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n. 12-2002 - © copyright.

CONSIGLIO DI STATO, ADUNANZA PLENARIA - Sentenza 20 dicembre 2002 n. 8 - Pres. De Roberto, Est. Maruotti - Edil Garden Soc. Coop. a r.l. (Avv.ti S. e C. Messina) c. Salvia e c.ti (Avv. L. Gurrera) e Comune di Partinico (n.c.) - (conferma T.A.R. Sicilia - Palermo, Sez. I, 25 luglio 2000, n. 1646; la questione era stata rimessa dal C.G.A. con ord. 15 novembre 2001, n. 588).

1. Giustizia amministrativa - Appello - Disciplina applicabile - Riferimento alla data di deposito della sentenza - Necessità.

2. Edilizia residenziale pubblica - Programmi costruttivi - Delibera di approvazione - Indicazione dei termini di inizio e fine dei lavori e delle espropriazioni - Ex art. 13 della L. fondamentale - Necessità - Sussiste.

3. Edilizia residenziale pubblica - Programmi costruttivi - Delibera di approvazione - Comunicazione dell'avviso di inizio del procedimento ai proprietari interessati - Necessità - Sussiste.

4. Giustizia amministrativa - Risarcimento del danno - Derivante da lesione di interessi legittimi - Questione circa la necessità o meno di una preventiva pronuncia di annullamento (c.d. pregiudiziale amministrativa) - Irrilevanza nel caso in cui, in concreto, il privato ricorrente non abbia subito alcun pregiudizio.

1. Sulla scorta del noto principio tempus regit actum, applicabile ogni qualvolta ci si trovi dinanzi ad una successione di leggi nel tempo in materia processuale, è alla data di deposito della sentenza - e non già a quella di notifica dell'impugnazione - che occorre fare riferimento al fine di individuare la disciplina che governa l'appello, in specie con riguardo al termine utile per interporre gravame; ciò anche al fine di scongiurare per l'appellante inusitate preclusioni che ne comprometterebbero la pienezza della tutela giurisdizionale (alla stregua del principio nella specie è stato ritenuto che all'appello in questione si applicava la disciplina vigente al momento del deposito della sentenza - art. 19, comma 3, del decreto legge n. 67 del 1997, convertito nella legge n. 135 del 1997 - non rilevando che il sopravvenuto art. 4, comma 1, della legge n. 205 del 2000  aveva ridotto il termine per la proposizione del gravame).

2. A differenza della delibera di approvazione del PEEP (Piano per l'edilizia economica e popolare) - la cui efficacia è temporalmente delimitata ai sensi dell'art. 9 comma 1° della legge 167/62 e successive modifiche ed integrazioni - quella avente ad oggetto il programma costruttivo di cui all'art. 51 della legge n. 865/71 si presenta ad efficacia sine die: la stessa deve pertanto indicare esplicitamente i termini di inizio ed ultimazioni degli espropri e dei lavori, dovendosi ritenere operante nella relativa fattispecie la norma, dalla valenza residuale, di cui all'art. 13 della legge n. 2359/1865.

3. A seguito dell'art. 7 della legge 241/90, peculiare espressione del principio di proporzionalità e buon andamento dell'azione amministrativa - che ha previsto ed insieme consacrato l'obbligo per la p.a di comunicare al privato potenzialmente leso dal provvedimento finale l'avvio del procedimento funzionale alla relativa adozione (allo scopo, tra gli altri, di favorire possibili accordi tra le parti pubblica e privata e/o di abbattere il contenzioso tra le medesime) - anche la delibera che, ex art. 51 della legge 865/71, approva un programma costruttivo, localizzando le aree (espropriande) di concreto intervento del medesimo, deve essere preceduta da una comunicazione di inizio del procedimento inoltrata ai soggetti privati interessati.

4. Non rileva la questione se, per ottenere il risarcimento del danno, occorra previamente ottenere l'annullamento del provvedimento amministrativo illegittimo nel caso in cui, in concreto, il privato ricorrente non abbia subito alcun pregiudizio (nel caso di specie, pur a seguito di una procedura espropriativa poi giudicata illegittima, non si era avuta la effettiva occupazione del fondo del soggetto privato inciso dall'azione amministrativa contra ius).

 

Commento di

GIULIO BACOSI
(Avvocato dello Stato)

Prima l'annullamento e poi il risarcimento ? Il non liquet della Plenaria.

Il fatto

Un tranquillo Comune della Trinacria, Partinico, travolto dalla palingenesi urbanistica, adotta un nuovo piano regolatore sul fondamento del quale vengono assegnate ad una società Cooperativa - con delibera all'uopo - talune aree a fini di realizzazione di un programma costruttivo (n.22 abitazioni) in località "Bisaccia", contestualmente dichiarando la pubblica utilità, l'indifferibilità e l'urgenza del ridetto opus edificatorio.

Segue l'autorizzazione - erogata dal competente capo settore "lavori pubblici" dell'Amministrazione civica di riferimento - a concretamente introdursi nei terreni de quibus, appartenenti a privati proprietari e destinati all'espropriazione, onde redigere rituale stato di consistenza.

I menzionati proprietari vengono contestualmente resi edotti della divisata, imminente occupazione d'urgenza dei terreni medesimi.

Tanto la delibera di assegnazione delle aree alla Cooperativa e contestuale declaratoria di pubblica utilità, indifferibilità ed urgenza del programma costruttivo (163 del 1999) quanto la successiva autorizzazione all'accesso finalizzato alla redazione dello stato di consistenza (6 del 2000) ed il connesso avviso di occupazione vengono impugnati innanzi al locale Tar (Palermo) dalle parti dominicali private, in numero complessivo di cinque.

Oltre alla demolizione di tutti i provvedimenti oggetto di censura, i ricorrenti invocano anche il risarcimento dei danni che l'adozione di tali provvedimenti avrebbe loro cagionato.

Il Collegio di prime cure - in forma "abbreviata" ai sensi del c.d. decreto "sbloccacantieri" (art.19 comma 2° del dl 67.97, convertito nella legge 135.97) - mentre dichiara irricevibile per presunta tardività il gravame interposto dalla più parte dei proprietari espropriandi (4), accoglie nel merito quello attivato da uno di essi (tal Salvia): in particolare, l'Amministrazione comunale avrebbe omesso di comunicargli l'avvio del procedimento espropriativo (con conseguente violazione dell'art.7 della legge 241.90), sottraendosi altresì al dovere di fissare, in sede di declaratoria di pubblica utilità del noto programma costruttivo, i termini iniziali e finali di lavori ed espropri, siccome previsto dall'art.13 della legge 2359 del 1865.

Si appella la Cooperativa innanzi al Consiglio di Giustizia amministrativa per la regione siciliana chiedendo invano, in sede cautelare, la sospensione della esecutività della sentenza impugnata e sollecitando le difese delle parti appellate le quali - tutte - ripropongono anche la domanda risarcitoria già formulata in prime cure oltre a resistere, in prima battuta, al merito dell'iniziativa impugnatoria riconducibile alla Cooperativa in parola.

Il Consiglio di Giustizia, denegata la chiesta tutela parentetica, minuziosamente parcellizzata la base decisionale della composita vertenza ed isolate alfine quattro questioni giuridiche idonee a far luogo ad altrettanti, possibili contrasti giurisprudenziali, rimette la decisione dell'appello all'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato ai sensi dell'art.5 comma 4° del decreto legislativo 554.48 (ord. n.588 del 2001).

Più nel dettaglio:

1)  la sentenza del Tar palermitano fu pubblicata vigente l'art.19 comma 3° del menzionato decreto legge 67.97; in occasione della notifica dell'atto di appello da parte della società Cooperativa assegnataria delle aree era invece già pienamente operativo nel sistema l'art.4 comma 1° della legge 205.00 (alias art.23.bis della legge 1034.71); il dubbio amletico investe la tempestività (o la intempestività) di un gravame che sia stato notificato prima della scadenza del termine lungo (quand'anche dimidiato) previsto dalla prima disposizione, ma oltre il termine di 120 giorni previsto dalla seconda (lo si ribadisce, ormai in vigore all'atto della notifica della ridetta impugnazione);

2) allorché l'opera della quale viene dichiarata la pubblica utilità debba sorgere su aree oggetto di un PEEP (piano per l'edilizia economica e popolare: legge 167.62, art.9), ovvero di un programma costruttivo (legge 865.71, art.51), è discusso se la delibera alla quale è riconducibile tale declaratoria di p.u. (e che dà alla luce, rispettivamente, il PEEP ovvero il programma costruttivo) debba recare i termini di inizio ed ultimazione di espropri e lavori di cui all'art.13 della legge 2359 del 1865;

3) ancora, sempre nei casi in cui venga dichiarata la pubblica utilità di un'opera di edilizia economica e popolare (ex art.6 della legge 167.62), secondo una opzione ermeneutica da taluni contrastata (peraltro sulla scorta di precedenti giurisprudenziali affatto opachi e pulviscolari) occorrerebbe comunque la trasmissione ai proprietari espropriandi di una comunicazione di avvio del procedimento espropriativo;

4) infine - ed è senz'altro questa la questione di maggior "peso" sistematico, stante anche la nota polifonia di voci che la animano - è discussa e merita una autorevole presa di posizione del Consiglio in Adunanza Plenaria la questione se l'azione risarcitoria scaturente da presunta lesione di interesse legittimo possa essere spiccata anche nel caso in cui il ricorso demolitorio sia stato intempestivo; o, il che è lo stesso, se sussista la c.d. "pregiudiziale d'annullamento" (rectius, "d'impugnazione") rispetto alla ridetta azione di risarcimento danni.

L'intero compendio di "sudate carte" è già a Palazzo Spada quando la Cooperativa appellante, con memoria all'uopo, prende posizione proprio sulla domanda risarcitoria riproposta in appello da tutte le parti private (ivi comprese quelle il cui ricorso fu dichiarato irricevibile per tardività in prime cure), appoggiando il proprio, pertinente impianto difensivo su due argomentazioni ritenute assorbenti.

a) in presenza di ricorso demolitorio tardivo, è inammissibile la domanda di risarcimento dei danni asseritamente scaturenti dagli atti che si è invano inteso abbattere (per la Cooperativa, in altri termini, sarebbe ben predicabile la "pregiudiziale" di cui supra);

b) in ogni caso, i provvedimenti dai quali sarebbe gemmato il pregiudizio non hanno trovato concreta esecuzione, sicchè la denunciata laesio non appare neanche lontanamente ventilabile.

La decisione della Plenaria

Vertendosi in materia di procedura espropriativa finalizzata alla esecuzione di opus publicum, l'art.23.bis comma 1° lettera b) della legge 1034.71 impone al Supremo Consesso Amministrativo di scoprire tempestivamente le sue carte decisorie; con dispositivo pubblicato illico et immediate viene così respinto tanto l'appello interposto dalla Cooperativa (con conseguente conferma della illegittimità dei provvedimenti impugnati in prime cure dai ricorrenti privati) quanto la domanda risarcitoria avanzata in sede di gravame da tutti gli scampati all'esproprio.

L'ostensione dell'iter motivazionale che fonda il dictum in commento resta invece letargica fino ai primi freddi autunnali, in occasione dei quali l'Adunanza - con una decisione a lungo attesa dagli addetti ai lavori a cagione del relativo, presumibile pionierismo (palesatosi alfine quale mero pascersi d'utopia) - illustra con pacata e persuasiva fermezza i perché del suo duplice rigetto.

Il primo arcano da sciogliere è quello relativo alla tempestività dell'appello introdotto dalla Cooperativa.

Ed invero, essendo stata

-  la sentenza pubblicata (a mezzo deposito) sotto il vigore dell'art.19 comma 3° del decreto legge 67.97, convertito nella legge 135.97 (25 luglio 2000);

-  ed il gravame avverso la stessa notificato di già sotto l'egida precettiva dell'art.23.bis della legge 1034.71, come introdotto dall'art.4 comma 1° della legge 205.00,

l'eventuale riferimento alla data di deposito della pronuncia consente di salvare l'appello dalle maglie della decadenza mentre privilegiando, all'opposto (e sempre a fini di individuazione della normativa rilevante), la data di notifica dell'appello stesso si perverrebbe alla declaratoria di intempestività del detto gravame.

L'Adunanza, anche appuntandosi - col conforto d'una esplicita sollecitazione in tal senso, rintracciabile nella ordinanza di remissione palermitana - su due suoi precedenti rubricati con i numeri 1 e 2 del 2001 (vedili, con commento di chi scrive, in Consiglio di Stato, Decisioni in Adunanza Plenaria dell'anno 2001, Roma, 2002), si appella al noto principio di schietta marca processualistica di cui al (del pari) celebre brocardo tempus regit actum, così finendo col far ritualmente salva l'impugnazione della Cooperativa.

