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n. 12-2000 - © copyright.

CORTE DEI CONTI SEZIONE GIURISDIZIONALE PER IL PIEMONTE - Sentenza 27 novembre 2000 n. 1618/00 - Pres. DE FILIPPIS, Est. OREFICE - Procura Regionale (VPG Pastorino Olmi) contro A.B., G.B., G.B., P.C., D.N., R.C., G.D., M.G., R.P., A.R., G.S., A.S., N.G., P.V. (avv.ti Piacentino, Goria, Faletti, Mozzati, Pipitone, Gherner, Zuccarello, B., Verrastro).

Giudizio di responsabilità – Citazione – Illecito plurisoggettivo - Omessa indicazione quote di danno – Irrilevanza.

Responsabilità amministrativa –Prescrizione – Decorrenza – Conoscibilità dei fatti da parte dell’organo della PA che abbia l’obbligo di denunzia.

Giudizio di responsabilità – Eredi – Legittimazione passiva –Prova mediante presunzione semplice – Sufficienza.

Responsabilità amministrativa – Danno – Tangenti – Danno da minori entrate e danno da disservizio – Nozione – Coesistenza possibilità.

Responsabilità amministrativa – Danno – Danno all’immagine – Discredito sul ruolo istituzionale dell’amministrazione - Sussiste.

In caso di illecito plurisoggettivo la mancata indicazione delle quote di danno erariale imputabili ai corresponsabili non comporta né la nullità, per incertezza della domanda, né l’inammissibilità della citazione, poiché questa mancanza può discendere dal ritenuto ed affermato carattere solidale della responsabilità per fatti dannosi realizzati con dolo e ben potendo il giudice disattendere gli eventuali criteri di ripartizioni proposti dal PM.

Il dies a quo da cui far decorrere il termine di prescrizione va individuato dalla conoscibilità (e non dalla conoscenza) dei fatti, da parte dell’organo dell’amministrazione che abbia l’obbligo di denuncia al Pubblico Ministero, titolare del potere di azione.

La legittimazione passiva degli eredi dell’agente pubblico che si è illecitamente arricchito può essere dedotta ex art.2729 c.c. in base a presunzioni semplici, sulla base dell’id quod plerumque accidit, salva la prova contraria offerta dagli eredi stessi, che, dimostrando la mancanza di un aumento della consistenza dell’asse ereditario, faccia venire meno tale presunzione.

Il delitto di concussione commesso da militari della Guardia di Finanza durante lo svolgimento dei propri compiti istituzionali, realizza sia il danno derivante da minore entrata tributaria,laddove risulti che le tangenti furono pretese per non rilevare irregolarità ulteriori rispetto a quelle effettivamente segnalate, sia quello da disservizio, consistente nel mancato raggiungimento dei risultati ai quali era finalizzata la spesa sostenuta dallo Stato, per il funzionamento della Guardia di finanza, la cui attività è mirata oltre che all’evitare frodi ed evasioni fiscali, anche alla salvaguardia degli equilibri di bilancio sotto il profilo delle entrate.

Sussiste una gravissima lesione all’immagine della Guardia di finanza, quando i propri componenti, attraverso comportamenti illeciti derivanti da una perdurante attività illecita e creando un’associazione criminale, ne abbiano discreditato il ruolo istituzionale, tanto più che i responsabili, indossando una divisa, dovrebbero fare del proprio comportamento un modello di esempio per la comunità in cui operano, al fine di dare fiducia lealtà e trasparenza al rapporto fra cittadino ed istituzioni.

 

 

SENTENZA

nel giudizio di responsabilità, iscritto al n. 230/R del registro di Segreteria, promosso dal Procuratore regionale contro Antonello B., Giuseppe B., Giovanni B., Pietro C., Daniela N. quale erede di Franco C. e rappresentante dei figli minori M. e S. C., Roberto C., Giacinto D., Marco G., Rolando P., Antonio R., Gerardo S., Andrea S., Nicola G., Paolo V..

