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CORTE DI CASSAZIONE, SEZIONE V PENALE - Sentenza 31 gennaio 2001 - Pres. Foscarini, Est. Cognetti – R. – P.M. Grasso (annulla senza rinvio Corte d'appello di Trieste, sentenza 26 febbraio 1999).

Edilizia ed urbanistica – Concessione edilizia – Rilascio in contrasto con le norme del P.R.G. – Reato di abuso di ufficio – Ex art. 329 c.p. – Sussiste per la unzione integrativa svolta dal P.R.G.

In tema di reato di abuso d'ufficio (art. 323 C.p., come novellato dalla legge 16 luglio 1997 n. 234), deve ritenersi - anche alla luce del rinvio che la legge 17 agosto 1942 n. 1150 fa agli strumenti urbanistici - che la condotta illecita del sindaco che rilasci una concessione edilizia contro le disposizioni del piano regolatore, si configuri come violazione di legge, senza che si possa ritenere violato il principio di stretta legalità vigente in materia penale; quest’ultimo principio, infatti, non è leso quando un provvedimento amministrativo svolga una funzione integrativa rispetto a elementi normativi del fatto né quando il precetto penale assuma una funzione sanzionatoria rispetto a detto provvedimento sempre che sia la legge a indicare i presupposti, il contenuto, i caratteri e i limiti dello stesso (1).

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(1) Cfr. Cassazione, Sez. VI, 11 maggio 1999, Fravili, riv. 214767; cfr. anche, nello stesso senso, Cassazione, Sez. VI, 9 luglio 1994, Pg in proc. Maccan e altro, riv. 212319; Cassazione Sez., 16 ottobre 1998, Lo Baido, riv. 213085; cfr. inoltre, in tema di rapporti tra legge penale e fonti subordinate alla medesima, quali gli atti amministrativi svolgenti funzione integrativa, Corte costituzionale 11-14 giugno 1990 n. 282; in senso opposto era la precedente giurisprudenza (cfr. Cassazione, Sez., VI, 2 ottobre 1998, Tilesi), secondo cui i pareri e gli atti del pubblico ufficiale di accoglimento di domande di concessione ad edificare un edificio ad uso commerciale in violazione del piano regolatore non integrerebbero più la fattispecie criminosa dell'articolo 323 Cp come novellato dalla legge 16 luglio 1997 n. 234, che implica che la condotta abusiva del pubblico ufficiale rilevi solo quando sia posta in essere in violazione di legge o di regolamento, considerato che un piano regolatore è un atto amministrativo che non ha natura né di legge né di regolamento.

Nella specie non è stato condiviso l'assunto del giudice di appello, fondato su una giurisprudenza minoritaria della Suprema corte richiamata in sentenza (cfr. Cassazione, Sez., VI, 2 ottobre 1998, Tilesi), secondo cui i pareri e gli atti del pubblico ufficiale di accoglimento di domande di concessione ad edificare un edificio ad uso commerciale in violazione del piano regolatore non integrerebbero più la fattispecie criminosa dell'articolo 323 Cp come novellato dalla legge 16 luglio 1997 n. 234, che implica che la condotta abusiva del pubblico ufficiale rilevi solo quando sia posta in essere in violazione di legge o di regolamento, considerato che un piano regolatore è un atto amministrativo che non ha natura né di legge né di regolamento.

 

 

Svolgimento del processo

Con sentenza in data 11 gennaio 1996, il tribunale di Gorizia dichiarava Trevisani Giorgio, Spanò Ignazio e Rinci Pietro colpevoli dei delitti ad essi rispettivamente ascritti ai capi 1) (falso ideologico in atto pubblico) ed m) (abuso d'ufficio), ritenuti in concorso formale tra loro, e, concesse le attenuanti generiche ritenute prevalenti sulla contestata aggravante di cui all'articolo 61 n. 2 Cp, esclusa l'aggravante ex articolo 112, primo comma n. 1 Cp, condannava il Rinci alla pena di anni due di reclusione e lo Spanò ed il Trevisani a quella di anni uno di reclusione ciascuno, nonché in solido al pagamento delle spese processuali; infliggeva ai predetti la pena accessoria della interdizione dai pubblici uffici per la durata di un anno, concedendo loro il beneficio della sospensione condizionale della pena e della non menzione della condanna; dichiarava la falsità della delibera di cui al capo 1) e ne disponeva la cancellazione nelle forme di legge.

