CORTE DEI CONTI, SEZ. I GIUR. CENTRALE D’APPELLO - Sentenza-Ordinanza 9 gennaio 2003 n. 5 – Pres. De Rose, Est. Riccò – P.M. Di Domenico - Procura Generale c. A.M. e altri (Avv.ti G. Russo Corvace, D. Romagnoli, B. Caravita di Toritto, S. Nespor, L. Bernot, P. A., A. Pilia, M. Palandri) - (rimette questione di massima alle Sezioni Riunite).
Giudizio di responsabilità amministrativa – Danno all’immagine della P.A. – Rimessione di varie questioni alle Sezioni Riunite.
Debbono essere rimesse alle Sezione Riunite le seguenti questioni in materia di danno all'immagine:
a) se quest’ultimo sia azionabile in sede di giurisdizione contabile anche in mancanza di una sentenza penale definitiva, fuori dai casi di sentenza patteggiata o di estinzione del reato o della pena;
b) se tale tipo di danno rientri nell'ambito di applicabilità dell'art. 2059 del c.c. o sia individuabile nella categoria concettuale del danno esistenziale;
c) se "l'an"del detto danno debba essere individuato nell'ambito dei danni non patrimoniali o in quello del danno - conseguenza (patrimoniale riflesso);
d) se ai fini della relativa entificazione debba farsi riferimento alle spese di ripristino del prestigio leso, sostenute o anche a quelle da sostenere e, in quest'ultimo caso, se la valutazione equitativa ai sensi dell'art. 1226 del c.c. debba essere basata su prove o indizi;
e) se invece possa essere fatto riferimento ad altre perdite assertivamente a carico dell'ente;
f) se la prova delle spese sostenute debba essere offerta dal requirente o possa essere accertata d'ufficio;
g) se gli indizi da cui dedurre l'importo delle spese da assumere possano essere accertati d'ufficio o all'inverso, debbano essere indicati nella domanda giudiziale;
h) se la quantificazione del danno possa essere operata prescindendo dagli elementi indicati e, in particolare, trattandosi di illeciti commessi da appartenenti all'apparato finanziario, possa essere determinata in relazione alla minore acquisizione di entrate assertivamente collegabile con i comportamenti censurati, o alle spese promozionali inserite in bilancio ovvero ancora al danno da disservizio;
i) se la quantificazione nei primi due casi possa essere parametrata sull'importo delle tangenti riscosse e, in caso negativo, di quali parametri il giudice debba tener conto, specificando quale valore, ai fini indicati, assumano fattori dedotti dagli elementi soggettivi della fattispecie o comunque tratti dall'applicazione analogica dell'art.133 del c.p.;
j) quali parametri debbano essere impiegati una volta accolta la nozione di danno esistenziale o, comunque per la valutazione del danno non patrimoniale;
k) se tutti i detti parametri debbano essere indicati dall'ufficio requirente nella domanda giudiziale o possano essere individuati d'ufficio dal giudice.
MASSIMO PERIN
(Consigliere della Corte dei conti)
Rimessione alle Sezioni Riunite delle questioni in materia di danno all’immagine dell’amministrazione già oggetto di contrasto giurisprudenziale.
La sentenza-ordinanza in rassegna viene segnalata al lettore, in quanto rimette alle SS.RR. della Corte dei Conti tutta una serie di questioni che, da diverso tempo, sono oggetto di contrasto giurisprudenziale in materia di danno all’immagine della p.a. conseguente a fenomeni illeciti (corruzione, concussione ecc…).
Spesso le sezioni (in modo particolare quelle centrali) hanno avuto una giurisprudenza contrastante dove, sovente, fatti identici hanno trovato assoluzione o condanna a seconda dell’impostazione che il collegio giudicante ha inteso seguire nella singola fattispecie (a questo proposito è sufficiente vedere la sola giurisprudenza richiamata nella decisione).
Questi contrasti di giurisprudenza, alquanto marcati e in un settore estremamente delicato per la p.a., quale è il contrasto alle attività illecite contro la p.a., non giovano, certamente al sistema giudiziario e alla stessa credibilità dell’amministrazione.
Infatti, il Procuratore Generale nel suo discorso di apertura dell’anno giudiziario 2003 (in questa Rivista n. 2-2003) della Corte dei Conti ha affermato la necessità che «le decisioni assunte dalle Sezioni Riunite nella soluzione di questioni di massima, senza determinare alcuna monolitica cristallizzazione delle riflessioni giurisprudenziali e senza pregiudicare l’autonomia decisionale del singolo giudice, possono tuttavia offrire orientamenti di efficace armonizzazione degli indirizzi giurisprudenziali, oltre che di migliore tendenza verso l’assoluta parità di trattamento dei soggetti destinatari dei giudizi».
In tal modo, si chiede di avere una giurisprudenza che possa offrire «l’autorevolezza di un precedente» che consenta a fattispecie eguali di avere una «parità di trattamento» ed evitare che autori di danni, conseguenti ad attività illecita contro la p.a., possano trarre vantaggio sol perché sono stati giudicati da un collegio che segue un’impostazione diversa da quella di un altro.
D’altra parte che la corruzione all’interno della p.a. sia un sistema ancora forte è dimostrato dai recenti scandali in materia di sanità e all’interno dell’ANAS, dove, come riportato dalle notizie della stampa, emerge una diffusa illiceità delle condotte di una parte del personale preposto a compiti di rilievo che, oltre a procurare un rilevante danno patrimoniale, realizzato sia con forme di aggiudicazione pilotate, sia dall’acquisizione di materiali scadenti a prezzi di nessuna convenienza, produce sicuramente un senso di sfiducia nei cittadini.
Lo stesso legislatore è intervenuto, proprio di recente, con legge 16 gennaio 2003, n. 3 (in G.U. n. 15 del 20 gennaio 2003 – S.O. n. 5 - in vigore dal 4 febbraio 2003) – recante disposizioni ordinamentali in materia di pubblica amministrazione dove, all’art. 1, è prevista l’istituzione di un "Alto Commissario per la prevenzione e il contrasto della corruzione e delle altre forme di illecito all'interno della pubblica amministrazione", posto alla diretta dipendenza funzionale del Presidente del Consiglio dei ministri.
L’istituzione di questo nuovo organismo di contrasto alle attività illecite realizzate all’interno della p.a. denota, da un lato che la corruzione all’interno della p.a. non è mai scomparsa (indipendentemente dalla c.d. stagione di "mani pulite") e dall’altro che, molto spesso, si è prodotta una "microillegalità diffusa" messa in opera da personale di poca notorietà amministrativo – politica che, invece, produce danni patrimoniali di sicuro rilievo (peculati, concussioni ecc…), conseguenti all’attività di appropriazione indebita di risorse pubbliche a all’uso (ovvero abuso) dei poteri derivanti dall’ufficio ricoperto a fini di tornaconto personale, con specifica violazione del principio costituzionale del buon andamento dell’amministrazione.