Uditi, nella pubblica udienza del 20 giugno 2000 il relatore Consigliere dr. Mauro OREFICE, il Pubblico Ministero nella persona del Sostituto Procuratore Generale dott. Giovanni PASTORINO OLMI e gli avv. Giorgio PIACENTINO, difensore di B., S., G. e V.; Maurizio GORIA, difensore di B.; Giancarlo FALETTI, difensore di C.; Carlo ROLLE, difensore di N.; Andrea MOZZATI, difensore di C.; Federico PIPITONE, difensore di G.; Mauro GHERNER, difensore di P.; Sebastiano ZUCCARELLO, difensore di R.; Franco B., difensore di S.; Domenico VERRASTRO, difensore di V..

Esaminati gli atti e i documenti tutti della causa.

Ritenuto in

FATTO

In data 3 aprile 1996, la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Torino - Direzione Distrettuale Antimafia emetteva richiesta di rinvio a giudizio nei confronti di quattordici tra ufficiali e sottufficiali appartenenti al Corpo della Guardia di Finanza, all’epoca dei fatti in servizio presso la Tenenza di Pinerolo, e di numerosi altri soggetti (commercialisti e consulenti fiscali di ditte e società private) non legati alla Pubblica Amministrazione da rapporto di servizio.

I reati contestati dalla Procura della Repubblica si riferiscono principalmente ad episodi di concussione, verificatisi in gran numero in un arco di tempo che si estende dall’inizio degli anni ottanta fino al luglio del 1992.

Gli episodi delittuosi contestati, formalizzati in 86 capi d’imputazione, presentano modalità esecutive del tutto analoghe, atteso che ebbero ad oggetto illecite dazioni di denaro (talora con l’intermediazione dei citati soggetti estranei alla P.A.) da parte di imprenditori e commercianti del pinerolese a favore dei suddetti militari della Guardia di Finanza.

Risulta in atti, invero, che i finanzieri, abusando della propria qualifica di pubblico ufficiale e dei relativi poteri nello svolgimento di verifiche fiscali disposte nei confronti di imprese e società, con atteggiamento minaccioso più o meno velato, avrebbero prospettato la possibilità di rilevare pesanti irregolarità (anche di profilo penale) nella situazione fiscale dei contribuenti, o di prolungare artificiosamente la durata delle verifiche, costringendo, o, comunque, inducendo i soggetti verificati a versare loro somme di denaro.

Considerato il carattere non episodico dei fatti in questione, che si sono sviluppati per un lungo arco di tempo e l’esistenza di un’organizzazione a carattere stabile che comprendeva molti dei militari in servizio presso la Tenenza di Pinerolo, la Procura della Repubblica ha contestato agli appartenenti al Corpo della Guardia di Finanza coinvolti negli episodi in argomento anche il reato di associazione per delinquere di cui all’art. 416 del codice penale.

E, difatti, si legge al capo di imputazione n. 86 della richiesta di rinvio a giudizio: "..il R., dapprima Vice Comandante della Tenenza della Guardia di Finanza di Pinerolo, Comandante poi promuoveva, organizzava e dirigeva una associazione fra militari in servizio presso la Tenenza suddetta, diretta alla acquisizione di somme di denaro con la commissione di fatti concussivi e corruttivi, utilizzando le verifiche fiscali effettuate o da effettuarsi presso aziende operanti nel pinerolese.

"Al fine di cui sopra il R., utilizzando le funzioni esercitate, pianificava gli obbiettivi, modi e forme delle verifiche da effettuare, determinava il personale da impiegare, stabiliva 1’ ammontare delle somme esigibili dai titolari delle ditte soggette a verifiche, trattando direttamente o attraverso gli altri militari operanti - che, comunque a lui sempre facevano capo , o per mezzo dei consulenti fiscali delle ditte interessate, con i titolari o loro incaricati, ricevendo, in ultima analisi, il danaro pagato (direttamente o previamente ritirato da altri militari,), operando, quindi, una suddivisione delle somme indebitamente percepite tra gli altri associati partecipanti ai singoli fatti delittuosi.

"Gli altri, militari in servizio presso la Tenenza sopra indicata, si associavano con il R. e tra loro, partecipando così alla associazione dianzi descritta, operando le verifiche fiscali secondo le indicazioni del R., fungendo spesso da intermediari con i titolari delle ditte verificate o loro incaricati per la realizzazione dei singoli fatti criminosi, riferendo al R. l’andamento dei rapporti suddetti, ritirando le somme pagate a seguito degli atti concussivi o corruttivi posti in essere, portandole al R., ricevendo da lui quote del denaro ricavato".