Assolveva tutti gli imputati dai reati di cui ai capi a) (falso ideologico in atto pubblico), b) (abuso d'ufficio), c) (abuso d'ufficio), d) (contravvenzione edilizia), e) (abuso d'ufficio), g) (abuso d'ufficio), h) (falso ideologico in atto pubblico), i) (abuso d'ufficio), j) (abuso d'ufficio), k) (abuso d'ufficio), n) (abuso d'ufficio), o) (abuso d'ufficio), p) (abuso d'ufficio) e q) (falso per soppressione), perché il fatto non sussiste; assolveva Trevisani Giorgio, Tuzzi Erminio, Cappella Pier Raimondo, Bombi Marilisa, Brunello Bruno, Del Ben Mario, Rinci Pietro, Ciani Giorgio, Tolloi Lucio e Spanò Ignazio dal reato sub f) (falso ideologico in atto pubblico) per non aver commesso il fatto, Brunetta Sergio dal medesimo reato sub f) perché il fatto non costituisce reato; assolveva la Bombi dal reato sub l), nonché il Brunello, il Ciani ed il Tolloi da quelli sub m) ed n) per non aver commesso il fatto; assolveva il Tuzzi, il Cappella, il Del Ben dai reati sub l) ed m) perché il fatto non costituisce reato; ordinava il dissequestro e la restituzione all'avente diritto dell'immobile (l'edificio di via Lungo Isonzo Argentina n. 79), sottoposto a sequestro preventivo.

A seguito di appello degli imputati Trevisani, Rinci e Spanò e del pubblico ministero contro tutti gli imputati indicati in epigrafe, con eccezione del Tolloi quanto ai capi l) ed m) della rubrica, la Corte d'appello di Trieste, con sentenza in data 26 febbraio 1999, in accoglimento dell'impugnazione del Trevisani e dello Spanò, assolveva gli stessi dai delitti di cui ai capi l) e m) della rubrica perché il fatto non costituisce reato e, riqualificato il fatto sub m) ex articoli 48, 56, 323 Cp nella nuova formulazione, rideterminava la pena inflitta al Rinci in quella di anni uno e mesi sei di reclusione, con conferma della sentenza di primo grado nel resto.

Avverso la suddetta sentenza hanno proposto ricorso per cassazione l'imputato Rinci e il procuratore generale.

Il Rinci deduce violazione dell'articolo 606, primo comma lett. b) ed e), Cpp per non avere saputo, i giudici di merito, inquadrare la fattispecie nella corretta configurazione dei reati addebitati nonché carenza o manifesta illogicità della motivazione, assumendo l'insussistenza del contestato falso e, conseguentemente, del ritenuto tentato abuso d'ufficio patrimoniale.

Il procuratore generale deduce inosservanza o erronea applicazione della legge penale o di altre norme giuridiche, di cui si deve tener conto nell'applicazione della legge penale, nonché mancanza o manifesta illogicità della motivazione.

Motivi della decisione

Il ricorso del Rinci merita accoglimento.

In tema di errore determinato da altrui inganno, ad integrare la responsabilità ai sensi dell'articolo 48 Cp, è necessario e sufficiente che venga posta in essere una condotta casualmente e consapevolmente correlata all'induzione in errore di chi dovrà commettere il fatto costituente reato.

Nel caso dell'imputazione sub 1), addebitata al Rinci, in cui si contesta a costui il reato di cui agli articoli 48 e 479 Cp, il presupposto di fatto dell'atto pubblico ritenuto falso era, secondo l'ipotesi accusatoria, la domanda in data 5 agosto 1992, con cui l'imputato chiedeva lo scomputo del costo del marciapiede da realizzare con materiale pregiato, falsa nel contenuto in quanto i marciapiedi erano già stati realizzati, con conseguente induzione in errore della giunta comunale di Gorizia che, con delibera del 3 novembre 1992, autorizzava la realizzazione del marciapiede in questione sotto il controllo dei tecnici comunali. Ipotesi accusatoria condivisa dai giudici di primo grado, i quali, sul presupposto che alla data della domanda (5 agosto 1992) il marciapiede fosse già stato realizzato, affermavano la responsabilità dell'imputato in relazione al reato in questione e al correlato reato di abuso d'ufficio patrimoniale di cui al capo m) dell'imputazione.

