CONSIGLIO DI STATO, ADUNANZA PLENARIA - Sentenza 26 marzo 2003 n. 4 - Pres. De Roberto, Est. Schinaia - Bruno Luciano ed altri (Avv.ti Marano e Calandra) c. Comune di Palermo (Avv. Bosco) e Assessorato Regionale al Turismo, Comunicazioni e Trasporti (Avv.ra Stato) - (conferma T.A.R. Sicilia - Palermo, Sez. I, 11 ottobre 2001, n. 1444; la questione era stata rimessa dal C.G.A., con ord. 11 giugno 2002, n. 316).
1. Giurisdizione e competenza - Giurisdizione esclusiva del G.A. - Non implica che tutte le azioni fatte valere al suo interno siano relative a diritti soggettivi - Necessità di distinguere tra diritti soggettivi ed interessi legittimi anche nell'ambito della giurisdizione esclusiva - Necessità.
2. Giustizia amministrativa - Risarcimento dei danni - Per lesione di interessi legittimi - Preventiva o contestuale impugnazione dell'atto lesivo (c.d. "pregiudiziale amministrativa") - Necessità - Sussiste - Richiesta di risarcimento sganciata dall'azione di annullamento - Inammissibilità.
3. Espropriazione per p.u. - Dichiarazione di p.u. - Termini garantistici di inizio e fine lavori e delle espropriazioni - Mancata determinazione - Determina solo annullabilità della dichiarazione di p.u. - Impugnazione della dichiarazione di p.u. nei termini - Necessità.
4. Giurisdizione e competenza - Giurisdizione esclusiva del G.A. - In materia di espropriazione di p.u. - Sussiste ex art. 34 del D.L.vo n. 80/1998 - Richiesta di risarcimento del danno - Va avanzata in occasione dell'impugnativa della procedura espropriativa od a seguito del suo annullamento giurisdizionale - Domanda risarcitoria avanzata in via autonoma - Inammissibilità.
5. Giustizia amministrativa - Risarcimento dei danni - Per lesione di interessi legittimi - Preventiva o contestuale impugnazione dell'atto lesivo (c.d. "pregiudiziale amministrativa") - Necessità - Desumibilità del principio dalle innovazioni introdotte dalla legge n. 205/2000.
6. Giustizia amministrativa - Ricorso giurisdizionale - Ricorso per motivi aggiunti - Casi in cui è ammissibile - Individuazione.
1. La circostanza che in una materia vi sia giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo non significa che tutte le controversie vertano su diritti soggettivi (1). Vero è, infatti, che la giurisdizione esclusiva implica l'attribuzione di un'intera materia al giudice amministrativo, a prescindere dal tipo di situazione giuridica soggettiva fatta valere, e dunque senza necessità di individuare il tipo di situazione soggettiva, ma questo al solo fine della determinazione della giurisdizione; una volta stabilito che la giurisdizione è del giudice amministrativo, occorre anche nell'ambito della giurisdizione esclusiva, individuare il tipo di situazione soggettiva lesa (interesse legittimo o diritto soggettivo) al fine di delimitare i poteri del giudice.
2. Una volta concentrata presso il giudice amministrativo la tutela impugnatoria dell'atto illegittimo e quella risarcitoria conseguente, non è possibile l'accertamento incidentale da parte del giudice amministrativo della illegittimità dell'atto non impugnato nei termini decadenziali al solo fine di un giudizio risarcitorio; in altri termini, non è possibile ritenere che l'azione di risarcimento del danno possa essere proposta sia unitamente all'azione di annullamento che in via autonoma, ma l'azione di risarcimento è da reputare ammissibile solo a condizione che sia stato impugnato tempestivamente il provvedimento illegittimo e che sia stato coltivato con successo il relativo giudizio di annullamento, in quanto al giudice amministrativo non è dato di poter disapplicare atti amministrativi non regolamentari (2).
3. E' annullabile (e non già nullo) l'atto dichiarativo di pubblica utilità che sia privo dei termini di durata massima degli espropri e dei lavori di cui all'art. 13 della legge 2359 del 1865; non può parlarsi, in simili casi, di carenza di potere (c.d. "in concreto") dell'Amministrazione, con la conseguenza che l'atto va impugnato nei termini, non potendosene invocare successivamente la disapplicazione dal G.A.
4. Va affermata la giurisdizione del giudice amministrativo in materia dei danni conseguenti ad illegittimo esproprio, sulla scorta dell'art. 7 comma 3° della legge 1034/1971 (come novellato dall'art. 7 della legge 205/00), laddove prevede che il TAR,". nell'ambito della sua giurisdizione (anche di legittimità, oltrechè esclusiva) conosce anche di tutte le questioni relative all'eventuale risarcimento del danno, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, e agli altri diritti patrimoniali consequenziali". Legittimamente pertanto il TAR dichiara inammissibile la domanda risarcitoria avanzata in via autonoma da un soggetto privato e connessa ad una procedura espropriativa asseritamente lesiva della propria sfera giuridica, allorché quegli non l'abbia fatta precedere da una tempestiva richiesta di annullamento degli atti amministrativi pregiudizievoli.
5. Va ribadito il consolidato indirizzo giurisprudenziale delle Sezioni semplici secondo il quale la pronuncia di annullamento, tanto nei casi di giurisdizione esclusiva che in quelli di giurisdizione di legittimità, è pregiudiziale rispetto a quella di risarcimento; si tratta difatti di una opzione ermeneutica pienamente aderente alla ratio della riforma culminata con la legge n. 205 del 2000, giusta la quale il legislatore ha attribuito al g.a. in via generale la cognizione "anche" sul risarcimento del danno, senza alcuna distinzione tra la stessa giurisdizione esclusiva e quella di legittimità.
6. Possono essere impugnati con lo strumento dei motivi aggiunti - ai sensi dell'art. 21 della legge 1034/1971, come novellato dalla legge 205/2000 - non solo i provvedimenti adottati in pendenza di ricorso dall'Amministrazione ed afferenti le medesime parti pubblica e privata, ma anche quelli, pure connessi in senso soggettivo ed oggettivo, adottati prima del giudizio ma conosciuti dalla parte privata interessata a gravarli soltanto nel corso del ridetto giudizio.
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(1) Cons. Stato, Sez. VI, 27 gennaio 2003, n. 426.
(2) Cons. Stato, Sez. VI, 18 giugno 2002, n. 3338, che richiama Cons. Stato, Sez. IV, 15 febbraio 2002, n. 952.
Commento di
GIULIO BACOSI
Per l'Adunanza, ormai è chiaro: il G.A. non "risarcisce disapplicando", ma "demolisce risarcendo"
1.- Il fatto.
I primi di maggio del 1996 l'Assessorato Turismo, Comunicazione e Trasporti della Regione Sicilia approva con decreto all'uopo (297/XV TUR), contestualmente provvedendo al relativo finanziamento (ex art.2 della Legge Regionale 69.95), un progetto inteso alla realizzazione di una palestra polifunzionale nel Comune di Palermo (più precisamente, in contrada "Uditore"), nell'ambito del noto programma sportivo "Universiadi" previsto per il successivo 1997.
L'approvazione del progetto in parola viene esplicitamente assunta equivalere a dichiarazione di pubblica utilità, indifferibilità ed urgenza dell'opera finanziata, con contestuale fissazione dei termini di inizio (data del decreto medesimo) e fine espropri (5 anni dalla adozione del ridetto decreto).
Passa qualche giorno e, in data 31 maggio 1996, interviene una delibera immediatamente esecutiva della Giunta Municipale del Comune di Palermo (n.1344) - affissa all'albo pretorio dal 2 al 16 giugno successivi - con la quale:
si prende atto del precedente decreto assessoriale di approvazione del progetto afferente alla nota palestra, e dei pareri favorevoli che ne hanno costituito il presupposto;
si approva lo schema di bando di gara per l'affidamento dell'opera pubblica autorizzandosi contestualmente l'Ufficio contratti del Comune a porre in essere tutti gli adempimenti per l'esperimento della gara medesima;
più in specie, si confermano i termini per l'inizio e l'ultimazione dei necessari espropri siccome fissati nel noto decreto assessoriale e, ad un tempo, si fissano i termini di inizio (3 mesi dalla data di esecutività del decreto giuntale) e di ultimazione (12 mesi dall'inizio) dei lavori di costruzione della nota palestra.
Passa ancora qualche mese e, nel torrido agosto siciliano, il Dirigente del Servizio espropriazioni del Comune di Palermo ordina l'occupazione temporanea e d'urgenza del suolo sede dell'edificando opus sportivo. A fine ottobre, poi, si addiviene alla immissione in possesso del fondo ed alla redazione del relativo stato di consistenza.
Tanto la procedura di esproprio quanto la concreta realizzazione della palestra trovano esito nei termini fissati, rispettivamente, nel decreto assessoriale (regionale) di inizio e nella successiva delibera giuntale (comunale) di fine maggio del 1996.
Si giunge al fatidico "2000". A novembre, spenti ormai i clamori di fine millennio i proprietari espropriati - che già (?) a settembre avevano attaccato, con separato ricorso, la delibera di Giunta Municipale del 31 maggio 1996 con cui il Comune aveva a suo tempo provveduto ad integrare il primigenio decreto assessoriale fissando (anche) i termini iniziale e finale dei lavori di costruzione della palestra de qua, "dimenticati" dalla Regione - in un rigurgito di orgoglio dominicale convengono innanzi al Tar peloritano tanto l'Assessorato regionale quanto la civica Amministrazione di Palermo invocando un risarcimento dei danni asseritamente patiti in conseguenza della intervenuta occupazione sine titulo del relativo terreno, sul quale si erge ormai da circa un quadriennio la menzionata palestra polifunzionale.
L'espropriazione non si sarebbe in effetti, a loro dire, mai fisiologicamente realizzata, difettando nella originaria determinazione assessoriale di approvazione del progetto d'opera pubblica - rilevante anche quale dichiarazione di pubblica utilità, indifferibilità ed urgenza "implicita" dell'opera stessa - quei termini di inizio ed ultimazione lavori (oltrechè espropri) dipoi esplicitamente fissati con delibera all'uopo dalla Giunta Municipale di Palermo, ritenuta nondimeno priva di competenza in relazione a tale specifico incombente.
Nella resistenza delle Amministrazioni intimate, eccipienti il pieno rispetto dell'art.13 della legge 2359 del 1865 in materia di fissazione dei termini di espropri e lavori in seno alla dichiarazione di pubblica utilità di un'opera pubblica, si pronuncia il Tar Palermo con sentenza dell'ottobre 2001, confermando in primis la propria potestas iudicandi con riguardo ad una controversia sostanzialmente "espropriativa" (oltrechè risarcitoria), in virtù dei (sopravvenuti) articoli 34 e 35 del decreto legislativo 80.98 siccome modificati dal successivo art.7 della legge 205.00.
Secondo il Collegio di prime cure, la domanda risarcitoria interposta dagli espropriati è inammissibile; essi, al cospetto della irreversibile trasformazione del proprio fondo, e stante la impossibilità di una restituzione del medesimo, fronteggiando una occupazione ventilata come "usurpativa" - perché fondantesi su una illegittima dichiarazione di pubblica utilità (asseritamente non recante i termini di inizio ed ultimazione lavori) - hanno tuttavia omesso di impugnare tempestivamente gli atti del procedimento espropriativo, non potendo pertanto invocare alcun ristoro risarcitorio.
Stando al ragionamento dei giudici amministrativi palermitani, esplicitamente discostantisi sul punto dalla giurisprudenza della Cassazione richiamata dai ricorrenti, il fatto che non siano stati tempestivamente impugnati gli atti - assunti come illegittimi - di una procedura espropriativa e, più in specie, la dichiarazione di pubblica utilità (per asserita mancata fissazione dei termini di inizio ed ultimazione lavori, oltrechè di quelli concernenti gli espropri) è situazione non equiparabile a quella di inesistente ovvero annullata (perché tempestivamente impugnata) dichiarazione di pubblica utilità medesima.
Solo in quest'ultima evenienza è infatti ammissibile avanzare una domanda risarcitoria, mentre nella opposta ipotesi di difetto di rituale attacco demolitorio nei termini, non potrebbe invocarsi dal g.a. la disapplicazione di un provvedimento (la ridetta dichiarazione di pubblica utilità) asseritamente assunto in carenza di potere, ma in realtà capace di pienamente degradare il diritto dominicale del privato ad interesse legittimo.
Ancora, secondo il Tar Palermo il fatto che al g.a. - tanto in sede di giurisdizione esclusiva quanto di legittimità - sia stato legislativamente attribuito il potere di erogare tutela risarcitoria al privato che ne faccia istanza non esclude la mera "consequenzialità" di tale tutela, onde - come peraltro confermato dalla recente decisione della IV Sezione del Consiglio di Stato n.1684.01 - solo il previo accertamento della illegittimità dell'atto tempestivamente impugnato è idonea a dischiudere le porte del risarcimento del danno.
Gli espropriati, destinatari di una pronuncia di inammissibilità, ben lungi dal gettare la spugna, spiccano allora appello innanzi al Consiglio di Giustizia palermitano ribadendo la propria tesi imperniantesi sulla asserita violazione ex parte publica (Assessorato) dell'art.13 della legge 2359 del 1865, stante la mancata, coeva fissazione - in sede di dichiarazione di pubblica utilità, indifferibilità ed urgenza dell'opera pubblica edificanda - tanto dei termini (iniziali e finali) concernenti gli espropri quanto di quelli concernenti i lavori (questi ultimi, come ormai noto, successivamente fissati con delibera di giunta municipale).