Per quanto riguarda la quantificazione delle illecite dazioni, l’indagine penale ha evidenziato che anche a voler accogliere l’ipotesi più favorevole ai presunti responsabili nei casi in cui vi è incertezza sulla precisa entità dell’erogazione e senza tener conto degli episodi rimasti a livello di semplice tentativo, essa dovrebbe comportare un importo complessivo delle somme di denaro di cui i predetti finanzieri hanno illecitamente beneficiato pari a L. 1.542.000.000.

Sotto il profilo della partecipazione individuale ai singoli fatti delittuosi, risulterebbe in atti che:

- il B. sarebbe personalmente coinvolto in concorso con altri finanzieri (B., P., R. e V.) in 4 episodi delittuosi, per complessive L. 25.000.000 di illecite dazioni;

- il B. sarebbe personalmente coinvolto in concorso con altri finanzieri (C., C., D., G., G., R. e V.) in 15 episodi delittuosi, per complessive L. 265.000.000 di illecite dazioni;

- il B. sarebbe personalmente coinvolto in concorso con altri finanzieri (B., P., R. e V.) in 13 episodi delittuosi, per complessive L. 326.000.000 di illecite dazioni;

- il C. sarebbe personalmente coinvolto in concorso con altri finanzieri (B., C., C., G., G., R., S. e V.) in 34 episodi delittuosi, per complessive L. 792.000.000 di illecite dazioni;

- il C. sarebbe personalmente coinvolto in concorso con altri finanzieri (C., G., R. e S.) in 3 episodi delittuosi, per complessive L. 75.000.000 di illecite dazioni;

- il C. sarebbe personalmente coinvolto in concorso con altri finanzieri (B., C., G. e R.) in 5 episodi delittuosi, per complessive L. 120.000.000 di illecite dazioni;

- il D. sarebbe personalmente coinvolto in concorso con altri finanzieri (B. e R.) in 4 episodi delittuosi, per complessive L. 49.000.000 di illecite dazioni;

- il G. sarebbe personalmente coinvolto in concorso con altri finanzieri (B., C., C., R., S., S. e V.) in 24 episodi delittuosi, per complessive L. 441.000.000 di illecite dazioni;

- il G. sarebbe personalmente coinvolto in concorso con altri finanzieri (B., C., C., R. e V.) in 4 episodi delittuosi, per complessive L. 123.000.000 di illecite dazioni;

- il P. sarebbe personalmente coinvolto in concorso con altri finanzieri (B., B., R. e V.) in 10 episodi delittuosi, per complessive L. 225.000.000 di illecite dazioni;

- il R. sarebbe personalmente coinvolto in concorso con altri finanzieri (B., B., B., C., C., C., D., G., G., P., S. E V.) in 60 episodi delittuosi, per complessive L. 1.282.000.000 di illecite dazioni;

- il S. sarebbe personalmente coinvolto in concorso con altri finanzieri (G. e V.) in 3 episodi delittuosi, per complessive L. 101.000.000 di illecite dazioni;

- il S. sarebbe personalmente coinvolto in concorso con altri finanzieri (C., CAMIPISI, G., R. e V.) in 5 episodi delittuosi, per complessive L. 114.000.000 di illecite dazioni;

- il V. sarebbe personalmente coinvolto in concorso con altri finanzieri (B., B., B., C., G., G., P., R., S. e S.) in 42 episodi delittuosi, per complessive L. 570.000.000 di illecite dazioni.

Per quanto riguarda l’esito della vicenda penale, si rileva che con sentenza in data 19.9.1996 del G.I.P. presso il Tribunale di Torino, emessa ai sensi dell’art. 444 del c.p.p., è stata definita la posizione degli indagati B. Antonello, B. Giuseppe, C. Pietro, C. Franco, G. Nicola e P. Rolando, i quali hanno "patteggiato" per i reati loro contestati pene varianti da un anno e nove mesi a due anni di reclusione.

Analogo esito ha avuto il procedimento penale nei confronti di B. Giovanni e di V. Paolo, ai quali, con sentenza in data 25.9.1996 del G.I.P. di Torino, è stata applicata la pena "patteggiata", al primo, di anni 1 e mesi 10 di reclusione e, al secondo, di anni 1, mesi 10 e giorni 20 di reclusione.

