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n. 7/8-2002 - © copyright.

CORTE DEI CONTI, SEZIONE GIURISDIZIONALE REGIONE LOMBARDIA – Sentenza 8 giugno 2002 n. 1255Pres. ed Est. Giampaolino – P.G. c. Formentini ed altro (avv.ti Rusconi ed Antonelli).

Responsabilità amministrativa - Giudizio di responsabilità – Regime delle spese – Criteri – Individuazione – Proscioglimento per mancanza dell’elemento soggettivo – Nel caso in cui comunque i convenuti abbiano posto in essere comportamenti illegittimi e non convenienti per l’Amministrazione – Compensazione delle spese - Va disposta.

E’ conforme ai basilari principi che regolano, nell’esercizio della funzione giurisdizionale, il riparto delle spese processuali, che le spese giurisdizionali e, in particolare, quelle legali, siano poste a carico delle parti che, con il loro comportamento, le hanno determinate ovvero hanno contribuito alla loro determinazione o al loro aggravarsi. Di conseguenza, le parti che, con i loro comportamenti, hanno dato luogo a situazioni illegittime o non convenienti per l’Ente locale debbono, anche se le stesse non si configurano come illecite perché mancante l’elemento soggettivo della colpa grave, rispondere, in proprio, delle spese processuali non potendosi far gravare queste su altro soggetto (l’Amministrazione di appartenenza).

Nel giudizio di responsabilità amministrativa, in caso di proscioglimento di convenuti che hanno posto in essere comportamenti illegittimi e non convenienti per l’amministrazione, ma che devono essere prosciolti per mancanza dell’elemento soggettivo della colpa grave, le spese del giudizio devono essere compensate ed esse restano pertanto a carico delle parti convenute e non sono rimborsabili dall’Amministrazione.

 

 

FATTO

Con atto del 22 maggio 2001 la Procura Generale presso questa Corte ha convenuto in giudizio i Sigg.ri Formentini Marco e Maggi Adriano chiedendo che gli stessi fossero condannati al pagamento, in favore del Comune di Milano, della somma di L.56.668.000, ripartita nella misura di due terzi per il Formentini e di un terzo per il Maggi, oltre a rivalutazione monetaria, interessi e spese di giudizio.

Nel suo atto di citazione la Procura regionale esponeva che, con atto del 22.8.1996, trasmesso ad essa Procura, il sindacato di base per il coordinamento della polizia municipale di Milano aveva segnalato la vicenda relativa a due distinti incarichi di consulenza, commissionati dal Comune di Milano e finalizzati alla riorganizzazione del funzionamento del corpo di polizia municipale di Milano, mentre, con nota del 17.2.1999 erano stati successivamente trasmessi gli atti sottoscritti dal Comune di Milano con la Soc. "T.c. Team consulting Ag." e con il Generale Nardone.

Riteneva in proposito la procura regionale che dall’esame degli atti trasmessi si evidenziava che la seconda consulenza, quella stipulata con il Generale Nardone, appariva meramente riepilogativa della prima e comunque non conforme ai principi di buona e corretta amministrazione.

Esponeva, infatti, la Procura regionale che, con delibera 5039/95 della Giunta comunale, era stato conferito un incarico di studio alla società innanzi nominata per l’elaborazione di un piano di intervento volto a riorganizzare ed ottimizzare il funzionamento del corpo della polizia comunale di Milano.

Il relativo disciplinare di incarico prevedeva un programma da realizzarsi in due fasi, la prima, riguardante la raccolta dei dati ed informazioni relative alle mansioni assegnate al corpo; alle risorse umane; alla struttura organizzativa; ai livelli di comunicazione e al rapporto con le altre forze dell’ordine; la seconda, relativa alla identificazione di eventuali carenze nel funzionamento del corpo e all’elaborazione di un piano di intervento con la compilazione del rapporto finale.

