CONSIGLIO DI STATO, ADUNANZA PLENARIA - Sentenza 2 maggio 2002 n. 4 - Pres. De Roberto, Est. Zaccardi - D'Agostino (Avv.ti Vincenzo e Italo Spagnuolo Vigorita) c. Provveditorato Studi di Napoli e Ministero della Pubblica Istruzione (Avv. Stato Paola Maria Zerman) - (annulla in parte T.A.R. Campania-Napli, sez. II, 29 maggio 1997, n. 1355 - la questione era stata rimessa dalla Sez. VI, con ordinanza n. 3084/2001).
Pubblico impiego - Sospensione cautelare dal servizio - Successivo procedimento disciplinare - Che ha finito per irrogare una sanzione diversa da quella di destituzione - Restitutio in integrum - Spetta - Limiti - Esclusione dalla restitutio del periodo di sospensione dalla qualifica e del tempo della condanna penale detentiva, anche se non scontata.
Ai sensi dell'art. 96, 2° comma, del d.P.R. n. 3/1957, deve ritenersi che un pubblico dipendente che - già cautelarmente sospeso dal servizio - sia stato in seguito, per i medesimi fatti, condannato in sede penale e sottoposto a procedimento disciplinare definito con l'irrogazione di una sanzione diversa dalla destituzione dall'impiego (nella specie, gli era stata comminata la sanzione della sospensione dalla qualifica per sei mesi) ha diritto alla restitutio in integrum, e, in particolare, alla restituzione delle retribuzioni perse durante il periodo di sospensione cautelare, limitatamente all'eventuale maggior periodo di sospensione cautelare subita rispetto a quello di effettiva sospensione dalla qualifica irrogatagli all'esito del procedimento disciplinare.
Dal quantum dovuto a titolo di restituzione delle retribuzioni perse durante il periodo di sospensione cautelare va anche dedotto l'importo delle retribuzioni corrispondenti al tempo della condanna penale detentiva, quand'anche questa non sia stata effettivamente scontata per intervenuta sospensione condizionale della pena, atteso che i periodi di detenzione, anche se non scontati, vanno esclusi dal riconoscimento dei benefici economici al dipendente condannato in sede penale (1).
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(1) Su quest'ultimo principio v. Cons. Stato, Ad. Plen., dec. n.15 del 1999.
Alla stregua dei principi espressi con la decisione in rassegna, l'Adunanza Plenaria ha accolto in parte l'appello, riconoscendo il diritto dell'appellante (nei cui confronti, a seguito di procedimento disciplinare, era stata comminata la sanzione della sospensione dalla qualifica per sei mesi) di ottenere il trattamento economico per il periodo di sospensione cautelare dal servizio, detratti tuttavia i sei mesi di sanzione disciplinare inflitta di sospensione dalla qualifica ed i due anni e tre mesi di reclusione irrogati dal giudice penale.
Per un commento della decisione in rassegna v. la nota di G. Bacosi, La Plenaria tra apparenti salvezze e mezze "ricondanne" disciplinari del condannato penale, riportata dopo il testo della decisione stessa.
FATTO
Il Provveditore agli studi di Napoli con atto 23 maggio 1986 n.514 ha disposto la sospensione cautelare (obbligatoria) dal servizio dell'appellante, sottoposto a procedimento penale, ai sensi dell'art.91 del T.U. degli impiegati civili dello Stato approvato con D.P:R. 10 gennaio 1957 n. 3.
Con D.M. 27 luglio 1987 la sospensione obbligatoria veniva trasformata, senza alcuna interruzione, in sospensione cautelare facoltativa in considerazione della gravità dell'imputazione e della incompatibilità della permanenza in servizio del prof. D'Agostino con l'interesse pubblico riservato alla cura dell'Amministrazione scolastica.
L'imputazione riguardava il reato di cui all'art.72 della legge n.685 del 22 dicembre 1975 "per aver detenuto, trasportato, offerto ecc." sostanze stupefacenti sia pure in modica quantità.
Il Tar per la Campania, sezione seconda, con sentenza n. 328 del 15 novembre 1993, limitava gli effetti della sospensione cautelare nei confronti dell'appellante al quinquennio decorrente dalla data di adozione del provvedimento stesso e, quindi, al 23 maggio 1991.In parziale esecuzione di detta sentenza l'appellante veniva riammesso in servizio con decorrenza dal dicembre 1993 ed il 7 febbraio 1994 riprendeva la sua attività di docente.
Il prof. D'Agostino, in seguito al passaggio in giudicato della sentenza penale di condanna (a due anni e tre mesi di reclusione e £100 mila di multa) della Corte di Appello presso il Tribunale di Napoli n.375 del 20 gennaio 1993 intervenuto per il rigetto del ricorso proposto in Cassazione con sentenza della Suprema Corte n.536 del 21 ottobre 1993, veniva sottoposto a procedimento disciplinare a tenore degli art. 103 e seguenti del DPR 3/1957.
La richiesta di destituzione, avanzata nell'atto di contestazione degli addebiti del 24 febbraio 1994, veniva respinta all'unanimità dal Consiglio di disciplina nella seduta del 1° giugno 1994 ed era sostituita dalla proposta di irrogazione della sanzione più lieve della sospensione dall'insegnamento per sei mesi prevista dall'art.94 lett. c) del DPR 31 maggio 1974 n.417.
Il procedimento si concludeva con l'irrogazione della sospensione di sei mesi dall'insegnamento con atto n. 151 del 12 agosto 1994 del Provveditore agli studi di Napoli. In detto provvedimento si puntualizzava che la sanzione inflitta doveva essere computata nella sospensione cautelare già subita dal docente e che, in ottemperanza alla linea interpretativa seguita in sede di controllo dalla Corte dei Conti (Adunanza del 16 aprile 1992 n.69/1992), non competeva al prof. D'Agostino alcun trattamento economico per il periodo trascorso in stato di sospensione cautelare.
In primo grado l'attuale appellante ha impugnato tale provvedimento in questa sua ultima parte chiedendo l'accertamento del diritto e la condanna dell'Amministrazione a corrispondere gli emolumenti dovuti ai sensi dell'art.96 del DPR 3/1957 per tutto il periodo di sospensione cautelare dal 23 maggio 1986 al dicembre 1993 con eccezione dei sei mesi per i quali era stata inflitta la sospensione dall'insegnamento.
La sentenza appellata ha rigettato la domanda attenendosi, in definitiva, al suindicato orientamento della Corte dei Conti, Sezione controllo Stato, orientamento ribadito con decisioni n.17/1998 e 60/1999.
La tesi del giudice di primo grado è essenzialmente incentrata sulla considerazione che la interruzione del rapporto sinallagmatico nel rapporto di servizio dei dipendenti pubblici dovuta alla sospensione cautelare in relazione alla instaurazione di un procedimento penale nei confronti di un dipendente pubblico è conseguenza diretta dell'illecito del dipendente e non è in alcun modo imputabile all'Amministrazione che ne subisce gli effetti in forza di un fatto esterno al rapporto di servizio. Pertanto, al di fuori dell'ipotesi specificamente disciplinata dall'art.97 del DPR 3/1957 di assoluzione con formula piena con conseguente pieno riconoscimento del trattamento economico non goduto nel periodo di sospensione, nei casi di condanna nulla spetta al dipendente sospeso cautelarmente dal servizio per il periodo di durata della sospensione cautelare.