La posizione di R. Antonio, C. Roberto, G. Marco S. Gerardo e S. Andrea, veniva invece definita con sentenza in data 9.10.1996, pronunciata con rito abbreviato (art. 442 c.p.p.) da parte del G.I.P. di Torino, che riteneva responsabili gli imputati per tutti i reati loro ascritti.

La suddetta sentenza veniva confermata nei confronti di R., G., S. e S. con decisione della Corte d’Appello di Torino n. 1880 in data 30.4.1998 mentre, per quanto riguarda il C., la Corte d’Appello di Torino con decisione n. 807 in data 26.2.1999, riformando la sentenza di primo grado, assolveva il predetto imputato dal reato di partecipazione ad associazione per delinquere e mutava la qualificazione dei fatti ascrittigli da concussione a corruzione.

Per il D. il procedimento penale è ancora pendente in attesa di decisioni da parte della Corte di Cassazione, adita per questioni di legittimità.

La Procura regionale della Corte dei conti per la regione Piemonte, ravvisando nei fatti sopra descritti un rilevante danno all’Erario, in data 26 agosto 1998 ha emesso nei confronti dei militari in premessa l’invito ex art. 5 del D.L. 15.11.1993, n. 453, convertito con modificazioni nella legge 14.1.1994, n. 19 e, contestualmente, tenuto conto della verosimiglianza degli addebiti e della sproporzione tra l’entità del danno e la presumibile situazione patrimoniale di alcuni dei presunti responsabili, ha avanzato istanza di sequestro conservativo sui beni dei Sigg.ri: B. Giovanni, B. Giuseppe, C. Pietro, G. Marco, P. Rolando, R. Antonio e V. Paolo.

Il sequestro è stato confermato all’udienza del 10 maggio 1999 con ordinanza del giudice designato depositata in data 26 maggio 1999.

A seguito della notifica dell’invito, i convenuti G. Nicola, S. Andrea, B. Giovanni e C. Roberto hanno fatto pervenire deduzioni scritte e gli ultimi due sono stati anche sentiti, su loro richiesta, presso l’Ufficio del Pubblico Ministero.

Sono altresì pervenuti, nel corso del procedimento di sequestro conservativo, scritti difensivi da parte dei convenuti B. Giovanni, B. Giuseppe, C. Pietro, G. Marco, P. Rolando e R. Antonio.

Le giustificazioni addotte nelle predette sedi, tuttavia, non sono apparse idonee a superare i contestati addebiti secondo la Procura procedente, che emetteva conseguenzialmente atto di citazione in giudizio in data 22 luglio 1999, con il quale veniva contestato agli odierni convenuti un pregiudizio cumulativamente determinato per danno da minore entrata e/o da disservizio e per danno all’immagine in £ 1.542.000.000, pari all’ammontare delle illecite dazioni di denaro.

Le difese dei singoli convenuti facevano successivamente pervenire scritti e memorie difensive con le quali, si sottolineava, nel contestare la domanda attrice, in particolar modo la totale genericità dell’atto di citazione, privo della specificazione relativa alle condotte ed al diverso apporto dei singoli, nonché l’ inconsistenza della quantificazione del danno, non giustificato né nella sua sussistenza ontologica né nel suo ammontare. Si eccepiva poi la prescrizione dell’azione e la mancata legittimazione passiva degli eredi del C..

In occasione della odierna udienza le parti hanno sostanzialmente ribadito quanto già sostenuto negli atti scritti.

Considerato in

DIRITTO

La prima questione di cui questo Collegio deve farsi carico è quella relativa alla eccepita genericità dell’atto di citazione ed alla mancata individuazione delle posizioni dei singoli convenuti nell’ambito della vicenda loro contestata.

In proposito si ritiene di dover dissentire da coloro i quali impostano la questione, sulla base della più recente normativa (art.1, legge 20/1994, modificato dall’art. 3 d.l. 543/1996 convertito in legge 639/1996, comma 1-quater e 1-quinquies), ricordando che, in caso di illecito plurisoggettivo, la responsabilità ripartita o parziaria comporta la necessità che l’atto di citazione non solo indichi gli elementi in base ai quali è stato quantificato il danno, ma rechi la determinazione delle quote imputabili pro-capite.