Successivamente, però, a seguito di una relazione del comandante del corpo di polizia municipale, era stato conferito dal Sindaco un incarico professionale al Generale Francesco Nardone, il quale prevedeva – sul presupposto che il Sindaco avesse la necessità di meglio approfondire le tematiche riguardanti gli interventi organizzativi da realizzare nonché di inserire all’interno del corpo di polizia un proprio referente diretto – che il Generale fosse interlocutore diretto del Sindaco per l’individuazione delle più idonee modalità attuative dei progetti organizzativi già predisposti e in itinere; la formulazione e l’attuazione di proposte volte a migliorare l’efficacia e l’efficienza del corpo di polizia municipale e la sua immagine; la verifica dei risultati conseguiti nel breve periodo con predisposizione di relazioni in merito ai risultati conseguiti.

Orbene, riteneva la Procura regionale, che, dalla descrizione dell’oggetto delle consulenze, si evinceva chiaramente come il secondo incarico fosse sostanzialmente una duplicazione del primo e, in quanto tale, non conforme a legge.

Da qui, secondo la Procura regionale, il danno erariale prodotto ammontante a L.56.668.000, oltre agli interessi e pari al totale delle somme liquidate al Generale Nardone.

In proposito, nella parte in diritto, la Procura regionale, rifacendosi a talune considerazioni generali in ordine ai principi che devono regolare, per costante giurisprudenza, anche di questa Corte, l’attribuzione, da parte di un ente locale, di incarichi di consulenze esterne, ricordava come fosse pacificamente riconosciuto che le amministrazioni e gli enti pubblici devono costantemente uniformare i propri comportamenti a criteri di legalità, efficienza ed imparzialità, dei quali, era corollario il principio secondo cui essi, per l’assolvimento di compiti istituzionali, devono prioritariamente avvalersi delle proprie strutture organizzative e del personale che di esse fa parte.

Una tale regola – soggiungeva la Procura regionale – si posava sul più generale principio costituzionale del buon andamento e sulla necessità di perseguire l’economicità di ogni spesa pubblica, principio affermato, in termini generali, quale limite al potere discrezionale, in precipue norme di rango costituzionale – art. 97 – e di legge ordinaria – art. 380 del D.P.R. 10.1.1957 n. 3 e art. 51, c. 7, legge 142/90.

Nella specie, invero, affermava la Procura generale, dall’esame della relazione dell’attività svolta dal Generale Tardone, si poteva notare, come,in realtà, questo consulente avesse svolto non tanto un’attività di consulenza quanto di comando, ingerendosi nella gestione operativa del corpo municipale.

Il giudizio era chiamato all’udienza del 7 novembre 2001, nel corso della quale, dopo la relazione del magistrato relatore, Presidente Luigi Giampaolino, le parti hanno concluso come da verbale in atti.

In particolare, con riferimento alle singole posizioni dei convenuti, la procura regionale riteneva che non vi fosse dubbio che la responsabilità maggiore ricadesse sull’allora Sindaco Formentini mentre di più basso profilo fosse la posizione del Maggi donde la ripartizione del danno erariale tra i due soggetti nella misura dei due terzi e di un terzo.

Si sono costituiti in giudizio l’avvocato Andrea Penati per conto del dott. Adriano Maggi e gli avvocati Rusconi e Antonelli nell’interesse di Marco Formentini e, all’odierna udienza, dopo la relazione del presidente relatore, l’avv. Penati, in via preliminare, ha chiesto l’integrazione del contraddittorio e, quindi, le difese hanno illustrato le loro memorie. Parimenti il Procuratore regionale ha illustrato il suo atto introduttivo del giudizio ed ha quindi controdedotto alle eccezioni delle parti.

DIRITTO

1. Il Collegio ritiene che, nella presente fattispecie, occorre anzitutto affermare, in via preliminare, che le pubbliche amministrazioni possono ricorrere ad esperti o a consulenze esterne solo qualora non sia possibile rinvenire, nell'ambito dei propri apparati, professionalità ed esperienze che possano dare contributi di idee, suggerimenti e proposte di cui si avverte la necessità.

Più volte la giurisprudenza della Corte dei Conti(cfr. Sez. Giurisd. Abruzzo 19 nov. 1997, n. 300; Sez. Giurisd. Emilia Romagna 15 ott. 1996, n. 612; Sez. Giurisd. Veneto 4 dicembre 1996, n. 471; Sez. Giurisd. Sicilia 6 settembre 1995, n. 302) ha avuto modo di affermare l'anzidetto principio ed esso va ribadito anche per il caso che qui ne occupa.