Nell'atto di appello si sostiene che: a) l'art.96 del DPR 3/1957 è inequivoco nel riconoscere il diritto del dipendente sospeso cautelarmente a percepire tutti gli assegni spettanti per il tempo eccedente la durata della sanzione disciplinare inflitta quando questa sia di durata inferiore alla sospensione cautelare. Ciò indipendentemente dalla natura della sospensione cautelare; b) la giurisprudenza amministrativa è orientata nel senso di ritenere pienamente compatibile tale disposizione con l'art.97 del DPR 3/1957 che disciplina gli effetti della sospensione cautelare nei casi di collegamento con procedimenti penali; c) l'evoluzione legislativa è nel senso, una volta venuta meno la destituzione di diritto, di valutare la condanna penale alla stregua di ogni altro fatto che comporti responsabilità disciplinare e non vi è più spazio per distinguere, quanto agli effetti della sospensione cautelare, a seconda che sia stata disposta in pendenza di procedimento penale oppure indipendentemente da tale circostanza; d) la natura cautelare e temporanea della sospensione in parola comporta che la giurisprudenza si è orientata a negare la sussistenza di effetti negativi permanenti riconducibili ad essa; e) la giurisprudenza amministrativa è ferma nel negare il fondamento dell'assunto dell'organo di controllo sullo specifico punto qui in esame.
L'Avvocatura Generale ha, con ampia memoria, ribadito la correttezza della decisione appellata e la fondatezza del citato orientamento della Corte dei Conti.
La Sesta Sezione ha rimesso la questione di merito effettuando una analisi approfondita delle pronunce del Consiglio di Stato in materia riassumendo con completezza le ragioni che hanno indotto nel tempo questo giudice a disattendere le tesi della Corte dei Conti.
La causa discussa all'udienza del 29 ottobre 2001 è passata in decisione.
DIRITTO
1) La questione di diritto rimessa all'Adunanza Plenaria verte sulla applicabilità dell'art. 96, secondo comma, del DPR 3/1957 all'appellante, insegnante di scuola media sospeso cautelarmente dal servizio per l'instaurazione nei suoi confronti di un procedimento penale, poi conclusosi con una condanna a due anni e tre mesi di reclusione con pena sospesa, e successivamente sottoposto a procedimento disciplinare definito con l'irrogazione di una sanzione diversa dalla destituzione dall'impiego e, segnatamente, la sospensione dalla qualifica per sei mesi.
E' opportuno precisare che sul medesimo problema interpretativo il Consiglio di Stato si è pronunciato ripetutamente in termini positivi e che questa Adunanza ha ribadito tale orientamento con decisioni n.8 del 6 marzo 1997 e n.15 del 16 giugno 1999 (per una rassegna completa della giurisprudenza sul punto cfr, ordinanza di rimessione della Sesta Sezione n. 3084/2001).
Non sussistono elementi per rivedere tale indirizzo sulla base delle argomentazioni che seguono argomentazioni che, in definitiva, si riallacciano al precedente percorso della predetta giurisprudenza. L'assunto avversato dall'appellante della inapplicabilità della disposizione richiamata si fonda, essenzialmente, sulla considerazione della riconducibilità della sospensione cautelare dal servizio, nei casi in cui questa sia collegata alla instaurazione di un procedimento penale nei confronti del dipendente, all'illecito penale del dipendente stesso: con la conseguenza che la interruzione del rapporto sinallagmatico nel rapporto di lavoro deve essere riferita solo alla responsabilità di quest'ultimo.
A) In primo luogo si deve considerare la formulazione letterale dell'art. 96, secondo comma del DPR 3/1957 che esplicitamente dispone per la corresponsione di "tutti gli assegni non percepiti, escluse le indennità o compensi per servizi e funzioni di carattere speciale o per prestazioni di carattere straordinario, per il tempo eccedente la durata della punizione o per effetto della sospensione "nei casi - come quello in esame - in cui sia stata inflitta la sanzione della sospensione dalla qualifica per una durata inferiore al periodo di sospensione cautelare ovvero una sanzione meno grave o per l'ipotesi in cui il procedimento disciplinare si chiuda con il proscioglimento del dipendente.
Non esiste in tale disposizione alcun elemento testuale che consenta all'interprete di non applicarla quando la sospensione cautelare segua un procedimento penale anziché l'adozione di una sanzione disciplinare a conclusione di apposito procedimento.
Appare sul punto non decisivo l'argomento, ripreso nella sentenza appellata, secondo cui l'art. 96 citato - prima della sentenza della Corte Costituzionale n. 971 /1988 che ha fatto venir meno la maggior parte delle ipotesi di destituzione di diritto conseguente a condanna penale determinando così la necessità di attivazione, per tutte queste ipotesi, del procedimento disciplinare - era destinato a regolare solo il raccordo tra il giudizio disciplinare e la precedente sospensione cautelare dal servizio emessa ai sensi dell'art. 92 del DPR3/1957 per gravi motivi ma non in occasione dell'instaurazione di un procedimento penale.
E' sufficiente, a confutazione di tale tesi, osservare che anche prima dell'intervento della citata sentenza della Corte Costituzionale era ben possibile l'applicazione dell'art. 96 del DPR 3/1957 in tutti i casi di condanna del dipendente per reati non contemplati dall'art. 85, primo comma lett. a) (delitti contro la persona, contro la libertà individuale e la libertà personale e contro l'onore nonché alcuni reati minori contro la fede pubblica). Non è perciò esatto l'assunto che la norma in questione sarebbe oggi applicabile a situazioni originariamente non rientranti nel suo ambito di applicazione. E' soltanto divenuto più ampio il novero di reati per i quali in caso di sentenza definitiva di condanna è necessario apprezzare specificamente nel giudizio disciplinare le ripercussioni sul rapporto di servizio del dipendente condannato. Del resto, anche volendo seguire l'impostazione qui sottoposta a critica, è del tutto normale che una norma presente nell'ordinamento debba essere applicata in un sistema che si modifica continuamente sia per l'ordinario processo di abrogazione di leggi che in forza delle pronunce di accoglimento della Corte Costituzionale che ridisegnano in un processo continuo il diritto vivente.
B) Da altra angolazione è stato riconosciuto il carattere tipico dell'ordinamento del pubblico impiego che corrisponde nel regime delineato dal D.P.R. 3/1957 sia all'esigenza di garanzia dei dipendenti che, in special modo, a quella del miglior funzionamento possibile della complessa organizzazione che assicura l'adempimento delle più significative funzioni dello Stato.
In tale contesto l'interferenza di fatti estranei al rapporto di servizio, e che corrispondono ad esigenze di giustizia o di altro genere, è valutata dal legislatore ed ammessa nei limiti ed alle condizioni che l'ordinamento di settore definisce puntualmente.
La mancata previsione di un rilievo specifico delle sentenze penali di condanna determina la necessità della valutazione dei fatti secondo le regole proprie dell'ordinamento di settore e, quindi, la loro considerazione a fini disciplinari .E' in tale sede infatti che l'Amministrazione è chiamata a valutare i comportamenti del dipendente non per il rilievo penale che hanno assunto ma per le possibili conseguenze sul corretto ed efficiente espletamento delle funzioni del dipendente stesso che appare preordinato, nell'ordinamento di settore, al conseguimento ottimale degli obiettivi della funzione amministrativa.
Pertanto, poiché esistono ancora ipotesi in cui i provvedimenti giudiziari producono effetti direttamente sul rapporto di servizio senza alcun tramite: così per l'art. 91, primo comma seconda ipotesi (emissione del mandato o ordine di cattura); per l'art. 97 (effetti delle sentenze di proscioglimento con formula piena) ed 85, primo comma lett. b) (casi di destituzione di diritto in seguito a condanna penale che comporti l'interdizione perpetua dai pubblici uffici) è doveroso interpretare queste disposizioni per il loro contenuto specifico senza trarne conseguenze con riguardo a fattispecie non contemplate dalle norme di deroga e che rientrano naturalmente nell' ambito della disciplina disegnata dal D.P.R. 3/1957.