La mancata indicazione delle quote non comporta invero né nullità (per incertezza della domanda – v. Corte conti, sez. III, 15.9.99, n.213) né inammissibilità della citazione per mancata espressa previsione normativa, poiché questa mancanza può discendere dal ritenuto ed affermato carattere solidale della responsabilità nella fattispecie in giudizio, caso nel quale il diverso avviso al quale potrà pervenire il giudice non si ricollega ad alcuna sindacatorietà, ovvero costituire deduzione interpretativa del contenuto dell’atto di citazione da intendersi come contenente, in caso di mancata diversa indicazione (e senza che vi sia riferimento al vincolo solidale), la richiesta di condanna in parti uguali tra i vari convenuti (inter alia, Corte conti, Sez. Lazio, 6 luglio 1998, n. 75/R).

D’altra parte, non potrebbe essere giustificata tesi diversa da quella esposta neppure richiamandosi al fatto che il giudice può disattendere l’indicazione dei criteri di ripartizione tra corresponsabili indicati dal P.M. essendo ciò conseguenza della stessa configurabilità di un processo.

L’eccezione di genericità dell’atto di citazione per ciò che concerne l’elemento danno urta, inoltre, contro il disposto dell’art. 163, comma III, c.p.c., che prevede, per ciò che concerne l’editio actionis, l’indicazione dell’oggetto della domanda, ossia del petitum, che comprende sia l’oggetto mediato, cioè il bene leso formante oggetto della controversia, sia l’oggetto immediato, cioè il provvedimento giurisdizionale chiesto a tutela dell’interesse inerente a quel bene; in particolare va determinata la misura del danno di cui si chiede il risarcimento. Ove non sia possibile determinare oggettivamente la misura del danno , il P.M. ben può rimettersi al potere di valutazione discrezionale del giudice, ma è tenuto, comunque, a rappresentare gli elementi obbiettivi su cui si fonda la determinazione del danno medesimo, elemento questo che appare essere stato assolto relativamente all’atto di citazione di che trattasi.

Conclusivamente sul punto, quindi, questo Giudice ritiene che l’eccezione sollevata non possa trovare accoglimento.

In via pregiudiziale il Collegio è chiamato anche ad esaminare l’eccezione di prescrizione dell’azione sollevata dalla difesa dei convenuti.

Sul punto va rilevato che in passato le disarmonie dell’indirizzo giurisprudenziale erano relative al dies a quo della prescrizione. Da tempo, peraltro, risulta respinto l’indirizzo che vedeva l’inizio della prescrizione dalla data di conoscenza del fatto da parte della Procura della Corte poiché, più correttamente, il dies a quo della prescrizione è stato individuato non a far data dalla conoscenza ma dalla conoscibilità dei fatti, collegando quest’ultima non al Pubblico Ministero titolare del potere di azione, ma all’organo dell’amministrazione che abbia obbligo di denuncia. E ciò in conformità al principio generale (Cass. civ., sez. III, 10.10.92, n. 11094; 10.2.95, n. 1480), il quale, con l’escludere la decorrenza della prescrizione nel tempo in cui il diritto non può essere fatto valere (art. 2935 c.c.), si riferisce solo alle cause giuridiche impeditive dell’esercizio di tale diritto e non anche ai semplici ostacoli di fatto, tra i quali l’ignoranza (colpevole o meno) del titolare in ordine alla sussistenza del fatto.

Pertanto, e con riguardo al presente giudizio, ai fini del corretto computo dei termini prescrizionali e dell’individuazione del dies a quo non può che farsi riferimento, nella migliore delle ipotesi, alla richiesta di rinvio a giudizio nei confronti dei quattordici tra ufficiali e sottufficiali appartenenti al Corpo della Guardia di Finanza, effettuata in data 3 aprile 1996 dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Torino - Direzione Distrettuale Antimafia. E’ di tutta evidenza, quindi, la tempestività dell’atto di citazione in giudizio, motivo per cui l’eccezione di prescrizione sollevata dalla difesa dei convenuti va respinta.

Prima di esaminare il merito, va infine affrontato il problema della legittimazione passiva in capo agli eredi del sig. Franco C. – la vedova Daniela N. quale rappresentante dei figli minori Marco e Stefania C. – evocati in giudizio dall’atto di citazione di che trattasi

Secondo la più recente giurisprudenza, il carattere indebito dell’arricchimento conseguito dagli eredi dell’agente pubblico che si è illecitamente impossessato di somme di denaro può essere dedotto ex art.2729 c.c. in base a presunzioni semplici, secondo l’id quod plerumque accidit, salva naturalmente la prova contraria offerta dagli eredi stessi (Corte conti, SS.RR., 12.1.99, n.1; Sez. I, 12.5.98, n.127; Sez. II, 11.3.98, n.83; 19.2.98, n.73).