La Corte d'appello, peraltro, a seguito della rinnovata istruttoria dibattimentale, ha effettuato una diversa ricostruzione del fatto, affermando testualmente nell'impugnata sentenza: "Valutare complessivamente tali risultanze, ritiene la Corte che, da un lato non può considerarsi dimostrata l'esecuzione dei lavori in questione in epoca antecedente al 5 agosto 1992 (data della prima missiva del Rinci sopra menzionata), non potendo ragionevolmente escludersi l'ipotesi di una svista nella quale sia incorso il prevenuto nella suddetta missiva; per contro è inequivocabilmente comprovato che essi erano già terminati alla data del 19 settembre 1992 in cui il vigile Petruzzi effettuava il suddetto sopralluogo".

La Corte di merito ritiene perciò che non vi sia prova certa che alla data del 5 agosto 1992, allorché il Rinci chiede lo scomputo dei costi del marciapiede, questo fosse già stato realizzato. Se così è non vi è prova certa che il Rinci, alla data della suddetta domanda abbia posto in essere una condotta casualmente e consapevolmente correlata all'induzione in errore della Giunta comunale circa l'emissione della successiva delibera del 3 novembre 1992 con cui si autorizzava l'opera in realtà già effettuata.

Ciò nonostante, l'impugnata sentenza ha affermato la responsabilità dell'imputato in ordine al reato in questione sul rilievo che il Rinci, in data 29 agosto 1992, ottenuta soltanto la concessione per la realizzazione dei passi carrai, faceva contestualmente eseguire con piena consapevolezza e volontà anche i lavori di costruzione del marciapiede, inducendo così la giunta comunale ad attestare erroneamente nella delibera del 3 novembre 1992 che si trattava di un'opera ancora da eseguire e da autorizzare con detrazione dei relativi costi.

L'argomentazione del giudice di merito oltre che illogica, neppure corrisponde alla ipotesi accusatoria, laddove si contesta espressamente al Rinci che l'opera era stata eseguita dalla Enossib Srl, senza l'autorizzazione prescritta per legge, sin dal 5 agosto 1992 e in ordine alla quale costui si è difeso. È sfuggito al giudice di appello che venuta meno la prova dell'esecuzione dei lavori prima della domanda del 5 agosto 1992, è venuta meno anche la falsa dichiarazione del privato assunta a presupposto dell'atto pubblico falso, nonché la prova certa della sussistenza dell'elemento psicologico del reato. Né la circostanza che l'imputato abbia deciso di eseguire il marciapiede, nella consapevolezza di non avere ancora l'autorizzazione, in epoca successiva alla iniziale domanda con cui si chiedeva lo scomputo del prezzo per l'uso di materiali pregiati, può di per sé integrare una condotta punibile ai sensi dell'articolo 48 Cp, dovendosi in ogni caso dimostrare, a prescindere dalle osservazioni sopra fatte in merito alla immutazione dell'accusa, che l'imputato, nel momento in cui presentò la domanda in data 5 agosto 1992, già si era determinato ad eseguire comunque i lavori prima di ottenere l'autorizzazione con lo specifico intento di ingannare la pubblica amministrazione nell'emettere la delibera poi assunta in data 3 novembre 1992.

Alla mancanza di prova circa la sussistenza del reato di falso di cui alla lett. l), consegue la mancanza di prova circa il correlato reato di tentato abuso d'ufficio patrimoniale ritenuto dalla Corte di merito a modifica dell'originaria contestazione di cui all'impugnazione sub m).