All'uopo, identifica l'actus a tempore regendus (operazione la più delicata) non già nel ricorso in appello, quanto piuttosto nella sentenza oggetto d'impugnazione, il cui "perfezionamento" si consuma col relativo deposito (pubblicazione), da assumersi quale esclusivo parametro temporale cui fare riferimento proprio allo scopo di individuare la disciplina di rito applicabile in caso di successione di leggi processuali nel tempo.

A nulla potrebbe rilevare rispetto alla ridetta data di deposito della pronuncia gravanda né - come ovvio - un precetto (disciplinante l'impugnazione) abrogato in data anteriore al deposito medesimo, né tampoco (ed è il caso di specie) una disposizione che, entrata in vigore successivamente fissi alla parte un termine inferiore (rispetto alla precedente disciplina) per impugnare.

Del resto, al potenziale appellante:

- deve essere consentito da un lato di programmare la propria attività in vista della proposizione del gravame, facendo riferimento ad una data certa di scadenza del relativo onere, così scongiurandogli il rischio di incorrere in inusitate preclusioni "capestro";

-  deve essere garantito dall'altro - ed in sostanza - di poter contare su di una piena ed effettiva tutela giurisdizionale, ad evidente rischio di compromissione nel caso in cui, ventilata l'impugnativa della sentenza censuranda entro il termine X, una legge successiva consentisse di invocarne l'abbattimento solo nel minor termine Y (in immediata scadenza, o financo già scaduto!).

Al Supremo Consesso Amministrativo, sempre ben lungi da qualunque forma di pauperismo giuridico, non sfugge a questo punto una emblematica (ma non proprio simmetrica: lo si preciserà ultra) assimilazione, palesandoglisi lo schema analogo a quello in cui un soggetto privato, che voglia impugnare in prime cure un provvedimento amministrativo assunto come illegittimo, si trovi a fronteggiare un neoinnesto normativo di ascendenza processuale che ex abrupto riduca il termine utile per interporre il gravame nel torno di tempo che va dalla data di perfezionamento del provvedimento impugnando (o dalla sua piena conoscenza, se successiva) a quella in cui il ricorso viene concretamente notificato alla p.a..

Anche in simili fattispecie, insegna l'Adunanza, non potrebbe che farsi riferimento - al fine di individuare la disciplina in concreto applicabile e, in specie, il termine utile per l'impugnazione - al momento di "perfezionamento" dell'atto (a tempore rectus) che si intende addurre innanzi al giudice amministrativo, e non già a quello, successivo, di notifica del ricorso alla p.a., pena la evidente retroattività della deminutio temporis utilis e, con essa, una lesione dello stesso "affidamento processuale" del soggetto privato.

Il suggello definitivo alla ricostruzione ermeneutica abbracciata dall'Adunanza - quasi voler chiudere un sillogismo la cui premessa maggiore era stata suggerita dal Consiglio di giustizia siciliano attraverso l'ordinanza di remissione - viene rinvenuto nelle ridette, precedenti decisioni n.1 del 2000 e numeri 1 e 2 del 2001:

- la prima null'altro fa se non ribadire che in caso di sentenza pubblicata dopo l'entrata in vigore di una nuova disposizione, è quest'ultima a fissarne definitivamente il relativo regime di impugnativa (nella specie, si trattava proprio dell'art.19 comma 3° del dl 67.97, succeduto alla "vecchia" e più favorevole disciplina contenuta in via generale dalla legge 1034.71);

- le seconde - risolvendo un caso in cui un ricorso di primo grado era stato proposto tardivamente con riferimento alla normativa vigente nella data di relativa notifica, ma tempestivamente rispetto ad una normativa successiva a tale proposizione e tale da riespandere il termine per il gravame che in precedenza il legislatore aveva compresso - finisce col ribadire il principio tempus regit actum (anche se riferendolo, questa volta, alla data di notifica del ricorso piuttosto che a quella di perfezionamento del provvedimento impugnato) sul diverso crinale della non retroattività in melius di leggi processuali successive più favorevoli.

Appoggiandosi sulla considerazione riassuntiva, dalla vaga eco sistematica, onde - ogniqualvolta ci si trovi dinanzi ad un "atto del potere pubblico" (amministrativo o giurisdizionale che sia) normato da susseguenti precetti incompatibili - è al tempo del relativo "perfezionarsi" che occorre mirare al fine di individuare quale sia la disciplina diacronica applicabile per la tempestiva impugnazione dello stesso, l'Adunanza conclude coerentemente per la non tardività dell'appello della Cooperativa nel caso di specie, con ciò spalancandosi le porte del vaglio di merito.

L'indagine si orienta allora tosto sulla questione investente la ventilata violazione - per come statuito dal Tar in prime cure, effettivamente perpetrata dalla Cooperativa appellante - del principio cristallizzato nell'art.13 della legge fondamentale sugli espropri (2359 del 1865), ed alla stregua del quale l'atto che dichiara la pubblica utilità di un'opera a fini espropriativi del terreno sul quale la medesima dovrà sorgere deve contenere i termini iniziali e finali tanto del procedimento di esproprio quanto dei lavori; principio di indefettibile osservanza, oltre che sulla scorta di un consolidato trend pretorio sul punto, anche alla stregua di una precedente, autorevole statuizione dell'Adunanza (la n.6 del 1991).

In proposito - e col consueto, "nomofilattico" obiettivo d'una quanto mai opportuna chiarezza - il Collegio non può sottrarsi ad una articolata ricostruzione in punto di fatto della vicenda che ha interessato i terreni espropriandi, anche al fine di operare correttamente le conseguenti qualificazioni giuridiche e, in ultima analisi, di meglio orientarsi nella decisione della controversia sottoposta al relativo scandaglio.

Punto di partenza non può che essere il nuovo prg del Comune di Partinico (peraltro adottato a seguito di delibera di un commissario ad acta, la numero 34 del 1997), alla stregua del quale la contrada Bisaccia, sede dell'intervento costruttivo e del previo esproprio avrebbe dovuto essere inserita - a livello attuativo - in un PEEP (Piano per l'edilizia economica e popolare).

Senonché, osserva subito il Collegio, la delibera (n.163.99, impugnata in primo grado dai proprietari delle aree oggetto dell'intervento edificatorio) con la quale

- è stata dichiarata la pubblica utilità ed urgenza delle opere

- e si è provveduto ad assegnare i noti terreni alla Cooperativa appellante per la concreta realizzazione delle medesime

non potrebbe ritenersi compendiare l'approvazione di un PEEP (pur originariamente previsto dal prg), quanto piuttosto la ben diversa localizzazione di un programma costruttivo, ai sensi e per gli effetti dell'art.51 della legge (statale) 865.71, e delle leggi regionali siciliane nn.21.73 e 79.75.

Si tratta di un "distinguo" gravido di rilevanti implicazioni giuridiche (prima che pratiche):

- la delibera approvativa di un PEEP, alla quale va ricondotta la dichiarazione di pubblica utilità, indifferibilità ed urgenza delle opere di edilizia economica e popolare di prossima realizzazione, non abbisogna dei termini (soprattutto finali) concernenti le espropriazioni ed i lavori, dal momento che è la legge stessa (art.9 comma 1° della legge 167.62) a fissare una durata predeterminata per il detto piano, entro il perimetro diacronico della quale deve essere adottato il decreto di espropriazione (sulla osservanza di un limite temporale massimo quale "regola indefettibile" in rapporto ad ogni procedura espropriativa, compresa quella connessa a programmi di edilizia economica e popolare, il Collegio ricorda le fondamentali pronunce della Corte costituzionale n.355.85 e 141.92); spirato il ridetto termine legale, non è più possibile procedere a legittimo esproprio delle aree interessate;

- la delibera con la quale viene localizzato ed approvato un programma costruttivo - all'opposto - scevra peraltro dal turbinio delle formalità legalmente richieste per l'approvazione di un PEEP e pur parimenti configurando una fattispecie di implicita dichiarazione di pubblica utilità delle opere realizzande, potrebbe legittimare potenzialità espropriative sine die, abbisognando come tale di un limes temporale (giova ribadirlo, soprattutto finale, a tutela dei domini interessati) entro il quale tanto i lavori quanto gli espropri vanno ultimati; di qui la operatività della residuale (ma tuzioristicamente preziosissima) regola contenuta nella pur vetusta legge liberale sugli espropri (art.13 più volte menzionato).

In definitiva, nel caso di specie l'approvazione e localizzazione di un programma costruttivo (piuttosto che l'adozione di un PEEP, in relazione alla quale per costante giurisprudenza, non è operativo l'art.13 della legge 2359 del 1865) avrebbero dovuto sospingere la Cooperativa alla fissazione dei termini iniziali e finali di espropri e lavori, con conseguente piena legittimità della sentenza del Tar peloritano nel capo in cui ha censurato tale giuridicamente poco commendevole latitanza.

Va segnalata la puntualità con la quale l'Adunanza traccia il cerchio fattuale della vicenda, da un lato, registrandone i puntuali risvolti storico-giuridici dall'altro, secondo guide lines redazionali assai care al fine Estensore della pronuncia.

Ne costituiscono un limpido esempio, rispettivamente:

a) l'aver chiarito come la effettiva localizzazione del programma costruttivo in quel di cui all'ormai nota "contrada Bisaccia" sia stato solo l'ultimo atto di una continua "navetta" articolantesi in proposte della Cooperativa, investenti altre e diverse zone del territorio comunale, e pareri (taluno negativo) della locale commissione edilizia;

b)  l'aver metodicamente ripercorso tutte le tappe normative e giurisprudenziali che hanno condotto all'attuale assetto dei rapporti tra p.a. e cittadino nella delicata fase - forse la più emblematica nei sempre difficili rapporti tra autorità e libertà - che va dal momento in cui viene apposto un vincolo espropriativo su un terreno a quello, finale, in cui il terreno medesimo viene effettivamente e concretamente ablato.

A quest'ultimo proposito, mette conto precisare a titolo esemplificativo come uno dei motivi di appello interposti dalla Cooperativa espropriante dinanzi alla Suprema Corte siciliana, decisamente respinto dall'Adunanza con la pronuncia in commento, facesse sostanzialmente leva sulla presunta non necessità per l'Amministrazione (ovvero del soggetto privato che eventualmente agisca per essa) di fissare i noti termini previsti dall'art.13 ogniqualvolta le costruzioni cui è funzionale l'esproprio risultino già previste in sede di piano regolatore, specie poi nell'evenienza in cui tale PRG non sia stato impugnato in parte qua.

La prospettazione difensiva offre al Collegio la ghiotta occasione per dottamente ripercorrere le ridette tappe normativo-pretorie in materia di vincoli ed espropri di aree private, caratterizzate da una autentica escalation di tutela per il soggetto privato destinatario dell'ablazione.

Viene così rammentato:

- che in origine (legge urbanistica 1150.42) non era prevista, con riferimento al prg, la necessità che dal relativo contesto emergesse un termine per la dichiarazione di p.u. delle opere da realizzarsi sulle aree vincolate a mezzo del medesimo; era invece previsto che l'atto dichiarativo della p.u., una volta adottato (chissà quando, chissà come!), prevedesse il più delicato dei termini additati dall'art.13 della legge 2359.1865, ovvero il termine finale per l'esproprio;

- che gli articoli 7 e 40 della legge urbanistica summenzionata sono stati dichiarati incostituzionali con la celebre pronuncia della Consulta n.55.68;

- che a seguito di tale autorevole e perentorio intervento del giudice delle leggi è stata innestata nel contesto ordinamentale vigente la legge 1187.68, il cui art.2 ha previsto - stante la non indennizzabilità dei vincoli di piano - un termine anche per la declaratoria di pubblica utilità (rispetto all'intervento del PRG, o di una variante al medesimo), fissando il principio onde i vincoli di piano generale preordinati all'esproprio decadono in caso di mancato intervento della ridetta dichiarazione di p.u. entro 5 anni;

- che ne è seguita la netta segmentazione del procedimento in 2 ben distinte fasi tra loro sequenziate ed entrambe connotate da scolpita tempistica operativa: a) entro 5 anni dalla previsione del vincolo in sede di PRG (o di relativa variante) va dichiarata la pubblica utilità delle opere cui è funzionale l'espropriazione; b) nella dichiarazione di pubblica utilità devono essere previsti i termini previsti dall'art.13 della legge 2359 del 1865, con particolare riferimento al termine finale per procedere all'esproprio.