La giurisprudenza cioè tende a dare alla prova contraria da fornire dagli eredi un contenuto che sostanzialmente fa venire meno la presunzione iuris tantum, in quanto si dà valore alla prova contraria che dimostri la mancanza di un aumento della consistenza dell’asse ereditario, cioè occorre che si trasferisca un asse ereditario maggiorato del valore economico dell’illecito. Così si afferma che l’indebito arricchimento degli eredi non è in re ipsa e va negato quando manchi qualsiasi nesso di consequenzialità fra beni relitti e gli illeciti del dante causa.

Dovendosi da ciò far discendere l’ovvia conseguenza che i nuovi soggetti chiamati in giudizio non subentrano automaticamente nella posizione processuale del loro dante causa, ma solo qualora ricorrano le condizioni suddette, questo Giudice, dovendo constatare che, a fronte della presunzione iuris tantum posta dalla Procura regionale, non risultano forniti da parte degli interessati elementi documentali atti a confutare la citata presunzione, conclude per ritenere gli eredi C. legittimati passivamente nel presente giudizio valutando quindi come correttamente formulato l’atto di citazione nei confronti degli stessi.

Passando ora ad esaminare il merito della questione, emerge con evidenza la gravità del contesto nell’ambito del quale si sono svolti i fatti di cui è causa.

La sentenza del G.I.P. di Torino n. 2298, confermata in appello, afferma con chiarezza che la situazione di generalizzato silenzio su fatti noti e protrattisi nel tempo "…ascrivibile anche a pubblici ufficiali, dimostra che non era possibile uscire dalla spirale dell’illecito senza correre rischi". Tant’è che alcuni militari interrogati nel corso del procedimento penale ebbero a dichiarare "ebbi paura a denunciare il fatto. Non sapevo a chi denunciare in quanto nessuno mi avrebbe creduto ed anche il Procuratore…capivo che era amico del R.". Così come "se volevo adattarmi a stare a Pinerolo, dovevo adattarmi ad un certo sistema di gestione".

In proposito, basterebbe inoltre citare lo stralcio del memoriale del 19.3.1995 del capitano R., riportato a pag. 46 della citata sentenza n. 2298 in data 9.10.1996 del G.I.P. di Torino, ove si legge: "Non nego certamente ... che la natura di "sistema deviato" che ha connotato le attività della Guardia di Finanza Pinerolese, e, mi si consenta, non solo di quella, possa avere in certi casi, indotto alcuni imprenditori a ritenere indispensabile "ungere" gli ingranaggi del sistema, ma tale sistema si è rinforzato ed autoalimentato, proprio perché risultava redditizio per tutte le parti in causa. I veri pilastri del meccanismo erano infatti i commercialisti ed i consulenti delle aziende, che ben conoscendo la disponibilità dei finanzieri ad aggiustare le verifiche e quella degli imprenditori a pagare perché le verifiche non comportassero per loro danni economici, avevano buon gioco a fare da intermediari, pagati dagli uni e dagli altri." e più avanti prosegue il R. affermando: "Come accennato, la stragrande maggioranza degli imprenditori e dei professionisti erano perfettamente calati in questo sistema che, alla fine dei conti, per anni ha arricchito tanto i P. U. quanto i professionisti, quanto gli imprenditori che ad esso aderivano. E’ chiaro che quegli imprenditori che per scelta o per qualsivoglia altro motivo sono rimasti al di fuori del sistema ... non hanno potuto godere dei favori concessi a tutti gli altri".

Tale sconcertante quadro quale emerso dallo "spaccato" dello stesso che i medesimi protagonisti hanno operato nell’ambito delle indagini che li hanno riguardati, risulta poi sostanzialmente confermato in seno al presente giudizio, poiché al di là delle peculiarità che le singole posizioni personali possono aver configurato a livello di condotta personale, singolarmente ed autonomamente valutabile, ciò che rileva è il poter constatare, da parte degli odierni convenuti, la sostanziale conferma dei fatti criminosi propri dell’intera vicenda.