Inoltre, va del pari preliminarmente affermato che non possono essere immessi nell'organizzazione dell'ente, senza i titoli di volta in volta individuati dagli specifici ordinamenti, soggetti privati estranei a detti apparati con il compito di svolgere funzioni direttamente rapportabili al pubblico apparato.

Anche questo è un principio basilare della pubblica amministrazione, derivante dai principi, di rango costituzionale, anzitutto, della legalità, del buon andamento e dell'imparzialità e rinvenibile, quindi, nelle norme che di detti pubblici apparati ne configurano l'ordinamento.

2. E' dall’affermazione dei due principi anzidetti che, come si è già detto, occorre prendere le mosse per verificare la legittimità e, se del caso, la liceità dei comportamenti ascritti, nel presente giudizio, ai due convenuti.

Agli stessi, invero, a diverso titolo, si imputa il conferimento, ad un soggetto privato, di una consulenza per l'organizzazione di un delicato apparato dell'importante capoluogo della regione e l'immissione, quindi, dello stesso soggetto privato nell'organizzazione fattuale del corpo dei vigili urbani di Milano con l'espletamento, altresì, da parte dello stesso privato, di atti e funzioni rapportabili al corpo.

Tali fatti vengono imputati, come si è detto, al Sindaco dell'epoca ed al vice comandante del Corpo dei vigili urbani.

Specie con riguardo a quest'ultimo, è stata fatta valere l'infondatezza della domanda, dal momento che non si sarebbe potuto ad esso rapportare un'attività che non rientrava nelle sue competenze ma ascrivibile, invece, alle attribuzioni di organi ausiliari del sindaco.

Stà di fatto, però, che la proposta, sia della consulenza, sia del peculiare accorgimento organizzativo, sono partite proprio dal convenuto Maggi, il che fa venir meno ogni plausibilità della detta eccezione di difetto di legittimazione passiva, difetto che non si pone con riguardo alla figura del sindaco, anche se profili di difetto di imputabilità, con riguardo ai compiti del sindaco, vengono fatti valere, nel merito, con riguardo allo stesso.

E, nel merito, invero, i fatti, nella loro oggettiva antigiuridicità, per i principi innanzi evidenziati, devono ritenersi sussistenti.

Non v'è dubbio, infatti, che è stata conferita una consulenza a soggetto privato, quando, per materia analoga, ed a seguito della stessa esigenza, già era stata conferita una consulenza ad una società svizzera esperta del settore.

Come pure non v'è dubbio che il privato è stato immesso sine titulo nell’organizzazione amministrativa e gli sono state consentite attività rapportabili all'esplicazione di pubbliche funzioni.

Entrambi gli episodi, come innanzi in via generale si è detto, devono ritenersi non ammissibili nel corretto concretizzarsi di una organizzazione amministrativa pubblica e, nella specie, di quella del Comune di Milano e nello svolgimento delle connesse pubbliche attività.

3. Tuttavia, la Corte non può ignorare la particolare situazione che in quegli anni si era venuta a creare con riguardo al Corpo dei vigili urbani di Milano, ed il ricorso, sia prima che dopo gli episodi contestati, a fattispecie uguali.

L'eccezionalità della situazione risulta per tabulas ed è stata incontroversa tra le parti.

Il corpo dei vigili urbani di Milano era stato interessato da varie vicende giudiziarie che avevano vista l’incriminazione di agenti e funzionari e aveva perso, a seguito di talune vicende penali aventi risonanza anche nazionale, il suo comandante. Un esteso clima di sfiducia si era diffuso nel corpo, mentre molto elevata, e non sempre proporzionata, era la conflittualità sindacale.

La successione di vertici, quasi tutti estranei al corpo e di estrazione militare, fu la dimostrazione di un dissesto organizzativo ed ambientale, al punto di rottura. È stata infatti documentata anche l’ostilità e la contrapposizione tra la struttura e gli organi amministrativi e politici della città.

Una situazione amministrativa ed organizzativa, pertanto, complessa e difficoltosa protattasi peraltro per anni, pur nel succedersi e nel mutare delle dirigenze amministrative e politiche.