C) La tesi, condivisa dalla Corte dei Conti, secondo cui l'art.97 recherebbe una eccezione alla regola dettata dall'art. 96 escludendo del tutto il diritto alla corresponsione degli arretrati non percepiti durante il periodo di sospensione cautelare quando sia intervenuta una condanna in sede penale del dipendente non persuade anche per una ulteriore ragione indicata con chiarezza nella Adunanza Plenaria n.15 del 16 giugno 1999: le due norme riguardano aspetti diversi del procedimento disciplinare, anche temporalmente.
La prima presuppone la conclusione dello stesso e determina gli effetti del provvedimento finale sulla sospensione cautelare (assorbimento della sanzione inflitta nel periodo di sospensione cautelare e restituzione "in integrum" per il resto), la seconda regola invece il comportamento dell'Amministrazione in una fase anteriore al procedimento disciplinare quando intervenga una sentenza di proscioglimento pieno del dipendente .In tal caso è prevista la reintegrazione della posizione giuridica ed economica del dipendente per intero ovvero, quando la formula sia diversa ed, a giudizio del Collegio, anche per il caso di condanna che non comporti destituzione di diritto, l'obbligo della attivazione del procedimento disciplinare . Alla conclusione di tale procedimento riprende "tout court" vigore la disciplina dell'art.96 per tutte le ipotesi considerate .
D) L'argomento logico su cui si regge l'orientamento giurisprudenziale qui condiviso - ben evidenziato dall'ordinanza di rimessione richiamando significative pronunce del Consiglio di Stato - è nella natura cautelare della sospensione di cui si discute il che comporta la temporaneità della misura e la sua strumentalità rispetto ai provvedimenti chiamati a dare un assetto definitivo al rapporto di servizio.
Provvedimenti che non possono essere altri rispetto a quelli cui l'ordinamento del pubblico impiego affida questa funzione e, quindi, gli atti conseguenti all'accertamento di responsabilità disciplinari del dipendente. L'attribuzione di un effetto definitivo al provvedimento cautelare nel senso di cristallizzare in capo al dipendente una responsabilità per fatti, in ipotesi sanzionabili penalmente ma irrilevanti sul piano disciplinare, urta contro la funzione propria degli atti cautelari diretti alla conservazione di situazioni giuridiche in attesa della definizione delle stesse in modo permanente ed, inoltre, con insopprimibili esigenze di giustizia.
Né valgono, in contrario, gli argomenti, non giuridici ma di mera opportunità, diretti a porre in risalto la difficoltà in cui verserebbe l'Amministrazione chiamata a sopportare oneri finanziari gravi o a disporre la destituzione proprio per scongiurare gli anzidetti pesanti oneri economici. Basti a questo riguardo solo ricordare che in molti casi la destituzione, in puntuale applicazione della legge,dovrebbe essere comminata senza alcuna preoccupazione di carattere umanitario che l'ordinamento esclude in questa materia,in relazione ad una casistica completa e ben articolata (di cui all'art.84 del DPR 3/1957) che comprende ipotesi di mancanze meno gravi e significative di quelle che possono emergere in sede di giudizi penali definiti con condanna del dipendente. Incidentalmente si osserva che nel caso in esame (condanna a due anni e tre mesi di reclusione per detenzione e spaccio di sostanze stupefacenti in modica quantità inflitta ad un insegnante di scuola media) una conclusione diversa del procedimento disciplinare sarebbe stata del tutto normale e conforme all'interesse pubblico al conseguimento di condizioni ottimali di insegnamento.
E) Può essere utile precisare ancora un altro argomento che sostiene in modo decisivo la tesi qui accolta: che essendo la sospensione cautelare dal servizio adottata in base ad una valutazione discrezionale dell'Amministrazione (con eccezione della ipotesi della emissione del mandato o ordine di cattura nei confronti del dipendente) non è corretto ritenere la non imputabilità della interruzione del rapporto sinallagmatico all'Amministrazione medesima posto che è la stessa Amministrazione che valuta i presupposti per l'adozione della misura e ne determina i contenuti. Quando poi nella sede propria degli accertamenti definitivi emerga che la sospensione non era giustificata,in tutto o in parte, non può essere addebitabile al dipendente la interruzione del rapporto di servizio ed il mancato adempimento della prestazione dovuta a tenore dell'art 1218 del codice civile.
2) Alla stregua delle considerazioni che precedono il ricorso in appello va accolto in parte con il riconoscimento del trattamento economico all'appellante per il periodo di sospensione cautelare dal servizio detratti i sei mesi di sanzione disciplinare inflitta di sospensione dalla qualifica ed i due anni e tre mesi di reclusione irrogati dal giudice penale e, pertanto, a decorrere dal 23 febbraio 1989 al dicembre 1993.
Quanto a questa ultima statuizione va condiviso l'indirizzo, ribadito nella decisione dell'Adunanza Plenaria n.15 del 1999, secondo cui i periodi di detenzione, anche se non scontati, vanno esclusi dal riconoscimento dei benefici economici al dipendente condannato in sede penale.
E', infatti, evidente che per tali periodi l'accertamento definitivo che pone termine alla efficacia temporanea della sospensione cautelare si conclude con la conferma delle ragioni di cautela che avevano indotto l'Amministrazione a sospendere il dipendente dal servizio e, quindi, per tali periodi la interruzione del rapporto non è imputabile all'Amministrazione. Sul punto non varrebbe, per giungere ad una conclusione opposta, riferirsi al disposto dell'art. 166 del cod. pen.- come sostituito dall'art.4 della legge 7 febbraio 1990, n. 19, -che ha stabilito che non può costituire ostacolo all'accesso al pubblico impiego la condanna con pena sospesa condizionalmente.
Si tratta di una norma che attiene ad un momento diverso, anteriore alla costituzione del rapporto di lavoro e per il quale è condivisibile ritenere l'ininfluenza di fatti pregressi di rilievo penale se la pena è sospesa, nel caso di specie si tratta, invece, di fatti che assumono rilievo e consistenza di illeciti disciplinari e per i quali, impregiudicata la permanenza del rapporto di servizio ed in pendenza dello stesso, non può essere ricondotta al comportamento dell'Amministrazione la responsabilità della interruzione del sinallagma tra prestazione dell'attività lavorativa e controprestazione.
Sono riconosciuti interessi nella misura legale e rivalutazione sino al soddisfo.
Sussistono motivi per procedere alla compensazione delle spese di giudizio.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Adunanza Plenaria, accoglie in parte l'appello indicato in epigrafe nei sensi di cui in motivazione e per l'effetto, in riforma della sentenza appellata, dichiara il diritto dell'appellante al riconoscimento del trattamento economico spettante ai sensi dell'art. 96 del DPR 3/1957 come precisato in motivazione con rivalutazione monetaria ed interessi nella misura legale con condanna dell'Amministrazione intimata al pagamento di quanto dovuto all'appellante.
Spese compensate.
Ordina che la presente decisione sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 29 ottobre 2001, con l'intervento di:
Alberto de Roberto Presidente
Sergio Santoro Consigliere
Domenico La Medica Consigliere
Costantino Salvatore Consigliere
Giuseppe Farina Consigliere
Anselmo Di Napoli Consigliere
Corrado Allegretta Consigliere
Luigi Maruotti Consigliere
Chiarenza Millemaggi Cogliani Consigliere
Marcello Borioni Consigliere
Pietro Falcone Consigliere
Paolo Buonvino Consigliere
Goffredo Zaccardi Consigliere est.re.