Se quindi il fatto non è posto in contestazione, al di là della valutazione delle singole condotte, diventa di assoluta importanza poter stabilire se tali condotte, astrattamente intese ed integranti ipotesi concussive, possano aver cagionato un danno per l’Erario pubblico.

In proposito va anzitutto ricordato che in materia di reati contro la pubblica amministrazione, dopo la modifica introdotta dalla legge 26 aprile 1990 n. 86, risulta confermata la tradizionale distinzione tra concussione e corruzione: nella prima viene in evidenza lo stato di soggezione del cittadino dì fronte al titolare di una pubblica funzione o di un pubblico servizio, nella seconda viene in evidenza una trattativa da pari a pari tra cittadino e funzionario, la quale si caratterizza come tale sul piano concreto e funzionale, senza alcun riguardo al momento iniziale della proposta ed alla necessità di individuare l’autore di questa. Ove il reato di concussione venga commesso con abuso dei poteri, si pone un problema di relazione tra gli atti amministrativi adottati, rientranti nella competenza del funzionario, e la controprestazione del privato; pertanto, agli effetti della distinzione dal reato di corruzione, può individuarsi un rapporto sinallagmatico tra le prestazioni e si delinea una situazione di natura oggettiva che — prevalentemente, anche se non esclusivamente, sul piano patrimoniale — vale a qualificare il rapporto soggettivo come paritario (e quindi presumibilmente voluto dal privato) o squilibrato (e quindi presumibilmente imposto dal funzionario) . Ove il reato di concussione venga commesso con abuso della qualità non si pone il problema di relazione tra controprestazioni, e lo stato di disponibilità del privato alla promessa o alla dazione di danaro o altra utilità, derivando dalla sola qualifica soggettiva del pubblico ufficiale, non può essere collegata che ad un illegittimo stato di soggezione, nel quale indistintamente possono comporsi aspettative di eventuali benevolenze nella gestione della cosa pubblica o timori di possibili danni, il tutto comunque affidato ad un’autonoma discrezionalità del pubblico funzionario, che vale ad escludere il rapporto paritario con il privato.

Sottolineando quindi che indistintamente possono comporsi aspettative di eventuali benevolenze nella gestione della cosa pubblica o timori di possibili danni, si può ancora affermare che, ai fini della configurabilità del reato di concussione, il "metus publicae potestatis" è ravvisabile, oltre che nei casi in cui la volontà del privato sia coartata attraverso l’esplicita minaccia di un danno (concussione per costrizione) ovvero sia fuorviata dall’inganno (induzione per frode), anche quando sia repressa dalla posizione di preminenza del pubblico ufficiale il quale, sia pure senza avanzare aperte ed esplicite pretese, operi di fatto in modo da ingenerare nel soggetto privato la fondata persuasione di dover sottostare alle decisioni del pubblico ufficiale per evitare il pericolo di subire un pregiudizio eventualmente maggiore

Va quindi affermato che, se è pur vero che in tema di concussione non ha rilevanza il fatto che a cagione della tangente il privato possa avere avuto un vantaggio economico, non essendo previsto il danno del soggetto passivo quale elemento integrativo del delitto di cui all’art. 317 c.p., tale delitto ricorre tutte le volte che il pubblico ufficiale, abusando dei propri poteri, abbia creato od insinuato nel soggetto passivo uno stato idoneo ad eliderne o viziarne la volontà, anche soltanto inducendolo ad esaudire l’illecita pretesa onde evitare pregiudizio o danno maggiore. Inoltre il delitto in questione è configurabile anche quando sia il privato ad offrire al pubblico ufficiale denaro od altra utilità, ove l’offerta della somma o della utilità rappresentino non già l’atto iniziale dell’azione criminosa bensì il logico sbocco di una situazione gradatamente creatasi attraverso allusioni o maliziose prospettazioni di futuri danni a causa delle quali il privato si determina ad aderire alla richiesta, implicita od esplicita, al fine di evitare il danno. (cfr. in proposito ed inter alia, Cassazione penale, sez. VI, 21.8.90, n. 11679; 24.8.90, n. 11746; 23.9.93, n. 8651; 8.1.94, n. 2986; 26.3.96, n. 3022; 29.4.98, n. 5114).