Anche nel caso in cui il provvedimento "contenente" la dichiarazione di pubblica utilità annoveri quest'ultima in modo implicito, occorre - rammenta dunque l'Adunanza - che emergano i termini declamati dall'art.13, da intendersi quale precetto residuale "di garanzia" per tutti quei casi in cui tali termini non siano diversamente evincibili, come è proprio l'ipotesi del PEEP, piano attuativo comportante dichiarazione di p.u. e che la legge dichiara efficace entro un ben definito torno temporale (entro lo spirar del quale devono pertanto necessariamente aver luogo i divisati espropri).

Il Collegio, armatosi di lusinghiero scrupolo, si preoccupa peraltro di verificare se, per avventura, la non necessità di un termine finale per l'esproprio connaturale a quella peculiare dichiarazione di p.u. che è intrinseca nella approvazione di un PEEP (per i motivi ridetti: tale piano ha già in sé ed ex lege una durata necessariamente predefinita) possa essere estesa anche alla delibera approvativa e localizzativa del programma costruttivo di cui all'art.51 della legge 865.71.

Il dubbio trova fondamento nella evenienza onde il comma 5° della disposizione testè menzionata, nel riferirsi alla delibera in parola, dichiara expressis verbis - ma in modo anodino -come la stessa implichi "..l'applicazione delle norme in vigore per l'attuazione dei piani di zona": espressione che potrebbe indurre un ermeneuta in vena di acrobazie a ritenere la disposizione che esclude per i PEEP la necessaria indicazione del termine finale di esproprio applicabile "per estensione" anche alla delibera che approva il programma costruttivo.

In proposito, ribadita la ragionevolezza legislativa (come tale sindacabile dalla sola Corte costituzionale) dell'art.9 comma 1° della legge 167.62 con riguardo alla ridetta "dispensa dal termine" per i PEEP, già sostenuta nelle precedenti decisioni n.11 del 1984 e n.12 del 1997, il Collegio nega che la durata predeterminata ex lege di tale piano - cristallizzata nel ridetto precetto - possa essere estesa anche al diverso istituto del programma costruttivo, ai sensi dell'ambiguo rinvio di cui all'art.51 comma 5° della legge 865.71.

Ciò sulla scorta di per lo meno tre indizi esegetici:

1) i lavori preparatori della menzionata legge 865.71 non offrono nulla che possa far deporre nel senso ridetto;

2) parimenti nulla appare ritraibile in tal senso dal contesto letterale delle varie disposizioni che hanno provveduto ad innalzare la durata legale di efficacia del PEEP (giunta sino a 18 anni dai 10 di partenza), e la circostanza appare all'Adunanza vieppiù emblematica in considerazione del fatto che una di queste norme è contenuta nella medesima legge 865.71 che ha configurato l'istituto del programma costruttivo (precisamente, l'art.38);

3) la mancanza, con riferimento al programma costruttivo, delle formalità di approvazione esplicitamente dettate in rapporto al PEEP, oltre alle difficoltà realizzative che connotano quest'ultimo, lasciano supporre che il lungo termine di operatività del piano per l'edilizia economica e popolare non sia automaticamente trasponibile alla fattispecie in cui campeggia il menzionato programma costruttivo.

In definitiva, e nel solco della affatto preponderante giurisprudenza amministrativa, per il programma costruttivo non è previsto alcun termine finale idoneo a segmentare la fase che dal medesimo (implicante p.u. delle opere in esso previste) conduce sino all'esproprio dei terreni destinati alla relativa traduzione in atto, onde una interpretazione costituzionalmente orientata del sistema (e fedele al canone della indefettibilità di un termine a corredo d'ogni dichiarazione di p.u.) non può che imporre una applicazione della norma residuale "di garanzia" contenuta nell'art.13 della legge del 1865.

Messo definitivamente il punto su simile questione, il baricentro motivazionale della decisione modula ormai, in punta di penna, verso la solutio dell'altra sollevata (con non minor successo) dai ricorrenti in prime cure ed investente la ventilata (ed acclarata) illegittimità degli atti ivi impugnati per violazione dell'art.7 della legge 241.90, non essendo mai stata partecipata ai ricorrenti medesimi, nella relativa veste di proprietari espropriandi, la pendenza del procedimento ablativo inteso a privarli dei rispettivi domini.

Premessa la riscontrabilità in materia di altro noto pronunciamento dell'Adunanza, quello rubricato al n.14 del 1999 - con il quale è stata expressis verbis affermata la piena operatività dell'obbligo comunicativo previsto dall'art.7 in parola anche con riguardo alle fattispecie di dichiarazione di pubblica utilità meramente implicita - il Collegio si preoccupa in primo luogo di scardinare il motivo d'appello interposto dalla Cooperativa e facente perno sulla mancata previa impugnativa, da parte dei proprietari destinatari dell'esproprio, del nuovo PRG, nella parte in cui aveva destinato i relativi terreni ad edilizia economica e popolare (in vista dell'approvazione di un PEEP all'uopo); una inerzia tale, secondo l'appellante, da sottrarre dall'orbe del giuridicamente rilevante lo stesso interesse alla successiva demolizione della delibera concernente il noto programma costruttivo (n.163 del 1999).

Osserva con apprezzabile ed opportuno schematismo l'Adunanza come occorra nettamente distinguere i due fenomeni, entrambi giuridicamente rilevanti

- della apposizione di un vincolo preordinato all'esproprio

-  e della susseguente dichiarazione di pubblica utilità delle opere in vista delle quali l'esproprio in parola è stato preventivato.

Tale ultimo provvedimento (dichiarazione di p.u.), ben lungi dall'atteggiarsi a mero atto dovuto o esecutivo rispetto alle determinazioni assunte in sede di apposizione del vincolo preordinato all'esproprio, si compendia piuttosto nella concreta determinazione delle opere realizzande, costituendo diretta emanazione di uno specifico potere discrezionale capace, fra le altre cose, di scolpire la "specifica ubicazione del perimetro." nonché le "..concrete caratteristiche oggettive" delle opere medesime.

La circostanza onde il soggetto proprietario del bene in relazione al quale sia stato apposto un vincolo preordinato all'esproprio non abbia impugnato tempestivamente quella parte del piano urbanistico che tale vincolo ha previsto non si appalesa, allora, idonea a scalfire l'interesse processuale del medesimo ad impugnare la successiva dichiarazione di pubblica utilità dell'opera alla realizzazione della quale l'esproprio è finalizzato, nella specifica e concreta conformazione che la medesima assumerà su una porzione del proprio terreno.

Stante dunque la irrilevanza della sopravvenuta inoppugnabilità del PRG in parte qua, non resta al Collegio che penetrare nel merito della questione concernente la presunta violazione dell'obbligo di comunicare l'avvio del procedimento espropriativo in vista della dichiarazione della p.u., violazione tosto acclarata sulla scorta:

a) della mancata applicazione dell'art.7 della legge 241.90;

b) della, del pari, mancata applicazione delle specifiche formalità prescritte in funzione partecipativa dagli articoli 10 e 11 della legge 865.71 essendo stato approvato, in luogo del ventilato PEEP, il più volte menzionato programma costruttivo.

Che l'art.7, autentica "colonna" dei presidi partecipativi del privato nel procedimento amministrativo, abbia sortito delle ricadute anche sul procedimento d'esproprio è affermazione che si riscontra anche in altri recentissimi arresti dell'Adunanza, tra i quali, oltre alla già menzionata decisione n.14.99, può menzionarsi anche la successiva pronuncia n.2 del 2000.

Ricorda il Collegio come, nella materia espropriativa, la tempistica elaborata dal legislatore nel corso dei decenni - via via sempre più accelerata in funzione della realizzazione, la più agile possibile, dell'opus publicum previa sottrazione del terreno di relativa insistenza ai privati proprietari - abbia progressivamente imposto un gravoso prezzo in termini di effettiva tutela di questi ultimi, essendosene drasticamente ridotte le relative chance d'interloquire con la p.a. espropriante (o chi per essa), come mostrano all'evidenza gli articoli 10 e 11 della legge 865.71 e soprattutto i successivi art.1 e ss. della legge 1.78, primi dirompenti avamposti di declaratorie di pubblica utilità "implicite", oltrechè sconosciute dai soggetti con ormai incorniciato destino di ablazione.

E' in questo scenario "a tinte fosche" che interviene - con inattese capacità pervasive del sistema - la disciplina generale sul procedimento amministrativo, capace di combattere da sola la crociata della "partecipazione" del privato alle scelte dell'Amministrazione, quantomeno in termini di potenziale influenza sulle stesse, sin dal primo abbrivio della sequenza d'atti orientata verso il provvedimento finale; in altri termini, sin dall'attimo in cui il procedimento prende vita, oggetto di doverosa comunicazione al privato medesimo ex parte publica.

In quest'ottica, proporzionalità e buon andamento dell'azione amministrativa possono essere in primis garantiti da un immediato coinvolgimento del privato nella procedura che lo vede titolare del bene oggetto di potenziale incisione ad opera di tale operato; onde, anche il progetto di opus publicum - implicante localizzazione di dettaglio del medesimo (oltrechè relativa dichiarazione di pubblica utilità) - non può non costituire il precipitato di un binario procedurale del quale il proprietario dei terreni di insistenza sia stato reso ab imis analiticamente edotto, anche al fine di favorire possibili accordi e/o (all'occorrenza) di scongiurare a priori potenziali contenziosi (cfr. la più volte menzionata pronuncia n.14.99).

La conclusione appare ormai scontata: il programma costruttivo previsto e disciplinato dall'art.51 della legge 865.71 - il quale non può intendersi rappresentare un piano urbanistico in senso tecnico, siccome additato dall'art.13 della legge 241.90 - implica delle scelte discrezionali tali (prima fra tutte quella di declaratoria della pubblica utilità delle opere che lo compendiano) da implicare, nella interazione con la successiva disciplina partecipativo-garantista di cui all'art.7 della ridetta legge 241.90, la necessità che la concreta prospettiva del medesimo (rectius, la concreta chance che trasmodi in positiva realtà giuridica la relativa delibera di adozione) venga tempestivamente portata a conoscenza dei soggetti privati interessati, prossimi destinatari dell'esproprio.

La conferma della illegittimità dei provvedimenti impugnati in prime cure per violazione della menzionata disciplina "partecipativa" (con conseguente repulsione del motivo d'appello della Cooperativa) trova del resto, a detta del Collegio, una inequivocabile conferma nel recente testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità (dpr 327.01, peraltro non ancora in vigore mentre si scrive), i principi sottesi al quale hanno trovato compiuta previa elaborazione ad opera della Commissione speciale di Palazzo Spada che ha provveduto a redigere il ridetto testo unico.

Con l'avvento di quest'ultimo il legislatore delegato ha provveduto, oltre che a scandire, precisamente temporalizzandole, le singole fasi che conducono dal vincolo preordinato all'esproprio alla dichiarazione di p.u. e, rispettivamente, da quest'ultima alla fase dell'ablazione vera e propria (adozione del decreto di esproprio), anche e soprattutto a configurare modalità partecipative tali da scongiurare per il privato declaratorie di pubblica utilità "a tradimento" da parte di chi (p.a. o soggetto privato concessionario o delegato) procede ad espropriare.

Confermata la demolizione degli atti amministrativi già disposta dal Tar, è ormai tempo per il Collegio di dedicarsi alle questioni risarcitorie, ponentesi peraltro in termini diversi

-  per chi tali atti ebbe ad impugnare tempestivamente in prime cure, ottenendo sentenza favorevole (uno dei proprietari a rischio esproprio)

- rispetto a chi (gli altri privati ricorrenti a Palermo) solo tardivamente ebbe ad attaccare i menzionati provvedimenti lesivi.

Mentre nel primo caso si tratta infatti esclusivamente di verificare se sia rituale la riproposizione con semplice memoria della domanda di risarcimento già avanzata in prime cure e non esaminata dal Tar (che pure ha erogato all'unico accorto ricorrente la tutela demolitoria, annullando tutti gli atti illegittimi della procedura urbanistico-espropriativa); nel secondo la questione, di ben maggiori ricadute sistematiche e senz'altro "di moda" allo stato attuale dell'arte giuridico-amministrativa, è quella di acclarare se, nel caso di intervenuta pronuncia di tardività dell'impugnazione da parte dei 4 ricorrenti negligenti ad opera del Tar questi ultimi, pur senza aver appellato tale capo a loro sfavorevole, possano comunque riproporre con semplice memoria la domanda di ristoro del danno già proposta in prime cure e - anche con riguardo ad essi - non vagliata dal Tar siciliano.