Precisano che, ove la giurisdizione fosse rimasta al g.o., lo stesso per costante giurisprudenza della Suprema Corte di Cassazione (per tutte, Sezioni Unite, n.460.99) li avrebbe assunti affatto privi di interesse alla impugnativa degli atti del procedimento espropriativo, stante la evidente carenze di potere "in concreto" in capo alla p.a. quale diretto precipitato proprio della mancata apposizione dei termini di inizio e fine lavori nell'economia letterale della dichiarazione di pubblica utilità, capace come tale di autorizzare una disapplicazione dei provvedimenti adottati dall'Amministrazione, all'evidenza nient'altro che nulli (e non già meramente annullabili).
Il fatto che, medio tempore, il legislatore del 1998 e quindi - con maggior precisione - quello del 2000 abbiano affidato al g.a. la materia espropriativa non potrebbe assumersi circostanza idonea a mutare i termini della questione, implicando la necessità in ogni caso del previo, tempestivo attacco in sede demolitoria degli atti che compendiano il procedimento espropriativo, onde dipoi ottenere il risarcimento del patito pregiudizio da occupazione detitolata ed espropriazione "sostanziale".
Anzi, il vertersi in materia devoluta alla giurisdizione esclusiva del g.a. implica per gli appellanti una analoga tutela dei diritti soggettivi del privato espropriato, ben potendo il neoinvestito g.a. seguire le medesime guide lines pretorie già a suo tempo abbracciate dal g.o. disapplicando gli atti nulli (nel caso di specie, la dichiarazione di pubblica utilità) e ad un tempo garantendo al privato ricorrente, nel contesto di un unico processo, la tutela risarcitoria pur in difetto di previamente (e tempestivamente) invocata tutela demolitoria.
A ragionare diversamente, ancora secondo gli appellanti, dovrebbe registrarsi una patente violazione - operata dalla novella disciplina tanto del decreto legislativo 80.98 quanto della successiva legge 205.00 - degli articoli 3, 24, 113 e 42 Cost., stante la irragionevole disparità di trattamento tra chi ha ricevuto dal g.o. tutela "disapplicativo-risarcitoria" immediata e diretta e chi, pur avendo subito una espropriazione nulla anteriormente alla ridetta novella, si trovi a dover comunque tempestivamente chiedere al giudice ex novo dichiarato competente (il g.a.) la demolizione dei provvedimenti espropriativi, funzionale al successivo risarcimento del danno.
Gli appellanti concludono pertanto per l'invocato risarcimento del danno e, in mero subordine, per la declaratoria di non manifesta infondatezza della questione di costituzionalità della nuova disciplina processuale, nei termini testè indicati (segnatamente, difetto di una disciplina transitoria con riferimento ad espropri consumati anteriormente al trapasso della giurisdizione dal g.o. al g.a.), con contestuale sospensione del processo e rinvio degli atti al Giudice delle Leggi.
Per le Amministrazioni resistenti e già vittoriose in prime cure, neanche a dirlo, il ricorso in appello è inammissibile ed infondato. In primis, come rileva il Comune di Palermo, gli espropriati appellanti solo nel settembre 2001, e per giunta con separato ricorso, hanno impugnato - tardivamente - la delibera di Giunta di più d'un quinquennio addietro con la quale si era provveduto da parte del Comune medesimo non solo a confermare i termini di inizio e fine espropri già previsti nel decreto assessoriale, ma financo a fissare i termini di inizio e fine lavori.
In sostanza non si ravviserebbe veruna carenza di potere espropriativo in capo alla p.a. procedente, stante la intervenuta fissazione del range temporale concernente anche la concreta realizzazione della nota palestra (oltrechè l'esproprio del relativo terreno "di insistenza"), rintracciabile nella menzionata delibera di Giunta del 31 maggio 1996, impugnata dagli appellanti solo nel 2001 (la civica amministrazione peloritana non manca nondimeno, in via meramente tuzioristica, di invocare in subordine la rivalsa nei confronti dell'Assessorato per la denegata eventualità di una condanna al risarcimento dei danni lagnati dagli appellanti).
Il Consiglio di Giustizia adito, nel rammentare la propria precedente ordinanza n.588 del 15 novembre 2001 - con la quale aveva già provveduto a chiedere lumi alla Plenaria in ordine alla nota questione della presunta pregiudizialità tra l'azione di annullamento e quella di risarcimento dei danni (la seconda non sarebbe utilmente spiccabile, secondo lo stesso Consiglio di Giustizia, senza aver prima tempestivamente ed utilmente esperito la prima) - "ritenta" la carta della remissione all'Adunanza, peraltro con riferimento ad un caso pur esso investente (come nella precedente ipotesi) una richiesta risarcitoria rapportata ad una procedura espropriativa.
La fattispecie contenziosa, lo si rammenterà, venne vagliata ed all'esito dipanata dal Supremo Consesso Amministrativo in via soprassessoria, per difetto di rilevanza in concreto della questione ai fini della decisione dell'appello nel caso di specie (si rinvia sul punto a Adunanza Plenaria, decisione n.8 del 20 dicembre 2002 con commento, su queste medesime colonne, di chi scrive: Prima l'annullamento e poi il risarcimento ? Il non liquet della Plenaria, di prossima pubblicazione nell'Annuario Consiglio di Stato - Decisioni in Adunanza Plenaria dell'anno 2002).
In occasione del "grande ritorno" della nota questione allo scandaglio del Supremo Consesso, gli appellanti espropriati, sconfitti in prime cure, insistono in particolare sulla presunta incostituzionalità tanto del decreto legislativo 80.98 quanto della successiva legge 205.00, laddove lascerebbero totalmente privo di tutela giurisdizionale il diritto soggettivo di proprietà leso - anteriormente alla relativa entrata in vigore - da un'azione amministrativa dispiegatasi in carenza di potere (asserita violazione degli articoli 24, 113 e 42 Cost. oltreché - è da intendersi - dello stesso art.3 Cost., venendo ad essere trattate in modo disomogeneo sotto il profilo della tutela giurisdizionale situazioni in sostanza omogenee, a seconda che il processo sia stato intentato prima o dopo l'entrata in vigore della nota "novella" sulla giurisdizione esclusiva al g.a. in materia di espropri).
Affermano, in particolare, di muovere al giudice degli interessi, e per esso alla sua massima istanza decisionale, non già una domanda di accertamento della illegittimità degli atti della procedura espropriativa quanto piuttosto, e ben più in radice, una declaratoria di illiceità dell'azione pubblica per carenza di potestas agendi in capo alla stessa, stante il difetto, in seno alla dichiarazione di pubblica utilità, della indicazione dei termini (e specie di quello finale) relativi ai lavori di realizzazione della plurimenzionata palestra.
Assunto il solo art.34 del decreto legislativo 80.98 quale norma di riferimento per l'attribuzione al g.a. della giurisdizione - esclusiva - in materia espropriativa, ed esclusa nel caso di specie la operatività dell'art.23.bis novellato (dall'art.4 della legge 205.00) della legge 1034.71, i privati destinatari del potere ablativo puntualizzano come ad essere stato conculcato sia stato un loro diritto soggettivo, il risarcimento della cui lesione non potrebbe atteggiarsi a diritto patrimoniale "consequenziale" nel senso della necessità in ogni caso del previo annullamento dell'atto amministrativo, quand'anche cioè quest'ultimo sia stato adottato in carenza di potere e, come tale, si sia visto privo della propria capacità "degradatoria" della posizione soggettiva vantata.
Diversamente opinando, nessun senso avrebbe per gli appellanti l'attribuzione al g.a. di una potestas iudicandi "esclusiva" anche sui "comportamenti" oltrechè sui "provvedimenti" pubblici; anzi, il passaggio della giurisdizione dall'AGO al g.a. sortirebbe il deprecabile effetto di "spuntare" in qualche modo la tutela risarcitoria dei soggetti espropriati non iure, come tali costretti in ogni caso ad impugnare nei termini un provvedimento pur nullo (e non già meramente annullabile) per riscontrata carenza di potere (nella specie, "in concreto").
Peraltro, nel caso di specie la p.a. avrebbe perpetrato, nella veste dei diversi organi che ne hanno sostanzialmente espresso la dinamica operativa (Assessorato regionale e Giunta comunale), un illecito "bifronte":
- commissivo, per aver portato ad esecuzione uno pseudo-provvedimento (la dichiarazione di p.u., ind. ed urgenza) reso in carenza di potere (mancavano i termini relativi ai lavori di cui all'art.13 della legge 2359 del 1865);
- ed omissivo, per non aver provveduto l'Assessorato a sollecitare ed il Comune ad adottare una delibera, resa in sede di autotutela, capace di abbattere la precedente determinazione comunale (impugnata al Tar dopo 5 anni, con autonomo ricorso, dai medesimi appellanti) giusta la quale la Giunta - organo incompetente nel caso di specie - aveva provveduto a fissare i termini di inizio ed ultimazione lavori, "dimenticati" in sede regionale.
Dopo aver richiamato, additandola come asseritamente favorevole alle relative ragioni, la recente pronuncia della IV Sezione del Consiglio di Stato n.3819 del 9 luglio 2002, ancora i ricorrenti invocano dall'Adunanza - sotto ulteriore profilo - una sospensione del processo in corso ed una remissione degli atti alla Corte costituzionale per presunta violazione degli articoli 24, 113 e 42 Cost..
Norma incriminata, stavolta, è l'art.45 comma 18° del decreto legislativo 80.98, essendo stata irragionevolmente prevista solo con riferimento all'ex "pubblico impiego" (cfr precedente comma 17°) una fase di transizione nel passaggio della potestà giurisdizionale dal g.a. al g.o., senza che analoga previsione abbia interessato il contemporaneo transito in senso opposto, dal g.o. al g.a. (giurisdizione esclusiva), delle controversie in materia di urbanistica, espropriazione e connesso risarcimento danni, pur attinenti a "questioni" pregiudizievoli anteriori al 30 giugno 1998 (si tratta peraltro di questione "nuova", come l'Adunanza non tarda ad evidenziare nel contesto della propria narrativa in punto di fatto).
Resistono con successo le Amministrazioni appellate, e all'Adunanza non resta che provvedere tosto al deposito del dispositivo di rigetto dell'appello, dopo aver qualificato la controversia come collocabile nella casella normativa di cui all'art.23.bis comma 1° lettera b) della legge 1034.71 (c.d. rito accelerato).
2.- La decisione della Plenaria.
L'interesse, come è ovvio, si concentra tutto nel corredo motivazionale della decisione chiosata, movente dal più autentico petitum avanzato dagli appellanti già ricorrenti in prime cure; una istanza di tutela imperniatesi - sulla scia di molteplici, analoghe iniziative giurisdizionali in passato tradizionalmente promosse innanzi al g.o. - sulla richiesta di risarcimento dei danni patiti in conseguenza di una attività pubblica espropriativa asseritamente dispiegata in carenza di potere (palesandosi la dichiarazione di pubblica utilità priva dei noti termini di inizio ed ultimazione lavori), prescindendo conseguentemente dalla impugnativa degli atti ablativi assunti, del resto, come nulli e "non degradatori", piuttosto che come annullabili.
In sostanza, puntualizza il Supremo Consesso Amministrativo, le parti private destinatarie del potere espropriativo gli chiedono - né più né meno di come avrebbero fatto in passato (prima del noto trapasso di giurisdizione) al g.o. - di disapplicare atti amministrativi nulli perché adottati in carenza di potere (non tempestivamente impugnati e previamente annullati), e conseguentemente di provvedere in via immediata e diretta al risarcimento del danno dai medesimi patito.
L'Adunanza non può pertanto omettere di far menzione del celebre contrasto che ha - nel preterito - opposto la Cassazione a Sezioni Unite (giudice della giurisdizione) al Consiglio di Stato; la prima - differentemente dal secondo - propensa ad assumere la sussistenza di una carenza di potere (con connessa potestas iudicandi del g.o.) non già solo nei casi di mancata attribuzione del medesimo, in "astratto", alla p.a. da parte del legislatore, ma financo, e vieppiù, nelle ipotesi in cui il ridetto potere pubblico, pur attribuito in astratto all'Amministrazione, fosse in "concreto" privo di taluni dei presupposti per il relativo esercizio, perdendo in queste evenienze la propria capacità "degradatoria" del diritto soggettivo ad interesse legittimo.
Ricordata in particolare, a titolo esemplificativo delle due opposte opzioni ermeneutiche, la decisione delle Sezioni Unite n.4116 del 17 giugno 1988 e quella del Consiglio di Stato, Sezione, IV, del 30 novembre 1992, il Collegio si sofferma quindi su quella inveteratamente abbracciata dal Giudice Amministrativo d'appello ed intesa a ritenere nulli i soli atti e provvedimenti amministrativi adottati in carenza di potere "astrattamente" intesa (difetto di attribuzione del ridetto potere ad opera del legislatore), veicolando, per converso, sui binari della illegittimità-annullabilità (e della connessa necessità di tempestiva impugnazione nei termini da parte del privato che se ne assuma leso) quelle determinazioni pubbliche comunque espressione di un potere legalmente deferito all'Amministrazione, e nondimeno prive di un qualunque "concreto" presupposto di legittima adozione.
Una convinzione, si puntualizza, recentissimamente confermata dalla stessa Adunanza in seno alla già rammentata decisione n.8 del 2002, laddove proprio l'atto declaratorio della pubblica utilità di un'opera pubblica - pacificamente fondante l'ulteriore potere espropriativo - è stato additato, quand'anche privo della fissazione d'una durata massima del procedimento espropriativo, non già nullo ma meramente annullabile (e come tale necessario oggetto di tempestiva impugnazione innanzi al g.a.).