Ciò posto l'impugnata sentenza nei confronti del Rinci deve essere annullata senza rinvio in relazione alle imputazioni sub l) ed m) per insussistenza del fatto. Tale decisione comporta il rigetto del ricorso del procuratore generale sul punto nei confronti sia del Rinci, sia dei coimputati assolti da tali reati, considerato anche che i rilievi da costui mossi alla valutazione dei testi e alla ricostruzione del fatto effettuata dai giudici di appello si risolvono pur sempre in inammissibili censure di merito.

Al contrario il ricorso del procuratore generale è fondato in relazione all'assoluzione degli imputati cui erano contestati gli episodi di abuso d'ufficio patrimoniale di cui ai capi b), c), e), i), k), n), o) e p). Non può essere condiviso l'assunto del giudice di appello, fondato su una giurisprudenza minoritaria di questa Suprema corte richiamata in sentenza (cfr. Cassazione, Sez., VI, 2 ottobre 1998, Tilesi), secondo cui i pareri e gli atti del pubblico ufficiale di accoglimento di domande di concessione ad edificare un edificio ad uso commerciale in violazione del piano regolatore non integrerebbero più la fattispecie criminosa dell'articolo 323 Cp come novellato dalla legge 16 luglio 1997 n. 234, che implica che la condotta abusiva del pubblico ufficiale rilevi solo quando sia posta in essere in violazione di legge o di regolamento, considerato che un piano regolatore è un atto amministrativo che non ha natura né di legge né di regolamento.

Occorre rilevare infatti che numerose sono le decisioni in senso contrario di questo Supremo collegio, che si sono espresse nel senso che in tema di abuso d'ufficio, il rinvio alla legge 17 agosto 1942 n. 1150 agli strumenti urbanistici comporta che la condotta illecita del sindaco che rilasci una concessione edilizia contro le disposizioni del piano regolatore, si configuri come violazione di legge, senza che si possa ritenere violato il principio di stretta legalità vigente in materia penale, il quale non è leso quando un provvedimento amministrativo svolga una funzione integrativa rispetto a elementi normativi del fatto né quando il precetto penale assuma una funzione sanzionatoria rispetto a detto provvedimento sempre che sia la legge a indicare i presupposti, il contenuto, i caratteri e i limiti dello stesso (cfr. Cassazione, Sez. VI, 11 maggio 1999, Fravili, riv. 214767; cfr. anche, nello stesso senso, Cassazione, Sez. VI, 9 luglio 1994, Pg in proc. Maccan e altro, riv. 212319; Cassazione Sez., 16 ottobre 1998, Lo Baido, riv. 213085; cfr. inoltre, in tema di rapporti tra legge penale e fonti subordinate alla medesima, quali gli atti amministrativi svolgenti funzione integrativa, Corte costituzionale 11-14 giugno 1990 n. 282). Nel caso di specie, pertanto, le condotte descritte nei capi di imputazione sopra indicate ben potevano integrare il contestato reato di cui all'articolo 323 Cp novellato.

Tuttavia, poiché la data del commesso reato risulta essere: il 14 giugno 1991 e il 29 agosto 1991 per il capo c); il 20 maggio 1992 per il capo e); il 22 luglio 1992 per il capo g); il 25 agosto 1992 per il capo i); il 25 settembre 1992 per il capo j); il 26 settembre 1992 per il capo k); il 9 novembre 1992 per il capo n); il 9 febbraio 1993 per il capo o); il 25 febbraio 1993 per il capo p); i reati medesimi, essendo trascorso il termine prescrizionale, pari nella specie ad anni sette e mesi sei per il combinato disposto degli articoli 157, primo comma n. 4, e 160, ultimo comma, Cp, risultano estinti per tale causa.

Conseguentemente, in presenza di una causa estintiva del reato, non risultando evidente che il fatto non sussiste o che l'imputato non lo ha commesso o che il fatto non costituisce reato o che non è previsto dalla legge come reato, l'impugnata deve essere annullata senza rinvio nei confronti di tutti gli imputati limitatamente alle suddette imputazioni di abuso d'ufficio loro rispettivamente ascritte per essere detti reati estinti per prescrizione.