IL PRESIDENTE
f.to Alberto de Roberto
IL RELATORE IL SEGRETARIO
f.to Goffredo Zaccardi f.to Pier Maria Costarelli
Depositata in segreteria il 2 maggio 2002.
Commento di
GIULIO BACOSI
(Avvocato dello Stato)
La Plenaria
tra apparenti salvezze e mezze "ricondanne"
disciplinari del condannato penale
Il fatto
Siamo nel maggio del 1986, all'ombra del Vesuvio.
Un docente, sottoposto a procedimento penale per aver " .detenuto, trasportato, offerto ecc." sostanze stupefacenti (quantunque in modica quantità: art.72 della legge 685.75), viene reso destinatario dal locale Provveditore agli Studi dapprima di un provvedimento di sospensione cautelare obbligatoria dal servizio, in forza dell'art.91 d.p.r. 3.57 (t.u. degli impiegati civili dello Stato); di seguito, acclarata la incompatibilità della relativa permanenza in servizio con l'interesse pubblico affidato all'Amministrazione scolastica, e stante la ritenuta gravità della esecrabile imputazione penale subita, la ridetta sospensione cautelare muta veste da obbligatoria in facoltativa (d.m. del luglio 1987).
Trascorsi cinque anni, il professore si rivolge al Tar Campania che, confortatene le tesi difensive (sentenza n.328/93), limita temporalmente gli effetti della sospensione cautelare al quinquennio dalla data di adozione del primo provvedimento, ritenendo la corrispondente parentesi legittima esclusivamente con riferimento all'arco temporale che va dal 23 maggio 1986 al 23 maggio 1991.
Eseguita per via amministrativa la pronuncia in parola, il docente viene riammesso in servizio a decorrere dal dicembre 1993, tornando effettivamente in cattedra, peraltro, solo in data 7 dicembre 1994.
Medio tempore, fa il suo corso il pari-pendente processo penale: il professore partenopeo viene condannato dalla Corte d'Appello di Napoli (sentenza n.375/93) a due anni e tre mesi di reclusione e a Lit. 100.000 di multa; ricorre invano in Cassazione (sentenza di rigetto n.536/93); assiste al passaggio in giudicato della relativa pronuncia di condanna e viene alfine sottoposto, ai sensi dell'art.103 e seguenti del t.u. 3.57 a rituale procedimento disciplinare.
Dopo aver corso in un primo momento financo il rischio della destituzione dal servizio, dalla clemenza della Commissione di disciplina affiora da ultimo la proposta d'irrogargli la ben più lieve sanzione compendiantesi nella sospensione dall'insegnamento per sei mesi, ai sensi e per gli effetti di cui all'art.94 lettera c) del d.p.r. 417.74, proposta di seguito recepita nell'atto provveditorale n.151 del 12 agosto 1994.
Peculiare rilevanza rivestono, all'occorrenza, le puntualizzazioni operate dal Provveditore nel contesto letterale del provvedimento sanzionatorio in parola:
a) il periodo corrispondente alla sanzione inflitta (sei mesi) deve essere computato in quello - ben più ampio - di scontata sospensione cautelare dal servizio, a titolo dapprima obbligatorio e dipoi facoltativo;
b) per il restante frangente temporale trascorso dal docente in stato di sospensione cautelare, allo stesso non compete alcun trattamento economico, dovendosi tener fede ad una omologa linea ermeneutica tracciata in materia da una delibera adottata dalla Corte dei Conti in sede di controllo e risalente al 1992.
Ne segue la più che prevedibile reazione giurisdizionale dell'insegnante, il quale chiede al Tar Napoli - facendo leva sul disposto di cui all'art.96 del t..u. n.3.57 - di essere restituito in integrum sotto il profilo patrimoniale con riferimento all'intero quinquennio di "scontata" sospensione cautelare, dedotti i sei mesi irrogati a titolo di sanzione definitiva.
Ma invano: i giudici di prime cure abbracciano la tesi già fatta propria dalla Corte dei Conti, ribadendo la insussistenza dell'invocato diritto ad una (pur parziale) ricostruzione in termini economici della carriera del dipendente scolastico, sulla base del seguente percorso argomentativo.
l'illecito del dipendente ha aperto la via ad un procedimento penale nei relativi confronti;
l'instaurazione di tale procedimento penale legittima la sospensione cautelare dal servizio del dipendente-imputato (o indagato, nella fase delle indagini preliminari);
la sospensione cautelare, a propria volta, avuto riguardo al rapporto di servizio tra dipendente e p.a., ne interrompe il nesso sinallagmatico, al cospetto di una causa sostanzialmente non imputabile all'Amministrazione e, al contrario, riconducibile al dipendente stesso;
la corrispettività prestazionale tra opus lavorativo e retribuzione subisce pertanto una brusca interruzione in forza di un "agente esterno" alla p.a., con conseguente duplice alternativa: a) nel caso in cui il dipendente già sospeso dal servizio venga successivamente assolto in sede penale, lo stesso avrà diritto alla piena ricostruzione, anche sul crinale economico, della carriera; b) nel caso cui invece lo stesso venga condannato, tale ricostruzione non potrà essere fatta oggetto di pretesa da parte del medesimo, quand'anche il periodo di sospensione effettivamente "scontato" superi quello corrispondente alla pena e/o alla sanzione disciplinare definitiva da scontare.
Del pari prevedibile - dinanzi a cotanto infausto esito dell'iniziativa di prime cure - l'immediato gravame del docente, che invoca dal Consiglio di Stato adito in sede d'appello la tutela negatagli dal Tar sulla scorta di una diffusa analisi esegetica impostata sul dato normativo di riferimento.
La difesa muove dal disposto di cui all'art.96 del t.u. 3.57, alla stregua del quale, supposto inequivoco, qualunque sia stata la natura della sospensione cautelare subita dal dipendente (obbligatoria, ovvero facoltativa), ove il periodo di relativa durata si riveli superiore a quello corrispondente alla irrogata sanzione disciplinare definitiva, per l'esubero il dipendente stesso ha diritto al trattamento economico non percepito.
Tale precetto, a dire dell'appellante (peraltro col conforto di buona parte della giurisprudenza amministrativa), sarebbe pienamente compatibile con quei casi particolari nei quali il procedimento disciplinare segua a processo penale esitato in condanna, specificamente regolati dal successivo art.97.
Del resto, il fatto che sia stata - se si escludono le ipotesi più gravi - sostanzialmente eliminata dal sistema la c.d. destituzione di diritto (specie grazie a note prese di posizione da parte della Corte Costituzionale, riconducibili al crepuscolo degli anni '80), conferma come l'eventuale intervento di una condanna penale rappresenti ormai semplicemente uno tra i molteplici fatti idonei ad attivare un procedimento disciplinare, senza che ciò possa incidere in alcun modo sui rapporti tra provvedimento definitivo che ne scaturisce e sospensione cautelare (obbligatoria o facoltativa) già subita dal dipendente, rapporti in ogni caso disciplinati dal ridetto art.96.
L'insegnante cesella infine abilmente il proprio impianto difensivo evitando di decampare dal confortante modello riconducibile, sul punto, alla più accreditata giurisprudenza amministrativa.