La risposta affermativa al secondo quesito, all'evidenza, non potrebbe che fondarsi sulla negazione della necessaria pregiudizialità del giudizio di annullamento rispetto a quello di risarcimento, potendo quest'ultimo, in ipotesi, essere attivato dalla parte privata lesa nell'ordinario termine prescrizionale ed anche in difetto di tempestiva impugnazione degli atti illegittimi ai quali il danno appare in prima battuta riconducibile (ovvero, come nel caso di specie, senza aver per tempo gravato la sentenza che ebbe a dichiararne tardivo un analogo ricorso in prime cure).

Quanto alla prima problematica sul tappeto, la stessa viene risolta agevolmente dal Collegio sulla scorta del dato normativo e pretorio di riferimento: l'art.346 cpc, come peraltro già sottolineato nel noto precedente dell'Adunanza n.1 del 1999, disegna - con riguardo al giudizio di appello - una palese presunzione di rinuncia della parte alle domande ed alle eccezioni proposte in prime cure e non ribadite nella sede del gravame, eccezione vincibile proprio attraverso la accurata riproposizione di tali domande o eccezioni.

Ove, come nel caso di specie, la parte in questione sia quella appellata, vincitrice in prime cure, e la questione da riproporre sia stata dal Tar non già esaminata e superata in senso negativo per detto appellato, ma piuttosto del tutto ignorata, allo stesso è sufficiente a fini di riproposizione della questione medesima articolare la pertinente imbastitura difensiva nel contesto d'una semplice memoria, non occorrendo autonoma impugnazione incidentale che, per sua natura, presuppone una soccombenza in chi la propone (soccombenza, in ipotesi, inconfigurabile).

L'asserzione spiana al Collegio la strada decisionale verso il merito risarcitorio - strada percorsa in scioltezza fino alla definitiva negazione al Salvia (questo il nome del proprietario "diligente") del ventilato buon diritto ai danni.

Mette conto peraltro, a fini di chiarezza, improvvisare un excursus d'impronta diacronica capace di ripercorrere tutte le tappe più rilevanti degli ultimi 4 anni in materia di interessi legittimi, giurisdizione amministrativa e tutela risarcitoria.

Può elaborarsi, in proposito, una autentica traiettoria riepilogativa snodantesi - con lo sperato nitore - nei passaggi che seguono:

a)  1889: la legge istitutiva della IV Sezione del Consiglio di Stato consente, per gli interessi legittimi, la sola tutela di annullamento, escludendo per il neonato g.a. la possibilità di statuire sui c.d. diritti patrimoniali consequenziali alla demolizione dell'atto, primo fra tutti quello al risarcimento del danno;

b) 1948: l'art.28 della Grundnorm garantisce, a livello costituzionale, un risarcimento alle sole lesioni di "diritti" dei privati, e non anche dei relativi "interessi", in particolare a quelli "di pretesa";

c) 1980: la Corte costituzionale, con la sentenza n.35, ritiene compatibile con la Costituzione la previsione di non risarcibilità degli interessi legittimi pretensivi, e ad un tempo demanda al legislatore "prudenti soluzioni normative";

d) 1992: con l'art.13 della legge 142 per la prima volta viene riconosciuta la risarcibilità ad opera del g.o. del danno inferto ad interessi legittimi "di pretesa", anche se limitatamente al settore degli appalti di rilievo comunitario (sulla stessa linea, di seguito, l'art.11 della legge 489.92; l'art.11 della legge 146.94; l'art.30 del decreto legislativo 157.95); occorre tuttavia aver tempestivamente adito il g.a. per l'annullamento degli atti amministrativi (pregiudiziale demolitoria);

e) ante 30 giugno 1998: la giurisdizione appartiene al g.o. ovvero al g.a. a seconda della consistenza (diritto soggettivo ovvero interesse legittimo) della situazione giuridica incisa dall'azione amministrativa, salvi ovviamente i casi di giurisdizione esclusiva c.d. "tradizionale", primo fra tutti il pubblico impiego;

f)  1998: con l'art.34 del decreto legislativo n.80, emanato in attuazione della delega contenuta nell'art.11 comma 4° lettera g) della legge 59.97, viene affidata alla giurisdizione amministrativa esclusiva, tra le altre, la materia dell'urbanistica, concernente peraltro "tutti gli aspetti dell'uso del territorio" compresa, secondo accreditata giurisprudenza successiva, ".l'attuazione dei vincoli preordinati all'esproprio" nonché le ".controversie che ineriscano a procedure espropriative promosse a fini di gestione del territorio" (previsione rilevante nel caso di specie); il successivo art.35, con riferimento alle materie di giurisdizione esclusiva neoattribuite al g.a. dai precedente articoli 33 e 34, varca il Rubicone ed opera la "concentrazione" dei giudizi in capo al g.a., il quale diviene titolare anche del potere di risarcire il danno al privato leso da atti illegittimi e/o comportamenti illeciti della p.a. (viene contestualmente abrogata tutta la normativa sulla c.d. "pregiudiziale demolitoria" vigente in materia di appalti pubblici di rilievo comunitario);

g) 1998: la Corte costituzionale, con la nota ordinanza n.165, dichiara manifestamente inammissibile (per irrilevanza) la questione di costituzionalità dell'art.2043 cc (nella parte in cui non prevede la risarcibilità del danno inferto ad interessi legittimi pretensivi) non essendo stato previamente ottenuto dal ricorrente l'annullamento dell'atto lesivo al quale il danno va ricondotto; la Corte, in mancanza di una presa di posizione esplicita da parte del legislatore (ancora una volta, peraltro, sollecitato a pronunciarsi), abbraccia la tesi della necessaria pregiudizialità del giudizio demolitorio rispetto a quello risarcitorio;

h) 1999: la nota sentenza delle Sezioni unite della Cassazione n.500 dichiara - a determinate, peculiari condizioni - risarcibile dal g.o. il danno inferto dalla p.a. all'interesse legittimo pretensivo del privato, anche in assenza di un previo giudizio demolitorio intentato da quest'ultimo innanzi al g.a.;

i) 2000: l'art.4 della legge 205 introduce l'art.23.bis nella legge 1034.71; per l'effetto, la materia dei giudizi aventi ad oggetto provvedimenti relativi a procedure di espropriazione delle aree destinate alla realizzazione di opere di pubblica utilità viene confermata in capo al g.a. (anche se non v'è riferimento alla giurisdizione esclusiva) e per essa - come per altre di particolare rilievo economico e sociale - viene scolpito dal legislatore un rito alternativo particolarmente agile, al fine di sveltire la definizione;

j) 2000: l'art.7 della legge 205 da un lato elimina la limitazione della giurisdizione amministrativa risarcitoria ai soli casi di giurisdizione amministrativa esclusiva previsti dagli articoli 33 e 34 del decreto legislativo 80.98; dall'altro, ed in modo ancor più generale, affida al g.a. la possibilità di disporre il risarcimento del danno in tutti i casi in cui il medesimo ha giurisdizione, anche di "mera" legittimità, facendo risorgere la questione concernente la necessità o meno di previamente e tempestivamente impugnare il provvedimento lesivo ("pregiudizialità demolitoria"), ma ad un tempo attuando pienamente l'art.103 Cost. e consentendo ad un solo giudice, quello amministrativo, di vagliare la fattispecie sottopostale per la decisione tanto sotto il profilo dell'annullamento quanto sotto quello del possibile risarcimento del danno, quand'anche in ipotesi di lesione di interessi pretensivi.

Il compendio storico potrebbe dipoi procedere con un accenno alla via via maturata distinzione tra interessi legittimi "di difesa" (aventi a fondamento un previo diritto soggettivo - posizione legittimante) inciso dal potere autoritativo; ed interessi legittimi di "pretesa", fronteggianti silenzi o dinieghi della p.a. (in relazione ai quali il diritto soggettivo, ed il relativo concreto esercizio, costituiscono una aspirazione oggetto di necessaria mediazione di un provvedimento amministrativo all'uopo richiesto e sovente invano atteso).

Mentre in relazione ai primi - interessi legittimi "di difesa" - ben avrebbe potuto predicarsi, secondo la giurisprudenza anche della Cassazione, una tutela risarcitoria, oltre che demolitoria: tutela, in realtà, presidiante il sottostante diritto soggettivo, leso dall'attività amministrativa previamente giudicata illegittima dal g.a. e reintegrato a posteriori dal g.o. conformemente ad una sequenza processuale annoverante due distinti giudizi in successione tra loro; con riguardo ai secondi - interessi legittimi "di pretesa" - nessun risarcimento del danno avrebbe potuto trovar posto nelle pronunce financo del giudice ordinario, e pur a seguito dell'annullamento del silenzio o del diniego ad opera del g.a., potendo il privato ricorrente ottenere dalla p.a. il solo, relativo adeguamento al giudicato amministrativo attraverso la conclusione del procedimento dal medesimo illo tempore invano attivato (e fatta salva la responsabilità dell'agente pubblico ai sensi degli articoli 25 e 26 del dpr 3.57).

Nel caso di specie, il ricorrente già vincitore in prime cure aveva chiesto tutela risarcitoria a salvaguardia di un proprio interesse "di difesa" invocando, in modo affatto inconferente, la più volte menzionata sentenza n.500.99 delle Sezioni unite, notoriamente appuntantesi - in veste di esordio assoluto - sull'affermata tutela di un interesse legittimo pretensivo (peraltro connesso ad un rapporto con la p.a. di natura urbanistica).

Ricondotto il caso su più corretti binari precettivi (proprio l'afferenza dell'ipotesi vagliata alla materia urbanistica imporrebbe peraltro il ricorso, in punto di possibile risarcimento del danno, all'art.35 del decreto legislativo 80.98) l'Adunanza soggiunge la non ristorabilità comunque ed in concreto della posizione asseritamente vulnerata in capo all'appellato sulla scorta della inconfigurabilità di qualsivoglia laesio inferta al relativo possesso o alla relativa proprietà sui fondi espropriandi, non essendosi mai provveduto né da parte dell'Amministrazione comunale, né ad opera della Cooperativa appellante, alla effettiva occupazione dei suoli de quibus.

Proprio l'accertata, mancata interferenza materiale della parte pubblica nella sfera del privato appellato, ancorché in presenza di provvedimenti amministrativi acclarati come illegittimi e, come tali, meritevoli di annullamento, conduce ad escludere rilevanza applicativa:

a)  da un lato alla invocata equità, principio la cui dinamica operativa presuppone il previo accertamento di un diritto al risarcimento del danno, contribuendo alla sola quantificazione di tale pregiudizio che, nella specie, appare invece già in sé latitante (si tratta di affermazioni più volte ribadite anche dalla Cassazione con riferimento al non proprio contermine territorio del danno biologico ed "esistenziale");

b) dall'altro, al del pari invocato art.35 comma 2° del decreto legislativo n.80 del 1998, che pure articola un congegno inteso (su iniziativa coatta della p.a.) a favorire un affioramento in certo qual modo "concordato" del quantum risarcitorio tra parte pubblica e privato illecitamente pregiudicato.

In altri termini, l'insussistenza dell'an, compendiantesi nel diritto al risarcimento di un danno giammai concretamente inveratosi in capo al Salvia (il cui appezzamento, pur fatto oggetto di atti espropriativi illegittimi, non è mai stato reso destinatario di materiale apprensione e/o turbativa sulla scorta degli atti medesimi), non può non escludere in radice la stessa indagine sull'eventuale quantum risarcitorio, sia poi che quest'ultima si fondi sulla più collaudata macchina equitativa di cui all'art.2056 cc., sia che invece faccia affidamento sul neointrdotto meccanismo diadico moventesi tra previ criteri giudiziali e proposta pubblica risarcitoria, siccome disegnato dal ridetto art.35 comma 2°.

Stante, da ultimo, la acclarata omogeneità tra le coordinate fattuali che coinvolsero il Salvia, da un lato, e le vicende che videro protagonisti gli altri proprietari, dall'altro (non apparendo in entrambi i casi configurabile un pregiudizio effettivo e concreto in capo a nessuna delle parti private proprietarie, le quali tutte hanno conservato la piena disponibilità dei propri fondi, pur in predicato di futura occupazione ed esproprio), perde di rilevanza lo scandaglio, da parte del Collegio, della questione in ordine alla quale maggiormente si attendeva una precisa presa di posizione dell'autorevole Consesso, quella, vale a dire, del rapporto (di presunta pregiudizialità) tra azione demolitoria ed azione risarcitoria.

In ipotesi, ed escluso il Salvia, la questione si poneva con particolare riferimento alla posizione degli altri quattro proprietari privati il cui gravame era stato dichiarato in prime cure tardivo per intempestività della impugnazione degli atti espropriativi e che - pur non avendo gravato il relativo capo negativo della sentenza palermitana - avevano comunque presentato memoria intesa a ribadire la propria richiesta di risarcimento dei danni.