Il Collegio, dopo aver ribadito pienamente (e brevemente, al fine di evitare tediose ripetizioni, peraltro in difetto di argomentazioni tali da sospingere ad una rimeditazione dell'argumentum) la posizione esplicitata sul punto nel precedente in parola (n.8 del 2002), prende quindi a confermare la giustezza delle statuizioni del Tar Palermo impugnate, a cominciare dalla affermazione della potestas iudicandi del g.a. con riferimento ad un catalogo di controversie, quelle espropriative e connesse risarcitorie, pienamente rientranti nell'ambito della materia "urbanistica", con conseguente operatività degli articoli 34 e 35 (novellati) del decreto legislativo 80.98.
"Del pari legittimamente", prosegue il Supremo Consesso Amministrativo, il Tar Palermo - nel richiamare la pronuncia del Consiglio di Giustizia Amministrativa della Regione Siciliana n.296 del 14 giugno 2001 - ha ribadito la propria giurisdizione sulla controversia risarcitoria de qua a mente dell'art.7 comma 3° della legge 1034.71 (siccome novellato dall'art.7 della legge 205.00), stando al quale sono attribuite al giudice amministrativo tutte le domande di risarcimento del danno rientranti nell'ambito della propria giurisdizione, è da intendersi tanto di legittimità, quanto esclusiva, quanto di merito (ammesso che quest'ultima effettivamente compendi un tertium genus rispetto alle prime due).
"Senza fondamento", insiste l'Adunanza, gli appellanti avrebbero contestato questa opzione ermeneutica abbracciata dal Tar in prime cure; opzione sulla scorta della quale la domanda risarcitoria avanzata dalle parti private medesime è stata dichiarata inammissibile per non essere stata la stessa preceduta da una tempestiva richiesta di annullamento degli atti espropriativi, alla volta di una improbabile tutela "autonomamente risarcitoria".
Si tratta del passaggio "chiave" della decisione, l'Adunanza dichiarando expressis verbis di approvare, sotto il profilo giuridico, un decisum di prime cure che ha provveduto a dichiarare inammissibile una domanda risarcitoria autonomamente proposta in connessione con una fattispecie espropriativa, (deferita come tale alla giurisdizione esclusiva del g.a.) senza una previa, tempestiva impugnazione dell'atto illegittimo additato come elemento dal quale è poi gemmato il subito danno.
"E' all'evidenza insostenibile", prosegue il Collegio, che si predichi nell'ambito della giurisdizione esclusiva la inconfigurabilità di atti autoritativi "degradatori" (e, con essi, degli interessi legittimi che vi si giustappongono), sostenendo la sola isolabilità di situazioni giuridiche soggettive tutelabili "come un diritto soggettivo pieno"; proprio la VI Sezione anzi, in una sua recente decisione (n.426 del 2003), ha sostenuto come il fatto che ci si trovi al cospetto di una controversia affidata alla giurisdizione esclusiva del g.a. non implichi il relativo inesorabile vertere su di un diritto soggettivo, potendo l'iniziativa giurisdizionale essere intesa, all'opposto, a salvaguardare un interesse legittimo.
In questa ultima evenienza, puntualizza il Supremo Consesso Amministrativo plaudendo al conforme decisum di prime cure:
a) i poteri del giudice amministrativo al quale si chiede tutela, ancorché in sede di giurisdizione esclusiva, non sono i medesimi spendibili nell'evenienza in cui si invochi protezione per un diritto soggettivo;
b) è necessario esperire una previa azione di annullamento onde poter ammissibilmente invocare il risarcimento del danno per lesione inferta al detto interesse;
c) l'eventuale azione risarcitoria autonomamente intrapresa è destinata a gonfiare la non modesta schiera di decisioni di inammissibilità dei ricorsi giurisdizionali innanzi al Tar.
Né potrebbe, precisa il Collegio stigmatizzando le difese degli appellanti privati espropriati, sostenersi - come pure quelli avevano fatto, peraltro solo nella memoria conclusiva innanzi alla Plenaria - che ci si trovi nel caso di specie dinanzi ad un mero comportamento illecito dell'Amministrazione (commissivo ed omissivo nel senso precisato in punto di fatto: esecuzione di una dichiarazione di p.u. regionale illegittima e mancata adozione di un provvedimento di autotutela comunale capace di elidere la solo successiva fissazione da parte dell'Amministrazione municipale dei termini concernenti i "lavori", in un primo momento caduti nell'oblio assessoriale).
A ragionare in tal modo, non vi sarebbe episodio amministrativo, nel contesto della giurisdizione esclusiva come di quella di legittimità, non riconducibile ad un surrettizio "comportamento" della p.a., sub specie attizia; il vero è che dinanzi a provvedimenti autoritativi si configurano interessi legittimi anche se il potere giurisdizionale del g.a. si connota in senso "esclusivo", con conseguente necessità del previo attacco ed annullamento in sede demolitoria dell'atto illegittimo dannoso onde, successivamente, spiccare azione risarcitoria "conseguente".
Viene quindi "cassata" dall'Adunanza l'ipotesi del possibile difetto di giurisdizione del giudice amministrativo in materia di risarcimento del danno espropriativo - ventilata solo in memoria finale dagli appellanti, peraltro con l'apparente consenso della controparte pubblica - sulla scorta della asserita non riconducibilità della materia degli espropri a quella dell'urbanistica scolpita nell'art.34 del decreto legislativo 80.98.
E' sufficiente al Collegio ben interpretare la decisione della IV Sezione n.3819 del 2002, richiamata dagli appellanti medesimi a suffragio della ridetta opzione ermeneutica pro-AGO, rammentando come la stessa abbia effettivamente attribuito al giudice ordinario la potestas iudicandi, ma con riferimento al solo caso di occupazione dei terreni privati operata in assoluto difetto di una dichiarazione di pubblica utilità (sine titulo), e non già in presenza di una dichiarazione pur sussistente, e nondimeno viziata per mancata indicazione dei termini di cui all'art.13 della legge 2359 del 1865.
Trascorrendo alfine dalle pur emblematiche enunciazioni di principio alla fattispecie concreta sottoposta al relativo scandaglio, l'Adunanza afferma come incontestato tra le parti il pieno rispetto dal parte della p.a. espropriante tanto dei termini - fissati dall'Assessorato e successivamente confermati dalla giunta municipale peloritana - per le ablazioni quanto di quelli - "dimenticati" dall'Assessorato e "ripescati" dal Comune - concernenti l'inizio e l'ultimazione dei lavori di realizzazione dell'opus sportivo.
E' proprio dalla deliberazione giuntale di fissazione dei termini sui lavori datata 31 maggio 1996, tardivamente impugnata con separato ricorso dagli appellanti, che il Supremo Consesso prende le mosse per affermare - nella sostanza - come la ventilata incompetenza in capo all'Amministrazione municipale non avrebbe potuto che ridondare in illegittimità - annullabilità, e non già in radicale nullità, della ridetta delibera.
I privati espropriati avrebbero allora dovuto, pregiudizialmente rispetto alla domanda di risarcimento del danno, impugnare tosto (nei noti termini di decadenza) la delibera comunale tacciata di incompetenza, e ciò "..secondo un consolidato indirizzo" del Consiglio che l'Adunanza dichiara esplicitamente di ribadire, ".riconoscendone la fondatezza per la sua piena aderenza alla ratio della riforma, culminata con la legge 205 del 2000." con la quale il legislatore ha attribuito, non a caso, al g.a. la cognizione "anche sul risarcimento del danno", senza alcuna distinzione tra giurisdizione di legittimità e giurisdizione esclusiva.
Il conforto alla ridetta presa di posizione viene ritratto da due recenti decisioni a Sezioni semplici, una della IV (n.952 del 2002) e l'altra, più recente, della VI (n.3338 del 2002), stando alle quali essendo stata ".concentrata presso il giudice amministrativo la tutela impugnatoria dell'atto illegittimo e quella risarcitoria." che significativamente l'Adunanza definisce "conseguente", ".non è possibile l'accertamento incidentale da parte del giudice amministrativo della illegittimità dell'atto non impugnato nei termini decadenziali al solo fine di un giudizio risarcitorio.", onde, pur potendo l'azione risarcitoria essere proposta ".sia unitamente all'azione di annullamento che in via autonoma.", essa può predicarsi ammissibile solo a condizione ".che sia impugnato tempestivamente il provvedimento illegittimo e che sia coltivato con successo il relativo giudizio di annullamento.", non essendo consentito al g.a. ".di poter disapplicare atti amministrativi non regolamentari", ovverosia che non abbiano la normativa natura di regolamenti.
Operate queste dirompenti affermazioni, il Supremo Consesso riconosce ad abundantiam - stante in ogni caso l'intempestivo attacco sferrato alla relativa delibera - la competenza della Giunta Municipale palermitana a disporre, integrando la precedente determinazione assessoriale, i termini di inizio ed ultimazione lavori, compendiando il Comune in questione l'ente destinatario del progetto finanziato in sede regionale.
Del resto, prosegue il Collegio, una volta avuta contezza nel corso dell'udienza del 5 giugno 2001 - e per bocca dell'Avvocatura comunale - del provvedimento, fino ad allora asseritamente sconosciuto, con il quale a suo tempo (31 maggio 1996) la Giunta palermitana aveva fissato i ben noti termini afferenti ai lavori, la difesa degli appellanti avrebbe dovuto - previa richiesta di un termine all'uopo - impugnare tempestivamente il detto provvedimento avvalendosi dei motivi aggiunti, siccome previsti dall'art.21 comma 1° della legge 1034.71 novellato dalla legge n.205.00.
Ed invero, puntualizza significativamente l'Adunanza, possono essere attaccati attraverso il semplificatorio strumento dei motivi aggiunti non già solo i provvedimenti ulteriori adottati, in pendenza di un ricorso, tra dall'Amministrazione e concernenti le medesime parti (pubblica e privata), ma anche quelli che, ferma la ridetta connessione soggettiva e oggettiva, appartengano al passato ma siano stati conosciuti dalla parte interessata ad attaccarli (quella privata) nel corso del giudizio.
Il fatto che l'impugnativa della delibera del 1996 sia stata spiccata dai privati espropriati, ancorché (a quanto pare) nei termini rispetto alla intervenuta conoscenza sopravvenuta, in separato ed autonomo giudizio innanzi al Tar Palermo piuttosto che avvalendosi dei motivi aggiunti appare pertanto al Collegio circostanza capace di escludere l'ammissibilità dell'azione risarcitoria intentata in un processo (quello originario) che è e resta comunque diverso da quello nell'economia del quale si è provveduto ad attaccare (in via successiva e peraltro sotto il mero e formale profilo dell'incompetenza) il provvedimento assunto come lesivo, quale che potrà essere l'esito di questo ulteriore ed autonomo giudizio demolitorio.
Non resta, al Collegio, che incorniciare la manifesta infondatezza della questione di costituzionalità sollevata dalle parti private ed appuntantesi sull'art.45 comma 18° del decreto legislativo 80.98, laddove non sono state escluse dal trasferimento alla cognizione del g.a. - similmente a quanto è accaduto, alla stregua del precedente comma 17° ed in materia di ex "pubblico impiego" trasferito al g.o., per le questioni afferenti al rapporto di lavoro anteriori al 30 giugno 1998 - tutte quelle controversie pur intentate dopo l'entrata in vigore del ridetto decreto legislativo, e tuttavia concernenti diritti soggettivi lesi da procedure espropriative anteriormente alla operatività precettiva (data di entrata in vigore) in parola (appunto, il 30 giugno 1998).
In realtà, precisa l'Adunanza, al di là della sostanziale genericità con la quale si è censurata la potenziale frizione della norma denunciata con gli articoli 24, 113 e 42 Cost., gli appellanti parrebbero avere inteso più correttamente orientare l'attenzione del Supremo Consesso prima, e del Giudice delle Leggi poi, verso una presunta irragionevole disparità di trattamento e connessa violazione dell'art.3 comma 1° Cost tra il "trapasso" del pubblico impiego dal g.o. al g.a., legato al momento in cui la questione controversa è sorta, e quello dell'urbanistica, esproprio, servizi pubblici e relative questioni risarcitorie - all'opposto - dal g.o. al g.a., legato al momento di concreta instaurazione della controversia.
Si è trattato peraltro, conclude l'Adunanza di una scelta discrezionale del legislatore, come tale incensurabile, avendo il medesimo ritenuto - solo con riferimento al c.d. "pubblico impiego" privatizzato (e non anche in relazione alle materie ex novo attribuite alla giurisdizione esclusiva del g.a., ivi compresa quella risarcitoria) - di derogare all'art.5 del cpc sulla c.d. perpetuatio jurisdictionis, ricollegando il passaggio delle consegne dal g.a. al g.o. non già al momento di primigenia instaurazione del giudizio, quanto piuttosto a quello di concreto radicarsi della causa petendi, necessariamente posteriore al 30 giugno 1998 anche al fine di gettare un salvagente all'AGO, prevedibilmente a rischio di annegamento tra i flutti del contenzioso lavoristico pubblico neoattribuitogli.
3.- Spunti di riflessione.
Dinanzi a questa "storica" pronuncia, a lungo attesa da chi - indefesso pellegrino - percorre i difficili sentieri del diritto amministrativo sostanziale e processuale, gemmano spontanee (e salvo approfondimenti) considerazioni "a caldo" di carattere storicistico, quasi ci si trovasse al cospetto di una sorta di chiusura di ciclo o, il che è lo stesso, di quadratura del cerchio.
Viene voglia allora di rammentare come la disapplicazione ed il risarcimento del danno, quantomeno innanzi all'AGO, siano sempre stati "mezzi parenti".
