Titolo VII del t.u., riservato alla materia della disciplina. E' immanente, nell'insieme di questo sottosistema (artt. 78 a 123), l'esigenza dell'apprezzamento, da parte dell'amministrazione, dei fatti addebitati all'impiegato, sempre nell'esercizio del potere disciplinare.
E' evidente, perciò, che l'ipotesi dell'omissione del procedimento disciplinare, dopo una sentenza di condanna, si verifica in misura marginale, ed è anche questa una ragione per la quale il legislatore possa non averla disciplinata. Ma, per ciò solo, non sembra possibile ricondurre ad essa conseguenze più afflittive, per l'impiegato, di quelle che possono discendere dalla conclusione di un giudizio disciplinare. La situazione significativamente più vicina appare quella in cui si sia verificata l'estinzione del procedimento, instaurato dopo una sentenza pure di condanna.
Tornando all'esame dell'insieme delle norme ora indicate, è da notare che esiste soltanto il caso di destituzione per condanna che importi l'interdizione perpetua dai pubblici uffici - art. 85, primo comma, lett.b) - come fattispecie in cui ad una pronuncia di accertata responsabilità penale non segua un giudizio disciplinare. Infatti, è stata colpita da dichiarazione di illegittimità costituzionale l'altra ipotesi che un effetto destitutorio automatico prevedeva, vale a dire quella del medesimo art. 85, lett. a), dinanzi a condanne per specifici delitti (C. cost. 14 ottobre 1988, n. 971). Il motivo della pronunzia è così testualmente espresso: "l'indispensabile gradualità sanzionatoria, ivi compresa la misura massima destitutoria, importa - adunque - che le valutazioni relative siano ricondotte, ognora, alla naturale sede di valutazione: il procedimento disciplinare, in difetto di che ogni relativa norma risulta incoerente, per il suo automatismo, e conseguentemente irrazionale ex art. 3 Cost.". E, sul medesimo parametro, in ordine ad altra destituzione di diritto, la giurisprudenza ha ricevuto conferma con C cost. 27 aprile 1993, n. 197.
Se ne deve trarre la conseguenza che una misura afflittiva, come quella in esame, consistente nella privazione dello stipendio e nella non computabilità di un periodo fino a cinque anni ai fini giuridici ed economici, si configurerebbe oggettivamente come sanzione irrogata in conflitto con l'esigenza di ponderata valutazione dei fatti, che soltanto la "naturale sede" del procedimento disciplinare può garantire.
8.3. Sempre sul piano sistematico, non si può trascurare che, a garanzia dell'incolpato o del condannato, l'interesse pubblico ad adottare misure correlative alla violazione dei doveri dell'impiegato trova puntuali limitazioni. Sono stabiliti termini per l'inizio del procedimento disciplinare - v. anche l'art. 9, comma 2, l. 7 febbraio 1990, n. 19 - nei confronti di chi sia colpito da sentenza irrevocabile di condanna, nonché per la sua sollecita conclusione (ibidem). Indipendentemente da ciò, lo svolgimento del procedimento è scandito da regole precise sui tempi da osservare e dalla regola generale, ex art. 120 t.u., della sua estinzione, per inerzia per novanta giorni, e dell'impossibilità della rinnovazione del procedimento estinto.
Incombe, dunque, sull'amministrazione un onere di tempestività sia nell'avviare, sia nel coltivare il procedimento che può condurre ad una ponderata misura sanzionatoria. L'inerzia, cioè l'inosservanza di regole sull'azione amministrativa, non sembra poter far ricadere sul dipendente, soggetto alla potestà disciplinare, una conseguenza talora più negativa di quella che avrebbe potuto subire, se l'amministrazione avesse fatto un uso diligente di questo suo potere. Si spiega anche per questa ragione, cioè quella dell'esigenza per l'amministrazione di rendersi attiva nell'esercizio del suo potere punitivo, l'intervento legislativo - v. sempre l'art. 9, comma 2, della l. n. 19/1990 - per il quale, se la sospensione cautelare sia stata disposta "a causa del procedimento penale, la stessa conserva efficacia, se non revocata, per un periodo" massimo di cinque anni.