Tale tendenza ordinamentale diviene importante anche per i riflessi che ha sul piano internazionale e comunitario, dal momento che il legislatore già con la legge n. 97 del 2001 era intervenuto proprio per creare un’importante "elemento di difesa di immagine della pubblica amministrazione anche verso l’estero" (cfr. il Resoconto Sommario della 1013ª del Senato in seduta pubblica di mercoledì 31 gennaio 2001, XIII legislatura) sicuramente compromessa dai fenomeni corruttivi che hanno invaso, in questi ultimi anni la p.a..
A questo proposito, è indubbio che proprio il risarcimento della lesione del danno all’immagine pubblica può comportare, con la condanna dei responsabili di fatti illeciti, un sicuro effetto di deterrenza per il futuro, al fine di riportare entro limiti più fisiologici i comportamenti pregiudizievoli in danno dell’amministrazione.
D’altra parte, è innegabile che nell’era della comunicazione, qual è la presente, il danno all’immagine si ricollega alla perdita di prestigio, tipica della tradizionale configurazione del danno al bene immateriale della personalità e correlata alla natura della trasgressione, così come alla rappresentatività del ruolo e delle funzioni rivestite dai responsabili (cfr. il discorso d’inaugurazione dell’anno giudiziario della Sezione Abruzzo della Corte dei conti tenuto dal Procuratore regionale G. PALUMBI, in questa Rivista n. 2-2003).
Peraltro, il risarcimento, anche se valutato in termini equitativi (art. 1226 c.c.), viene, comunque, dimensionato al costo reale delle risorse impegnate dall’ente per il ripristino del proprio credito presso l’utenza e per gli oneri sostenuti adottando nuove misure di riorganizzazione e di controllo, indispensabili per ripristinare le funzioni di imparzialità e di corretto uso delle risorse finanziarie (a questo proposito è sufficiente pensare al commissariamento delle sedi periferiche dell’ANAS a seguito delle recenti vicende di corruzione).
Il costo reale della lesione all’immagine è dimostrato anche dal fatto che oramai quasi tutte le amministrazioni affrontano, con oneri sui pubblici bilanci, spese per la promozione e la cura della propria immagine, tenuto conto che lo stesso legislatore ha disciplinato il settore con la legge n. 150 del 7.6.2000 in materia di informazione e comunicazione istituzionale per la cura dell’immagine della p.a.; siffatti costi è giusto che siano addebitati anche a coloro che hanno sottomesso l’immagine pubblica ad azioni di tornaconto privato strumentalizzando, per fini egoistici, le pubbliche funzioni.
A questo proposito, emerge l’importanza della rimessione alle Sezioni riunite della questione relativa alla quantificazione delle spese di ripristino del prestigio leso, verificando se, ai fini della relativa misura, debba farsi riferimento alle spese sostenute o anche a quelle da sostenere e, in quest'ultimo caso, se sia sufficiente la valutazione equitativa ai sensi dell'art. 1226 del c.c. ovvero debba farsi ricorso a prove o indizi.
Orbene, occorre puntualizzare che è del tutto impensabile, che la p.a., dopo vicende che ne abbiano compromesso la credibilità presso l’opinione pubblica, si metta (sostenendo le relative spese prima ancora di avere come posta attiva in bilancio l’effettivo risarcimento del danno), a stampare manifesti, comprare inserzioni presso i giornali o ad utilizzare i vari canali d’informazione per migliorare la propria immagine presso la collettività, al fine di prendere le distanze dai funzionari infedeli.
Certamente la condanna dei responsabili non può essere forfettizzata tout court senza avere un qualche aggancio probatorio, ma su questo punto la recentissima giurisprudenza della stessa I sezione ha affermato la sussistenza del danno all’immagine «sulla base di elementi incontrovertibili relativi al pieno riconoscimento dei gravissimi illeciti posti in essere», nel caso specifico, da militari della Guardia di finanza che hanno violato regole di condotta e obblighi, come quello di operare nell'interesse dell'amministrazione finanziaria (cfr. I sezione, sentenza n. 15/2003 del 14 gennaio 2003).
Ancora la I sezione (cfr. sentenza n. 78/2003/A del 19.2.2003 alla pag. web http://www.amcorteconti.it/giurisp/sez1_78_03.htm) ha riconosciuto il danno all’immagine come «danno evento» ed ha individuato lo stesso nei seguenti diversi aspetti quali:
1) la spesa necessaria (sostenuta, da sostenersi, soltanto eventuale) per il ripristino dell’immagine;
2) la minore richiesta del servizio da parte dell’utenza e nella loro minore soddisfazione se reso in condizioni di monopolio
3) la minore possibilità di acquisizioni di entrate, minori prestazioni di servizio ai cittadini, deterioramento della qualità della vita dei cittadini.
Per questa giurisprudenza il danno all’immagine può essere quantificato equitativamente ex art. 1226
c.c., in base alla valorizzazione dei seguenti elementi e parametri:1) l’attività funzionale dell’ente, organo o ufficio;
2) la posizione funzionale dell’autore dell’illecito o il grado di apicalità raggiunto nell’amministrazione);
3) la reiterazione dei comportamenti e la necessità di interventi modificativi dell’organizzazione o sostitutivi - riparatori dell’attività illecita;
4) in ipotesi di tangenti, l’entità della stessa;
5) le conseguenze economico-sociali dei comportamenti, ad es. sul piano degli appalti pubblici e delle entrate fiscali;
6) le conseguenze sociali fondate sulla negativa impressione suscitata nell’opinione pubblica (favorita dal clamor fori e dalla diffusione data alla vicenda dagli organi di stampa).
Sul piano probatorio, secondo questa giurisprudenza, il P.M. deve indicare e dimostrare, a fini di esistenza del danno, il comportamento illecito lesivo e, ai fini della quantificazione, i predetti elementi determinativi della dimensione e dell’entità della lesione subita dall’amministrazione.
A questa impostazione, si deve aggiungere che assume un sicuro rilievo, per la quantificazione del danno, l’entità delle somme sottratte all’amministrazione (nel caso dei peculati) e l’entità degli indebiti vantaggi conseguiti (nel caso della corruzione o della concussione).
Ovviamente, quest’ultimo orientamento potrebbe indurre qualcuno (strettamente ancorato a una visione meramente patrimonialista della responsabilità amministrativa) a pensare a una rincorsa della Corte dei conti verso una sorta di tutela dello "Stato Etico", ma dubbi di questo tipo oltreché infondati sono anche fuorvianti (e tolleranti verso le attività illecite), perché il risarcimento del danno all’immagine pubblica svolge una sicura funzione di deterrenza non per la tutela di un Stato etico di stampo hegeliano, bensì (e più modestamente) per la tutela dello "Stato onesto", da perseguire a livello costituzionale con l’art. 97 sul buon andamento e a livello comunitario dal principio di sussidiarietà, dove l’amministrazione deve essere vicina alle esigenze dei cittadini, oltreché comprensiva nel rispetto delle ragioni e degli interessi dei privati (A. ZITO, Il «diritto a una buona amministrazione» nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea e nell’ordinamento interno, in Riv. Ital. Dir. Pubbl. Comunitario, 2002, pag. 444).