Con l'avvento della legge abolitrice del contenzioso amministrativo - siamo all'indomani della nota svolta "liberale" di cui alla legge 2248 del 1865 all.E - il g.o. può solo disapplicare l'atto amministrativo. E in un primo momento lo fa sovente, accoppiando al tamquam non esset del provvedimento pronunce risarcitorie a favore del privato che ne abbia invocato la tutela (l'unica ammissibile a quei tempi).
Viene poi l'epoca dei rimorsi; impossibile continuare a dire che l'atto è come se non ci fosse, erogando il ristoro del danno, senza smentire al tempo stesso lo stesso concetto di Amministrazione come quid ontologicamente diverso rispetto alla giurisdizione. Montesquieu fa scuola, ed il g.o. prende ad arretrare dinanzi al provvedimento amministrativo dannoso, utilizzando l'unico strumento a sua disposizione, il "diniego di risarcimento".
Di qui le note preoccupazioni "spaventiane" sulla scarsa tutela garantita alla sempre più ampia sfera degli "affari non compresi" (art.3), il cui perimetro si allarga pericolosamente a tutto svantaggio dei più nobili "diritti" (art.2), presidiati da una tutela risarcitoria via via palesantesi come meramente formale.
La storia nota che segue è la nascita del Consiglio di Stato e la sua successiva (e, in un primo momento, faticosa) attestazione nel novero delle giurisdizioni, quale garante degli "interessi", giustapposti ai c.d. diritti. Dopo mille disavventure, si giunge al 1949, quando le Sezioni Unite, Supremo giudice della giurisdizione, affermano che la carenza di potere implica diritti soggettivi e potere disapplicatorio del g.o., mentre l'illegittimo esercizio della potestà va associato ad interessi legittimi e potere demolitorio del g.a. medesimo, fatti salvi i casi (allora parvi) di giurisdizione esclusiva.
In questa mutata prospettiva difatti, ce lo hanno insegnato i più illustri tra i processualamministrativisti, se il g.o. potesse continuare a disapplicare nei medesimi termini in cui faceva ante-1889, la stessa impalcatura diadica delle giurisdizione dovrebbe conseguentemente assumersi in discussione, se non proprio scardinata.
Ecco allora che il g.o. può disapplicare laddove vesta la "divisa" penale, o nel caso di mere liti tra privati "interessate" da atti amministativi, ovvero ancora al cospetto dell'esercizio ex parte publica di un potere non conferitole dalla legge (carenza di potere in astratto); diversamente opinando, e ventilando un potere disapplicativo generale ai sensi dei pur vigenti articoli 4 e 5 della vecchia legge unitaria, con contestuale risarcimento del danno, quand'anche in presenza di atti meramente "illegittimi" (seppure fondati su un potere legalmente attribuito all'Amministrazione), si finirebbe col negare quella stessa giurisdizione del g.a. a lungo invocata dai giuristi di fine XIX secolo ed alfine introdotta nel sistema.
In sostanza, il g.o. non disapplica (e non risarcisce) in presenza di atti illegittimi-annullabili (a differenza di quanto accade al cospetto di atti illeciti-nulli per carenza di potere) semplicemente perché non ha il potere giurisdizionale che lo autorizza a farlo, appartenendo il detto potere al giudice amministrativo.
E quest'ultimo ? Lui disapplica ?
Giammai potrebbe. Consentire al g.a. di disapplicare un provvedimento illegittimo e risarcire coevamente il danno comporterebbe vanificare la sussistenza dei ben noti termini di impugnativa del provvedimento, cristallizzati dapprima nell'art.28 del t.u.n.638 del 1907, poi nell'art.12 del r.d. 2840 del 1923, quindi nell'art.36 del t.u. 1054 del 1924 e, infine, nell'art.21 della legge 1034.71.
Certo, un discorso particolare va fatto per la giurisdizione esclusiva; potendosi configurare tanto diritti quanto interessi, il problema che - specie in materia di pubblico impiego - il legislatore ha ritenuto di risolvere "facendolo uscire dalla porta" dell'attribuzione ad un unico giudice (per l'appunto, quello amministrativo) di tutte le controversie afferenti ad una certa "materia", "rientra dalla finestra" dei concreti poteri del g.a.: al cospetto di interessi legittimi lo stesso soffrirà i medesimi limiti disapplicativi di cui alla giurisdizione di legittimità, dovendo il ricorrente privato necessariamente impugnare il provvedimento nei termini di legge invocandone la demolizione; dinanzi a diritti soggettivi la carenza di potere, a rigore, potrebbe giustificare la disapplicazione anche del Tar (e del Consiglio di Stato), salvo poi vedere che debba realmente intendersi per "carenza di potere" (solo in astratto ? Anche in concreto?).
E sì perché a lungo - come non manca di rammentare la dotta pronuncia in chiosa - se per Piazza Cavour, giudice della giurisdizione, la p.a. è da ritenersi carente di potere non già solo quando nessuna norma di legge le attribuisca il detto potere, ma anche allorché la stessa venga, anche in via sopravvenuta, a trovarsi in difetto di uno dei presupposti per il relativo esercizio (tipico proprio il caso della scadenza dei termini per espropri e lavori siccome fissati in sede di dichiarazione di pubblica utilità ex art.13 della legge 2359 del 1865); per la non lontana Piazza Capo di Ferro solo la prima ipotesi è realmente idonea a fondare il potere disapplicativo (e contestuale risarcitorio del giudice ordinario), mentre la seconda - c.d. carenza di potere in concreto - è più verosimilmente da ricondursi al binario della "illegittimità - demolibilità nei termini" del provvedimento o, detto altrimenti, alla giurisdizione del g.a.
E' questo lo stato dell'arte quando, nel corso degli anni 90'
- il g.a. amministrativo da un lato prende a disapplicare i regolamenti contrari alle leggi e, seppure timidamente, gli atti amministrativi (specie generali) contrari alle disposizioni sopranazionali;
- la Corte di Cassazione (e quindi il g.o. nella sua massima espressione) dall'altro decide che gli interessi legittimi anche pretensivi sono passibili di tutela risarcitoria delle relative, eventuali lesioni (sentenza n.500.99), potendo l'AGO risarcire disapplicando il provvedimento amministrativo "illegittimo" che, per parte sua, non costituisce automatica dimostrazione di colpa pubblica.
E' in specie quest'ultima affermazione a giganteggiare consentendo al g.o., adito all'uopo dal privato, di tornare in qualche modo, e per autorevolissima via pretoria, sulle medesime posizioni di potere detenute prima dell'avvento del Consiglio di Stato (1889), nel vigore della nota L.A.C.
Interviene allora il legislatore (che già nel 1998, in veste delegata, aveva ampliato la giurisdizione esclusiva del g.a., estendendola tra le altre alle materie dei servizi pubblici e dell'urbanistica, quest'ultima in qualche modo riferibile anche agli espropri, e devolvendo ad un tempo il vecchio "pubblico impiego" ormai privatizzato al g.o.); con la legge 205.00, viene sostituita la prima parte dell'art.7 comma 3° legge 1034.71, onde, con disposizione a detta dei più anodina, il Tar ".nell'ambito della sua giurisdizione, conosce anche di tutte le questioni relative all'eventuale risarcimento del danno, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, e agli altri diritti patrimoniali consequenziali".
Ecco allora il quadro che segue;
a) nelle materie in cui non sussiste né giurisdizione esclusiva del g.a., né giurisdizione esclusiva del g.o., occorre guardare al "faro" del '49, e verificare se v'è o meno carenza di potere (salvo poi constatare il noto contrasto tra il relativo atteggiarsi meramente "astratto", ovvero puntualmente "concreto"), con gli effetti disapplicativi e risarcitori summenzionati;
b) nelle materie di giurisdizione esclusiva attribuite al g.o. questi può disapplicare e risarcire;
c) nelle materie di giurisdizione esclusiva del g.a., ed in quelle nelle quali, sempre guardando al 1949, lo stesso ha giurisdizione di legittimità, vige il nuovo art.7 della legge Tar, tutto da interpretare in termini di possibile disapplicazione e risarcimento del danno anche a prescindere dalla tempestiva impugnazione dell'atto.
E' la nota questione della c.d. pregiudiziale amministrativa che l'Adunanza in epigrafe, sulla scorta del - per vero, difficilmente contestabile novello dato normativo - risolve escludendo in radice la possibilità per il g.a. di disapplicare un provvedimento autoritativo e "degradatorio", tanto in sede di giurisdizione esclusiva che di legittimità, allorché ci si trovi dinanzi ad interessi legittimi (e non già a diritti soggettivi, circostanza peraltro ventilabile solo con riferimento ai pur rilevantissimi casi di giurisdizione esclusiva).
Non si prende posizione qui sulla figura dell'interesse legittimo non tanto e non solo perché lo si è fatto in un lavoro di imminente pubblicazione ed al quale sia consentito sin d'ora rinviare ("Dall'interesse legittimo al diritto condizionato"), quanto piuttosto perché, a veder bene, il dato normativo appare inequivocabilmente sospingere l'interprete verso i più estremi (e coerenti) precipitati esegetici dell'opzione abbracciata dal Supremo Consesso Amministrativo, suggerendo la necessità di una previa impugnativa dell'atto amministrativo financo nel caso in cui, dinanzi al g.a., si faccia valere un diritto soggettivo fronteggiante una autentica carenza di potere; con conseguente elisione della stessa necessità di verificare se dell'una o dell'altra figura realmente si discorra nel singolo caso di specie.
Congiurano in questa direzione - a testimonianza della bontà ermeneutica che assiste l'iter motivazionale dell'Adunanza - quantomeno due emergenze che affiorano dal diritto positivo.
A) Se l'interpretazione letterale ha un senso, e lo ha - preponderante - almeno fino al permanere in vigore nel sistema dell'art.12 delle Preleggi, il Tar ed il Consiglio di Stato conoscono, nell'ambito della relativa giurisdizione, "anche" (è evidenziato in seno alla pronuncia chiosata) di tutte le questioni relative all'"eventuale" risarcimento del danno (pur in forma specifica), ed agli "altri" diritti patrimoniali consequenziali.
Altrimenti detto, in seno alla medesima giurisdizione esclusiva, ed al cospetto di un atto adottato in carenza di potere, "anche" il risarcimento del danno è garantito al privato (oltre, è evidente, all'annullamento del ridetto atto); un risarcimento che, peraltro, non è certo, ma meramente "eventuale", e rientra - quale species - nel genus dei diritti patrimoniali "consequenziali", come dimostra ancora la particella "altri".
B) Restano pur sempre in vigore, fino a diversa opzione parlamentare o governativa all'uopo:
- l'art.21 comma 1° della legge 1034.71 (sul punto non inciso dalla novella del 2000), "norma di procedura" (cfr il Titolo III della legge, che lo annovera) secondo il cui chiaro disposto, senza distinzioni tra giurisdizione di legittimità e giurisdizione esclusiva, "il ricorso deve essere notificato.all'organo che ha emesso l'atto impugnato..entro il termine di 60 giorni da quello in cui l'interessato ne abbia ricevuto la notifica o ne abbia comunque avuta piena conoscenza.";
- l'art.36 comma 1° del r.d. 1054.24 (anch'esso non coinvolto nella recente riforma), seconda (dopo l'art.35) delle disposizioni dedicate al "procedimento innanzi al Consiglio di Stato" (cfr.il Titolo III, capo II del provvedimento in parola) onde, anche in questo caso senza distinzioni tra le ipotesi di giurisdizione esclusiva o di "mera legittimità", "fuori dei casi nei quali i termini siano fissati dalle leggi speciali, relative alla materia del ricorso, il termine per ricorrere al Consiglio di Stato in sede giurisdizionale è di giorni 60 dalla data in cui la decisione amministrativa sia stata notificata..o dalla data in cui risulti che l'interessato ne ha avuta piena cognizione".
Piaccia o no il dato normativo menzionato, nel relativo combinarsi, depone nell'unico senso esegetico possibile, ribadito (e non poteva del resto essere altrimenti) dalla Plenaria con la pronuncia in epigrafe: quando il soggetto chiamato ad erogare tutela, anche risarcitoria, è il giudice amministrativo, e c'è di mezzo un atto adottato dall'Amministrazione - in presenza o in carenza di potere, coinvolgente diritti o interessi (ammesso che tale distinzione abbia ancora il noto senso) - il ridetto provvedimento va impugnato nei termini, potendosi eventualmente (ed al più) ammettere un'azione risarcitoria autonoma solo successivamente a tale tempestivo gravame.
Nel diverso caso in cui il provvedimento lesivo sia stato conosciuto a posteriori rispetto alla spiccata azione risarcitoria, dovrà poi essere tosto attivato lo strumento dei motivi aggiunti nel medesimo processo, stante la accessorietà ("anche"), la eventualità e la consequenzialità della tutela risarcitoria rispetto a quella demolitoria.
Assodato ormai come solo un intervento ex professo del legislatore, non registratosi in occasione della nota "miniriforma" del 2000, potrebbe definitivamente sganciare l'azione risarcitoria dalla previa, tempestiva azione demolitoria "rivisitando" gli articoli 21 della legge TAR e 36 del t.u. sul CDS, oltrechè rimettendo mano all'art.7 della ridetta legge 1034.71, resta da vedere quale ruolo residui in capo alle Sezioni unite della Cassazione, che tale disancoramento avevano autorevolmente ventilato in via pretoria con la celebre pronuncia n.500 del 1999, dando l'abbrivio alla girandola delle novità sul punto.