Ed è corollario delle considerazioni fatte, l'ulteriore conclusione che, se la misura cautelare trova la sua causa nell'operato del dipendente, prima imputato, poi condannato, non devono, tuttavia, disconoscersi non soltanto l'intervenuta condanna, ma anche l'elemento causale consistente nella valutazione, fatta a priori, dall'amministrazione sull'opportunità di far luogo alla sospensione dal servizio, né ancora quello, che sopraggiunge, ma che integra la serie causale, consistente nell'esigenza di dar corso, durante o dopo il procedimento penale, a pena di decadenza, all'azione disciplinare. Cioè di ricondurre la vicenda alla "naturale sede di valutazione". Sicché non sembra soddisfacente la ricostruzione che reputa interamente attribuibile all'impiegato la sospensione cautelare cosiddetta "facoltativa", per far ricadere, altrettanto interamente, su di esso gli effetti definitivi dell'omessa prestazione del servizio.
8.4. Considerazioni di sostegno alle conclusioni raggiunte si traggono da altra pronunzia della Corte costituzionale, oltre quelle ricordate sopra, con specifico riguardo a temi collimanti con quello sinora esaminato. Si tratta dello scrutinio condotto sull'art. 15, comma 4-septies, della legge 19 marzo 1990, n. 55 (C. cost. n. 206 del 3 giugno 1999).
La disposizione in esame stabilisce che si proceda alla sospensione dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni, quando ricorra una delle condizioni fissate dal comma 1, fra le quali vari casi di condanna. Il vaglio di costituzionalità si è incentrato sull'ipotesi, allora vigente (abrogata poi con la l. 13 dicembre 1999, n. 475), di sospensione obbligatoria anche di dipendenti pubblici rinviati a giudizio per determinati delitti. Rilevato un parallelismo con l'art. 91, comma 1, del t.u. n.3/1957, la Corte ha potuto affermare la legittimità costituzionale della misura, rimarcando che la funzione cautelare non deve profilarsi come una sorta di sanzione anticipata e che il collegamento all'accusa penale sussiste solo in quanto sono messi in pericolo interessi dell'amministrazione con la presenza dell'impiegato nell'ufficio. Ed è stata ancora confermata la linea della necessità di verifica, dopo l'accertamento della responsabilità penale, delle conseguenze che debbano discendere, nella sede disciplinare, sul rapporto di servizio.
9. In conclusione, in caso di omissione del procedimento disciplinare, la condanna penale, intervenuta nei confronti dell'impiegato, non è suscettibile di tenere ferma la sospensione cautelare dal servizio, disposta in corso di procedimento penale e stabilita dall'amministrazione in via discrezionale, non potendosi ammettere una conversione della misura in una sanzione di identico contenuto. La sospensione deve intendersi caducata, alla pari di quella cui sia seguito un procedimento disciplinare estinto. Per effetto di ciò la posizione dell'impiegato deve essere reintegrata, essendo venuto a mancare il titolo che giustificava la quiescenza del rapporto. Si tratta, in sostanza, dell'applicazione dei princìpi desumibili dagli artt. 96 e 97 del t.u. 10 gennaio 1957, n.3, con riferimento ad ipotesi di venir meno della sospensione per altri motivi.
Nel caso esaminato, il periodo del quale si è sopra detto, ivi compreso quello che esorbitava il termine quinquennale di legge, va riconosciuto ai fini giuridici ed economici.
10. Non sono state proposte altre censure. L'appello deve, di conseguenza, essere respinto, ma vi sono motivi per compensare le spese anche di questo grado.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Adunanza plenaria, respinge l'appello.
Spese compensate.
Ordina che la presente decisione sia eseguita dall'Autorità amministrativa.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 29 ottobre 2001, con l'intervento dei Signori:
Alberto de Roberto Presidente
Sergio Santoro Consigliere
Domenico La Medica Consigliere
Costantino Salvatore Consigliere
Giuseppe Farina, rel. est. Consigliere
Anselmo Di Napoli Consigliere
Corrado Allegretta Consigliere
Luigi Maruotti Consigliere
Chiarenza Millemaggi Cogliani Consigliere
Marcello Borioni Consigliere
Pietro Falcone Consigliere
Paolo Buonvino Consigliere
Goffredo Zaccardi Consigliere
IL PRESIDENTE
f.to Alberto de Roberto
IL RELATORE
f.to Giuseppe Farina
Depositata in cancelleria il 28/02/2002.