Gli stessi, a detta del Collegio, non possono essere considerati parti in senso tecnico nel giudizio di appello, essendo stati resi destinatari della notifica dell'appello da parte della Cooperativa (risultata vincitrice, e non già soccombente, nei loro confronti) a mero titolo di litis denuntiatio.

La relativa domanda risarcitoria - che, nell'evenienza d'una negata pregiudizialità dell'azione di annullamento provvedimentale (nella specie, tardivamente avanzata), ben avrebbe potuto essere assunta spiccabile nel noto termine quinquennale di prescrizione e, conseguentemente, vagliata in sede giudiziale - non è comunque meritevole a priori dell'esame del Collegio, per non avere i soggetti interessati subito alcun danno in seguito alla illegittima procedura ablatoria (circostanza già acclarata con riferimento all'analoga posizione del Salvia).

Tra annullamento e risarcimento, dunque, la guerra continua. In vista di un futuro (lontano ?) armistizio.

Spunti di riflessione

Non v'è convegno ove non se ne parli, né scritto ove non se ne accenni, nel contesto d'una "globalizzata" tanto quanto torrenziale produzione scientifica: è possibile risarcire senza prima annullare, rectius, senza aver preventivamente chiesto l'annullamento dell'atto (o del non-atto) assunto come causativo di danno e fonte di responsabilità dell'Amministrazione ?

L'amletico interrogativo lascia presupporre la delusione di tanti "addetti ai lavori" che, resi a suo tempo edotti della remissione della questione all'Adunanza Plenaria ed allettati dal miraggio d'una perspective overruling, è facile oggi immaginare "a bocca asciutta" agitarsi nei meandri dell'eterno "possibile opzional-ermeneutico" dopo la ghiotta occasione persa dal Supremo Consesso Amministrativo - all'uopo sollecitato dal Consiglio di giustizia siciliano - per far chiarezza sul punto.

Ma la delusione è sovente vittima dell'inganno.

Pare in realtà di essere dinanzi ad una decisione del Plenum di Palazzo Spada bel lungi - come del resto sovente accade - dal pelago dell'inutile, non foss'altro per le ascendenze nettamente tuzioristiche che la ispirano.

Ecco allora precisato che di un atto va chiesta la demolizione prima che spiri quello specifico termine (e solo quello) che la legge prescriveva nel frangente temporale in cui lo stesso ha trovato "perfezione" ovvero, nel caso del provvedimento amministrativo, quando fu adottato; nel caso della decisione giurisdizionale, quando fu pubblicata.

Né varrebbe replicare che solo per la seconda (pronuncia), e non già per il primo (dalla natura certamente non processuale, anche a volerlo assimilare a quella provocatio ad opponendum cui viene notoriamente ricondotto l'atto impositivo tributario), potrebbe predicarsi l'operatività del principio tempus regit actum, non tollerando certo la salvaguardia dell'"affidamento del cittadino" bizantinismi di sorta.!

Ed ecco, ancora, ribadita la distinzione tra delibera di approvazione di un PEEP e atto d'abbrivio ad un programma costruttivo ex art.51 della legge 865.71: in entrambi i casi il sistema offre un esempio di "implicita" dichiarazione di pubblica utilità (ed annessa indifferibilità ed urgenza) delle opere da realizzare sui suoli espropriandi, ma se nel primo un limite temporale di efficacia cui ancorare la legittima ablazione appare legalmente prefissato, nel secondo - l'Adunanza lo afferma con inusitato vigore - deve risorgere l'operatività precettiva di una disposizione tanto antica quanto talvolta modernamente "essenziale" a tutela del privato espropriando come l'art.13 della legge 2359 del 1865.

Del pari, l'approvazione di un progetto o, come nel caso di specie, l'adozione d'una delibera urbanistica implicante dichiarazione di pubblica utilità di un'opera è atto che, ancor prima della mera fase di start della sequenza espropriativa, funzionale alla realizzazione della ridetta opera, rappresenta l'epilogo d'un autonomo procedimento autonomamente invasivo della sfera giuridica del proprietario dei terreni sui quali l'opera verrà tradotta in un quid reale.

Onde, la ribadita necessità che dell'avvio di tale procedimento sia tempestivamente resa edotta proprio la controparte privata dell'Amministrazione (o di chi agisce per essa), sì da consentirle di positivamente interloquire nella scansione dei ritmi attizi che si susseguono in vista della dichiarazione di pubblica utilità in parola.

Si osserverà che sono concetti ormai invalsi nella giurisprudenza; nondimeno, si sa, repetita iuvant, specie quando a rinfrescare le idee sia il più autorevole dei Collegi giurisdizionali amministrativi del Paese; e specie quando la decisione si offra diffusamente argomentanta e storicamente "articolata", conformemente ad uno schema - al quale il Collegio ha per vero ormai avvezzato i lettori - fedele ai vari passaggi normativi e pretori che hanno contribuito a plasmare un istituto.

Si ripercorre allora, ancorché soffusamente, la strada che dalla liberale tutela degli "interessi di difesa" conduce al progressivo e prepotente affiorare degli interessi di pretesa - seguendo un percorso parallelo a quello icasticamente scolpito dal Nigro nel suo noto riferirsi alla trasformazione della p.a. "da potere a servizio" - fino a sancirne la risarcibilità delle relative lesioni dapprima sulla scorta di una coraggiosa (almeno quanto forse, in termini strettamente garantistici, ipervalutata) sentenza delle Sezioni unite della Cassazione, e dipoi giusta neoinnesti normativi dalle arcinote coordinate (decreto legislativo 80.98, legge 205.00), inframezzati da "sollecitanti" pronuncie del Giudice delle leggi.

Ora, se il garantismo appare quasi "connaturato" al lavoro del giudice ordinario, abituato a nuotare nella (pur "olimpionica") piscina dei paritari diritti soggettivi dei privati, esso diviene senz'altro un'arte - e delle più difficili da praticare - ove messo tra le mani del giudice amministrativo, la cui zattera ondeggia quotidianamente tra i perigliosi flutti degli interessi legittimi, nel loro dinamico interrelazionarsi con la gestione del potere (e dell'interesse) pubblico.

Detto altrimenti, appare ben più difficile (anche se senz'altro non meno opportuno) offrire adeguata salvaguardia a posizioni di interesse legittimo (ove mai possa tuttora predicarsene l'esistenza) ovvero anche di diritto soggettivo quando esse (le dette situazioni giuridiche soggettive) fronteggino l'interesse della collettività, vale a dire il riassunto degli interessi degli altri consociati a contatto coi quali il ricorrente diuturnamente agisce. Ed ecco perché i conati di garantismo del giudice amministrativo vanno comunque salutati con un pizzico di maggior soddisfazione rispetto a quelli, forse più scontati, del giudice ordinario.

In chiusura, chi scrive non può fare a meno di riattingere al "tormentone" della presunta pregiudiziale demolitoria, ed alla mancata presa di posizione della Plenaria, per inferirne la sostanziale positività del ridetto (è da credersi, affatto temporaneo) accantonamento della questione, sulla scorta di quanto ci si accinge ad osservare.

Ed invero, che si tratti di querelle cui urge dare soluzione è circostanza testimoniata non tanto da articoli e convegni, quanto dal contenuto che a tali kermesse (scritte e orali) viene di volta in volta più o meno coinvolgentemente (per chi legge o ascolta) fornito dai protagonisti.

V'è chi, tanto per esemplificare, bolla la problematica in questione paventando il rischio che la stessa finisca - disorientando gli ambienti, specie decisionali - col costituire l'ennesimo ostacolo alla piena realizzazione della responsabilità pubblica, faticosamente conquistata dopo decenni di lotte ed ormai riferibile anche al fino ad ora controverso tatbestand della lesione inferta ad interesse legittimo (Carbone).

Ciò stante anche la non stringente necessità logica - non a caso sostenuta a gran voce dalle Sezioni unite della Cassazione nel contesto letterale della sentenza n.500 del 1999 (con riferimento alla ivi affermata giurisdizione del g.o. sulla ridetta responsabilità pubblica) - del previo annullamento dell'atto al fine di riconoscere in capo al privato il diritto al risarcimento del danno.

Una argomentazione che troverebbe conferma da un lato nella stessa suitas dell'istituto della disapplicazione di cui agli articoli 4 e 5 della L.A.C. (a che serve annullare se, al fine di risarcire, si può disapplicare?), e dall'altro nella recente novella apportata al codice di procedura civile dalla nota legge 353.90, a seguito del cui avvento l'art.295 non annovera più la pregiudiziale amministrativa quale ipotesi di sospensione necessaria del processo civile.

Si è pertanto evidenziato come ogniqualvolta si versi in fattispecie di potenziale responsabilità dell'Amministrazione la giurisdizione sulle quali sia residuata in capo al g.o. apparirebbe indubbia la "falsità del problema", sulla scorta delle enucleate osservazioni; mentre, del pari, nella ipotesi - che appare ormai la regola - in cui è il g.a. a decidere tanto sulle istanze demolitorie quanto su quelle risarcitorie, ci si troverebbe dinanzi ad una irragionevole (ed incostituzionale) discriminazione nelle tutele ove si imponesse la necessità di un previo ricorso d'annullamento onde accedere alla via risarcitoria.

A chi poi, filopubblicista, ha opposto come potrebbe registrarsi una situazione di affidamento in capo alla p.a. quale conseguenza della mancata, tempestiva impugnazione del provvedimento, si è replicato che altri sono gli strumenti idonei ad evitare la stessa debacle delle finanze pubbliche, ben lungi da un ritorno alla generalizzata irresponsabilità, quali il sapiente dosaggio dell'onere probatorio (specie con riguardo alla colpa) nonché delle tecniche di valutazione (sovente equitative) del quantum del pregiudizio, oltre alla opportuna valorizzazione dell'eventuale concorso di colpa del privato danneggiato (configurabile, in qualche modo, anche nel caso di mancata tempestiva impugnazione del provvedimento assunto come lesivo).

Né - a diversamente opinare (nel senso della configurabilità della ridetta pregiudiziale demolitoria - difetterebbero i paradossi; a titolo meramente esemplificativo:

- la giurisdizione risarcitoria del g.a. sarebbe ad tempus, varrebbe cioè per un torno di tempo appena bimestrale (i noti 60 giorni);

- nel caso in cui, trascorso il termine di impugnativa, la p.a. riconosca la illegittimità dell'adottato provvedimento e lo ritiri in via di autotutela, il privato assuntosi leso si vedrebbe beffato dalla impossibilità di chiedere un risarcimento per non averlo tempestivamente impugnato, pur a fronte di una ammissione di perpetrata illegittimità ex parte publica.

Ancora, si è tentato financo - nel tentativo di rivitalizzarne l'operatività - un rilancio della già menzionata disapplicazione, sì da ricondurla ai fasti che la consacrarono nell'immediato dopo-L.AC. (Francario): da questo crinale, il giudice amministrativo titolare della "tutela concentrata" potrebbe ormai, proprio come allora poteva quello ordinario, by-passare il provvedimento paralizzandone l'efficacia limitatamente al caso deciso e così consentendo alla parte privata l'accesso al risarcimento del danno; semprechè, nondimeno, quegli abbia spiccato la (sola) azione risarcitoria nel termine di 60 giorni dalla conoscenza del provvedimento lesivo, in modo dal salvare le "capre" della decadenza impugnatoria tipica dello schema processual-amministrativo (funzionale alla certezza dei rapporti giuridici in cui sia coinvolta la gestione dell'interesse pubblico) ed insieme i "cavoli" del prototipo civilistico (non occorre operare pregiudizialmente alcun passo demolitorio per esser ristorati del pregiudizio asseritamente ricondotto ad un soggetto danneggiante, ancorché pubblico).

Al cospetto di tanto "fermento" giova - per tornare alla pronuncia chiosata e al connesso, presumibile scoramento di chi vi si accosterà - riproporre la questione nei più esatti termini: fino a che punto ci si potevano attendere precise coordinate dal Supremo Consesso Amministrativo in relazione ad un caso in cui appariva, in effetti, del tutto irrilevante - per deficit di concreto ed effettivo pregiudizio - stabilire se l'azione di annullamento debba costituire sempre e comunque l'anticamera del risarcimento del danno ?

Stante la nota (e pericolosa) inflazione dei pronunciamenti parentetici, è sovente meglio il mistico silenzio all'ennesimo, sbrigativo obiter dictum..