Quelle Sezioni Unite che a tutt'oggi (e sin dal 1877) compendiano il c.d. giudice "dei conflitti" (ovvero della giurisdizione), ed alle cui pronunce "regolatorie" della potestas iudicandi il Consiglio di Stato non potrebbe comunque abdicare, come ha recentemente rammentato il Presidente De Roberto nel noto discorso del 14 marzo 2003 sullo stato della giustizia amministrativa innanzi alle più alte cariche dello Stato.
Orbene alla Corte residua primariamente, sulla scorta del dato positivo di riferimento nelle attuali coordinate spazio-temporali, delimitare i confini delle materie di giurisdizione esclusiva, tanto del giudice ordinario quanto di quello amministrativo, restando pur sempre fermo che, una volta deciso che è quest'ultimo a dover dipanare le controversie afferenti ad una data materia (siccome individuata dalla Corte regolatrice), per invocarne il risarcimento del danno non potrà che provvedersi alla tempestiva impugnazione degli atti e provvedimenti coinvolti nel "problema amministrativo" di volta in volta considerato.
Residua, ancora, laddove non si riscontri la "esclusività"della potestas iudicandi in capo all'uno o all'altro giudice, stabilire a chi dei due (g.a. o g.o.) spetti sciogliere la singola vertenza, verosimilmente sulla scorta del collaudato criterio del c.d. petitum sostanziale (in sostanza, la causa petendi).
In queste ipotesi, sarà con ogni probabilità il doppio binario "carenza - illegittimo esercizio" del potere a guidare la Suprema Corte nell'opera di identificazione del giudice competente che, ove compendiantesi nel g.o., autorizzerà una disapplicazione dell'atto pur in difetto di una previa, tempestiva impugnazione del medesimo.
Ove, all'opposto, venga additato il g.a. quale concreto titolare della potestas iudicandi, scatteranno le disposizioni di legge sopra menzionate "imponenti" il previo attacco demolitorio, nei termini decadenziali, del provvedimento, quale domanda principale rispetto a quella, "accessoria", di risarcimento del danno.
Una situazione che non dovrebbe far poi luogo a troppi inconvenienti, non già solo per i precipitati di certezza giuridica che ne discendono, mai poco commendevoli - mette conto rammentarlo - in presenza di un interesse pubblico comunque da perseguire (pur senza pretermettere, in termini di salvaguardia, quello privato concomitante); ma anche perché, per riprendere ancora le recenti parole del Presidente del Consiglio di Stato, non consta che nel corso dei decenni l'Istituto, e con esso la giustizia amministrativa tutta - pur nella indubbia esiguità/originalità delle tecniche di tutela adottate - abbiano mal svolto il ruolo, legislativamente tributatogli, di garanti delle posizioni giuridiche soggettive affidate alla relativa cura giurisdizionale.
Non sarà, insomma, il neoacquisito potere risarcitorio a scalfire - semmai, anzi implementandola - questa inveterata vocazione tuzioristica.
PREMESSO IN FATTO
1- I signori Luciano Giuseppina e Francesca Bruno proponevano con atto notificato il 3-11-2000 ricorso al TAR della Sicilia contro il Comune di Palermo e l'Assessorato regionale del turismo, comunicazione e trasporti per ottenere la loro condanna al pagamento dei danni conseguenti alla occupazione senza titolo degli immobili di loro proprietà siti in Palermo, destinati alla realizzazione di una palestra polifunzionale.
Deducevano i ricorrenti che detti immobili erano stati recentemente interessati ad una procedura espropriativa finalizzata alla realizzazione da parte del Comune di Palermo di una palestra polifunzionale in località Uditore dello stesso Comune, esperita in carenza di potere in conseguenza della mancata fissazione dei termini di inizio e fine dei lavori in sede di dichiarazione di pubblica utilità dell'opera pronunciata dall'Assessorato regionale turismo, comunicazione e trasporti n. 297 del 4-5-96, con conseguente irreversibile trasformazione delle aree di loro proprietà.
2- L'Amministrazione comunale deduceva l'infondatezza del gravame, rilevando che i termini di cui all'art. 13 della legge n. 2359 del 1865 d'inizio e conclusione delle espropriazioni e dei lavori erano stati fissati con deliberazione della giunta municipale n. 1344 del 31-5-1996 e che l'istanza di sospensione proposta avverso gli atti relativi alla dichiarazione di p.u. e all'occupazione di urgenza era stata, a suo tempo respinta dallo stesso tribunale.
3- Il TAR con sentenza depositata in data 11 ottobre 2001, affermata la sua giurisdizione a conoscere la controversia, in conseguenza dell'ampliamento nell'ambito della giurisdizione amministrativa operata dagli artt. 33,34 e 35 del D.Lgs. n. 80 del 1998, così come modificati dall'art. 7 della legge 205 del 2000, rilevava che la controversia introdotta dai ricorrenti era in realtà finalizzata non già alla rimozione degli atti della procedura espropriativa, al fine di conseguire la restituzione delle aree loro sottratte, ma unicamente al conseguimento del risarcimento del danno che i ricorrenti avrebbero subito per effetto della irreversibile trasformazione dell'area, che rendeva impossibile la restituzione.
Il Collegio riteneva però la domanda risarcitoria inammissibile in quanto, pur movendo dal presupposto logico-giuridico dell'asserita illegittimità della procedura espropriativa svolta dall'amministrazione intimata prescindeva dalla sua impugnazione e conseguente richiesta di annullamento degli atti relativi.
Il tribunale riteneva di non poter condividere il presupposto logico-giuridico dal quale prendeva le mosse la giurisprudenza della Corte di Cassazione, invocata dai ricorrenti, secondo cui il provvedimento amministrativo di espropriazione affetto da vizi di rilevante gravità derivanti da una illegittima dichiarazione di p.u non poteva incidere degradatoriamente sul diritto di proprietà del privato, sussistendo anche in tal caso carenza di potere espropriativo, riscontrabile quando manca o sia stata annullata la dichiarazione di pubblica utilità. Sosteneva infatti quel collegio, richiamando la giurisprudenza del giudice amministrativo, che la sussistenza, come nel caso al suo esame, di un iter procedimentale espropriativo completo determinava l'effetto ablativo del diritto di proprietà del privato che poteva trovare piena tutela attraverso i rimedi previsti nell'ordinamento della giustizia amministrativa di legittimità, con la conseguenza che ove questo rimedio non fosse stato esperito utilmente o completamente (con la rimozione dei provvedimenti lesivi) il privato non era titolare di alcuna posizione soggettiva risarcibile.
Il Tribunale osservava inoltre, in via generale, oltre la "vicenda" espropriativa, che tutte le norme che hanno condotto all'ampliamento della giurisdizione amministrativa con l'attribuzione della tutela risarcitoria, sembrano confermare la tradizionale opinione, secondo la quale la tematica del risarcimento del danno ingiusto è ricompresa nel novero dei diritti patrimoniali consequenziali ai quali si attribuisce la caratteristica di discendere, quale conseguenza ulteriore, dall'illegittimità dell'atto accertata dal giudice amministrativo. Il Tribunale, richiamata a sostegno della sua tesi la decisione di questo Consiglio (Sez. IV) n. 1684 del 22-3-2001, dichiarava pertanto inammissibile il ricorso.
4- Contro questa sentenza i ricorrenti hanno proposto appello davanti al Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione Siciliana in s.g. con atto notificato il 4 febbraio 2002.
Gli appellanti, richiamata la situazione di fatto dei beni espropriati, già esposta in primo grado, continuano a sostenere che la dichiarazione di p.u. relativa ai loro beni pronunciata dall'Assessorato regionale al turismo etc. della Regione Siciliana in data 5 maggio 1966 n. 297, pur recando i termini in cui dovevano essere iniziate e completate le espropriazioni, non recava quelli per l'inizio e la fine dei lavori, in violazione dell'art. 13 della legge 2359/1865 e che in siffatta ipotesi il giudice ordinario aveva costantemente ritenuto essere la procedura espropriativa assunta in carenza di potere, illegittima sin dall'origine, del tutto inesistente e non idonea a degradare il diritto dominicale. Con la conseguenza che il proprietario del bene inciso, secondo la costante giurisprudenza della Cassazione, non aveva interesse a fare annullare l'atto amministrativo invalido in quanto poteva adire direttamente il Giudice ordinario per chiedere ed ottenere la tutela risarcitoria.
Tuttavia, atteso che con l'entrata in vigore dell'art. 34 del D.Lgsvo 80/1998, come sostituito dall'art. 7 per t. 8 della legge 205 del 21 luglio 2000, tutta la materia urbanistica, in cui ricadeva anche l'espropriazione "de quo", era stata attribuita alla giurisdizione esclusiva del g.a., gli appellanti per ottenere il risarcimento del danno si erano rivolti in conseguenza al TAR competente per territorio, affinché lo stesso prendesse in esame e facesse propria la giurisprudenza della suprema magistratura ordinaria, ma inutilmente.
La sentenza però, essi sostengono, è errata e deve essere integralmente riformata.
5- A sostegno del gravame sono stati dedotti i seguenti motivi:
- Violazione dell'art. 5 della legge 20 marzo 1865 all E-;
Osservano gli appellanti, riepilogando la giurisprudenza civile in argomento, in parte richiamata in primo grado e da ultimo la sentenza delle Sez. Unite della Cassazione n. 460 del 19-7-99, che il TAR ha errato nel non tener conto della circostanza rilevante secondo cui "con la unificazione della giurisdizione in materia sono state a lui trasferite anche le decisioni dei processi che attengono ai diritti e che nella decisione di tali processi dovrà tener conto anche dei principi giurisprudenziali che erano stati posti a base delle decisioni del G.O.".
In particolare, essi soggiungono che essendo pacifico che nelle procedure che si ritenevano affette da carenze di potere espropriativo prima dell'entrata in vigore della nuova normativa, per la richiamata giurisprudenza, "non vi era alcun interesse da parte del proprietario inciso ad impugnare gli atti della procedura stessa, tale attività si configurava come un di più, anzi come spreco di attività giudiziaria, potendosi perseguire lo stesso risultato con una sola azione da portarsi avanti al G.O.".
La sentenza del TAR era perciò errata e doveva essere riformata, in quanto avrebbe dovuto prendere in considerazione principi diversi da quelli che hanno regolato e sono stati posti a base dei giudizi di esclusiva natura amministrativa. Se invece il giudice d'appello dovesse confermare la decisione del TAR, poiché gli appellanti verrebbero a trovarsi senza tutela, si configurerebbero palesi violazioni dei principi sanciti negli artt. 3-24-113 e 42 della Costituzione.
Gli appellanti concludevano per l'accoglimento dell'appello, con la condanna del comune di Palermo e dell'assessorato al Turismo comunicazione e trasporti, in via solidale al pagamento dei danni patiti dai ricorrenti, per effetto della perdita delle loro aree, della somma di £. 850.000.000 oltre gli interessi e alla rivalutazione monetaria, nonché al pagamento dei danni per la occupazione "sine titulo" delle aree di loro proprietà e per il diminuito reddito dei capannoni, da quantificarsi in misura pari agli interessi legali sulle somme da quantificare per la perdita delle aree e per il pregiudizio arrecato ai restanti immobili.
In via subordinata, ove dovesse essere riconosciuto prefissato un termine implicito di pubblica utilità connesso all'art. 1 L.r n. 35 del 1978, richiamato nell'ordinanza di occupazione temporanea, o connesso ad altra legge, si è chiesto che il giudice adito voglia disapplicare l'ordinanza di occupazione temporanea per la parte in cui travalica quella della pubblica utilità implicita.
Ammettere la consulenza tecnica e la prova per testi chiesta nel giudizio di 1° grado.
In caso di mancato accoglimento dei suddetti motivi di appello, si è chiesto di ritenere non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale per non avere il legislatore con la legge n.80 del 1998 previsto e regolamentata in via transitoria la gestione e la decisione di quelle procedure espropriative i cui provvedimenti venivano dal G.O. competente per materia, prima dell'entrata in vigore della legge, ritenuti emanati in carenza di potere espropriativo e disapplicati.
6- Il Comune di Palermo resiste all'appello e con memoria del 5 aprile 2002. Dopo aver richiamato tutti gli atti della procedura espropriativa e tra questi (in particolare) la deliberazione della G.M. n. 1344 del 31-5-1996 con la quale veniva approvato il progetto, già approvato e finanziato con il decreto dell'Assessore regionale al turismo n. 297 del 4-5-1996 di cui si confermavano i termini per le espropriazioni e si fissavano ex novo i termini per inizio e fine dei lavori, osserva che il ricorso è infondato in fatto e in diritto, richiamando la giurisprudenza del giudice amministrativo.
Si fa presente, in particolare, che gli appellanti, con separato ricorso notificato ad esso Comune il 18-9-2001 avevano impugnato la menzionata delibera comunale del 31-5-1996 di fissazione di tutti i termini di legge chiedendone l'annullamento, ma l'avevano fatto tardivamente il 18-9-2001, ond'è che la sentenza del TAR deve essere confermata anche con riferimento alla mancanza dell'ordinaria diligenza degli appellanti, evidenziata a pagina 10 della sentenza impugnata. In ogni caso l'appello andava respinto nel merito non sussistendo la presunta carenza di potere espropriativo in ordine alla mancata indicazione dei termini di inizio e fine dei lavori, essendo questi indicati nella deliberazione della Giunta Municipale del 31-5-1996. Né, si soggiungeva, alcuno dei termini finali indicati in detta deliberazione era scaduto prima del compimento dell'espropriazione.