Quanto al reato di abuso d'ufficio di cui al capo b), risultando contestata, oltre all'aggravante di cui all'articolo 112, primo comma n. 1, Cp, anche quella di cui all'articolo 61 n. 2 Cp, il termine prescrizionale non è ancora trascorso, per cui l'impugnata sentenza, in relazione a tale imputazione, deve essere annullata con rinvio per nuovo esame ad altra sezione della Corte d'appello di Trieste.

Fondate sono altresì le censure di carenza ed illogicità della motivazione avanzate dal ricorrente procuratore generale in relazione alla ritenuta insussistenza alla contravvenzione edilizia sub d).

Secondo l'ipotesi accusatoria la concessione edilizia sarebbe illegittima sotto vari profili: in primo luogo perché l'edificio era destinato ad un insediamento commerciale di tipo non permesso nella zona urbanistica D3B nella quale si trova l'area edificata in questione; in secondo luogo perché la detta concessione veniva rilasciata ad un soggetto non avente titolo a svolgere un'attività industriale o artigianale già insediata, facendo riferimento la normativa della zona D3B soltanto ad attività già insediate; in terzo luogo perché non venivano rispettati gli standard urbanistici previsti dal piano regolatore adeguato al piano urbanistico regionale nella zona D3B, sostenendosi che nella norma urbanistica in esame (articolo 9.3) veniva aggiunto il settimo comma, in base al quale la zona da destinare a parcheggi e al verde non poteva essere inferiore a mq. 15 per addetto e che essa non prevedeva invece uno standard parcheggi con riferimento ad una destinazione commerciale; infine, perché una parte del lotto, in violazione dello strumento urbanistico all'epoca vigente, ricadeva per circa 379 mq. in zona verde, per cui la riduzione della superficie ricadente nella zona D3B comporterebbe per l'edificio realizzato il mancato rispetto degli standard urbanistici previsti nella zona stessa.

Tali violazioni sono state ritenute insussistenti dalla sentenza di primo grado con argomentazioni puntualmente contestate dal pubblico ministero appellante che ne ha dedotto l'inconsistenza e l'illogicità con articolati ed ampi motivi.

A fronte di tali puntuali doglianze, l'impugnata decisione si limita a richiamare acriticamente le argomentazioni dei giudici di primo grado, che hanno escluso l'illegittimità della concessione edilizia in contestazione per contrasto con lo strumento urbanistico vigente all'epoca in cui essa veniva rilasciata.

Dette argomentazioni risultano peraltro manifestamente illogiche laddove, in presenza nel piano regolatore di zone H destinate ad attività commerciali, si vuole avallare la tesi che anche nella zona D vi era la possibilità di insediamenti commerciali, cercando di superare la circostanza che la suddetta interpretazione della norma urbanistica fosse contraddetta da quella contraria della direzione regionale della pianificazione territoriale, sull'inconsistente rilievo delle presunte difficoltà interpretative della norma emerse dalle deposizioni dei funzionari del suddetto ufficio; laddove si cerca di avallare la tesi che il soggetto aveva titolo ad ottenere la concessione, pur non avendo un'attività già insediata nella zona D3B (la cui normativa faceva riferimento ad attività già insediate come risultante dalla norma tecnico urbanistica (articolo 9.3) a cui era stata espressamente aggiunta la dizione "attività già insediate"), assumendosi in proposito che tale dizione aveva "valore elencativo" e non esclusivo, ciò perché l'ultimo comma della norma citata regolava il caso degli incrementi di edifici esistenti in difformità delle prescrizioni indicate nei commi precedenti, senza peraltro tener conto che la previsione di edifici nuovi doveva essere riferita al caso di attività del titolare di attività produttiva già insediata, il quale non dovesse procedere ad incrementi di edifici esistenti, ma invece avesse richiesto, avendone titolo, il rilascio di concessione edilizia per nuovo edificio necessario all'ampliamento e allo sviluppo delle proprie attività; laddove si cerca di avallare la tesi che, a seguito della riclassificazione delle zone eterogenee D1 e O4 nell'ambito della lettera D, la normativa che prevedeva uno standard parcheggi nella zona D3B era da porsi in relazione al numero degli addetti all'attività produttiva (artigianale o industriale), ma non con riferimento ad una destinazione commerciale, dovendosi ritenere implicitamente richiamati, a tale proposito, gli standard previsti per le zone esclusivamente commerciali H1, H2 ed H3; laddove cerca di superare la circostanza che il lotto edificabile ricadrebbe in parte in zona verde, sul rilievo che essa non risulterebbe provata, in quanto fondata soltanto su ipotesi avanzate dai consulenti tecnici del pubblico ministero, basate su un rilievo planimetrico ed altimetrico dell'area in scala 1:2000 eseguito dal geom. Fontanini, che non troverebbero sicura conferma né nel rilievo 1:1000 rinvenuto presso la sede della Coop di S. Vito e Tagliamento né nella mappa non ufficiale in scala 1:1000, rinvenuta nella pratica per la concessione ad edificare della "Alimentaria" redatta da un libero professionista e riguardante un fondo confinante con quello in esame; ipotesi che contrasterebbero, tra l'altro, con quanto riferito dall'architetto Agostini, sulla cui maggior attendibilità rispetto alle conclusioni dei consulenti tecnici del Pm nulla si dice.