 

 

PREMESSO IN FATTO

1. A seguito della adozione del nuovo piano regolatore del Comune di Partinico (disposta dal commissario ad acta con la delibera n. 34 del 25 aprile 1997), con la delibera n. 163 del 30 dicembre 1999 il commissario straordinario del Comune

- ha approvato la proposta del responsabile del procedimento, avente per oggetto l'assegnazione - alla soc. coop. r.l. Edil Garden - delle aree per la realizzazione del programma costruttivo nella contrada Bisaccia;

- ha dichiarato la pubblica utilità e l'indifferibilità e l'urgenza delle opere.

Conseguentemente, col provvedimento n. 6 del 13 aprile 2000, il capo settore dei lavori pubblici ha autorizzato i tecnici ad introdursi nelle aree espropriande, per procedere alla redazione dello stato di consistenza al fine di procedere alla occupazione d'urgenza.

Il presidente della società, in data 20 aprile 2000, ha poi trasmesso ai proprietari espropriandi l'avviso riguardante l'introduzione nelle aree per il giorno 22 maggio 2000.

2. Col ricorso n. 1706 del 2000, proposto al TAR per la Sicilia, Sede di Palermo, i signori Francesco Salvia, Rosaria D'Amico, Carmela Messina, Vincenzo Miraglia e Giuseppa Miraglia (quali proprietari di alcune aree interessate dal programma costruttivo) hanno impugnato la delibera del commissario straordinario n. 163 del 1999, nonché l'autorizzazione n. 6 del 2000 ed il conseguente avviso dell'accesso dei tecnici alle aree.

Essi hanno altresì chiesto il risarcimento dei danni, cagionati dal Comune mediante l'emanazione dei provvedimenti impugnati.

3. Con la sentenza n. 1646 del 25 luglio 2000 (pronunciata 'in forma abbreviata' ai sensi dell'art. 19, comma 2, del decreto legge 25 marzo 1997, n. 67, come convertito nella legge 23 maggio 1997, n. 135), il TAR:

- ha dichiarato irricevibile per tardività il ricorso, come proposto dai signori Rosaria D'Amico, Carmela Messina, Vincenzo Miraglia e Giuseppa Miraglia;

- ha ritenuto tempestiva e fondata l'impugnazione del signor Francesco Salvia ed ha annullato gli atti per la violazione dell'art. 13 della legge 25 giugno 1865, n. 2359 (poiché è stata dichiarata la pubblica utilità delle opere senza fissare i termini iniziali e finali dei lavori e del procedimento espropriativo) e dell'art. 7 della legge 7 agosto 1990, n. 241 (poiché non è stato trasmesso l'avviso di avvio del procedimento).

4. Col gravame n. 293 del 2001 (proposto al Consiglio di Giustizia amministrativa per la Regione Sicilia e notificato in data 2-5 marzo 2001), la soc. coop. r.l. Edil Garden ha appellato la sentenza del TAR ed ha chiesto che, in sua riforma, il ricorso di primo grado - proposto dal signor Francesco Salvia - sia respinto, perché infondato.

Si sono costituiti in giudizio il signor Salvia e gli altri originari quattro ricorrenti, i quali hanno chiesto che l'appello sia respinto ed hanno riproposto la domanda di risarcimento del danno, come formulata col ricorso di primo grado.

Il Consiglio di Giustizia amministrativa, con l'ordinanza n. 214 del 23 marzo 2001, ha respinto la domanda incidentale, formulata dalla società appellante per la sospensione della esecutività della sentenza impugnata.

5. Con l'ordinanza n. 588 del 15 novembre 2001 (emessa ai sensi dell'art. 5, quarto comma, del decreto legislativo 6 maggio 1948, n. 554), il Consiglio di Giustizia amministrativa ha rimesso la decisione della controversia all'esame dell'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, evidenziando alcune questioni di diritto, suscettibili di dare luogo a contrasti giurisprudenziali.

A seguito dell'ordinanza di rimessione, la società appellante ha depositato una memoria difensiva, con cui ha chiesto che:

- il suo gravame sia dichiarato tempestivo e sia accolto, perché fondato;

- sia respinta la domanda di risarcimento del danno, sia perché, in linea di principio, essa non può essere esaminata quando il ricorso non è proposto tempestivamente, sia perché gli atti impugnati non hanno avuto concreta esecuzione.

6. All'udienza del 24 giugno 2002 l'Adunanza Plenaria ha trattenuto la causa in decisione e ne ha depositato il dispositivo (ai sensi dell'art. 23 bis della legge 6 dicembre 1971, n. 1034, come modificata dalla legge 21 luglio 2000, n. 205), cui segue il deposito della relativa motivazione.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Con la delibera n. 163 del 30 dicembre 1999, il commissario straordinario del Comune di Partinico ha assegnato alla società appellante alcuni terreni, per la realizzazione di un programma costruttivo di ventidue abitazioni nella località Bisaccia, ed ha dichiarato la pubblica utilità, l'indifferibilità e l'urgenza delle opere.

Col provvedimento n. 6 del 13 aprile 2000, il capo settore dei lavori pubblici ha autorizzato i tecnici ad introdursi nelle aree espropriande per redigere lo stato di consistenza, al fine di procedere alla occupazione d'urgenza.

Tali atti (nonché l'avviso di introduzione nelle aree) sono stati impugnati innanzi al TAR per la Sicilia da cinque proprietari delle aree espropriande, che (col ricorso notificato in data 25 maggio 2000 al Comune ed alla società assegnataria) hanno chiesto l'annullamento degli atti del procedimento e il risarcimento del danno subito in conseguenza della loro emanazione.

Con la sentenza impugnata, il TAR:

- ha dichiarato irricevibile per tardività il ricorso proposto da quattro degli originari ricorrenti (Rosaria D'Amico, Carmela Messina, Vincenzo Miraglia e Giuseppa Miraglia);

- ha ritenuto tempestiva e fondata l'impugnazione del signor Francesco Salvia ed ha integralmente annullato gli atti impugnati per violazione dell'art. 13 della legge 25 giugno 1865, n. 2359, e dell'art. 7 della legge 7 agosto 1990, n. 241.

La società assegnataria delle aree, col gravame in esame (proposto al Consiglio di Giustizia amministrativa per la Regione Sicilia e notificato ai cinque originari ricorrenti ed al Comune), ha chiesto che, in riforma della sentenza del TAR, il ricorso di primo grado - proposto dal signor Salvia - sia respinto, perché infondato.

Nel costituirsi nel giudizio di appello, tutti gli originari ricorrenti hanno chiesto che il gravame sia respinto ed hanno riproposto la domanda di risarcimento del danno, come formulata col ricorso introduttivo.

Con l'ordinanza n. 588 del 2001, il Consiglio di Giustizia amministrativa ha rimesso la decisione della controversia all'esame dell'Adunanza Plenaria, evidenziando le seguenti questioni di diritto, suscettibili di dare luogo a contrasti giurisprudenziali:

a) se sia tempestivo l'appello, quando esso (come nella specie) sia stato notificato oltre il termine di 120 giorni previsto dall'art. 4, comma 1, della legge 21 luglio 2000, n. 205 (entrata in vigore dopo la pubblicazione della sentenza gravata), ma entro il "termine lungo" ridotto alla metà dall'art. 19, comma 3, del decreto legge n. 67 del 1997, convertito nella legge n. 135 del 1997 (vigente alla data di pubblicazione della medesima sentenza);

b) se occorra fissare i termini iniziali e quelli finali dei lavori e del procedimento espropriativo, quando la delibera dichiarativa della pubblica utilità riguardi aree ricadenti in zona di piano di edilizia economica e popolare (PEEP);

c) se vada trasmesso l'avviso di avvio del procedimento ai proprietari espropriandi, quando si tratti della dichiarazione di pubblica utilità di opere disciplinate dall'art. 6 della legge 18 aprile 1962, n. 167;

d) se il giudice amministrativo possa esaminare la domanda di risarcimento del danno cagionato all'interesse legittimo, formulata da chi non abbia tempestivamente impugnato l'atto autoritativo lesivo.

2. Così ricostruite le vicende che hanno condotto alla presente fase del giudizio, va esaminata con priorità la questione se l'appello sia tempestivo.

2.1. Sul punto, va premesso che:

- la sentenza di primo grado è stata depositata in data 25 luglio 2000 presso la Segreteria del TAR (e non risulta notificata ad istanza di parte alla società appellante), mentre l'appello è stato notificato in data 5 marzo 2001;

- in base alla normativa vigente alla data del deposito della sentenza (v. l'art. 19, comma 3, del decreto legge 25 marzo 1997, n. 67, come convertito nella legge 23 maggio 1997, n. 135, per il quale «tutti i termini processuali sono ridotti alla metà»), l'appello risulterebbe tempestivo, perché notificato prima del 9 marzo 2001 (e cioè entro il termine 'lungo' di sei mesi, integrato col periodo di sospensione feriale, sancito dal medesimo art. 19, comma 3, che ha ridotto alla metà anche il termine annuale previsto dall'art. 327 c.p.c.);

- se invece fosse applicabile la normativa vigente alla data di notifica dell'atto di appello (v. l'art. 23 bis, comma 7, della legge 6 dicembre 1971, n. 1034, inserito dall'art. 4, comma 1, della legge 21 luglio 2000, n. 205, entrata in vigore il 10 agosto 2000), il gravame sarebbe tardivo, per il superamento del termine finale del 14 gennaio 2001 (risultante dal computo di 120 giorni dalla pubblicazione della sentenza, a decorrere dal 16 settembre 2000, primo giorno utile perché la legge n. 205 del 2000 è entrata in vigore nel corso del periodo feriale di sospensione dei termini).

Al riguardo, il Consiglio di giustizia amministrativa ha osservato che:

- l'appello risulterebbe tempestivo, qualora l'art. 4, comma 1, della legge n. 205 del 2000 risultasse applicabile per le sole «sentenze pubblicate dopo» la sua entrata in vigore;

- dalla lettura delle decisioni dell'Adunanza Plenaria nn. 1 e 2 del 14 febbraio 2001, potrebbero però trarsi argomenti per ritenere tardivo l'appello, poiché «la validità degli atti processuali soggiace alla regola del principio tempus regit actum e, in caso di successione di norme, va valutata con riguardo a quella vigente al momento del loro compimento».

2.2. Ritiene l'Adunanza Plenaria che l'appello risulta tempestivo, perché notificato nel rispetto del termine semestrale (integrato col periodo di sospensione feriale), sancito dall'art. 19, comma 3, del decreto legge n. 67 del 1997, convertito nella legge n. 135 del 1997.

In assenza di norme transitorie, il principio tempus regit actum va inteso nel senso che il termine di impugnazione di una sentenza è quello previsto dalla normativa vigente al momento in cui essa si perfeziona col deposito, anche quando il termine sia ridotto da una normativa sopravvenuta, vigente al momento in cui sia notificato l'atto di appello.

Tale regola si fonda sul significato essenziale del principio tempus regit actum e sugli effetti tipici - sostanziali e processuali - della sentenza di primo grado, il cui deposito ne determina gli effetti e costituisce un momento del processo dal quale sorge il relativo onere di impugnazione per il soccombente.

L'applicabilità dell'art. 19, comma 3, del decreto legge n. 67 del 1997, convertito nella legge n. 135 del 1997, comporta, quindi, che non rileva la legge sopravvenuta (nella specie, l'art. 4, comma 1, della legge n. 205 del 2000) riduttiva del termine per la proposizione del gravame.

3. Passando all'esame delle deduzioni della società appellante, giova premettere quanto emerge dalla lettura della sentenza impugnata e dell'atto di appello.

L'impugnata sentenza (pronunciata 'in forma abbreviata' ai sensi dell'art. 19, comma 2, del decreto legge n. 67 del 1997, convertito nella legge n. 135 del 1997):

- ha dato per riportati il contenuto, la natura e gli effetti dei provvedimenti impugnati ed ha direttamente esaminato le censure originarie (proposte dai cinque ricorrenti e considerate tempestive con riferimento al solo signor Salvia);

- ha accolto il ricorso ed ha integralmente annullato gli atti impugnati, richiamando sinteticamente i principi enunciati dall'Adunanza Plenaria, per i quali il provvedimento dichiarativo della pubblica utilità delle opere deve contenere i termini per le espropriazioni ed i lavori (Ad. Plen., 26 agosto 1991, n. 6) e deve essere preceduto dalla comunicazione dell'avviso dell'avvio del procedimento (Ad. Plen., 15 settembre 1999, n. 14).