Concludeva il Comune per il rigetto delle domande tutte formulate da parte avversa e delle richieste relative accessorie e, in particolare, quella di C.T.U. stante l'ininfluenza ai fini della decisione del gravame. In subordine chiedeva di ritenere e dichiarare che, in caso di condanna dell'Amministrazione comunale al pagamento del risarcimento del danno, l'Assessorato regionale turismo e comunicazione e trasporti doveva rivalere e garantire il Comune di Palermo delle somme tutte scaturenti dalla emananda sentenza di condanna.
7- Il Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana in sede giurisdizionale, richiamati gli atti, con ordinanza in data 11 giugno 2002, sospesa ogni decisione sull'appello al suo esame, ha disposto la remissione degli atti all'Adunanza Plenaria delle sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato.
Il giudice remittente, dopo avere esordito con l'affermare che la questione sottoposta al suo esame involge uno storico contrasto giurisprudenziale tra il Consiglio di Stato e la Corte di Cassazione, la cui soluzione, per effetto del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 80, è oggi affidata al giudice amministrativo in sede di giurisdizione esclusiva, osserva di avere già affrontato lo specifico problema con l'ordinanza 15 novembre 2001 n. 588 che rimetteva all'Adunanza Plenaria una serie di problematiche, che hanno dato luogo ad un contrasto di interpretazioni. E tra queste, il dubbio se sia possibile chiedere il risarcimento del danno indipendentemente dall'impugnativa (dell'annullamento) dei provvedimenti dalla cui esecuzione esso deriva. Si precisa che l'affare già rimesso riguardava parimenti una procedura espropriativa, e che nella citata ordinanza si era resa esplicita la propensione di quel collegio, condivisa anche da quello attualmente remittente, nel senso che la omessa o tardiva impugnazione degli atti lesivi non consente di svolgere la pretesa risarcitoria.
8- Gli appellanti Signori Bruno hanno prodotto una memoria di costituzione davanti a questa Adunanza Plenaria in data 24 luglio 2002 e, riprospettando tutte le richieste formulate con l'atto di appello, hanno specificato in particolare le proposte questioni di costituzionalità nel modo seguente:
- ritenere non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale del D.Lgs. 31 marzo 1998 e della L. 21 luglio 2000, n. 205, per contrasto con gli artt. 24, 113 e 42 della Costituzione, per non essere stata regolata in via transitoria la sorte di quelle procedure espropriative i cui provvedimenti venivano dal G.O. competente per materia, ritenute prima dell'entrata in vigore delle predette leggi, emesse in carenza di potere espropriativo e disapplicate, nonché per violazione degli artt. 3, 24 e 42 Cost., perché il medesimo diritto che trovava piena ed effettiva tutela innanzi al G.O., per effetto delle suddette norme, rimarrebbe totalmente privo di tutela giurisdizionale.
Gli stessi appellanti hanno presentato per l'odierna udienza una diffusa memoria con la quale, rilevato che l'ordinanza di rimessione all'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 588 del 2001, richiamata dal C.G.A. a fondamento di quella in esame è relativa ad una fattispecie del tutto diversa, ribadiscono, ancora una volta, che nella loro prospettazione si postula non un giudizio di accertamento dell'illegittimità degli atti della procedura espropriativa, sia pure in via incidentale, bensì un giudizio di accertamento da parte del G.A. della carenza di potere espropriativo, stante che la dichiarazione di p.u. non indicava i termini finali dei lavori ai sensi dell'art. 13 della L. n. 2359 del 1865.
9- Le ragioni svolte e sviluppate sempre dagli appellanti, -data per richiamata la giurisprudenza del giudice ordinario, prima della devoluzione al giudice amministrativo del risarcimento del danno in ordine alle occupazioni dei beni dei privati in carenza di potere espropriativo- così si possono sintetizzare:
- in primo luogo, le controversie aventi ad oggetto richieste di risarcimento dei danni che si assumono cagionati da comportamenti illeciti dell'Amministrazione in ordine all'uso del territorio che abbiano determinato la c.d. occupazione appropriativa o usurpativa non rientrano, come sostenuto dal TAR e dallo stesso C.G.A. sia nella giurisdizione esclusiva ai sensi dell'art. 34 del D.Lgs. n. 80 del 1998 che in quella di legittimità ai sensi dell'art. 23 bis della L. n. 1034, così come introdotto dall'art. 4 della legge 205, ma solo nella giurisdizione esclusiva di cui all'art. 34 del D.Lgs. n. 80 del 1998, ragione per cui il diritto al risarcimento del danno non può essere ragionevolmente ricondotto alla nozione di diritto patrimoniale consequenziale, visto che detta norma ha individuato tra le controversie rientranti nella giurisdizione esclusiva del G.A. sia "i provvedimenti che i comportamenti". Dal che, pertanto, conseguirebbe che l'annullamento degli atti espropriativi non condizionano la possibilità di chiedere al G.A. autonomamente il risarcimento del danno derivante da occupazione dei beni in carenza di potere espropriativo, come già avveniva davanti al G.O.. Sostiene in proposito la difesa degli appellanti - per la prima volta in questa sede - che nella fattispecie in esame l'operato dell'Amministrazione è riconducibile ad un comportamento sia commissivo (esecuzione di un provvedimento illegittimo) che omissivo (mancato intervento in via di autotutela).
E ciò deriverebbe dal fatto che con la deliberazione della G.M. n. 1343 del 31-5-1996, il Comune di Palermo, resosi conto della illegittima omissione dei termini fissati dei lavori nel decreto assessoriale di finanziamento e approvazione del progetto, in evidente difetto di competenza e pur in presenza di un orientamento giurisprudenziale contrario ben consolidato, fissava i predetti termini finali dei lavori.
Da ciò deducono, dopo avere affermato che avverso la predetta delibera gli interessati hanno proposto ricorso al TAR Sicilia di Palermo, a tutt'oggi pendente, che sia il Comune che l'Assessorato avrebbero dovuto procedere in autotutela, "attraverso attività di sollecitazione l'uno presso l'autorità competente, e provvedendo quest'ultima all'annullamento dell'atto".
10- In secondo luogo, così modificandosi l'ordine di prospettazione originario, si rileva che se dovesse ritenersi che il diritto al risarcimento del danno in materia espropriativa sia soltanto un diritto consequenziale, nella presente fattispecie il G.A., contrariamente al suo indirizzo, dovrebbe ritenere sussistente la carenza dello stesso potere espropriativo e non soltanto il suo cattivo esercizio.
Si soggiunge poi che ove il giudizio pendente avverso la deliberazione della G.M. 1344 del 1996 si dovesse concludere, come appare verosimile con una sentenza di accoglimento, rimarrebbe comunque accertata in quella sede la illegittimità insanabile del decreto assessoriale n. 297/96, al quale è riconnessa la dichiarazione di p.u. .
Si è richiamata poi, sul piano di un'alternativa linea di difesa (giurisdizione del giudice ordinario e non del giudice amministrativo) la recente decisione della Sezione IV di questo Consiglio n. 3819 del 9 luglio 2002 per sostenere che, attagliandosi quella statuizione alla fattispecie in esame, di conseguenza dovrebbe "affermarsi la giurisdizione del G:O.".
E' stata inoltre riproposta la questione di costituzionalità già prospettata secondo cui, trattandosi di procedura espropriativa perfezionatasi, quanto alla dichiarazione di p.u. ed al decreto di occupazione di urgenza, anteriormente alla data di entrata in vigore del D.Lgs. n. 80/98, "non era predicabile all'interessato l'onere di impugnare gli atti entro il termine perentorio di decadenza".
Infine si è sollevata gradatamente un'altra eccezione di incostituzionalità dell'art. 45, 18° comma, del D.Lgs. 31 marzo 1998, n. 80 con riferimento agli artt. 24, 113 e 42 della Costituzione, in quanto non si è fatta salva la giurisdizione del G.O. nei casi nei quali si faccia valere un diritto nascente da procedura espropriativa i cui atti sono stati adottati anteriormente al 1° luglio 1998.
11- Il Comune di Palermo, con memoria prodotta per l'udienza odierna illustra le precedenti difese davanti al C.G.A. a conferma della esattezza della soluzione adottata dal TAR con l'impugnata sentenza.
Richiama, altresì, il resistente la decisione n. 3819 del 2002 della IV Sezione di questo Consiglio, sostenendo anch'esso che, qualora si dovesse ritenere il difetto di una valida e perdurante dichiarazione di p.u. (tesi per altro fermamente contestata) la giurisdizione permarrebbe al G.O..
Infine la difesa del Comune ribadisce la tardività dell'impugnazione postuma davanti al TAR della delibera di G.M. del 31-5-1996, osservando che pertanto gli appellanti non possono, in questa situazione, lamentare la mancata possibilità di difesa dei propri diritti di cittadini.
12- All'udienza del 20 gennaio 2003 l'Adunanza Plenaria ha trattenuto la causa in decisione e ne ha depositato il dispositivo (ai sensi dell'art. 23 bis della legge 6 dicembre 1971, n. 1034, come modificata dalla legge 21 luglio 2000 n. 205), cui segue il deposito della relativa motivazione.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1- Per la risoluzione delle questioni portate davanti a questa Adunanza Plenaria con l'ordinanza del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana in s.g. di rimessione, ed autonomamente per aggiunte esplicative successive degli appellanti, s'impone in primo luogo l'individuazione dell'oggetto della domanda proposta in primo grado, che è stato mantenuto fermo e, se mai, ribadito in fatto ed in diritto dagli appellanti soccombenti, come espressione del loro potere dispositivo sul processo in corso.
Gli appellanti in proposito avevano affermato e continuano ad affermare di aver adito il giudice amministrativo, che al momento della domanda aveva giurisdizione sul risarcimento del danno pretesamente subito per effetto di una occupazione appropriativa o usurpativa di terreni di loro proprietà, senza volere (o meglio, aver voluto) impugnare gli atti di un procedimento espropriativo, pure posto compiutamente in essere sino al decreto di espropriazione. E con questo essi ritengono radicalmente nullo tale procedimento, alla stregua di una consolidata giurisprudenza del giudice ordinario, prima che la materia risarcitoria relativa fosse stata trasferita al giudice amministrativo.
Secondo gli appellanti in particolare la procedura dovrebbe ritenersi compiuta in carenza di potere da parte dell'Autorità amministrativa in quanto nella dichiarazione di pubblica utilità adottata dalla (ritenuta) competente Autorità, cioè dall'Assessorato Regionale Siciliano turismo, comunicazione e trasporti (d'ora in poi Assessorato) relativa alla costruzione di un centro sportivo polivalente da realizzare dal Comune di Palermo, sarebbe mancata la indicazione dei termini di inizio e, soprattutto, di ultimazione dei lavori per l'esecuzione dell'opera stessa.
L'assunto originario degli appellanti era che l'attribuzione al giudice amministrativo della materia risarcitoria non comportava assolutamente l'onere di impugnativa previa degli atti del procedimento espropriativo, perché trattandosi di un procedimento nullo per tale grave omissione non vi era ragione alcuna per rimuovere i relativi atti in quanto non potendo produrre alcun valido effetto giuridico, andavano semplicemente disapplicati. Quanto meno, soggiungevano in via gradata, per gli atti del procedimento insanabilmente nulli e posti in essere prima del passaggio della giurisdizione al giudice amministrativo, quest'ultimo non poteva non considerare esso stesso nulli quegli atti e, quindi, pronunciarsi direttamente sul richiesto risarcimento del danno, così come aveva in precedenza operato il giudice ordinario.
2- Non è dubbio, come osservato con l'ordinanza di rimessione, che la tesi degli appellanti ripropone un risalente contrasto, per altro sorto in diverso e superato regime normativo, sulla giurisdizione dei due ordini di giudici.
Infatti, come è noto, da tempo le Sezioni Unite nella Corte di Cassazione avevano fatto propria una nozione ampia di carenza di potere, ritenendo che il potere ablatorio non sussistesse non solo nei casi di mancata attribuzione di esso all'amministrazione, ma anche quando mancasse o fosse viziato un c.d. presupposto per il suo esercizio, stabilito in funzione del diritto "soggettivo" (per tutte Cass. Sez. Un., 17 giugno 1988 n. 4116; e in particolare per un puntuale riepilogo di tutti i precedenti della Suprema Corte, si veda la decisione della IV Sezione di questo Consiglio del 30 novembre 1992 n. 990).
Tuttavia, con particolare riferimento alla materia espropriativa, ancorché gli orientamenti del Consiglio di Stato e delle Sezioni Unite si siano consolidati nel ritenere che gli atti emessi in carenza di potere vanno considerati nulli e perciò non produttivi di effetti, gli stessi, però, si sono mantenuti divergenti con riferimento all'ambito della nozione di carenza di potere.
Si osservava, infatti, nella citata decisione, che nella materia in esame, la verifica se l'atto emanato corrisponda al tipo consentito dalla legge va fatta in astratto, vale a dire mediante criteri che debbono essere il più possibile semplificati e che tengano conto della portata della legge, cioè della sussumibilità al tipo di atto da essa previsto.
Laddove, una volta verificato che il potere è stato attribuito e che il provvedimento ne è espressione, ogni eventuale violazione di regole dell'ordinamento costituisce violazione di legge, la quale, come è noto, unitamente alla incompetenza relativa, costituisce un vizio di legittimità dell'atto autoritativo - e tale per antonomasia è il provvedimento ablatorio - che per sua natura incide su interessi legittimi.
3- Su questa linea la giurisprudenza di questo Consiglio si è mantenuta ferma. Va, infatti osservato che, nelle more di questo giudizio, è intervenuta la decisione di questa Adunanza Plenaria del 20 dicembre 2002, n. 2 che, a seguito di altra ordinanza di rimessione dello stesso Consiglio di Giustizia Amministrativa n. 316 del 2002 richiamata dallo stesso giudice remittente nel presente giudizio, ha stabilito che "costituisce un principio pacificamente accolto da questo Consiglio quello per cui è annullabile l'atto dichiarativo della pubblica utilità, quando esso (cioè l'amministrazione) eserciti il potere amministrativo senza fissare la durata massima del procedimento espropriativo, in violazione del medesimo art. 13".