La motivazione dell'impugnata sentenza, oltre a risultare manifestamente illogica per le considerazioni suddette, risulta altresì carente, in quanto ha omesso di dare adeguata risposta ai numerosi rilievi critici mossi dal pubblico ministero appellante alle argomentazioni dei giudici di primo grado che escludono la non conformità della concessione edilizia allo strumento urbanistico. La motivazione per relationem è infatti legittima allorché sia integrata con la risposta ai rilievi critici formulati nell'atto di appello. La mera ritrascrizione della precedente motivazione, in mancanza di specifiche controdeduzioni, non adempie l'obbligo di motivazione e fa venir meno lo stesso oggetto del giudizio di appello, costituito dalla revisione critica della precedente pronuncia alla stregua degli argomenti svolti dall'appellante, e quindi la garanzia del doppio grado di giurisdizione (cfr. Cassazione, Sez. IV, 25 febbraio 1999, Zodi, riv. 213135).

La rilevata carenza e manifesta illogicità di motivazione in relazione alla affermata insussistenza della contravvenzione edilizia di cui al capo d) dell'imputazione, esclude l'applicabilità alla fattispecie in questione dell'articolo 129, secondo comma, Cpp. Conseguentemente, essendo detta contravvenzione contestata fino al 10 luglio 1992, essa risulta estinta per decorrenza del termine di prescrizione, pari nella specie ai sensi del combinato disposto degli articoli 157, primo comma n. 5, e 160, ultimo comma, Cp ad anni quattro e mesi sei. Si impone pertanto l'annullamento senza rinvio dell'impugnata sentenza limitatamente alla suddetta contravvenzione per tale motivo.

Tuttavia, poiché i giudici di appello hanno escluso la sussistenza dei reati di falso di cui ai capi a) ed h) sul presupposto dell'insussistenza della contravvenzione sub d), cui sono strettamente collegati, basandosi sulla ipotizzata illegittimità della concessione edilizia, l'impugnata sentenza, in relazione alle suddette imputazioni, deve essere annullata con rinvio per nuovo esame ad altra sezione della Corte d'appello di Trieste, che dovrà valutare, ai fini dell'accertamento della sussistenza dei delitti di falso in questione, se la concessione edilizia era, o meno, legittima.

In relazione all'assoluzione degli imputati dal reato di falso ideologico in atto pubblico di cui al capo f), che indica il Brunetta quale esecutore materiale del fatto e gli altri imputati quali concorrenti morali, il procuratore generale ricorrente lamenta vizio di carenza di motivazione, assumendo che la Corte di merito avrebbe omesso di valutare elementi che comprovano che il Brunetta intese accelerare l'iter della pratica in funzione della sua conclusione positiva entro breve tempo contra legem perché sollecitato dal Tolloi, sostenendo che l'approfondimento dei rapporti tra i due imputati avrebbe portato a ritenere la sussistenza dell'elemento soggettivo del falso ideologico, integrato dal dolo generico.