Quest'ultima, ferma su posizioni collocate ad identica latitudine rispetto a quelle abbracciate dall'appellante, ha diuturnamente evitato devianti trappole concettuali sulla scorta di una coppia di specifiche e puntuali considerazioni non scevre invero - nella rappresentazione offertane dalla parte - da una qualche larvata autoreferenzialità:
a) la sospensione "cautelare", proprio perché tale, non può comportare sempiterni effetti negativi;
b) quanto asserito dalla Corte dei Conti non ha mai trovato l'avallo dei Tar e del Consiglio di Stato, al contrario orientati nell'opposta direzione favorevole all'appellante.
La VI Sezione destinataria del gravame del docente, dopo aver peraltro confermato queste ultime asserzioni e dopo aver operato un pedissequo catalogo riepilogativo (ord. n.3084) delle pronunce che, come denunciato dal ricorrente, ne conforterebbero le ragion, ritiene - nondimeno - di non poter chiudere autonomamente la partita, invocando un ennesimo intervento sul punto da parte del Supremo Organo della Giustizia Amministrativa.
La decisione della Plenaria
L'Adunanza non manca di palesare in ouverture, quando pure indirettamente, la propria stanca inerzialità nell'affrontare una questione tutt'altro che nuova in relazione al relativo orbe decisionale, ricordando tosto come l'orientamento favorevole alle ragioni del ricorrente abbia trovato conferma, oltrechè in plurime decisioni delle sezioni semplici, in taluni recenti pronunce del medesimo Supremo Consesso (precisamente, la n.8 del 1997 e la n.15 del 1999: per la diversa fattispecie in cui al procedimento penale con coeva sospensione dal servizio non abbia poi fatto seguito il procedimento disciplinare nei confronti del dipendente, cfr. peraltro la recente decisione n.2 del 2002).
Schiudendo poi lo scrigno dell'imbastito impianto motivazionale, il Collegio afferma senza indugio il fermo proposito di non voler rivisitare il proprio, collaudato orientamento inteso a sminuire il rilievo altrove (ed in prime cure) tributato alla "responsabilità esclusiva del dipendente" (penalmente condannato) onde farne discendere per lo stesso peculiari e sfavorevoli conseguenze, specie in punto di effetti della subita sospensione cautelare dal servizio ove essa sia risultata superiore, in termini di tempo, all'arco diacronico-effettuale di cui al definitivo provvedimento sanzionatorio "di merito".
Primo parametro confermativo non potrebbe che essere, in proposito, quello letterale: se si escludono ".le indennità o compensi per servizi o funzioni di carattere speciale o per prestazioni di carattere straordinario", al dipendente vanno ineludibilmente corrisposti - ai sensi dell'art.96 comma 2° del d.p.r. 3.57 - tutti gli assegni non percepiti, in specie, nelle ipotesi in cui:
a) il dipendente medesimo, già sottoposto a sospensione cautelare dal servizio, sia stato prosciolto nella successiva sede disciplinare "di merito";
b) egli - ed è l'ipotesi considerata - già sottoposto alla ridetta sospensione cautelare, sia stato reso destinatario, all'esito del giudizio di "merito disciplinare", di una sospensione dal servizio di minor durata rispetto alla prefata sospensione parentetica (ovvero, a fortiori, di una sanzione meno grave della stessa sospensione dal servizio).
Il fatto dunque che all'origine dell'intera vicenda "sospensiva" vi sia la sottoposizione dell'impiegato pubblico ad un procedimento penale non si mostra circostanza idonea, secondo l'Adunanza, a spostare i termini della questione e le generalizzanti, raggiunte conclusioni sul piano letteral-ermeneutico.
Il Collegio, con la precisione metodologica che gli è cara, si preoccupa quindi di confutare in modo puntuale quanto argomentato nella pronuncia di prime cure sempre sul fondamento dell'art.96 d.p.r. 3.57.
Prima del 1988, aveva osservato il Tribunale vesuviano, quella disposizione avrebbe dovuto assumersi destinata a normare la sola fattispecie in cui, ex art.92, ad una precedente sospensione cautelare dal servizio per gravi motivi - tuttavia non riconducibili alla instaurazione di un procedimento penale a carico del dipendente - quest'ultimo fosse stato reso destinatario di un giudizio disciplinare.
Nel caso in cui invece il giudizio disciplinare avesse fatto seguito alla instaurazione di un processo penale a carico del pubblico impiegato, questi non avrebbe pertanto potuto invocare l'art.96; un problema di possibile applicabilità di tale disposizione anche alle fattispecie di previa instaurazione di un processo penale si sarebbe posta solo a partire dalla nota sentenza della Corte Costituzionale n.971 del 1988 che, eliminando la gran parte delle ipotesi di destituzione di diritto seguente a condanna penale ed imponendo pertanto, anche a seguito di detta condanna, la necessità di far luogo ad un procedimento disciplinare (con possibilità di una sanzione "di merito" meno estesa temporalmente rispetto alla subita sospensione cautelare), avrebbe - ma solo teoricamente - aperto la via ad una possibile operatività dell'art.96 anche al cospetto della ridetta, peculiare fattispecie.
In realtà, precisa l'Adunanza come anche anteriormente al noto "spartiacque" del Giudice delle leggi datato 1988, in tutti i casi in cui il dipendente - già penalmente perseguito - avesse subito una condanna per reati diversi da quelli implicanti, ex art.85 comma 1° lettera a) del t.u., la relativa automatica destituzione ope legis, l'art. 96 avrebbe dovuto ritenersi pienamente applicabile, onde la Corte Costituzionale si sarebbe più semplicemente attivata nel senso di ampliarne i margini di effettiva operatività, proprio attraverso la sostanziale eliminazione dal perimetro del giuridicamente rilevante delle ipotesi di destituzione di diritto.
Per dirla ancor più semplicemente, l'aver subito una condanna penale ed un successivo procedimento disciplinare è evenienza inidonea a scalfire il diritto del dipendente ad una restitutio in integrum nel caso in cui l'arco temporale di sospensione cautelare dal servizio si sia rivelato più ampio di quello di effettiva, obbligata interruzione (in conseguenza di pena o sanzione disciplinare "di merito") del nesso prestazionale sinallagmatico; è del resto evidente come, prima del 1988, dovessero ritenersi esclusi tutti quei casi, oggi scomparsi, nei quali alla sospensione cautelare dal servizio in conseguenza di un pendente procedimento penale avesse fatto seguito, all'esito di quest'ultimo, una condanna per reato implicante destituzione di diritto, con conseguente giuridica impossibilità di ripetere alcunché dall'Amministrazione sotto il profilo economico.
Peraltro, puntualizza con rigore argomentativo il Collegio, il fatto di trovarsi al cospetto di una materia sulla cui regolamentazione campeggia il più classico "panta rei" (tutto scorre) - in forza tanto dell'incessante diluvio normativo, con sovente avvicendarsi di disposizioni abrogative, quanto del parimenti non infrequente sopravvenire di pronunce demolitorie ad opera della Corte Costituzionale - impone di reinterpretare continuamente, e con pari flessibilità, il dato positivo alla luce delle innovazioni che via via lo coinvolgono.
Con l'ulteriore precipitato onde, a tutt'oggi e proprio a seguito del plurimenzionato innesto precettivo di fine anni '80 ad opera del Giudice delle leggi, l'art.96 del d.p.r. n.3.57 non potrebbe che essere interpretato nel ridetto senso di riconoscere al dipendente il diritto alla restitutio in integrum nel noto caso di squilibrio tra tempo della cautela e tempo del merito disciplinare, quand'anche quest'ultimo segua a condanna penale.