Stato onesto (e amministrazione onesta, almeno tendenzialmente) dove le funzioni pubbliche, oltre che rette da principi giuridici fondamentali, come l’uso della diligenza del buon padre di famiglia, siano svolte con correttezza e rispetto delle risorse provenienti dai tributi versati dai cittadini, ricordandosi, come messo in evidenza da un’autorevole dottrina (F. G. SCOCA, voce Attività amministrativa, in Enc. Diritto, vol. aggiornamento n. 6, pag. 78, 2002), che «gli interessi pubblici sono interessi di cui sono titolari le collettività di riferimento degli apparati amministrativi che li hanno in cura; e, in ultima analisi, il popolo al quale viene riferita la sovranità».
Infine, è interessante il richiamo che la decisione fa alla categoria del danno esistenziale, considerato dalla dottrina come danno diverso da quello patrimoniale in senso stretto, dal momento che comprende le ripercussioni che il fatto illecito produce, non già sul patrimonio, ma sulla possibilità di realizzarsi di cui ciascuno dispone.
Infatti, il danno esistenziale viene sostanzialmente inteso come una lesione di qualsiasi interesse giuridicamente rilevante per la persona anche giuridica e risarcibile nelle sue conseguenze non patrimoniali e, a tal proposito, l’aggancio con la lesione all’immagine pubblica dell’amministrazione è del tutto evidente. Comunque, anche su quest’ultimo aspetto, sarà interessante conoscere l’orientamento che intenderanno prendere le Sezioni riunite.
Documenti correlati:
Corte dei Conti, sez. giur. Umbria, sent. 19.10.2002, n. 498, dove è stata affermata la sussistenza del danno all’immagine della p.a. in presenza di gravi errori progettuali. La decisione è commentata da M. Valero, Il danno all’immagine della p.a. da illecito extra penale, in Giustizia amministrativa n. 6, pag. 1460.
Corte dei Conti, sez. I centrale, 8.9.2000, n. 278 e sez. II centrale, 13.4.2000, n. 134 con commento di M. Pischedda, La valutazione del danno all’immagine della p.a., in Giustizia amministrativa n. 1 del 2001, pag. 91;
Corte dei Conti, sez. giur. Piemonte, sent. n. 780 del 30.7.2001, con nota di M. Perin, Lesione all’immagine pubblica, sistema delle tangenti e criteri di risarcimento del danno, in Giustizia amministrativa n. 10 del 2001, pag. 1107;
Corte dei conti, sez. giur. Abruzzo, sent. n. 94 del 18.02.2002 con nota di M. Perin, Tipologia di danni erariali conseguenti ad attività di corruzione e concussione nella p.a.: danno da tangente, danno da disservizio e lesione all’immagine pubblica.
In materia di danno esistenziale:
P. Cendon, Esistere o non esistere alla pag. web http://www.lenuovevocideldiritto.com/
SENTENZA - ORDINANZA
Nei giudizi di appello in materia di responsabilità, iscritti ai nn. 11771, 11885 e 11910, del registro di segreteria, proposti da A. M., patrocinato dagli avvocati Giuseppe Russo Corvace e Dario Romagnoli, D. P., rappresentato e difeso dagli avvocati Beniamino Caravita di Toritto e Stefano Nespor, e da B. R., patrocinato dagli avvocati Livio Bernot e P. A., avverso la sentenza della sezione giurisdizionale della Corte dei conti per la regione Lombardia n. 872 del 18.9.99, nonché nel giudizio di appello in materia di responsabilità, iscritto al n. 12880 del registro di segreteria, proposto da P. A. con il patrocinio dell'avv. Adriano Pilia e dell'avv. Marco Palandri, avverso la sentenza della sezione giurisdizionale per la regione Lombardia n.745 dell’1.6.2000.
Visti gli atti introduttivi dei giudizi e i documenti di causa.
Uditi nella pubblica udienza dell'8.11.2002 il consigliere relatore dr. Annibale Riccò, l'avv. Raffaele Losardo per delega dell'avv. Beniamino Caravita di Toritto, l'avv. M. Zuccheretti per delega dell'avv. Adriano Pilia ed il Pubblico Ministero nella persona del Vice Procuratore Generale dr. Pasquale Di Domenico.
Ritenuto in
\E[s \E[201s FATTO
Con atto di citazione in data 14.6.1997, il Procuratore Regionale presso detta sezione conveniva in giudizio T. V., B. R., D. P., N. F. e A. M., per sentirli condannare, in favore del Ministero delle Finanze, al pagamento di L. 4.757.917.080, oltre interessi legali, rivalutazione monetaria e spese di giudizio.
Esponeva il Requirente che, durante una visita fiscale operata nel 1989, nei confronti della società "Euromercato s.p.a.", i suddetti, appartenenti al Corpo della Guardia di Finanza, avevano ricevuto una somma di L. 60.000.000 al fine di compiere atti contrari ai propri doveri d'ufficio e che, in relazione a tali fatti, erano stati rinviati a giudizio in sede penale.
La Procura Regionale, pertanto, prospettava la sussistenza di un danno erariale sotto i seguenti profili:
a) mancate entrate tributarie;
b) ritardo o impossibilità di effettuare ulteriori indagini tributarie da parte dei competenti uffici;
c) lesione degli interessi pubblici al buon andamento degli organi amministrativi, alla tempestiva e legittima acquisizione delle risorse pubbliche;
d) mancato rispetto del rapporto sinallagmatico tra retribuzione percepita e prestazioni effettuate, in violazione degli obblighi di servizio.
Per quanto sub 1, l'organo requirente evidenziava come i ritenuti mancati accertamenti tributari erano stati quantificati in sede amministrativa in L. 4.534.838.280, conseguenti alla non deducibilità delle perdite maturate dalla "Esedra Finanziaria s.p.a.", società incorporata nella "Euromercato s.p.a.", oggetto della verifica in argomento.
In subordine l'attore indicava il suddetto danno come quantificabile sulla base della tangente corrisposta di L. 60.000.000, oltre la imposta evasa sul corrispondente fondo nero, pari a L. 43.078.800, per un importo totale di L. 103.078.800.
Anche il danno di cui sub 2 e sub 3 veniva ipotizzato in via equitativa nell'ammontare della tangente e cioè in L. 60.000.000.
La sezione adita, ritenuta la necessità di acquisire ulteriori elementi in ordine al danno derivante da mancate entrate tributarie, e premesso come in relazione all'avvenuta dazione, si fosse verificata una lesione al prestigio dell'amministrazione, implicante dei costi per il relativo ripristino, costi da valutare necessariamente a suo avviso in via equitativa, ha determinato, con sentenza non definitiva, il corrispondente danno in misura pari al doppio della tangente, ordinando per il resto incombenti istruttorii.
Ha di conseguenza condannato i convenuti A. M., D. P., N. F. e B. R. "in parti uguali ed in solido tra loro", al pagamento dell'importo di L. 100.000.000, oltre interessi dal deposito della sentenza.
Ha assolto per converso T. V. "in relazione al c.d. danno all'immagine".
Avverso la indicata pronuncia ha interposto appello A. M., con il patrocinio degli avvocati Giuseppe Russo Corvace e Dario Romagnoli, deducendo i seguenti motivi:
a) carenza di giurisdizione della Corte dei conti;
b) omessa inclusione della domanda di risarcimento del danno all'immagine nell'invito a dedurre, e negli atti di causa successivi;
c) inammissibilità della decisione sul danno all'immagine in mancanza di decisione sulla domanda di risarcimento del danno patrimoniale;
d) assoluta carenza di motivazione circa l'individuazione di un danno morale all'immagine;
e) violazione dell'art. 1226 c.c. e dei principi in materia di giudizio equitativo;
f) insussistenza del danno contestato per intervenuto risarcimento.