Col proprio gravame, la società appellante:

- in punto di fatto, ha rilevato che «le aree assegnate alla cooperativa dal Comune di Partinico ricadono in zona PEEP c1 del piano regolatore generale, . avverso il quale i ricorrenti non hanno a suo tempo proposto alcuna osservazione od impugnativa»;

- ha dedotto che gli atti impugnati non sarebbero affetti dai vizi rilevati dal TAR ed ha richiamato la giurisprudenza di questo Consiglio, per la quale non è necessaria la fissazione dei termini previsti dall'art. 13 della legge n. 2359 del 1865, quando le espropriazioni riguardino l'attuazione dei PEEP;

- ha altresì dedotto che la mancata impugnazione del piano regolatore comporterebbe l'inammissibilità e l'infondatezza della originaria censura di violazione dell'art. 7 della legge n. 241 del 1990.

L'ordinanza di rimessione ha rilevato l'opportunità di una pronuncia dell'Adunanza Plenaria, in ordine alle questioni di diritto sollevate dall'appellante.

4. Ritiene al riguardo l'Adunanza Plenaria che:

a) dalla lettura del fascicolo di primo grado, emerge che la delibera n. 163 del 1999 ha approvato un programma costruttivo (e non il PEEP previsto dal piano regolatore per la contrada Bisaccia), senza fissare il termine di conclusione del procedimento espropriativo, necessario perché esso non è stato fissato una volta per tutte dalla legge;

b) l'Amministrazione avrebbe dovuto trasmettere al proprietario dell'area esproprianda l'avviso di avvio del procedimento concluso con l'approvazione del programma costruttivo, non rilevando sotto tale aspetto la mancata impugnazione del piano regolatore generale.

5. Passando ad esaminare partitamente tali punti, per quanto riguarda la natura della delibera n. 163 del 1999 (con cui è stata dichiarata la pubblica utilità delle opere), contrariamente a quanto emerge dall'atto di appello risulta che le aree espropriande sono state inserite in un programma di localizzazione di edilizia residenziale (v. l'art. 51 della legge statale 22 ottobre 1971, n. 865, e le leggi della Regione Sicilia 26 marzo 1973, n. 21, e 20 dicembre 1975, n. 79, come successivamente integrate).

Nel corso del procedimento, e in assenza delle formalità procedimentali che caratterizzano il PEEP, prima della determinazione finale che ha riguardato i terreni degli originari ricorrenti, è stata più volte modificata la scelta delle aree necessarie per la realizzazione dei ventidue alloggi:

a) la società appellante ha dapprima trasmesso al Comune un programma costruttivo per la loro realizzazione nella contrada Turrisi (v. la domanda del 25 luglio 1996, su cui la commissione edilizia integrata ha espresso parere contrario, in data 5 dicembre 1996 e 27 gennaio 1997, per il ravvisato contrasto col piano regolatore allora vigente);

b) a seguito della adozione del nuovo piano regolatore (disposta con la delibera n. 34 del 1997), col verbale n. 30 del 29 aprile 1997 la commissione ha poi espresso parere favorevole alla localizzazione del programma nella contrada Raccuglia;

c) poiché la relativa area non è risultata sufficientemente estesa per realizzare la prevista volumetria nel rispetto del piano adottato, col verbale n. 36 del 1997 la commissione ha espresso parere favorevole alla localizzazione nella contrada Turrisi, destinata dal piano in itinere a zona B2, con specifica destinazione a PEEP;

d) a seguito della approvazione del piano regolatore (divenuto efficace ai sensi dell'art. 19 della legge regionale n. 71 del 1978), la società appellante (con lettere del 25 febbraio e 11 marzo 1999) ha evidenziato alcune difficoltà di realizzazione del programma nella contrada Turrisi e si è dichiarata disponibile a realizzarlo nella contrada Bisaccia, su aree anch'esse destinate a PEEP dal medesimo piano;

e) con i pareri n. 46 del 2 agosto 1999 e n. 62/03 del 19 ottobre 1999, la commissione ha espresso parere favorevole alla realizzazione del programma nella contrada Bisaccia,.

Con la delibera n. 163 del 1999, impugnata in primo grado, il commissario straordinario del Comune ha approvato la proposta del responsabile del procedimento (fondata sui pareri n. 46 e n. 62/03 del 1999) ed ha dichiarato la pubblica utilità, l'indifferibilità e l'urgenza delle opere.

Risulta, dunque, che la delibera n. 163 del 1999 ha localizzato un programma costruttivo e non il PEEP previsto dal piano regolatore.

6. Ciò posto, si può passare all'esame delle censure con cui la società appellante ha dedotto che il TAR erroneamente avrebbe ritenuto sussistente il vizio di violazione dell'art. 13 della legge n. 2359 del 1865.

6.1. Secondo l'assunto, sotto un primo profilo l'art. 13 non si applicherebbe perché, essendovi stata l'approvazione di un piano di zona, rileverebbe il termine legale entro il quale esso può trovare attuazione mediante le procedure espropriative.

La censura va disattesa, poiché nel precedente punto 5 si è evidenziato come la delibera n. 163 del 1999 abbia approvato un programma costruttivo: risulta insussistente il presupposto di fatto, posto a base della doglianza.

6.2. Sotto un secondo più ampio profilo, l'appellante ha dedotto che, in ogni caso, l'art. 13 della legge n. 2359 del 1865 non sarebbe applicabile quando la dichiarazione di pubblica utilità riguarda la realizzazione di opere previste nel piano regolatore generale.

La censura è infondata, poiché nell'attuale quadro normativo devono avere una durata predeterminata le fasi che si concludono con l'emanazione del decreto di esproprio:

- l'art. 2 della legge 19 novembre 1968, n. 1187, e salve le diverse normative basate sull'autonomia, ha sancito il termine di durata massima del vincolo preordinato all'esproprio, entro il quale può essere disposta la dichiarazione di pubblica utilità;

- anche la successiva fase di emanazione del decreto di esproprio deve concludersi entro un termine finale predeterminato, costituendo la sua fissazione una «regola indefettibile per ogni procedura di espropriazione» (Corte Cost. 21 dicembre 1985, n. 355), anche nel settore della edilizia economica e popolare (Corte Cost., 30 marzo 1992, n. 141).

Nel sistema originario della legge n. 2359 del 1865 (tranne i casi previsti dagli artt. 86 ss.), l'art. 13 ha previsto che in sede amministrativa sia determinato il termine di conclusione del procedimento espropriativo.

L'art. 9, primo comma, della legge n. 167 del 1962 ha poi predeterminato il termine di efficacia del piano di zona (elevato a quindici anni dall'art. 38 della legge n. 865 del 1971 e prorogato di tre anni dall'art. 51 della legge n. 457 del 1978), aggiungendo al terzo comma che «l'approvazione dei piani equivale a dichiarazione di indifferibilità ed urgenza di tutte le opere» ed al quinto comma che «le aree comprese nel piano rimangono soggette, durante il periodo di efficacia del piano stesso, ad espropriazione»).

L'art. 9, primo comma (che per l'esecuzione del PEEP ha reso non applicabile l'art. 13 della legge del 1865, tranne quando ve ne sia una proroga in mancanza di un termine legale: cfr. Corte Cost., 30 marzo 1992, n. 141; Ad. Plen., 23 maggio 1984, n. 11; Cass., Sez. Un., 8 settembre 1983, nn. 5515, 5516, 5517), non si applica però al programma costruttivo previsto dall'art. 51 della legge n. 865 del 1971.

E' determinante osservare che il medesimo art. 51 non ha espressamente determinato la durata massima dell'efficacia di tale programma e che l'equiparazione dei suoi effetti a quelli prodotti dal PEEP non è stata disposta dal suo quinto comma, per il quale la deliberazione di localizzazione «comporta l'applicazione delle norme in vigore per l'attuazione dei piani di zona».

Infatti, sotto il profilo procedimentale tale richiamo ha riguardato l'art. 9, terzo comma, della legge n 167 del 1962, e cioè l'estensione - alle opere previste nel programma -della dichiarazione ex lege della pubblica utilità e della indifferibilità ed urgenza delle opere previste nel PEEP (come poi chiarito dall'art. 3, terzo comma, della legge n. 247 del 1974).

Viceversa, il richiamo non ha riguardato il termine di durata del PEEP, fissato dall'art. 9, primo comma, poiché:

- dai lavori preparatori della legge n. 865 del 1971, non emerge la determinazione del legislatore di fissare una durata massima di efficacia dell'atto di approvazione del programma costruttivo e di equipararla a quella dei PEEP;

- le successive disposizioni che hanno elevato l'originaria durata decennale dei PEEP (v. il novellato art. 38 della legge 22 ottobre 1971, n. 865, e l'art. 51 della legge 5 agosto 1978, n. 457) non hanno richiamato la distinta figura del programma costruttivo;

- le argomentazioni poste a base della decisione dell'Adunanza Plenaria n. 11 del 1984 (sulla congruità del termine di durata del PEEP, in considerazione della complessità degli interventi da realizzare e del relativo procedimento) non sono trasponibili al programma costruttivo (che si caratterizza per la minore complessità degli interventi e soprattutto per la mancanza di corrispondenti formalità di pubblicità e di approvazione);

- va data una interpretazione costituzionalmente orientata al quinto comma dell'art. 51 (coerente con i principi affermati dalla Corte Cost. con le ordinanze 3 marzo 1988, n. 257 e n. 263, e con la sentenza n. 141 del 1992), nel senso che, in assenza di una norma sulla durata del programma, trova applicazione la regola residuale, espressa dall'art. 13 della legge n. 2359 del 1865, sulla fissazione del termine finale in sede amministrativa..

Ad avviso della Adunanza Plenaria, e per le ragioni che precedono, risulta la sostanziale correttezza della oramai consolidata giurisprudenza (Sez. IV, 22 maggio 2000, n. 2936; 14 gennaio 1999, n. 22; 5 giugno 1995, n. 417; 20 marzo 1992, n. 319; 27 marzo 1991, n. 213; 25 settembre 1990, n. 712; 15 aprile 1987, n. 237; Cons. giust. amm., 28 settembre 1998, n. 541), per la quale il riportato art. 51, quinto comma, non si riferisce al termine legale di durata del programma costruttivo.

Pertanto, come ha rilevato pur sinteticamente la sentenza impugnata, la delibera n. 163 del 1999 risulta emessa in violazione dell'art. 13 della legge n. 2359 del 1865.

Costituisce infatti un principio pacificamente accolto da questo Consiglio (e applicabile anche all'atto di approvazione del programma costruttivo) quello per cui è annullabile l'atto dichiarativo della pubblica utilità, quando esso eserciti il potere amministrativo senza fissare la durata massima del procedimento espropriativo, in violazione del medesimo art. 13 (Ad. Plen., 26 agosto 1991, n. 6; 25 febbraio 1975, n. 2; 8 ottobre 1965, n. 20; v. anche Sez. Un., 22 novembre 1996, n. 10327).

7. Può ora passarsi all'esame della questione se la delibera n. 163 del 1999 sia stata emessa in violazione dell'art. 7 della legge n. 241 del 1990.

7.1. Per la sentenza impugnata, «l'obbligo dell'Autorità procedente di comunicare l'avvio del procedimento finale sussiste anche nel caso, come quello in esame, di procedimento di dichiarazione di pubblica utilità implicita (cfr. Ad. Plen., 15 settembre 1999, n. 14)».

L'appellante ha censurato tale statuizione, lamentandone la estrema sinteticità e deducendo che la mancata impugnazione del piano regolatore comporta l'inammissibilità e l'infondatezza della originaria censura di violazione dell'art. 7 della legge n. 241 del 1990.

Con l'ordinanza di rimessione, il Consiglio di giustizia amministrativa:

- ha rilevato che «l'area di cui trattasi ricade in zona territoriale C del p.r.g. con specifica destinazione PEEP» e che gli originari ricorrenti non hanno presentato osservazioni nel corso del procedimento di approvazione del piano regolatore;

- ha osservato che il procedimento, nella specie, «non è del tutto carente di disciplina di partecipazione, in quanto gli articoli 10 e 11 della legge n. 865 del 1971 ne regolano la forma esplicita»;

- ha richiamato la giurisprudenza per la quale non va formalmente comunicato l'avvio del procedimento «allorquando esista una norma la quale prevede già la partecipazione procedimentale» ed ha sollecitato una pronuncia della Adunanza Plenaria sul rilievo da dare alla mancata impugnazione del piano regolatore, «dato anche il carattere vincolato che assume l'attuazione del piano e la circostanza che i proprietari dei terreni con quella destinazione non potevano non sapere della probabile apertura nei loro confronti di un procedimento di carattere ablativo».

7.2. Ritiene l'Adunanza Plenaria che la censura di primo grado (come accolta dal TAR) vada considerata ammissibile e fondata.

La sua ammissibilità emerge dall'esame riguardante i rapporti tra il vincolo preordinato all'esproprio e la dichiarazione di pubblica utilità.