A tanto va aggiunto il carattere "tipico" dell'ordinamento del c.d. "pubblico impiego" (oggi, impiego alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni), onde l'assetto precettivo che regola il rapporto di servizio tra dipendente e p.a. datoriale non può non dirsi funzionale - prima ed oltre che a garantire il pubblico dipendente - ad ottimalmente assicurare quella quotidiana interfaccia con gli amministrati attraverso la quale la macchina burocratica si fa "servizio" rispetto ai cittadini medesimi.
E' proprio la settorialità del contesto normativo di riferimento a guidare impreteribilmente verso la del pari "autonoma" valutabilità amministrativa, sulla scorta di regole proprie e specifiche, del comportamento del dipendente, quand'anche penalmente rilevante, eccettuati i soli casi, positivamente disciplinati in seno al t.u. sul pubblico impiego, al ricorrere dei quali è quanto sortito dalle aule della giustizia penale a compulsare ogni possibile chance di diversa ponderazione del contegno medesimo in sede disciplinare, come nelle ipotesi:
a) della avvenuta emissione di un mandato o ordine di cattura (art.91, comma 1° seconda ipotesi del dpr 3/.57);
b) delle sentenze di proscioglimento con formula piena (art.97 dpr 3.57);
c) della condanna penale che importi interdizione perpetua dai pubblici uffici, con conseguente, legittima destituzione ope iuris (art.85 comma 1° lett.b. dpr 3.57).
Si tratta di ipotesi eccezionali che non possono condurre, stando all'iter argomentativo del Collegio, ad una ritrazione di improbabili principi generali idonei a consentire una sovrapposizione, in termini di rilevanza, delle fattispecie penal-giudiziali alle ben distinte valutazioni da operarsi in sede disciplinare, ed in funzione del "conseguimento ottimale degli obiettivi della funzione amministrativa", affidato in prima e fondamentale battuta proprio alla capacità dei dipendenti di assolvere secondo precisi e definiti canoni il loro onere prestazionale nei confronti del datore pubblico.
Procedendo nella pars destruens del proprio excursus inteso a significare la inattendibilità delle opposte tesi, l'Adunanza giunge a prendere esplicitamente a petto - per confutarla - la prospettiva ermeneutica fatta propria dalla Corte dei Conti ed abbracciata dal Tar vesuviano, alla stregua della quale in caso di intervenuta condanna penale sarebbe l'art.97 del t.u., da intendersi quale eccezione rispetto al precedente art.96, ad impedire la restitutio in integrum del dipendente per il periodo "differenziale" tra l'effettiva sanzione da scontarsi e la già scontata sospensione cautelare.
Basta, sul punto, un richiamo alla argomentata pronuncia in seduta Plenaria n.15 del 1999: è impossibile stabilire un rapporto di regola ad eccezione con riferimento a due precetti che disciplinano fasi temporalmente distinte dei pur innegabili nessi tra procedimento penale e reazioni disciplinari.
Ed invero, l'art.96 presuppone che un procedimento disciplinare si sia svolto ed abbia esitato in una sanzione necessariamente da assorbire, sotto il profilo temporale, nella già scontata sospensione cautelare, con restitutio in integrum a favore del dipendente quanto al residuo; il successivo art.97 presuppone invece un procedimento disciplinare non ancora aperto, ovvero tuttora in corso, fissando alla p.a. datoriale le coordinate da seguire nell'eventualità in cui il parallelo procedimento penale (questo sì) si sia concluso con sentenza di proscioglimento pieno del dipendente, con conseguente piena reintegrazione del dipendente nella propria situazione giuridico-economica.
Nell'eventualità in cui invece:
a) il proscioglimento non sia stato con formula piena;
b) ovvero il dipendente sia stato condannato in relazione ad un reato che, non implicando interdizione perpetua dai pubblici uffici, non rechi seco la destituzione di diritto,
secondo il Collegio, ove non già intrapreso, va attivato procedimento disciplinare nei confronti del dipendente, all'esito del quale la fattispecie non potrà che rifluire sotto l'egida dell'art.96 dpr 3.57, con conseguente eventuale restitutio in integrum del dipendente in presenza di sanzione più "breve" della sospensione cautelare (qualora scontata).
Da diversa angolatura prospettica, a diversamente opinare verrebbe frustrata, in caso di condanna penale del pubblico dipendente seguita da mancata reintegrazione del medesimo, la più autentica portata "cautelare" della sospensione dal servizio irrogatagli in corso di procedimento giurisdizionale punitivo: altrimenti detto, il sospendere "cautelarmente" il pubblico impiegato senza poi restituirgli le retribuzioni perse nell'eventualità in cui, pur penalmente alfine condannato, allo stesso sia stata irrogata una pena o una sanzione disciplinare temporalmente inferiore alla subita sospensione, significherebbe in realtà averlo da subito disciplinarmente sanzionato sotto le mentite spoglie di una "parentesi" cautelare del rapporto di servizio.
Tutto lo zelo che il Collegio tributa alla fattispecie emerge poi allorché i Giudici romani passano a valutare le obiezioni "di mera opportunità" sollevate da qualche parte in ordine al possibile incentivo, fornito all'Amministrazione dall'orientamento favorevole alla restitutio in integrum, a più largamente disporre la destituzione del dipendente in sede di procedimento disciplinare di merito anche per infrazioni poco gravi - quando pure penalmente sanzionate - allo scopo di evitare le pesanti conseguenze "finanziario-restitutorie" connesse alla irrogazione di una sanzione disciplinare di minor spessore special-preventivo.
Dopo aver rammentato come l'ordinamento, "in questa materia" [intendi: quella disciplinare], escluda qualsiasi ".preoccupazione di carattere umanitario", l'Adunanza rammenta che in realtà è la legge stessa (art.84 dpr 3.57) a potenzialmente autorizzare la destituzione con riguardo a molteplici ipotesi sovente meno gravi di quelle stesse cui consegua condanna penale del dipendente, incidentalmente (ed in sostanza) facendo rilevare come - nel particolare caso di specie (condanna a 2 anni e 3 mesi di reclusione per detenzione e spaccio di sostanze stupefacenti, seppure in modica quantità, inflitta ad un docente di scuola media) - lo stesso "interesse pubblico alle condizioni ottimali di insegnamento" ben avrebbe dovuto suggerire alla p.a. procedente l'irrogazione della destituzione medesima.
Quest'ultima peraltro, ove in concreto disposta, avrebbe consentito alla parte datoriale pubblica di automaticamente bypassare proprio la nota questione della restitutio.
Prima di accogliere (a questo punto, davvero di buon grado?) l'appello del dipendente, il Collegio non può mancare di prendere posizione sulla obiezione concernente la presunta imputabilità della sospensione cautelare al solo impiegato - ove questo sia stato reso destinatario di un procedimento penale - e non già anche all'Amministrazione, tale da far rifluire l'effrazione al nesso sinallagmatico tra retribuzione e prestazione lavorativa nell'alveo della responsabilità pubblica.
In realtà, osserva l'Adunanza, solo nel caso in cui sia stato spiccato nei confronti del dipendente - secondo l'arcaica terminologia di cui al vecchio codice - mandato o ordine di cattura, la p.a. può concretamente definirsi "obbligata" (peraltro dalle stesse circostanze di fatto: non può lavorare chi sia ormai astretto in vinculis) a sospenderlo cautelarmente dal servizio.
In tutti gli altri casi, è invece essa stessa a valutare i presupposti per l'adozione di tale strumento "cautelare" onde, nel caso in cui il successivo giudizio di "merito" disciplinare sortisca un verdetto più favorevole, tale circostanza lascia immancabilmente affiorare il diritto del dipendente (tra gli altri) alle "retribuzioni differenziali" perse, non potendosi quegli assumere quale responsabile da "lesione d'obbligo" ex art.1218 c.c.