La Corte, di conseguenza, ritiene che si versi in una situazione che,per la sua oggettiva difficoltà quanto meno sotto l'aspetto dell'elemento soggettivo, e di certo con riguardo al requisito della colpa grave, fa venir meno il requisito della colpevolezza, e non consente, pertanto, la condanna dei convenuti nei sensi dalla Procura generale richiesto.

4. Non si può, tuttavia, non rilevare l'intrinseca illegittimità della situazione posta in essere e la dubbia proficuità delle spese fatte sopportare alla pubblica amministrazione.

Ed è per questi motivi che la Corte, pur mandando assolti i convenuti, ritiene che ad essi non possa applicarsi la disposizione di cui al comma 2 bis dell'articolo 1 della legge 14 gennaio 1994, n. 20, come modificato dall’articolo 3 del decreto legge 23 ottobre 1996, n. 543, convertito nella legge 20 dicembre 1996, n. 639 e che, di conseguenza, le spese del giudizio, per la parte da essi sostenuta, ed, in particolare, quelle legali, rimangano a loro carico.

Invero, sarebbe ben grave, - e la norma richiamata potrebbe dar luogo a profili di illegittimità costituzionale (negli stessi sensi, Cfr. Sez. Basilicata 26 febbraio 1999, n. 26 che, in proposito, richiamò gli art.24, c. 2; 25, c.1; 28; 97, c. 1; 98, c. 1; 111) - se essa dovesse essere intesa come non abilitante, per la Corte dei Conti in veste di giudice nel giudizio di responsabilità amministrativa, ad un potere di compensazione delle spese, nel senso di porre parte di queste ad effettivo carico delle parti o di talune di esse, anche se non soccombenti.

Questa Sezione ha già avuto modo di affermare che, con riferimento al giudizio innanzi alla Corte dei Conti, l’aspetto della imputazione dell’onere delle spese di giudizio ha assunto una prospettiva del tutto peculiare dopo la disposizione di cui all’art. 3, comma 2 bis, della legge n. 639 del 1996, che prevede il rimborso delle spese legali ad opera dell’amministrazione di appartenenza, in caso di proscioglimento del convenuto. (Sez. Giur. Lombardia, 18 maggio 2001, n. 747).

Trattasi di una cognizione che deriva dalla stretta pertinenza,e, quindi, dall’accessorietà, quale si evidenzia formalmente anche dal testo della norma di legge (il già citato comma 2 bis dell’art. 3 della l. n. 339 del 1996), del rapporto giuridico relativo al rimborso delle spese al rapporto giuridico della sussistenza della responsabilità amministrativa di cui conosce la Corte dei Conti e che costituisce l’oggetto principale del giudizio che si svolge innanzi a questa.

E ciò senza volersi richiamare – come pure si potrebbe – alla peculiare natura dell’Istituto della Corte dei Conti, il quale anche nell’esercizio delle sue funzioni giurisdizionali, com’è noto, deve prestare particolare riguardo alla destinazione delle pubbliche risorse nelle quali, di certo, rientrano le somme, talvolta di non poca entità, che vengono erogate dagli Enti Pubblici per questa particolare specie di giudizio.

E’ convincimento della Sezione, infatti, che l’intervento legislativo carichi il giudicante di un peculiare potere-dovere di delibare l’aspetto degli oneri processuali, che può spingersi, considerata la detta accessorietà e qualora se ne ravvisino i presupposti, sino a stabilire la compensazione delle spese addossandole alle parti convenute, senza possibilità, per esse, di una loro ripetizione dall’amministrazione di appartenenza.

Il detto, implicito, potere è connaturato all'esercizio della giurisdizione (Cass. 6 dicembre 1986, n. 7248; Cass. 5 giugno 1987, n. 4922; Cass. 14 dicembre 1985, n. 6333, ed, all’uopo cfr., anzidetto capo IV, Libro I, delle disposizioni generali del codice di procedura civile, art. 92, 2° comma, cpc. pressoché unanimemente ritenuto attributivo al giudice del diritto–dovere di pronunciare, anche ex officio, nelle spese, specie con riguardo alla peculiare fattispecie dei " giusti motivi") e comporta che, a carico delle parti, debbano rimanere, sia pure parzialmente, quelle spese per l'esercizio delle funzioni giurisdizionali (tra le quali, com’è ovvio, rientrano le spese legali) che le parti stesse, con comportamento non esente da censura, anche se non tale da comportare la loro soccombenza, hanno contribuito a causare.