Non ritiene il Collegio di ritornare sull'argomento, non solo perché recentemente riconsiderato, ma anche in quanto non sono stati prospettati profili nuovi da indurre, come invece auspicavano gli appellanti, ad una rimeditazione di un indirizzo giurisprudenziale ragionato e consolidato. In questo solco - nel quale si muove anche la più recente giurisprudenza di questo Consiglio (Sez. IV del 14-12-2002, n. 6894) - si è correttamente collocato il giudice di primo grado che, ha affermata la giurisdizione del giudice amministrativo sulla richiesta di risarcimento del danno in primo luogo in virtù delle previsioni degli articoli 34 e 35, comma 1, del D.Lgsvo 31 marzo 1998, n. 80, facendo rientrare i procedimenti espropriativi nell'ambito della materia urbanistica, ex art. 34.
Del resto gli originari ricorrenti proprio in virtù di queste norme avevano ritenuto di poter chiedere al TAR il risarcimento del danno.
In secondo luogo gli stessi giudici di primo grado hanno ritenuto, del pari legittimamente (richiamando sotto questo secondo profilo la decisione del C.G.A. n. 296 del 14 giugno 2001), di poter far riferimento, a sostegno della ritenuta giurisdizione, al 3° comma dell'art. 7 della legge n. 1034 del 1971, come modificato dall'articolo 7 della legge 21 luglio 2000, 205, che ha attribuito al giudice amministrativo tutte le domande di risarcimento del danno rientranti nell'ambito della propria giurisdizione, anche di legittimità. Soluzione questa vivacemente contestata, ma senza fondamento, dagli appellanti in quanto su di essa avrebbe fatto leva il giudice di 1° grado per ritenere la loro domanda risarcitoria inammissibile, non risultando preceduta dalla richiesta di annullamento dei relativi atti, al fine di conseguire un'autonoma tutela meramente risarcitoria.
4- Da qui lo svolgimento della complessa ed articolata tesi degli appellanti, secondo cui la tutela risarcitoria relativa alla occupazione acquisitiva in questione ricadeva esclusivamente nell'ambito della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo nell'erroneo presupposto, tuttavia, che in tale ambito ogni situazione giuridica soggettiva possa e debba essere tutelata come un diritto soggettivo pieno senza bisogno di impugnare il provvedimento amministrativo degratatorio o, altrimenti nullo, come se, nell'ambito della giurisdizione esclusiva, non fosse comunque configurabile alcun atto autoritativo: il che è all'evidenza insostenibile.
Infatti è stato ben messo in evidenza da questo Consiglio in una sua recentissima decisione (Sez. VI 27 gennaio 2003 n. 426) che la circostanza che in una materia vi sia giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo non significa che tutte le controversie in argomento vertano su diritti soggettivi.
Vero è, infatti, che la giurisdizione esclusiva implica l'attribuzione di un'intera materia al giudice amministrativo, a prescindere dal tipo di situazione giuridica soggettiva fatta valere, e dunque senza necessità di individuare il tipo di situazione soggettiva, ma questo al solo fine della determinazione della giurisdizione. Però, una volta stabilito che la giurisdizione è del giudice amministrativo, occorre anche nell'ambito della giurisdizione esclusiva, individuare il tipo di situazione soggettiva lesa (interesse legittimo o diritto soggettivo) al fine di delimitare i poteri del giudice. Così come appunto ha ritenuto il giudice di primo grado, che correttamente ha individuato nella fattispecie al suo esame una situazione di interesse legittimo, con le ovvie conseguenze sulla necessità di esperire un'azione di annullamento e della conseguente dichiarazione di inammissibilità dell'azione risarcitoria esclusivamente ed autonomamente intrapresa.
Per sostenere, infine, che nell'ambito della giurisdizione esclusiva possano ricadere anche i comportamenti dell'amministrazione lesivi di situazioni soggettive, gli appellanti sostengono che nella fattispecie sarebbe appunto stato posto in essere un comportamento di tale tipo, ovviamente non annullabile come può esserlo un atto o un provvedimento amministrativo, per pervenire al risultato della autonoma proponibilità dell'azione risarcitoria.
Trattasi però di un tentativo manifestamente artificioso e quindi inutile, esperito per la prima volta nella memoria conclusiva di questo giudizio.
Sostengono infatti gli appellanti che nella fattispecie all'esame, in cui chiaramente sono stati posti in essere gli atti di un procedimento espropriativo che si assume nullo, in realtà sarebbe configurabile un comportamento, con evidente negazione del concetto stesso di comportamento che, ovviamente, non può consistere in un provvedimento. Dicono, infatti, gli appellanti che nella fattispecie in esame l'operato dell'amministrazione è riconducibile ad un comportamento sia commissivo (esecuzione di un provvedimento illegittimo da parte del Comune nell'integrare la difettosa dichiarazione di pubblica utilità pronunciata dall'Assesorato regionale su detto provvedimento) che omissivo (mancato intervento in via di autotutela). Così, in buona sostanza rendendo possibile configurare come comportamento qualsiasi attività amministrativa concretatasi nell'adozione di atti illegittimi.
5- Nella memoria conclusiva davanti a questo Collegio gli appellanti hanno richiamato la decisione della Sez. IV di questo Consiglio del 9 luglio 2002 n. 3819, secondo cui "va proposta davanti al giudice ordinario la domanda di risarcimento del danno creato da una condotta usurpativa integrata dalla pubblica amministrazione in difetto di una valida e perdurante dichiarazione di pubblica utilità dell'opera, rientrando la fattispecie nell'ambito di un ordinario fatto illecito che non può dirsi compreso nel concetto di urbanistica cui accede l'art. 34 del D.Lgs. n. 80/98".
Essi ritengono, per altro con il consenso della difesa dello stesso Comune, che la massima, così estrapolata da detta decisione, si attagli alla fattispecie dedotta in questo giudizio e quindi, modificando radicalmente le precedenti prospettazioni sulla affermazione della giurisdizione del giudice amministrativo, sostengono che la giurisdizione sulla loro pretesa spetta al giudice ordinario.
Nonostante la fedele trascrizione del passo della decisione invocata, la lettura della intera decisione in relazione alle tre fattispecie diverse con la stessa decise porta a ben diversa conclusione rispetto a quella cui sono pervenuti gli appellanti.
Trattasi infatti in quella decisione di risarcimento del danno preteso a diversi titoli:
a) per perdita della proprietà dei terreni originariamente occupati dalle assegnatarie cooperative in forza di valido decreto di occupazione, ormai scaduto ed irriversibilmente trasformati;
b) per occupazione "sine titulo" e trasformazione di un'area maggiore rispetto a quella asservita ;
c) per avere vanificato, attraverso l'illegittima reiterazione di vincoli nascenti dal PEEP, la attitudine edificatoria, già presente sull'intera proprietà, riducendo le aree non occupate a relitti.
Orbene, mentre detta decisione ha ritenuto, del tutto in linea con la giurisprudenza del Consiglio di Stato già richiamata, che per le ipotesi sub a) e sub c) sussisteva la giurisdizione del giudice amministrativo in virtù del disposto degli atti del D.Lgsvo 31 marzo 1998, n. 80, nel testo originario e comunque poi riconfermarto dall'art. 7 della legge 21 luglio 2000, n. 205, in relazione alla comprensione della materia urbanistica, chiarendo opportunamente "che la giurisdizione esclusiva non si arresta al giudizio di annullamento del provvedimento amministrativo (illegittimo)" e che si estende al sindacato sul rapporto tra privato e amministrazione, comprensivo anche nei comportamenti materiali, annullando la decisione del TAR che aveva declinato la propria giurisdizione sulla richiesta di risarcimento del danno in materia espropriativa, ha ritenuto invece che per l'ipotesi sub B dovesse spettare al giudice ordinario la giurisdizione per l'occupazione "sine titulo", da considerarsi come fatto illecito.
Nonostante qualche ambiguità, derivante dall'essere stata richiamata come necessaria "una efficace dichiarazione di pubblica utilità e la configurabilità di un'opera pubblica", per poi affermare "che non può aversi quest'ultima se manca la prima", che potrebbe far pensare ad un riferimento alla teoria della carenza di potere sostenuta dalle Sezioni Unite della Cassazione, sembra evidente che quest'ultima decisione del Consiglio di Stato abbia inteso fare riferimento non ad una dichiarazione di pubblica utilità viziata, ma mancante del tutto.
Il che, evidentemente, non ricorre nella fattispecie, come si vedrà. Restando tuttavia ben chiaro che questa Adunanza Plenaria non condivide affatto, per le ragioni già ampiamente esposte, una interpretazione di quest'ultima decisione contrastante con il suo indirizzo costante sull'ambito del concetto di carenza di potere.
6- Venendo alla fattispecie all'esame del Collegio.
Risulta dagli atti ed è incontestato che l'Assessorato ha adottato un decreto in data 9 maggio 1996, con il quale, ai sensi dell'art. 2 comma 1 della legge della Regione Sicilia n. 69 del 1995 ha approvato e finanziato il progetto relativo ad una palestra polifunzionale, stabilendo all'art. 3 successivo che l'approvazione del decreto stesso, ai sensi dell'art. 21 comma 12 della L. 31 marzo 1972 n. 19 equivaleva a dichiarazione di pubblica utilità, indifferibilità ed urgenza dell'opera finanziata e, nel comma successivo, che le espropriazioni "dovranno avere inizio dalla data del presente decreto e concludersi entro cinque anni dalla medesima data "esclusivamente ai fini della validità della dichiarazione di pubblica utilità di cui al precedente decreto".
Prima che venisse dato alcun seguito all'anzidetta dichiarazione di pubblica utilità interveniva in data 31 maggio 1996 la deliberazione della Giunta Municipale di Palermo n. 1344 (completa dei prescritti pareri favorevoli e con attestazione che la stessa era stata affissa all'albo pretorio dal 2-6-96 al 16-6-96) di immediata esecuzione, avente appunto come oggetto il progetto della palestra polifunzionale da realizzare in contrada "Uditore" di Palermo nell'ambito delle Universiadi del 1997, sul cui contenuto bisogna soffermarsi.
In detta delibera, si prendeva atto del decreto assessoriale sopra descritto di approvazione del "progetto di una palestra polifunzionale" e dei pareri favorevoli che lo avevano preceduto, si approvava lo schema di bando di gara, si autorizzava l'ufficio contratti a porre in essere tutti gli adempimenti per l'esperimento della gara e in particolare, per quanto interessa al n. 7 di "confermare i termini per le espropriazioni indicate nell'art. 3 del D.A. n. 297/XV TUR del 4-5-1996 che venivano precisati; al n. 8" di fissare il termine per i lavori così come appresso:
inizio lavori entro tre mesi dalla data di esecutività del presente provvedimento; ultimazione entro dodici mesi dall'inizio lavori".
Successivamente, nel pieno rispetto dei termini anzidetti, il dirigente del servizio espropriazioni del Comune di Palermo ordinava in data 6 agosto 1996 l'occupazione temporanea in via di urgenza degli immobili da espropriare, cui seguiva l'occupazione come da verbale di immissione in possesso in data 28 e 29 ottobre 1996 e coevo verbale di stato di consistenza dei fondi appellanti occupati. Non vi è quindi alcun dubbio, come del resto ammettono gli stessi appellanti, che l'espropriazione per pubblica utilità è avvenuta nei termini di cui alla dichiarazione di pubblica utilità e che parimenti nei termini medesimi è avvenuta la costruzione della palestra, visto che, sin dal primo grado del giudizio, gli attuali appellanti avevano affermato che l'opera era stata realizzata e che ciò, appunto, aveva determinato la irreversibile trasformazione dei loro fondi.
In disparte per ora la disamina della questione sul momento in cui gli appellanti sono venuti a conoscenza dell'esistenza di tale provvedimento, va considerato se tale atto del Comune, per altro contenente una serie di disposizioni di sua indiscutibile (ed indiscussa) competenza, sia da considerare nullo e cioè inesistente, ovvero semplicemente emanato da organo in parte incompetente e quindi, qualora questa incompetenza fosse realmente accertata, semplicemente annullabile e perciò produttivo di effetti giuridici sino alla pronuncia di annullamento, pregiudiziale rispetto alla richiesta di risarcimento del danno, secondo un indirizzo consolidato di questo Consiglio che ora va ribadito, riconoscendosene la fondatezza per la sua piena aderenza alla ratio della riforma, culminata con la legge 205 del 2000 che ha portato il legislatore ad attribuire al giudice amministrativo in via generale la cognizione anche sul risarcimento del danno, senza alcuna distinzione tra giurisdizione generale di legittimità e giurisdizione esclusiva.
Si è infatti osservato in una recente elaborata decisione della VI Sezione 18 giugno 2002 n. 3338 - che richiama quella anteriore della IV Sezione 15 febbraio 2002, n. 952 - che una volta concentrata presso il giudice amministrativo la tutela impugnatoria dell'atto illegittimo e quella risarcitoria conseguente, non è possibile l'accertamento incidentale da parte del giudice amministrativo della illegittimità dell'atto non impugnato nei termini decadenziali al solo fine di un giudizio risarcitorio e che l'azione di risarcimento del danno può essere proposta sia unitamente all'azione di annullamento che in via autonoma, ma che è ammissibile solo a condizione che sia impugnato tempestivamente il provvedimento illegittimo e che sia coltivato con successo il relativo giudizio di annullamento, in quanto al giudice amministrativo non è dato di poter disapplicare atti amministrativi non regolamentari.