L'appello della parte privata viene adunque accolto, sebbene in parte: in relazione al quinquennio di subita sospensione cautelare viene infatti disposta la restitutio in integrum del dipendente per un importo pari al totale delle retribuzioni perse, sottratti tuttavia due archi temporali ben distinti e sommantisi tra loro:
a) i 6 mesi di sanzione disciplinare irrogata (sospensione dalla qualifica);
b) i 2 anni e 3 mesi di reclusione inflitti dal giudice penale, quand'anche non scontati per sospensione condizionale della condanna.
In "zona cesarini" i Giudici di Piazza Capo di Ferro riprendono infatti, per confermarne le coordinate, un ulteriore orientamento espresso già dalla decisione n.15 del 1999, alla stregua del quale il fatto che la condanna penale non sia stata scontata per sospensione condizionale della pena non appare circostanza idonea ad escludere il diniego di restitutio in integrum per il corrispondente periodo lavorativo trascorso in stato di sospensione cautelare dal servizio, risultando anzi confermate dalla condanna penale (pur condizionalmente sospesa) le "ragioni di cautela" che avevano indotto la p.a. proprio alla ridetta sospensione dal servizio.
Il ragionamento va riconnesso logicamente e ragionevolmente a quello testè scandagliato in punto di nesso soggettivo tra irrogata sospensione cautelare, interruzione del nesso sinallagmatico-lavoristico e perdita delle retribuzioni da parte del dipendente pubblico: ex post, positivamente accertata la relativa responsabilità in sede penale, emerge difatti la (allora solo apparente, ed allo stato di mero fumus, ma ormai) piena opportunità che sorresse al tempo il provvedimento amministrativo di sospensione cautelare, con conseguente, definitiva imputabilità (stavolta certa) della deviazione asillagmatica al dipendente.
E' ben vero che a seguito della recente modifica dell'art.166 cp ad opera dell'art.4 legge 19.90, ove questi abbia subito una condanna penale condizionalmente sospesa, lo stesso non vedrà pregiudizialmente pendere sul proprio capo un indefettibile dato negativo quanto a possibili, future assunzioni presso una pubblica amministrazione.
E tuttavia, osserva il Collegio, ancora una volta ci si trova dinanzi a fasi distinte dell'interazione tra processo penale e rapporto di servizio
Se pertanto ab imis, e con riguardo alla eventuale costituzione di tale rapporto, non potrebbe "pesare" una condanna penale condizionalmente sospesa, neppure potrebbe negarsi la imputabilità della sospensione cautelare di detto rapporto, ove già in atto, ad un dipendente che ad essa abbia dato un netto abbrivio commettendo un fatto poi giudicato con sentenza penalmente rilevante, quand'anche non sia stato poi in concreto chiamato a scontare la pena per relativa sospensione condizionale.
L'appellante può ben dirsi, insomma, "mezzo salvo".
Spunti di riflessione
A distanza di poco più di due mesi dall'ultimo intervento in materia (decisione n.2 del 28 febbraio 2002), e coevamente ad una ulteriore, ferma presa di posizione della Corte Costituzionale (sentenza n.145 del 3 maggio 2002 resa, curiosamente, su ordinanze di rimessione proprio del Tar Campania), il Supremo Consesso Amministrativo torna dunque sui rapporti tra processo penale e procedimento disciplinare.
Mette conto subito ribadire, da un lato, quanto già precisato in chiosa alla ridetta decisione n.2.2002, trattarsi ovvero di un fenomeno con ogni probabilità destinato - almeno per quanto concerne i decisa dell'Adunanza - a divenire vieppiù evanescente col passare degli anni, in considerazione del noto passaggio della giurisdizione sul c.d. "pubblico impiego" dal giudice amministrativo a quello ordinario, in concomitanza con la contestuale "privatizzazione" del rapporto di impiego medesimo e col trasferimento di gran parte dei relativi settori di disciplina - non escluso quello disciplinare - all'area della contrattazione collettiva; e precisare, dall'altro, come a realmente inframezzare, sotto il profilo delle fattispecie in concreto rilevanti, le prese di posizione tanto della Plenaria quanto della Consulta si ponga l'avvento della tutt'altro che inosservata legge n.97 del 27 marzo 2001, intesa ad ex professo normare proprio il "rapporto tra procedimento penale e procedimento disciplinare", in una con gli "effetti del giudicato penale nei confronti dei dipendenti delle Amministrazioni pubbliche".
Volendo fare quel tantino di ordine necessario, se non a capire nel profondo ciascuna ratio decidendi (non ne sarebbe il luogo opportuno), quantomeno ad individuarne le principali direttrici, converrà chiarire come tanto la decisione n.2.2000 dell'Adunanza Plenaria quanto la successiva n.4 epigrafata muovano, statuendovi sù, dal vaglio di fatti accaduti prima del ridetto neoinnesto normativo, riferendosi ad un frangente temporale ancora assai vicino ad una sfera di preponderanza "pubblicistica" in materia di "impiego alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni", come palesato in specie dal costante riferimento alle norme del datato t.u. n.3.57.
In particolare, il Collegio:
dapprima si è occupato degli effetti che, in materia di eventuale restitutio in integrum del pubblico dipendente già cautelarmente sospeso dal servizio, potrebbero discendere dal mero intervento di una condanna in sede penale dello stesso, escludendo che - in assenza della instaurazione di un rituale procedimento disciplinare "di merito" - tale condanna penale sia idonea a convertire in sanzione disciplinare quella che era e rimane un mero strumento di cautela (decisione n.2 del 2002);
quindi, con la pronuncia in parola, ha preso posizione sul quantum della restitutio in integrum allorchè il procedimento disciplinare "di merito" sia effettivamente seguito alla sospensione cautelare dal servizio, curando anche di evidenziare in che termini incide su tale reintegrazione (sempre sotto il profilo quantitativo), la eventuale condanna detentiva penale (decisione n.4 del 2002).
Entrata in vigore nel primo quadrimestre del 2001 la menzionata legge n.97, è quindi intervenuta - sollecitata all'uopo dai medesimi giudici amministrativi partenopei - la Corte Costituzionale con la decisione n.145 del 2002, pubblicata il giorno seguente rispetto alla n. 4 della Plenaria:
a) dichiarando la incostituzionalità del relativo art.4 comma 2°, laddove dispone che la sospensione dei pubblici dipendenti dal servizio perde efficacia decorso un periodo di tempo pari a quello di prescrizione del reato;
b) assumendo la necessaria proporzionalità, imposta dall'art.3 della Costituzione, della misura sospensiva cautelare, stante la relativa emanazione (ovvero adozione quando, come nel caso di specie del "pubblico impiego", essa sia riconducibile ad una p.a.) sulla scorta di un mero fumus, che fa sempre salvo il definitivo accertamento di merito, dovendone esclusivamente preservare gli effetti;
c) chiarendo la portata generale da riconoscersi all'art.9 comma 2° della legge n.19 del 1990, laddove viene previsto - con autentica clausola di garanzia - un termine quinquennale di durata massima di ogni e qualsivoglia sospensione cautelare dal servizio, sia essa facoltativa o obbligatoria;
d) affermando la piena costituzionalità del comma 1° dell'art.4 legge 97.01, laddove è previsto che il pubblico dipendente (ovvero comunque il dipendente di ente a prevalente partecipazione pubblica) condannato - quand'anche in via non definitiva - per uno dei delitti elencati dal precedente art.3 comma 1°, venga necessariamente sospeso dal servizio; salva la sopravvenuta inefficacia di tale sospensione ove, in relazione al medesimo fatto, intervenga successivamente sentenza di proscioglimento o di assoluzione non definitiva;
e) additando la lesione inferta, sia all'interesse generale al buon andamento della p.a., che allo stesso rapporto di fiducia tra Amministrazione e cittadini: laesio che la sovente inerzia delle prima ad irrogare sospensioni cautelari dal servizio - pur al cospetto di fattispecie di reato particolarmente gravi, oltrechè pregnanti in termini di infedeltà - ha indubitabilmente implicato, e che la legge n.97.01 ha inteso in qualche modo e de futuro scongiurare attraverso taluni congegni non scevri da innovativa "automaticità" tra vicende penalistiche ed iniziative disciplinari.