E’ questo, com’è noto, il principio di causalità (Cass. 10 settembre 1986, n. 5539), del quale, come anche in dottrina è stato detto, "il tradizionale criterio della soccombenza sembra costituire soltanto l’aspetto formale", e che deve ritenersi sussistente, sia che ci si voglia rifare ad una concezione sostanzialistica della responsabilità per le spese del giudizio, sia che ci si voglia richiamare ad una concezione solo processualistica della stessa. Trattasi di un principio, comunque, fondamentale in tema di onere per le spese giudiziali, specie nei giudizi che vedono una parte pubblica (il PM) e l’esercizio di una pubblica funzione, come nel caso del giudizio penale e, per tanti aspetti, del giudizio di responsabilità amministrativa.

Orbene, la disposizione legislativa per cui, in caso di definitivo proscioglimento, le spese legali sostenute dai soggetti sottoposti al giudizio della Corte dei Conti sono rimborsate dall’amministrazione di appartenenza, non può essere avulsa dal processo alla quale essa attiene (se non altro perché trattasi di spese legali) e, pertanto, non può prescindere dalle situazioni giuridiche che in questo processo si sono fatte valere e delle quali si è discusso, ovvero, dai comportamenti processuali che le parti, in esso, hanno tenuto.

Da ciò consegue che se le parti hanno contribuito, con le situazioni che a loro fanno capo, o con il loro comportamento processuale, alla causazione dell’insorgere dell’onere processuale o ad un aggravamento di questo, esse ne debbono rispondere, non potendosi far gravare il detto onere (nella specie, le spese legali) su altro soggetto (l’amministrazione di appartenenza).

E' quanto, appunto, accade in una fattispecie quale quella in esame, nella quale le due parti convenute, di certo, hanno posto in essere comportamenti non conformi ai principi di una corretta attività amministrativa, anche se la stessa, sotto il profilo dell’elemento soggettivo e della conseguente imputabilità, non si eleva a condotta gravemente colpevole, generatrice di responsabilità per danno erariale, che è la fattispecie di cui conosce la Corte dei Conti nei giudizi di responsabilità.

Le parti, infatti, con i loro comportamenti hanno dato luogo a situazioni illegittime e non convenienti per l’ente locale (il conferimento di una consulenza ad un soggetto privato, quando, per materia analoga, e per la stessa esigenza, era già stata conferita una consulenza ad altro soggetto anch’esso privato, (una società); l’immissione, sine titulo, di un privato nell’organizzazione amministrativa del Comune) pur se dubbie in merito alla loro illiceità con riferimento all’elemento soggettivo della colpa grave che il Collegio, a conclusione della sua indagine processuale e della sua riflessione, ha ritenuto di dover escludere.

La verifica giudiziale, per impulso del Procuratore regionale, di conseguenza, era necessaria ed essa non può non ascriversi, per il suo costo, ai soggetti che, con il loro comportamento illegittimo, l’hanno resa indispensabile.

Sarebbe contrario ad un evidente principio di giusta ripartizione degli oneri legali e del fondamentale principio, immanente nell’ordinamento, del suum cuique tribuere, che delle spese legali, necessarie per l’accertamento della responsabilità,, dovesse farsi carico l’ente, mentre ne dovrebbero andare esenti i soggetti che, con il loro comportamento, pur hanno posto in essere una situazione di dubbia illiceità.

P.Q.M.

La Corte dei Conti, Sezione Giurisdizionale per la Regione Lombardia, definitivamente pronunciando sulla domanda proposta dal Procuratore Regionale nei confronti di Formentini Marco e Maggi Adriano, la rigetta.

Visto l’art. 92, secondo comma, cpc, dichiara compensate le spese del giudizio che restano - in particolare, quelle legali - a carico delle parti convenute e non rimborsabili dall’Amministrazione comunale.

Così deciso, in Milano, nella Camera di Consiglio del 7 novembre 2001.

Il Presidente

Depositata in cancelleria in data 8 giugno 2002.

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