Conclusivamente l'appellante ha chiesto l'assoluzione e, in subordine, la riduzione dell'addebito.
Avverso l'epigrafata sentenza ha interposto appello anche D. P. con il patrocinio dell'avv. Beniamino Caravita di Toritto e dell'avv. Stefano Nespor, deducendo i seguenti motivi di gravame:
a) carenza di giurisdizione della Corte dei conti;
b) inammissibilità della domanda per decorso del termine previsto dall'art. 5 della L. 20.12.1994, n.19;
c) violazione dell'art. 112 del c.p.c., sia in relazione alla mancanza di domanda in punto di danno all'immagine, sia con riferimento alla mancata correlazione tra la citazione che ha convenuto in giudizio i prevenuti per sentirli condannare al pagamento di una somma di L. 60.000.000, ed il contenuto della decisione che ha condannato gli stessi soggetti, a tale titolo, al pagamento di una somma di L. 100.000.000.
Anche B. R. ha impugnato la sentenza di prime cure con il patrocinio degli avvocati Livio Bernot e P. A., deducendo i seguenti motivi:
a) carenza di giurisdizione della Corte dei conti;
b) prescrizione dell'azione di responsabilità;
c) insussistenza di danno patrimoniale;
d) non congruità della quantificazione del danno all'immagine; sotto tale profilo è stato dedotto che con sentenza n. 4989/121/96 del 15.12.98 della Corte d'Appello di Milano il danno all'immagine è stato liquidato in L. 20.000.000 all'amministrazione finanziaria costituitasi parte civile.
L'appellante nel ribadire conclusivamente gli esposti motivi di gravame, ha chiesto una diversa e più equa valutazione del danno non patrimoniale nonché la conferma della deduzione in sede esecutiva, di quanto già risarcito.
Il Procuratore Generale, nelle conclusioni qui depositate, ha chiesto la conferma della sentenza impugnata.
Il militare della Guardia di Finanza P. A. veniva tratto a giudizio penale per aver ricevuto la somma di L. 50 milioni nel corso della verifica fiscale operata nell'anno 1993, nei confronti della società "Hotel Ariston s.a.s.", al fine di compiere atti contrari ai doveri d'ufficio.
In relazione a tanto, il P. veniva condannato, dal competente organo giudiziario del Tribunale di Milano, a seguito di rito abbreviato, alla pena di anni 2 e mesi 4 di reclusione.
La Procura Regionale presso la sezione giurisdizionale della Corte per la regione Lombardia, con atto in data 25.6.1999, conveniva in giudizio il medesimo individuando un danno patrimoniale all'erario per i seguenti profili:
a) mancate entrate tributarie;
b) mancato rispetto sinallagmatico tra retribuzione percepita e prestazione effettuata, in violazione degli obblighi di servizio;
c) danno conseguente alla grave perdita di prestigio ed al grave detrimento dell'immagine e della personalità pubblica dello Stato-Amministrazione Finanziaria.
La prima voce di danno è stata articolata dal requirente in un duplice aspetto, sia, in relazione all'importo della tangente percepita, sia con riferimento alla mancata tassazione dei fondi precostituiti per il pagamento della tangente stessa, per un importo complessivo pari a L.75.579.000.
L a seconda partita di danno è stata quantificata in L. 289.594.
La terza in L.. 60.000.000.
I primi giudici, disattese le richieste di risarcimento del danno quantificato alle prime due voci, hanno condannato il convenuto, per il danno all'immagine subito dalla amministrazione, al pagamento della somma di L. 100.000.000, pari al doppio della tangente, oltre interessi e spese di giudizio.
Al riguardo, i primi giudici, considerato tale evento come danno-conseguenza e quindi qualificatolo come patrimoniale, lo hanno individuato sul piano delle conseguenze finanziarie da esso derivabili in termini di possibili effetti emulativi da parte di altri dipendenti, dello storno di richieste di servizi e prestazioni dal pubblico al privato, dell'induzione all'evasione nei confronti dei contribuenti, dalla possibilità di alterazione delle regole che governano l'attività economica che dai riferiti comportamenti risulterebbe deviata nei suoi principi di concorrenzialità e trasparenza.
Una volta ritenuto "l'an" del danno, i primi giudici lo hanno ritenuto valutabile ai sensi dell'art. 1226 del c.c., in relazione a criteri valutativi di carattere generale e di ispirazione equitativa.
Sotto il primo aspetto e con riferimento al ripristino del bene leso, secondo la sentenza impugnata, si dovrebbe tener conto del costo di previsioni legislative, regolamentari e di misure organizzative, poste in essere per la lotta all'evasione, sotto il secondo aspetto, occorrerebbe aver riguardo al ruolo del soggetto nell'organizzazione amministrativa, alla sua eventuale posizione di "rappresentanza esterna", alla reiterazione della condotta e al carattere dell'ente, ovvero alla sua capacità esponenziale, al suo ambito territoriale, agli interessi di cui ha cura, e, sotto il profilo oggettivo, alla gravità dell'illecito, alle sue modalità di perpetrazione, all'arricchimento.
Avverso la indicata pronuncia ha interposto appello il P. con il patrocinio dell'avv. Adriano Pilia, deducendo l'erroneità della decisione impugnata che non avrebbe tenuto conto della transazione intercorsa con l'amministrazione delle Finanze, con la quale egli avrebbe definito ogni pretesa risarcitoria, mediante il versamento della somma di L. 120.000.000.
In punto di danno all'immagine, l'appellante, dedotta la violazione dell'art. 112 del c.p.c. per ultrapetizione, avendo la sentenza impugnata condannato per una somma di L. 100.000.000 mentre la richiesta attorea a tale titolo era di L. 60.000.000, ha censurato l'applicazione dell'art. 1226 del c.c., nella fattispecie, sul rilievo della ritenuta mancata prova del danno.
Al riguardo l'appellante ha assunto la mancata risonanza sulla stampa locale della verifica fiscale di che trattasi, mentre, sotto il profilo della spesa necessaria al ripristino del bene leso, ha rilevato la mancata esibizione, da parte della Procura, delle ricevute di eventuali somme corrisposte a fronte di campagne pubblicitarie volte a riaffermare l'immagine della Guardia di Finanza, nonché l'omessa indicazione dei criteri oggettivi e dei parametri utilizzati ai fini della quantificazione del danno.
Conclusivamente l'appellante ha chiesto, in via preliminare, una declaratoria della inammissibilità dell'azione della Procura Generale, nel merito l'assoluzione e, in subordine, la riduzione dell'addebito.
Il Procuratore Generale, nelle proprie conclusioni scritte, ha chiesto la conferma della sentenza impugnata.
L'avv. Livio Bernot, difensore di B. R., ha qui depositato la nota in data 18.6.2002 con la quale ha formalmente rinunciato al mandato conferitogli.