Mentre col vincolo preordinato all'esproprio l'autorità urbanistica determina l'area sottoposta alla relativa destinazione, con la dichiarazione di pubblica utilità l'autorità titolare del potere espropriativo determina concretamente quali opere vadano realizzate ed esercita il proprio potere discrezionale (con riferimento alla specifica ubicazione del perimetro, alle concrete caratteristiche oggettive delle opere, ecc.).

Pertanto, il proprietario dell'area esproprianda può impugnare l'atto che ha dichiarato la pubblica utilità delle opere (cui non può essere riconosciuta la natura di mero atto dovuto o esecutivo), deducendo l'esistenza di suoi vizi, anche se non ha tempestivamente impugnato il piano urbanistico che ha imposto il vincolo preordinato all'esproprio: tale mancata impugnazione, pur rendendo la relativa scelta urbanistica inoppugnabile in ogni sede, non limita la tutela giurisdizionale spettante a seguito dell'emanazione dell'atto dichiarativo della pubblica utilità.

Oltre ad essere ammissibile, la doglianza formulata in primo grado risulta fondata.

Come è stato già osservato al punto 5, l'impugnata delibera n. 163 del 1999 ha approvato un programma costruttivo e non un piano di zona.

Come emerge dalle premesse della medesima delibera, gli atti della società appellante ed i pareri della commissione edilizia si sono susseguiti in sede amministrativa in assenza di qualsiasi comunicazione o avviso ai proprietari interessati (e, in particolare, al signor Salvia) e in totale assenza delle formalità previste dagli articoli 10 e 11 della legge n. 865 del 1971 (proprio perché l'Amministrazione ha approvato il programma costruttivo).

Vanno pertanto richiamati i principi già enunciati dall'Adunanza Plenaria (con le decisioni 24 gennaio 2000, n. 2, e 15 settembre 1999, n. 14), per i quali l'entrata in vigore dell'art. 7 della legge n. 241 del 1990 ha inciso anche sulla complessiva disciplina del procedimento espropriativo.

Infatti, il disegno posto a base della legge fondamentale n. 2359 del 1865 (per il quale l'atto dichiarativo della pubblica utilità seguiva le prescritte formalità di partecipazione del proprietario espropriando) è stato poi modificato dalla normativa stratificatasi nel tempo (v., da ultimi, gli articoli 10 e 11 della legge n. 865 del 1971 e l'art. 1 ss. della legge n. 1 del 1978), per cui la dichiarazione di pubblica utilità poteva essere disposta nella sostanziale insaputa del proprietario (cfr. Ad. Plen., 18 giugno 1986, n. 6).

Sennonché, l'art. 7 della legge n. 241 del 1990 ha manifestato il deciso orientamento del legislatore di consentire la utile partecipazione nel corso del procedimento.

Ciò comporta che, a parte i casi in cui una legge o un regolamento abbia specificamente disciplinato il procedimento da seguire (ovvero i casi in cui rileva il numero dei potenziali destinatari), è indispensabile che l'avviso di avvio del procedimento vada trasmesso a colui nei cui confronti si intenda emettere un atto lesivo e che ne sia ignaro, affinché egli si possa attivare per verificare come è esercitato il potere amministrativo e sia posto in grado di esporre le ragioni di fatto o di diritto che, se del caso, siano tali da indurre l'autorità amministrativa a contemperare gli interessi coinvolti, sulla base delle osservazioni acquisite.

Per quanto riguarda l'atto dichiarativo della pubblica utilità, la citata decisione n. 14 del 1999 dell'Adunanza Plenaria ha chiarito che il concreto progetto delle opere e la loro localizzazione di dettaglio costituiscono aspetti che vanno esaminati dall'Amministrazione nel contraddittorio con l'interessato, che può prospettare elementi di valutazione non marginali, ai fini della proporzionalità e del buon andamento della azione amministrativa.

Del resto, dal contraddittorio possono emergere elementi utili per giungere ad un accordo sulla localizzazione e sulle caratteristiche concrete delle opere, consentendo la loro realizzazione col contenimento del pregiudizio altrui, dei tempi e del contenzioso.

Tali osservazioni riguardano, in misura non secondaria, anche la fase di approvazione del programma costruttivo (avente una pur significativa rilevanza sotto il profilo della urbanizzazione del territorio), disciplinato dall'art. 51 della legge n. 865 del 1971 sotto taluni aspetti e non anche per il procedimento da seguire (tanto che, al limite, poteva giungersi alla sua approvazione in assenza di qualsiasi dialettica, osservazione e valutazione dei concreti interessi dei proprietari espropriandi e di altri interessati).

Con la sopravvenuta entrata in vigore dell'art. 7 della legge n. 241 del 1990, anche per il programma costruttivo (che non rientra tra i piani in senso tecnico, di cui all'art. 13 della medesima legge) possono avere effettiva applicazione il fondamentale principio di trasparenza e di adeguata motivazione delle scelte e quello del buon andamento della azione amministrativa (e si evita che il proprietario espropriando rappresenti per la prima volta nella sede giurisdizionale i propri interessi e le proprie doglianze).

Nel caso di specie, a seguito delle determinazioni concernenti la mancata scelta delle aree poste in altre contrade, l'Amministrazione avrebbe dovuto trasmettere l'avviso dell'avvio del procedimento al signor Salvia, quale proprietario dell'area poi presa in considerazione nella delibera che ha dichiarato la pubblica utilità delle opere.

8. Per le ragioni che precedono, va confermata la sentenza impugnata, per la parte in cui ha annullato la delibera n. 163 del 1999 (e il consequenziale atto n. 6 del 2000, che ha autorizzato i tecnici ad introdursi nelle aree).

A questo punto, con priorità vanno esaminate l'ammissibilità e la fondatezza della domanda di risarcimento riproposta in grado di appello dal signor Salvia.

Infatti, poiché sono state mantenute ferme le statuizioni con cui la sentenza di primo grado ha accolto la sua domanda di annullamento, si deve verificare se vada accolta anche la sua ulteriore domanda, volta ad ottenere un risarcimento del danno in conseguenza della emanazione degli atti illegittimi ed annullati.

9. Ritiene l'Adunanza Plenaria che di per sé vada considerata ammissibile la domanda risarcitoria riproposta in appello (quando la sentenza di primo grado abbia omesso di pronunciarsi su di essa), ai sensi dell'art. 346 del codice di procedura civile, per il quale «le domande e le eccezioni non accolte nella sentenza di primo grado, che non sono espressamente riproposte in appello, si intendono rinunciate».

In base a tale norma, applicabile anche nel processo amministrativo d'appello (Ad. Plen., 19 gennaio 1999, n. 1), nel caso di omessa pronuncia su una specifica ed autonoma domanda (che implica la violazione della regola della corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato) l'appellato - risultato vittorioso in ordine ad una domanda - non è costretto a cominciare ex novo un giudizio di primo grado e non è tenuto a proporre una formale impugnazione incidentale (mancando il presupposto della soccombenza), ma può riproporre in grado di appello la domanda non esaminata, mediante uno scritto difensivo che la richiami esplicitamente e superi la presunzione di rinuncia sancita dall'art. 346.

Tale principio si applica anche quando in sede di giustizia amministrativa la sentenza di primo grado abbia accolto la domanda di annullamento dell'atto lesivo, senza esaminare la contestuale domanda volta ad ottenere il conseguente risarcimento del danno, e l'appellato (nella specie, il signor Salvia) riproponga la domanda non esaminata, nel corso del giudizio di appello (proposto dall'Amministrazione o dal controinteressato soccombente in primo grado).

10. Passando all'esame della domanda risarcitoria, nella specie ha rilievo decisivo e assorbente la circostanza di fatto costituita dalla mancata occupazione dell'area del signor Salvia da parte dell'Amministrazione o della società appellante.

Tale circostanza:

- è stata chiaramente enunciata dalla società appellante (nella sua memoria depositata in Segreteria in prossimità dell'udienza di discussione) ed è rimasta incontestata;

- è evincibile dalle stesse deduzioni del signor Salvia (che nella sua memoria depositata in grado di appello ha richiamato la domanda di primo grado, per la parte con cui egli ha chiesto il risarcimento del danno per il solo fatto che sono stati emessi gli atti poi annullati dal TAR);

- emerge dalla documentazione depositata nel corso del giudizio, poiché non risulta che sia stato emanato un atto di occupazione d'urgenza, né che vi sia stato un comportamento sine titulo di acquisizione del possesso dell'area o implicante la sua materiale modifica.

Neppure risulta (o è stato dedotto) che abbia avuto luogo l'immissione nei luoghi per procedere allo stato di consistenza e tanto meno è stato lamentato che ciò, in ipotesi, sia avvenuto con modalità tali da aver cagionato un danno al proprietario.

Pertanto, la domanda risarcitoria non ha prospettato la verificazione di alcun evento materiale effettivamente lesivo.

11. Le ragioni sopra esposte sono tali da comportare anche la reiezione delle domande risarcitorie riproposte dagli altri quattro originari ricorrenti, che versano dichiaratamente nella medesima situazione di fatto riguardante il signor Salvia.

Infatti, anch'essi non hanno mai perso la piena disponibilità delle loro aree, né hanno comprovato, e neppure dedotto, che atti o comportamenti del Comune (o della società appellante) abbiano loro cagionato un danno concreto ed effettivo.

Ciò comporta l'assorbimento di ogni altra questione, processuale e sostanziale, derivante:

- dalla mancata impugnazione - da parte dell'appellante - della statuizione con cui il Tribunale amministrativo ha annullato integralmente gli atti del procedimento, anche se ha accolto la sola impugnazione del signor Salvia;

- dalla mancata impugnazione - da parte degli originari altri quattro ricorrenti - della statuizione sulla tardività delle loro censure, avendo essi ricevuto la notifica del gravame della società (soccombente nei confronti del solo signor Salvia, ma vincitrice contro di loro) ad abundantiam e a titolo di mera litis denuntiatio e avendo quindi depositato la loro memoria - contenente la domanda risarcitoria - senza rivestire la qualità di appellati in senso tecnico o di parti necessarie in grado di appello (v. Sez. V, 2 marzo 1999, n. 220; Sez. IV, 16 novembre 1993, n. 1006; Sez. IV, 4 febbraio 1988, n. 34, sulla determinazione del thema decidendum, quando nel giudizio di impugnazione un soccombente notifica il gravame ad un'altra parte soccombente in primo grado).

12. Per le ragioni che precedono, l'Adunanza Plenaria:

a) respinge l'appello principale della società assegnataria delle aree e conferma la sentenza impugnata, per la parte in cui essa ha annullato integralmente i provvedimenti impugnati in primo grado;

b) respinge le domande di risarcimento non esaminate in primo grado e riproposte in grado di appello dal signor Salvia e dagli altri quattro originari ricorrenti.

Sussistono giusti motivi per compensare tra tutte le parti le spese e gli onorari dei due gradi del giudizio.

Per questi motivi

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Adunanza Plenaria):

a) respinge l'appello della s.r.l. Edilgarden n. 293 del 2001 del ruolo del Consiglio di Giustizia amministrativa per la Regione Sicilia (n. 10 del 2001 del ruolo dell'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato) e conferma la sentenza impugnata, per la parte in cui essa ha annullato i provvedimenti impugnati in primo grado;

b) pronunciando sulle domande di risarcimento non esaminate in primo grado e riproposte in grado di appello, respinge la domanda formulata dai signori Rosaria D'Amico, Carmela Messina, Vincenzo Miraglia e Giuseppa Miraglia, nonché quella formulata dal signor Francesco Salvia;

c) compensa tra le parti le spese e gli onorari dei due gradi del giudizio.

Ordina che la presente decisione sia eseguita dalla Autorità amministrativa.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio tenutasi il giorno 24 giugno 2002, presso la sede del Consiglio di Stato, Palazzo Spada, con l'intervento dei signori:

Alberto de Roberto Presidente

Sergio Santoro Consigliere

Domenico La Medica Consigliere

Alessandro Pajno Consigliere

Piergiorgio Trovato  Consigliere

Costantino Salvatore  Consigliere

Raffaele De Lipsis Consigliere

Giuseppe Farina  Consigliere

Corrado Allegretta  Consigliere

Giorgio Giaccardi  Consigliere

Luigi Maruotti Consigliere estensore

Carmine Volpe Consigliere

Chiarenza Millemaggi Cogliani  Consigliere

Paolo Buonvino Consigliere

Goffredo Zaccardi Consigliere

L'ESTENSORE     IL PRESIDENTE

Depositata in segreteria in data 20 dicembre 2002.

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