Tanto premesso, e senza soffermarsi sui dettagli, è sufficiente - pur stante il diverso quadro di riferimento, in punto di normativa applicabile, per ciascuno degli autorevoli Organi giurisdizionali considerati - uno sguardo d'insieme al precedente sentiero riassuntivo per avvedersi di una certa qual inuniformità di fondo dei rispettivi indirizzi.
In specie, con riferimento ai rapporti tra liturgia penale, i relativi esiti, fausti o infausti per il dipendente, e sorte di quest'ultimo sotto il profilo disciplinare, pare di percepire una maggior dose di predicata "autonomia di giudizio" in sede amministrativa da parte dei Giudici di Piazza Capo di Ferro rispetto a quelli di Palazzo dei Marescialli, onde l'Autorità disciplinare appare, a seconda dei casi, più o meno svincolata dalle risultanze del processo penale.
Certo, appare innegabile il dato nuovo di sistema emergente proprio dalla legge n.97.01 ed inteso ad indubitabilmente innescare - come anticipato supra - una maggiore automaticità tra risultanze penalistiche e sviluppi ed esiti disciplinari di una medesima vicenda fattuale (cfr., ultra omnia, il novellato art.653 cpp): un novum ius positum, all'evidenza, in gran parte fatto salvo dalla Consulta (se si eccettua la questione del rapporto tra durata della sospensione e prescrizione penale) attraverso un lusinghiero richiamo alla generalizzata sostituzione valutativa ex lege - con riguardo alle possibili reazioni disciplinari (pur cautelae causa) nei confronti del dipendente pubblico seriamente coinvolto in un processo penale - del nomopoieta all'amministratore di turno.
Resta da sperimentare, nondimeno, quale sarà l'effettivo trend ermeneutico abbracciato dai giudici ordinari (e da quelli amministrativi, per la residua area di competenza) dinanzi a possibili "zone grigie" al cospetto delle quali si rivelasse ancora possibile scegliere tra l'"autonomia" o la "dipendenza" del giudizio.
Del resto in materia lo stesso legislatore si è sovente mostrato ondivago, con ogni probabilità - in rapporto ai vari settori ordinamentali di volta in volta avvinti o "soluti" da eventuali pregiudizialità valutative - a cagione delle specifiche esigenze cui puntiformemente assolvere.
Così, esemplificando,
se nel 1988 - coevamente alla nota sentenza della Consulta (n.971) intesa a marchiare di incostituzionalità la più parte dei casi di destituzione di diritto - entrava in vigore un codice di procedura penale chiaramente orientato da un lato a scoraggiare la costituzione di parte civile nel processo penale e dall'altro a svincolare il più possibile i giudizi resi in un settore da possibili influenze di giudicati riconducibili all'altro;
trascorsi più d'una dozzina di anni, ad un nuovo provvedimento normativo (la legge 97.01) inteso a vincolativamente orientare l'azione amministrativa contenziosa in sede disciplinare sulla falsariga degli sviluppi e delle risultanze processualpenalistiche fa seguito - nel consueto "calderone" della "Finanziaria 2002" (legge 488.01) - un ulteriore innesto precettivo (art.12) che, rimodellando l'art.2 del decreto sul contenzioso tributario (d.legsl.vo 546.92), consente financo al giudice delle imposte (fatta eccezione per le "solite" questioni di falso nonché di stato e capacità delle persone) di risolvere "..in via incidentale ogni questione da cui dipenda la decisione delle controversie rientranti nella propria giurisdizione"!
Da un rilievo all'altro, sempre sulla falsariga della pronuncia in chiosa, non appaia ormai un fuor d'opera soffermarsi - prima di chiudere- su una questione di pura opportunità processualistica.
Scorrendo i repertori, non capita troppo spesso di scorgere - quantomeno ad intervalli sì brevi - questioni già risolte dalle Sezioni Unite, nondimeno ripropostele in modo tanto pedissequo ed insisito come invece accade se si scandaglia il destino del Supremo Consesso Amministrativo.
Senza indugiare troppo sulla palmare quanto peculiare "affezione" che la Plenaria, del resto in tal senso sollecitata dalle Sezioni Semplici, mostra nei confronti della spinosa materia disciplinare e dei relativi rapporti con quella penale, mette conto subito precisare che, se dubbi si riaffacciano con simil frequente cadenza periodica come nel caso in parola (in relazione al quale un precedente esattamente "in termini" dell'Adunanza risale appena a due anni addietro), proprio la delicatezza dell'argomento milita per vieppiù "intensi" (ed autorevoli) interventi giurisprudenziali orientati alla invocata chiarezza.
Nondimeno, non sfuggirà in specie al costituzionalista come nel processo celebrato innanzi alla Consulta sussista uno strumento, posto dal legislatore a disposizione del Giudice delle leggi, attraverso il quale - ove la Corte non si determini nel senso di mutare orientamento (e qualche "invertita rotta" in materia disciplinare pare potersi scorgere all'odierno, sol che si confronti la plurimenzionata decisione n.971.88 con la recentissima n.145.02) - è consentito alla stessa non ripiegarsi su questioni già vagliate, limitandosi piuttosto ad un banale rinvio al precedente, nel contesto letterale di una pronuncia di mero rito.
Ora, tradurre le note sentenze (o, a volte, le ordinanze) di "manifesta infondatezza" di una questione di costituzionalità già affrontata in passato in omologhi provvedimenti affidati alle Sezioni Unite della Cassazione, da un lato, ed all'Adunanza Plenaria, dall'altro - magari attraverso un sapiente utilizzo all'uopo del rito in camera di consiglio, e ferma sempre la libertà per il Collegio giudicante, ove lo ritenga opportuno di riaffrontare il busillis, magari in termini maggiormente elaborati, al nobile fine di dissipare ulteriori eventuali dubbi - potrebbe contribuire a sveltirne l'agenda in tutti i casi in cui, al contrario, non vi sia nulla da aggiungere al già detto.
Non resta che ri-apprezzare - tracimando ormai dallo strictum ius e riprendendo la navigazione tra i tempestosi, cruenti flutti di annunciate riforme lavoristiche e di sbandierati "articoli 18" - l'equilibrio d'un Giudice il quale, improvvisatosi dapprima "Amministrazione", pur sottilmente additando se stesso ad implacabile "destitutore", prende dipoi subito atto, tornato in sé, delle coordinate normative e provvedimentali che pedissequamente è chiamato ad applicare, reintegrando patrimonialmente un "problematico" docente destinatario di una "mera" sospensione dalla qualifica (oltrechè di una condanna penale per detenzione e spaccio di stupefacenti).
Pochi giudicanti, nondimeno, siedono (e statuiscono) a Palazzo Spada..