Alla pubblica udienza, l'avv. Losardo ha confermato l'atto scritto, l'avv. Zuccheretti ha eccepito la prescrizione dell'azione ed il Pubblico Ministero, nel confermare, per tutti i giudizi, le conclusioni scritte, ha citato altre sentenze di questa sezione ove, in fattispecie analoghe, gli appelli sono stati rigettati nel merito.
Considerato in
\E[s \E[202s DIRITTO
.1 Il collegio preliminarmente dispone la riunione degli appelli contrassegnati dai nn.11771, 11885 e 11910, ex art. 335 del c.p.c. in quanto proposti avverso la stessa sentenza.
Dispone altresì la riunione dei gravami, come sopra riuniti, con l'appello n.12880, ai sensi degli artt. 274 e 103 del c.p.c., in quanto, per tutti, la decisione relativa dipende, almeno in parte, dalla risoluzione di identiche questioni.
Nel prendere atto poi, della nota in data 18.6.2002 citata in fatto, rileva, da un lato che la rinuncia al mandato è efficace nei limiti disposti dagli artt. 85 e 301, terzo comma del c.p.c., e, dall'altro, che la difesa del B. è comunque assicurata dall'avv. P. A., codifensore al quale il mandato non è stato conferito in maniera congiunta (cass. n. 708 del 15.2.78, 238 del 12.1.84, 4368 del 16.5.97, 308 dell'11.2.2002).
.2 In via prioritaria, la sezione deve quindi affermare la propria giurisdizione sulle cause proposte alla sua cognizione,
Al riguardo, data la sussistenza di giurisprudenza consolidata in materia, appare sufficiente richiamare le sentenze delle S.S.U.U. della Corte di Cassazione n. 9746 del 17.11.94 e n. 612 del 1°.9.99.
.3 Circa le altre eccezioni pregiudiziali e preliminari opposte dagli appellanti, il collegio ritiene, in linea con l'orientamento prevalente in ordine all'interpretazione dell'art. 276, secondo comma del c.p.c., che la determinazione del relativo ordine di esame consegua ad un'attività discrezionale del collegio che trova il proprio limite solo nella necessaria priorità delle pregiudiziali di rito in relazione alla loro natura di "litis ingressum impedientes"(Cass. n. 3365 del 5.6.1984).
Sennonché tale limite non sembra poter operare in presenza di cause riunite ove almeno una di queste sia caratterizzata dall'assenza di tale tipo di eccezioni sì da consentire l'esame del merito o, quanto meno delle questioni preliminari di merito.
In caso invece di concorrenza di più questioni preliminari di merito, quali quelle attinenti alla prescrizione od alla configurazione in astratto del danno, il relativo ordine va determinato in base al criterio dell'assorbimento correlato ai principi dell'economia processuale e della certezza giuridica che postula una celere proposizione delle questioni di massima ai fini della loro tempestiva decisione.
Non ignora peraltro questo giudice che, secondo il Supremo Collegio (Cass. n. 5049 del 6.11.78), per effetto del principio dispositivo, le parti hanno il potere di disporre l'ordine logico delle questioni proposte nel giudizio salvo che non si tratti di questioni rilevabili d'ufficio. Sennonché deve osservarsi come nell'appello P. il difensore abbia soltanto in udienza sollevato l'eccezione di prescrizione quale motivo aggiunto d'appello, talché, in disparte ogni questione in ordine alla relativa ammissibilità, non può ritenersi la proposizione dell'eccezione stessa in via prioritaria.
Peraltro la questione sulla esistenza del danno sembra avere una preminenza logico-cronologica su quella di prescrizione tutte le volte che, come nel caso in esame, la configurazione del danno stesso, in termini di rilevanza per l'azione di responsabilità, postuli l'identificazione del momento della relativa insorgenza, (dal danno-evento o dal danno-conseguenza a seconda che "l'an" venga individuato nel primo o nel secondo), con conseguente diretta incidenza sulla data di decorrenza del termine prescrizionale che il giudice è tenuto a determinare d'ufficio (cass. n. 3320 del 27.10.72).
Sempre quanto al P., va rilevato che l'eccezione di "extrapetizione","recte"di ultrapetizione da lui proposta riguarda soltanto il "quantum", rimanendo così impregiudicata la decisione in via prioritaria sull'importo del risarcimento statuito nei limiti della domanda.
.4 Entrambe le sentenze impugnate hanno condannato i convenuti per danno all'immagine, per un importo, in un caso, parametrato sulla misura della tangente percepita, nell'altro, determinato ai sensi dell'art. 1226 del c.p.c., secondo i criteri precisati nella parte narrativa.
Orbene, ritiene il collegio che la problematica relativa debba essere esaminata con distinto riferimento agli aspetti dei presupposti di conoscibilità del danno all'immagine da parte del giudice contabile, a quello della sussistenza ontologica del danno stesso (profilo "dell'an"), ed a quello della relativa quantificazione.
.4.1 Sul primo punto, occorre ricordare come la sentenza delle S.S.R.R. n.16/99/Q.M.(pag.19) abbia precisato l'estraneità alla pronuncia di massima dei casi caratterizzati dall'assenza, nella fattispecie, di pronuncia del giudice penale.
Peraltro il problema, che nella specie è rilevante, non risultando, quanto alle vertenze di cui al primo gruppo di appelli, interessanti gli appellanti B. e A., una sentenza penale definitiva, non appare specificamente affrontato, nel suo complesso, dalla giurisprudenza della Corte, pur se si è specificata (sez. I n.120 del 18.4.2002) la necessità dell'acquisizione di elementi integranti gli estremi di comportamenti penalmente rilevanti in ordine ai fatti dedotti quale scaturigine del danno all'immagine o la sufficienza , ai fini indicati, di una sentenza penale patteggiata (sez. I n. 216/2002).
Sul punto la giurisprudenza del Supremo Collegio ha affermato un potere di accertamento del reato, agli indicati fini, del giudice civile, sia in caso di patteggiamento (cass. n. 13425 del 9.10.2000), sia in caso di estinzione del reato stesso (cass.n. 11038 del 10.11.97. n. 482 del 7.3.61, 3803 del 22.6.82, n. 6527/96, 1015/96) mentre appaiono minoritarie le pronunce che assumono la possibilità di accertamento in via incidentale, del reato indipendentemente da qualsiasi pronuncia penale (cass. 2367 del 3.3.2000).
In questo filone sembra iscriversi l'orientamento secondo il quale la risarcibilità del danno non patrimoniale, a norma dell'art. 2059 del c.c., in relazione all'art. 185 cod. pen., non richiede che il fatto illecito integri in concreto un reato, ed un reato punibile, per concorso di tutti gli elementi rilevanti per la legge penale, essendo sufficiente che il fatto stesso sia astrattamente preveduto come reato, e conseguentemente idoneo a ledere l'interesse tutelato dalla norma penale (Cass. S.U. n 6651del 6.12.1982).
Un approccio completamente diverso è seguito da quelle pronunce (v. Corte conti sez. Umbria n. 557/2000 del 18.10.2000, n. 98 dell'8.3.2001) secondo le quali il danno all'immagine va individuato al di fuori della nozione di danno morale, con conseguente svincolo dai presupposti di cui all'art. 2059 del c.c. e relativo inquadramento nell'art. 2043 quale "danno ingiusto ad uno dei diritti fondamentali della persona giuridica pubblica".