A tale proposito occorre rilevare che l'impugnata sentenza ha dato per pacifica la materialità del fatto, e cioè che la relazione Brunetta, svolta nel corso della Commissione regionale tenutasi il 22 luglio 1992 e trasfusa nel relativo verbale, nella parte in cui riferiva che il comune di Gorizia non aveva ancora inviato la delibera con parere favorevole di cui all'articolo 11, secondo comma lett. B2, del Dprg 9 aprile 1991 n. 0130/Pres. "per pura formalità burocratica, in quanto attesa in termini per la sua esecutività", non corrispondeva al vero, essendo tale delibera intervenuta soltanto in data 25 agosto 1992. Dopo tale premessa ha poi effettuato un'approfondita valutazione circa la sussistenza dell'elemento psicologico del reato, giungendo alla conclusione in conformità a quanto deciso dai primi giudici, che la prova in tal senso era carente. Ciò sulla base delle dichiarazioni della teste Della Bianca, secondo cui anch'essa aveva ricevuto, in epoca di poco anteriore alla seduta della suddetta Commissione, una comunicazione da parte del comune di Gorizia secondo cui la delibera era in fase di predisposizione. Circostanza questa che costituiva un riscontro diretto di quanto riferito dal Brunetta, alla quale andava collegato quanto riferito dal teste Unterweger Viani in merito alla scarsa importanza annessa dai funzionari regionali alla delibera in questione, posto che nella quasi totalità dei casi si conformava al parere della Commissione comunale per la disciplina del commercio, nonché ai problemi organizzativi in cui si dibatteva la Commissione regionale, ai quali si era riferita anche la teste Della Bianca, ed alla conseguente necessità di rispettare i termini fissati dalla legge per l'emissione del nulla osta regionale. Riteneva perciò plausibile, la Corte di merito, che il Brunetta avesse posto particolare attenzione alla verifica della avvenuta adozione di tale delibera ed escludeva, comunque, un concreto interesse di detto imputato alla perpetrazione del falso in questione, trattandosi di parere obbligatorio ma non vincolante. La motivazione dell'impugnata sentenza sul punto, contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente, risulta esauriente e logica, di talché il denunciato vizio di motivazione si risolve in censure su valutazioni di merito non deducibili in questa sede. Altrettanto deve dirsi per ciò che concerne il reato di falso per soppressione ascritto al Brunetta al capo q) della rubrica, avendo la Corte di merito escluso, con incensurabile apprezzamento in punto di fatto, adeguatamente e logicamente motivato, che l'appunto manoscritto recante la frase "Non possiamo intanto chiedere il parere alla Dir. Pianif., inviandole la doc. tecnica in possesso?", soprattutto con riguardo al tenore interrogativo della frase, avesse natura di ordine di servizio, rilevando, tra l'altro, la mancanza di prova certa circa una condotta di consapevole e volontaria soppressione, distribuzione o occultamento, di tale appunto ad opera del Brunetta o di altri, non potendosi escludere che esso potesse essere andato smarrito o distrattamente cestinato.

Riepilogando, l'impugnata sentenza deve essere annullata senza rinvio limitatamente ai reati di cui ai capi c), d), e), g), i), j), k), n), o), p) per essere gli stessi estinti per prescrizione e nei confronti dell'imputato Rinci, limitatamente ai reati di cui ai capi l) ed m) per insussistenza del fatto; annulla la medesima sentenza con rinvio per nuovo esame ad altra sezione della Corte d'appello di Trieste in ordine al reato di abuso d'ufficio di cui al capo b) ed ai reati di falso di cui ai capi a) ed h). Nel resto il ricorso del procuratore generale deve essere rigettato.

P.Q.M.

la Corte annulla senza rinvio l'impugnata sentenza limitatamente ai reati di abuso d'ufficio di cui ai capi c), d), e), g), i), j), k), n), o), p) per essere gli stessi estinti per prescrizione e, nei confronti dell'imputato Rinci, limitatamente ai reati di cui ai capi l) ed m), per insussistenza del fatto. Annulla la suddetta sentenza in ordine al reato di abuso d'ufficio di cui al capo b) nonché ai reati di falso di cui ai capi a) ed h) e rinvia per nuovo esame ad altra sezione della Corte d'appello di Trieste. Rigetta nel resto il ricorso del procuratore generale.

Depositata il 31 gennaio 2001.

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