6- Ritornando al caso all'esame di questa Adunanza Plenaria, va osservato in base agli stessi precedenti giurisprudenziali del giudice ordinario richiamati, non risulta essere stata esaminato un caso simile o assimilabile in relazione alle circostanze che lo connotano.
Va infatti debitamente valutato che l'indicazione del termine per l'inizio e il completamento dei lavori ad integrazione delle dichiarazioni di pubblica utilità adottata dall'Assessorato regionale da parte dell'autorità che doveva realizzare l'opera e che per legge doveva dare attuazione alla dichiarazione di pubblica utilità, è avvenuta quando ancora nessun termine era decorso sia per l'occupazione dei beni destinati ad essere espropriati, sia per l'esecuzione dell'opera.
Infatti va considerato che la realizzazione della palestra in questione rientrava nel programma di finanziamento regionale per l'universiade 1997 e che, ancorché l'art. 12 della legge regionale 29 settembre 1995 che la prevedeva stabilisse che i progetti relativi alle singole opere "sono approvati e finanziati dall'Assessorato regionale per il turismo etc.", lo stesso articolo sanciva che agli enti destinatari dei finanziamenti (che nel caso era il Comune di Palermo che proprio in base alla stessa legge aveva presentato il progetto esecutivo approvato dall'Assessorato) "è attribuita ogni iniziativa relativa all'esecuzione dell'opera".
Quindi il Comune di Palermo, forse anche in base al tenore della deliberazione dell'Assessorato Regionale di cui si è detto, ha ritenuto che rientrasse nella sua competenza di completare in via di integrazione, per altro pochi giorni dopo, il decreto dichiarativo della pubblica utilità con l'indicazione del termine per l'esecuzione dei lavori, omessa nel precedente decreto assessoriale. Pertanto il Comune ragionevolmente non può essere considerato un soggetto estraneo che indebitamente si sia inserito in un procedimento nel quale non doveva ingerirsi, tale da far configurare una incompetenza assoluta.
Non risulta pertanto una situazione tale da far configurare nella specie una espropriazione in carenza di potere.
Si vedano in particolare quanto alle ragioni preminenti alla base della suddetta situazione le considerazioni espresse nella sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione del 4 marzo 1997 n. 1907, richiamata dagli stessi appellanti.
7- Gli appellanti però sostengono che al fine di verificare se sussistesse o meno il loro diritto al risarcimento del danno derivante dalla abusiva occupazione e conseguente irreversibile trasformazione, doveva tenersi esclusivamente conto della dichiarazione di pubblica utilità pronunciata dall'Assessorato ma priva delle date di inizio e termine dei lavori, che secondo la costante giurisprudenza del giudice ordinario per tale omissione era inidonea ad incidere sul loro diritto soggettivo di proprietari dei beni abusivamente occupati e trasformati dal Comune di Palermo, con l'ulteriore conseguenza che, essendosi consumata la violazione del loro diritto anteriormente alla entrata in vigore del D.Lgs. n. 80, essi non potevano essere spogliati del loro diritto al risarcimento del danno per effetto del passaggio ex lege della giurisdizione in materia risarcitoria dal giudice ordinario al giudice amministrativo. Ciò in quanto il decreto della Giunta municipale che aveva , a loro avviso illegittimamente, integrato la originaria difettosa dichiarazione di pubblica utilità, non era stata da loro conosciuto e quindi non poteva essere loro opposto nel giudizio davanti al TAR.
Però questo rilievo, che metterebbe in evidenza ad un tempo il contrasto di giurisprudenza tra giudice ordinario e giudice amministrativo quanto agli effetti di un procedimento viziato in uno dei suoi atti fondamentali, e il preteso obbligo del giudice amministrativo di continuare a fare applicazioni anch'esso dei principi giurisprudenziali affermati dal giudice ordinario, almeno quando davanti a quest'ultimo vengono in discussione gli effetti di un decreto di dichiarazione di pubblica utilità ed occupazione così viziato, emanato anteriormente alla data di entrata in vigore del D.Lgs. n. 80 del 1998, non sussiste.
E' vero che detto decreto della giunta municipale non risulta menzionato nei provvedimenti di occupazione di urgenza e negli atti successivi sino alla espropriazione dei loro terreni ed è anche esatto che gli originari ricorrenti l'hanno potuto conoscere a seguito del deposito effettuato da parte dell'avvocato del Comune in data 5-6-2001, davanti al TAR, ma è anche vero che, in occasione di discussione del ricorso nell'udienza della stessa data, la loro difesa nulla abbia osservato, nonostante che su detto documento si basasse essenzialmente la difesa del Comune, come risulta dalla narrativa del fatto della sentenza impugnata, che reca testualmente:
"l'Amministrazione Comunale ha dedotto l'infondatezza del gravame rilevando che i termini ex art. 13 L. 2359/1865 erano stati fissati dall'Amministrazione Comunale con propria dliberazione (G.M. n.1344)".
Non vi è dubbio, quindi, che in quella sede il difensore degli attuali appellanti avrebbe potuto e dovuto chiedere un termine per impugnare il provvedimento comunale con motivi aggiunti, con la possibilità di estendere l'impugnazione a tutti gli atti del procedimento ablatorio, avvalendosi del disposto dell'art. 21, 1° comma della legge 6-12-1971, n. 1034, come sostituito dalla legge n. 205 del 2001. Infatti secondo questa norma tutti i provvedimenti adottati in pendenza del ricorso tra le parti, comuni all'oggetto del ricorso stesso, sono impugnati mediante proposizione dei motivi aggiunti.
Vero è che nel caso la deliberazione della giunta municipale del 31 maggio 1996 era intervenuta prima del giudizio davanti al TAR, però è da ritenere, che ai fini del "simultaneus processus" voluto dal legislatore con la novella del 2000, all'ipotesi di documento nuovo, per la evidente "ratio" comune, deve essere assimilata quella di non imputabile tardiva conoscenza di un atto dalla parte che intende avvalersene. E' evidente, infatti, che dal punto di vista soggettivo tanto il nuovo provvedimento quanto quello precedentemente esistente, ma incognito, vengono conosciuti solo nel corso del giudizio.
Gli originari ricorrenti hanno preferito invece impugnare autonomamente detto provvedimento davanti al TAR con atto notificato in data 18 settembre 2001 per violazione dell'art. 13 della legge n. 2359/1865, senza prospettare in questa sede un possibile raccordo tra questo giudizio e quello suddetto ancora pendente, seguendo evidentemente una loro strategia processuale. Infatti gli appellanti senza nulla aver detto in proposito nell'atto di appello si sono limitati ad osservare nella memoria conclusiva, per altro in modo del tutto incongruo, stante l'autonomia di questo giudizio per scelta stessa degli appellanti, che "non appare superfluo infine aggiungere che ove il giudizio a tutt'oggi pendente proposto dagli interessati avverso la deliberazione della G.M. n. 1344/96 si concluda, come appare verosimile, con una sentenza di accoglimento, rimarrebbe comunque accertato in quella sede la illegittimità insanabile del D.A. n. 297/96, al quale è riconnessa la dichiarazione di pubblica utilità".
Vanno ora esaminate le questioni di costituzionalità sollevate dagli appellanti, nell'ipotesi di rigetto dei motivi sopra dedotti, che in effetti si è verificata.
Si denuncia l'incostituzionalità dell'articolo 45, diciottesimo comma, del D.Lgs 31 marzo 1998 n. 80, per violazione degli artt. 24, 13, e 42 Cost. nella parte in cui stabilisce che le controversie in cui agli 33 e, per quanto in questa sede rileva, dell'art. 34, sono devolute al giudice amministrativo dal 1 luglio 1998, con salvezza dei giudizi pendenti alla data del 30 giugno 1998, non facendo salvi i giudizi nei quali si faccia valere un diritto nascente da procedure espropriative i cui atti sono adottati anteriormente al 1 luglio 1998.
La questione, benché rilevante, poiché se risolta positivamente comporterebbe la illegittimità costituzionale relativamente all'attribuzione al giudice amministrativo dei giudizi relativi a fattispecie, come quella in esame, di risarcimento dei danni derivanti o collegati a provvedimenti espropriativi illegittimi posti in essere anteriormente al 1° luglio 1998, con conseguente accoglimento dell'appello per difetto di giurisdizione del giudice amministrativo, è tuttavia manifestamente infondata.
Sostengono infatti gli appellanti che il legislatore, anche nei casi "de quo" disciplinati dal comma 18 dell'art. 45 secondo cui quelle controversie in base agli artt. 33 e 34 dello stesso decreto legislativo n. 80 in cui ricadono sono attribuite al giudice amministrativo a partire dal 1° luglio 1998, avrebbe dovuto adottare la medesima disciplina stabilita nel precedente comma 17 per le controversie di cui all'art. 68 del D.Legislativo 3 febbraio 1993, n. 29 (cioè per le controversie relative al pubblico impiego c.d. contratualizzato), secondo cui nel trasferire dette controversie dalla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo alla giurisdizione del giudice ordinario, si era operata la distinzione tra controversie relative a questioni attinenti al rapporto di lavoro sorte successivamente al 30 giugno 1998 che transitavano al giudice ordinario a partire dal 1° luglio 1998 e controversie relative a questioni sorte anteriormente a tale data, che restavano attribuite al giudice amministrativo.
Secondo l'assunto degli appellanti la ragione della incostituzionalità risiederebbe nella mancanza di una disciplina simmetrica benché rovesciata tra giudice ordinario e giudice amministrativo nel presupposto, ovviamente, della correttezza costituzionale della disciplina adottata per il trapasso della controversia sul pubblico impiego dal giudice amministrativo al giudice ordinario.
Nella mancanza di simmetria nel senso anzidetto si è ravvisato il contrasto del comma 17 dell'art. 45 citato con gli articoli 24, 113 e 42 della Costituzione.
Però è evidente che l'enunciazione del motivo a sostegno della denunciata incostituzionalità non ha alcun riferimento con i singoli articoli della costituzione di cui si osserva la violazione.
Non con l'art. 24, per altro genericamente richiamato senza specificare la norma specifica in esso contenuta, in quanto la mancata distinzione non impediva agli appellanti di far valere le loro ragioni di fronte al giudice competente, con l'osservanza naturalmente delle norme processuali prescritte di cui si è detto.
Non con riferimento all'art. 113 di cui per altro gli appellanti parimenti non indicano a quali dei tre commi di detto articolo, regolanti diverse fattispecie, intendano riferirsi.
Infine, sebbene riguardo all'articolo 42 si sia chiarito che il riferimento è al suo terzo comma, non appare collegabile lo stesso motivo di disparità al contenuto di detto comma, secondo cui "la proprietà privata può essere, nei casi preveduti dalla legge, e salvo indennizzo, espropriata per motivi di interesse generale", atteso che di per sè l'attribuzione ad un unico giudice della verifica della legittimità di un procedimento espropriativo e di eventuali ragioni di risarcimento del danno non scalfisce affatto il dettato costituzionale.
In realtà gli appellanti, pur non denunciando espressamente la violazione dell'art. 3 1° comma della Costituzione, che sancisce il principio costituzionale della ragionevolezza e del divieto di trattamento normativo difforme di situazioni eguali, ne hanno invocato la sostanza. Ma a torto, essendo evidente che non ricorre affatto alcuna identità di situazione di fronte a diverse materie.
Nell'un caso, quello concernente l'attribuzione della giurisdizione esclusiva al giudice amministrativo per il risarcimento del danno derivante da atti illegittimi in materia di espropriazione, il legislatore costituzionale si è attenuto alla regola generale sancita dall'art. 5 del c.p.c., secondo cui la giurisdizione e la competenza si determinano con riguardo alla legge vigente e allo stato di fatto esistente al momento della proposizione della domanda.
Nel secondo caso, cioè quello relativo alle controversie sul pubblico impiego, ha derogato a tale principio, stabilendo la "perpetuatio" della giurisdizione del giudice amministrativo non con riferimento alla legge vigente al momento della domanda, ma a quello della insorgenza della questione in controversia anteriormente alla data in cui avveniva il trapasso al giudice ordinario. E ciò come è reso chiaro dai lavori preparatori, allo scopo di non far gravare sul giudice ordinario l'immediato afflusso di migliaia di controversie, che avrebbero inceppato l'avvio nel nuovo contenzioso trasferito.
Trattasi di un apprezzamento discrezionale sicuramente legittimo di fronte a situazioni oggettivamente differenti.
In definitiva l'articolata questione di costituzionalità è manifestamente infondata.
L'appello, conclusivamente, deve essere respinto.
Ricorrono ragioni, attesa la novità della questione, per compensare tra le parti le spese e competenze anche di questo secondo grado del giudizio.
Rigetta il ricorso in epigrafe indicato.
Spese del grado compensate.
Ordina che la presente decisione sia eseguita dall'Autorità amministrativa.
Così deciso in Roma dal Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Adunanza Plenaria, nella camera di consiglio del 20 gennaio 2003 con l'intervento dei Signori:
Giuseppe BARBAGALLO Consigliere
Alessandro PAJNO Consigliere
Pier Giorgio TROVATO Consigliere
Raffaele CARBONI Consigliere
Costantino SALVATORE Consigliere
Giuseppe FARINA Consigliere
Paolo TURCO Consigliere
Corrado ALLEGRETTA Consigliere
Luigi MARUOTTI Consigliere
Paolo BUONVINO Consigliere
Presidente
Estensore Segretario
Depositata in segreteria in data 26 marzo 2003.