Al riguardo, il danno all'immagine viene riportato alla categoria concettuale del "danno esistenziale" inteso dalla letteratura civilistica come danno diverso da quello patrimoniale in senso stretto, siccome comprendente le ripercussioni che il fatto illecito produce, non già sul patrimonio, ma sulla possibilità di realizzarsi di cui ciascuno dispone, nonché dal danno morale, perché non provocato da sofferenze psichiche, bensì da limitazioni che riguardano la concreta attività del soggetto leso.
Il citato orientamento trova un autorevole precedente nella fondamentale sentenza della Corte Costituzionale n. 184/86, giustamente considerata la madre di tutte le pronunce in tema di danno esistenziale, nonché, al di là della terminologia usata, una conferma in parte della giurisprudenza della Suprema Corte (Cass. n. 4881/2001, n. 6507/2001, 6591/2002).
La dottrina che ritiene l'inapplicabilità dell'art. 2059 alle persone giuridiche e quindi l'impossibilità per le stesse di far valere un'azione risarcitoria per danno morale, in quanto "incapaci di soffrire," ( in senso conforme v. Cass. n. 7642 del 10.7.1991) ritiene che la categoria del danno esistenziale si rilevi particolarmente adatta al caso della lesione del prestigio di un ente pubblico, siccome incidente sulla esplicazione di attività a-reddituali attraverso le quali l'ente persegue il proprio scopo.
Ed è evidente come l'accoglimento di una siffatta prospettazione porti ad estendere notevolmente l'ambito della risarcibilità in sede contabile, siccome atta a ricomprendere nelle fattispecie relative anche i fatti illeciti non caratterizzati da dolo e comunque a superare il presupposto costituito dalla esistenza di un reato.
.4.2 Circa l'esistenza del danno, la giurisprudenza non appare ispirata ad orientamenti univoci.
Peraltro una volta statuito il carattere patrimoniale "indiretto" del danno azionabile davanti alla Corte dei conti, (SS.RR. n.16/99/Q.M.) l'indagine avrebbe dovuto essere ispirata alla ricerca della detta esistenza con riferimento al danno - conseguenza (in questo senso v. sez. I n. 69/2002), assumendo, nella correlata prospettiva, la lesione dell'immagine dell'ente pubblico la qualità di mero presupposto naturalistico; sennonché così non è sempre stato, dato che spesso il detto elemento è stato rinvenuto nel "clamor fori" o comunque nella perdita di prestigio dell'istituzione colpita dell'evento lesivo (sez. I n. 16/2002, sez. III n. 279/2001, n. 274/2001) mentre altre volte tale danno è stato considerato "in re ipsa" ove l'ente colpito avesse esercitato attività economica (sez. II n. 195 del 18.6.90, sez. I n. 329 del 3.12.98).
Peraltro, se per l'indirizzo prevalente, si è richiesto, per la configurabilità del danno, che l'ente avesse sostenuto spese effettive per il ripristino del suo prestigio leso, (sez. I n. 170 del 12.6.2001, n. 272 del 21.9.2001, n. 282 del 2.10.2001, n. 305 del 19.10.2001, n. 63/2002, n. 15 del 31.1.2001,n. 77 del 23.3.2001, n. 289 del 28.6.2002, sez. II n. 125 del 10.4.2000), in aderenza alle statuizioni della Corte regolatrice (Cass. S.U. n. 5668 del 25.6.97, n. 98 del 4.4.2000, n.744 del 25.10.99) in altri casi (v. sez. I n. 16./2002 cit.,) il danno è stato ravvisato, in caso di fatti corruttivi perpetrati da appartenenti al corpo della Guardia di Finanza, in perdite non correlate a spese finalizzate al ripristino della lesa immagine, quali quelle attinenti alla minore possibilità di acquisizione di entrate, indotta dalla provocata sfiducia dei cittadini in una regolare riscossione delle imposte e, nel caso di irregolare aggiudicazione di appalti, (sez. I n. 102/2002), nell'influenza delle irregolarità sulla formazione dei listini dei prezzi in relazione alla confluenza di prezzi "gonfiati".
.4.3 Quanto al terzo profilo, il danno è stato spesso quantificato, peraltro in contrasto con la sentenza n. 16/99/Q.M. delle Sezioni Riunite e, nel caso di dazioni illecite, in un importo ragguagliato o comunque parametrato su quello delle tangenti percepite ( sez. I n. 150 del 13.5.2002, n. 219 del 4.7.2002, n. 336/2002, 381 del 5.11.2002), criterio questo, peraltro anche diverso da quello individuato nell'ammontare delle spese per il ripristino del prestigio leso, secondo l'insegnamento del Supremo collegio contenuto nelle sentenze sopra richiamate.
Si è comunque precisata (sez. I n. 16/2000 cit.) l'impossibilità di quantificazione secondo parametri non contenuti nella domanda del requirente.
5.1 Sul primo punto (v. paragrafo 4.1.), il collegio deve precisare come l'affermazione del potere di accertamento in via incidentale del reato, da parte del giudice non penale, sul rilievo dei principi di autonomia e di separatezza che oggi governano i rapporti tra processo penale e giudizio extrapenale non appaia "de plano" condivisibile, posto che tanto è stato rivendicato in ragione dell'autonomia delle fattispecie penalmente rilevanti e di quelle rilevanti dal punto di vista della giustizia contabile, ancorché contrassegnate da dolo.
Ove si tratti invece di danno non patrimoniale, l'art. 2059 del c.c. e l'art. 185 del c.p. subordinano espressamente la risarcibilità dei fatti considerati alla esistenza del reato.
Quanto alla individuazione del danno all'immagine in un'area diversa da quella dei fatti illeciti aventi rilevanza penale, è noto che in primo tempo la giurisprudenza aveva ritenuto la coincidenza dei concetti di danno morale e di danno non patrimoniale (Corte Cost. sentenza n. 184/86),individuando pertanto il fondamento della risarcibilità del danno biologico, non già nell'art. 2059, bensì nell'art. 2043 del c.c. e nell'art. 32 della Costituzione.
Successivamente tale orientamento veniva superato nel rilievo della ritenuta risarcibilità del danno alla salute, nel novero dei danni non patrimoniali secondo una interpretazione meno restrittiva dell'art. 2059 del c.c..
Al riguardo, pur dato atto come l'art. 2059 ridetto, che disciplina "il danno non patrimoniale" non si riferisca soltanto ai danni provenienti da reato, ma anche ad altri fatti illeciti ove la risarcibilità sia prevista espressamente dalla legge, non appare agevole rinvenire la fonte normativa, nel senso indicato, in tema di risarcibilità di danni all'immagine, nella clausola generale contenuta nell'art. 2043, data, la sua natura di norma in bianco, implicante la necessità di reperimento di una disposizione che disciplini in positivo il diritto o interesse suscettibile di violazione, disposizione che non appare identificabile in quella di cui all'art. 10 del c.c., sia perché riferibile all'abuso dell'immagine e non alla lesione dell'immagine stessa, sia per la pacifica inerenza della clausola di salvaguardia della parte finale dell'articolo, solo ai danni patrimoniali.
Secondo la dottrina che fa riferimento al danno esistenziale, invece, il danno all'immagine di un ente pubblico è da ritenersi, non già un danno non patrimoniale da ricondursi alla disciplina di cui all'art. 2059 c.c., bensì un danno patrimoniale in senso ampio, da azionarsi in base a generali norme fondanti l'azione di responsabilità di questa Corte, che troverebbe la propria giustificazione sostanziale nei diritti di personalità dei gruppi organizzati secondo le linee tracciate dagli artt. 2 e 18 della Costituzione. Come tale, la descritta "juris figura" verrebbe a sottrarsi ai rigidi limiti imposti dall'art. 2059.
Tutto questo premesso, in ragione della rilevanza della questione proposta nella fattispecie inerenti ad alcune vertenze riunite, caratterizzate dalla assenza in atti di una sentenza penale definitiva, il collegio ritiene di rimetterne la soluzione alle Sezioni Riunite a termini del comma VII d.l. n. 453/93, convertito, con modificazione, nella L. n. 19/94, anche in assenza di sentenze che abbiano espressamente risolto in modo divergente il punto descritto, quale soluzione di massima "stricto sensu", la cui proposizione deve ritenersi ammessa anche dopo la normativa sul decentramento giurisdizionale, in relazione, da un lato, alla difficoltà di interpretazione presentate dal punto di diritto sottoposto all'esame, con il pericolo di indirizzi giurisprudenziali difformi, dall'altro, alla frequente ricorrenza delle fattispecie implicate (SS.RR. n. 16/95/Q.M.).
5.2 Circa il secondo punto, (paragrafo 4.2), occorre stabilire, sia ai fini di determinare il momento di relativa insorgenza per la individuazione della decorrenza della prescrizione, sia allo scopo di presumerne il dato ontologico ai fini dell'attivazione dell'art. 1226 del c.c., i caratteri fisionomici della lesione risarcibile nel giudizio di responsabilità .
Che la cognizione di questa Corte sia limitata al danno patrimoniale non sembra messo in discussione, sotto il profilo teorico (v. sez. I n. 69/2002 e giurisprudenza della Cassazione e di questa Corte ivi richiamata). Sennonché alcune pronunce, soprattutto di primo grado, continuano, ai fini indicati, a far riferimento al "clamor fori" e quindi al danno non patrimoniale; e non appare chiaro se tale orientamento sia supportato dalla convinzione che "l'an" del danno-conseguenza sia un esito ineluttabile del danno-evento "lesione dell'immagine" oppure se invece si intenda tale lesione quale oggetto del risarcimento.
Sotto questo profilo deve essere osservato come la Suprema Corte (Cass. n.7642/91), ferma restando la non ricomprensibilità del danno all'immagine delle persone giuridiche nel danno morale, ha affermato l'inquadrabilità del danno stesso nel novero dei danni non patrimoniali di cui all'art. 2059 (risarcibili soltanto in esito alla commissione di un reato e ciò in relazione al rinvio all'art.185 del c.p. che costituirebbe la disposizione di legge fondante la risarcibilità).
E peraltro anche le Sezioni Riunite, nella ricordata sentenza, pur aderendo alla teorica della patrimonialità, non hanno escluso (v. pag.19) la risarcibilità in sede di giurisdizione contabile, del danno non patrimoniale.
Peraltro l'identificazione ontologica del danno pubblico all'immagine appare collegata a quella inerente la compensabilità del danno stesso con le somme pagate a titolo di risarcimento in esito all'azione civile nel processo penale, attesa la non compensabilità di entità non omogenee (danno non patrimoniale in sede civile, danno patrimoniale-ove così si ritenga- in sede contabile).
Nella ipotesi di ritenuta rilevanza del danno non patrimoniale e anche ove si aderisca alla teorica del danno esistenziale, la scansione tra danno-evento e danno -conseguenza appare sfumata, posto, che, in questa ottica, le conseguenze dell'atto illecito vanno apprezzate indipendentemente da una loro pur possibile ripercussione sul patrimonio di chi le subisce, rilevando tali conseguenza di per sé, nella misura in cui costituiscono esito della lesione di un interesse giuridicamente rilevante, indipendentemente dal danno patrimoniale "stricto sensu",che, peraltro, nella prospettiva risarcitoria, può essere considerato in aggiunzione al primo.
Anche sul punto in esame sembra utile, pertanto, provocare l'intervento delle Sezioni Riunite in vista di una necessaria uniformazione delle pronunce.
.5.3 Circa l'aspetto inerente alla quantificazione del danno, deve ricordare il collegio che, secondo la giurisprudenza della Suprema Corte, (Cass. n. 5352 dell'1.9.86, 6056 del 16.6.90, n. 2008 del 18.2.93), la valutazione in via equitativa del danno, ex art. 1226, non esonera il giudice dall'obbligo di indicare gli elementi che sorreggono tale liquidazione.
Come detto in precedenza, è sul punto in esame che si manifestano le maggiori divergenze, facendosi da alcune pronunce riferimento alle spese di ripristino effettuate, altre comprendendo quelle da effettuare, e ricorrendo altre ad elementi estranei agli elementi direttamente collegati al ripristino del prestigio leso.
Si inquadrano in questo ultimo orientamento le decisioni che fanno riferimento, in tema di illeciti commessi da dipendenti della Guardia di Finanza, al danno assertivamente provocato dai comportamenti considerati, valutabile in termini di acquisizione di minori entrate, dato che si correla ai comportamenti stessi, l'induzione, nella collettività, della convinzione della possibilità di aggirare la normativa fiscale mediante opportune dazioni.
Sennonché dando anche per ammessa una correlazione tra i descritti fenomeni nel senso indicato (il che peraltro non appare pacifico, essendo le verifiche da operare a cura della Guardia di Finanza attinenti ad una ristretta platea di contribuenti), occorrerebbe pur sempre l'indicazione di idonei parametri per ragguagliare le dimensioni del danno agli episodi considerati, dimensione che, a tal fine dovrebbe prima essere quantificata, se pure in via di massima, sul piano nazionale e poi calata nelle dimensioni di tempo e di luogo connotanti i fatti oggetto di esame.
Al riguardo non sembra che un parametro idoneo possa essere individuato nella misura della tangente percepita, sia perché tale dato non è correlabile con l'entità delle spese di ripristino, sia giacché, anche in una ottica che prescinda da tale entità, la lesione del prestigio di una istituzione coinvolta in fatti corruttivi appare tanto più grande quanto più esigua è la somma per la quale i relativi componenti sono venuti meno al loro dovere di fedeltà.
Peraltro anche l'utilizzazione del parametro ricavabile dall'elemento soggettivo non appare utilizzabile senza difficoltà, posto che l'entità delle spese di ripristino non appare correlabile con una valutazione che faccia applicazione analogica dell'art. 133 del c.p., mentre anche a voler identificare il danno in termini di minore acquisizione di entrate "recte"di pericolo di minori acquisizioni di entrate, non appare agevole la correlazione tra i dati di cui alla norma penale ricordata , con il danno da risarcire.
Altri parametri sono stati individuati, in tema di illeciti commessi da appartenenti alla Guardia di Finanza in "un'ampia quota delle spese promozionali iscritte nel bilancio della Guardia di Finanza negli anni successivi alla scoperta dei fatti", sia "larga parte" delle spese correnti per emolumenti erogate ai relativi componenti implicati nei fatti (sentenza n. 16/2002, già citata).
Sennonché, quanto al primo punto, il danno, con specifico riferimento ai fatti esaminati, sembra dover essere quantificato mediate il ricorso ad ulteriori parametri secondo quanto innanzi detto, mentre la seconda proposizione sembra far riferimento, più che al danno all'immagine, al cosiddetto "danno da disservizio", ontologicamente diverso dal danno all'immagine.
Ove invece venisse accolta la figura del danno esistenziale è chiaro che le eventuali conseguenze patrimoniali negative potrebbero venire in rilievo, oltre che come danno indiretto da calcolarsi in aggiuntiva secondo quanto innanzi detto, anche come parametri di quantificazione dello stesso danno esistenziale.
Deve da ultimo esaminarsi la questione attinente alla possibilità della valutazione d'ufficio dei parametri di riferimento.
Tale possibilità è negata da parte della giurisprudenza della Corte (sez. I n. 16/2002) mentre in altre pronunce è stata ammessa un'attività istruttoria del giudice (ord. n.95/2002).
Ora se il primo rigoroso orientamento appare apprezzabile in termini di tutela dei diritti della difesa, esso appare tuttavia in contrasto con la giurisprudenza della Cassazione in ragione del ritenuto valore omnicomprensivo della domanda di risarcimento (Cass. n. 1652 del 31.5.1971, n. 3287 del 29.11.73, n.6497 del 27.7.1987).
Secondo la già citata sentenza delle SS.RR. N. 16/97, il requirente dovrebbe fornire la prova o "un principio di prova" del danno, mentre la relativa quantificazione dovrebbe essere affidata al giudice.
Sennonché, in un'ottica squisitamente patrimonialistica, la mancata indicazione del danno in senso economico si risolve nella mancata prova della sua esistenza.
Peraltro, ad avviso del collegio, andrebbe pure rimeditata l'affermazione , espressa peraltro a livello di "obiter dictum" nella decisione delle SS.RR. N.16/99/Q.M.,circa la possibilità di valutare nel danno patrimoniale le spese future, finalizzate al ripristino del prestigio leso, stante il suo contrasto con il consolidato principio della certezza ed attualità del danno( v. sul punto tra le più recenti sez. II n.22 del 27.9.93, n. 25 del 27.2.95, n. 30 del 10.10.95, n. 94 del 2.7.97, sez. I n. 68 del 23.3.94, n. 91 del 24.5.94, sez. III n. 140 del 22.5.98, n. 57 del 29.3.99, SS.RR. n. 764 del 22.4.92, n. 12 del 29.1.97); e al riguardo non sembrerebbe decisivo il richiamo alla sentenza della cassazione S.U. n.12041/97, siccome decisione questa contenente statuizioni in punto di giurisdizione e perciò attinenti alla configurazione del danno in astratto e non in concreto.
E comunque, anche la mancata indicazione degli indizi da cui desumere le spese da assumere, non potrebbe che risolversi nella mancata prova del danno nella sua entità ontologica.
Stanti pertanto i contrasti giurisprudenziali come sopra descritti, anche il punto di cui al presente paragrafo, nelle sue variegate articolazioni, va portato all'esame delle Sezioni Riunite ai fini del conseguimento di una pronuncia di massima. E ciò anche se, in punto di valutazione del danno in termini della misura della tangente percepita, le Sezioni Riunite si siano già espresse in senso negativo; e ciò, sia in relazione al mancato inserimento nel dispositivo della sentenza n.16/99/Q.M., di conforme indicazione, sia in relazione all'opportunità del riesame della questione in ragione della presenza di varie decisioni esprimenti un avviso diverso, costituendo contrasto in senso tecnico anche la difformità tra più sentenze di una sezione di appello, ed una di massima delle Sezioni Riunite(SS.RR. N. 3/2001/Q.M.).
6 E' possibile ora formalizzare i quesiti da rivolgere ai fini della risoluzione della questione di massima, con distinto riferimento alle problematiche trattate nei paragrafi che precedono.
Si rimettono pertanto gli atti alle Sezioni Riunite perché vogliano emettere pronuncia di massima in ordine ai seguenti punti:
a) se il danno all'immagine sia azionabile in sede di giurisdizione contabile anche in mancanza di una sentenza penale definitiva, fuori dai casi di sentenza patteggiata o di estinzione del reato o della pena;
b) se tale tipo di danno rientri nell'ambito di applicabilità dell'art. 2059 del c.c. o sia individuabile nella categoria concettuale del danno esistenziale;
c) se "l'an"del detto danno debba essere individuato nell'ambito dei danni non patrimoniali o in quello del danno - conseguenza (patrimoniale riflesso);
d) se ai fini della relativa entificazione debba farsi riferimento alle spese di ripristino del prestigio leso, sostenute o anche a quelle da sostenere e, in quest'ultimo caso, se la valutazione equitativa ai sensi dell'art. 1226 del c.c. debba essere basata su prove o indizi;
e) se invece possa essere fatto riferimento ad altre perdite assertivamente a carico dell'ente;
f) se la prova delle spese sostenute debba essere offerta dal requirente o possa essere accertata d'ufficio;
g) se gli indizi da cui dedurre l'importo delle spese da assumere possano essere accertati d'ufficio o all'inverso, debbano essere indicati nella domanda giudiziale;
h) se la quantificazione del danno possa essere operata prescindendo dagli elementi indicati e, in particolare, trattandosi di illeciti commessi da appartenenti all'apparato finanziario, possa essere determinata in relazione alla minore acquisizione di entrate assertivamente collegabile con i comportamenti censurati, o alle spese promozionali inserite in bilancio ovvero ancora al danno da disservizio;
i) se la quantificazione nei primi due casi possa essere parametrata sull'importo delle tangenti riscosse e, in caso negativo, di quali parametri il giudice debba tener conto, specificando quale valore, ai fini indicati, assumano fattori dedotti dagli elementi soggettivi della fattispecie o comunque tratti dall'applicazione analogica dell'art.133 del c.p.;
j) quali parametri debbano essere impiegati una volta accolta la nozione di danno esistenziale o, comunque per la valutazione del danno non patrimoniale;
k) se tutti i detti parametri debbano essere indicati dall'ufficio requirente nella domanda giudiziale o possano essere individuati d'ufficio dal giudice.
P.Q.M.
La Corte dei conti sezione I giurisdizionale centrale d'appello, non definitivamente pronunciando, previa riunione dei giudizi di appello iscritti ai nn. 11771,11885,11910 e 12880, afferma la propria giurisdizione in ordine alla cognizione dei giudizi stessi.
Dispone la trasmissione degli atti alle Sezioni Riunite, cui rimette, ai sensi dell'art. 1, comma VII del D.L. 14.11.93, n. 453, convertito, con modificazioni nella L.14.1.94, n.19, la soluzione delle questioni di massima attinenti ai punti specificati in parte motiva.
Spese al definitivo.
Omissis