Se quindi, in sintesi, la giurisprudenza è assolutamente concorde nell’affermare che in ogni caso l’elemento determinante e dirimente dell’ipotesi concussiva è costituita dall’aspettativa di eventuali benevolenze nella gestione della cosa pubblica o timori di possibili danni, appare di fondamentale importanza nonché illuminante quanto dichiarato dagli stessi interessati nel corso del procedimento penale in ordine alle reali motivazioni che hanno mosso l’intero disegno criminoso.

Si riporta ancora lo stralcio del memoriale R. del 19.3.95, già citato: "Non nego certamente ... che la natura di "sistema deviato" che ha connotato le attività della Guardia di Finanza Pinerolese, e, mi si consenta, non solo di quella, possa avere in certi casi, indotto alcuni imprenditori a ritenere indispensabile "ungere" gli ingranaggi del sistema […] I veri pilastri del meccanismo erano infatti i commercialisti ed i consulenti delle aziende, che ben conoscendo la disponibilità dei finanzieri ad aggiustare le verifiche e quella degli imprenditori a pagare perché le verifiche non comportassero per loro danni economici […]. E’ chiaro che quegli imprenditori che per scelta o per qualsivoglia altro motivo sono rimasti al di fuori del sistema ... non hanno potuto godere dei favori concessi a tutti gli altri".

La lettura della citata sentenza n. 2298, consente di rinvenire inoltre elementi ancora più precisi e specifici in proposito:"Ricordo, dice T., che durante la durata della verifica il R. ad un certo punto fece capire che erano state riscontrate delle irregolarità e che per soprassedere su alcune c’era bisogno di una certa cifra" (pag.52) e più avanti: " B. dice che tutta la verifica fu curata da Q. e che i militari erano P. e B.. Dice che Q. gli disse di essere andato a cena con R. e di aver già trovato un accordo, nonché che la somma da versare serviva per non aver problemi sia fiscali che penali ".

A pag. 55 della citata sentenza si legge ancora: "Ricordo della verifica avuta dalla Guardia di Finanza di Pinerolo nell’ anno 1981, seguita per intero dal mio commercialista rag. B. Marcello il quale a metà verifica disse a mio fratello che sarebbero serviti circa 5/6 milioni da dare ai finanzieri perché la verifica avesse esito negativo". A pag. 56: "Scaglia descrive i fatti dicendo che P. gli aveva chiesto denaro, perché in tal modo si poteva sorvolare su alcune irregolarità". A pag. 57:" R. dice che V. fece capire al commercialista che c’erano delle irregolarità e che le stesse si potevano coprire", A pag. 58: "Aggiunge che C. gli disse di aver ricevuto la richiesta dai finanzieri, affinché la verifica non potesse avere gravi conseguenze fiscali.". A pag. 68:" B. dice di aver pagato trenta milioni a C., che glieli chiese per evitare di rovinarlo a causa delle irregolarità riscontrate."

Ancora più illuminanti sono ulteriori passi della sentenza del G.I.P. di Torino che, nello stigmatizzare un comportamento criminale proprio non solo dei militari della Guardia di finanza ma anche di talune delle autorità locali, sottolinea quasi la rassegnazione degli imprenditori di fronte alle richieste di denaro operate dai finanzieri: "…c’è chi paga perché è meglio far finire presto la verifica ed evitare la presenza dei militari, chi perché teme che sia stato scoperto un illecito fiscale, chi perché comparata la sanzione con il denaro richiesto, sceglie il male minore".

Da quanto precede appare quindi chiaro ed indubitabile (e sul valore probatorio delle dichiarazioni testimoniali congiunte e concordanti nell’ambito delle chiamate in correità amplissima giurisprudenza della Corte di cassazione non lascia spazio al minimo dubbio circa l’attendibilità delle stesse) che l’elemento integrativo del reato di concussione è stato quello del timore di possibili maggiori danni derivanti dalla verifiche fiscali. Le tangenti furono pretese per evitare che si rilevassero irregolarità, anche ulteriori rispetto a quelle effettivamente segnalate nel corso delle verifiche. E ciò fa luce e chiarezza anche sul fatto addotto dalla difesa in ordine al quale gli accertamenti furono compiuti: alla luce di quanto si è venuto esponendo è palmare che non può provare nulla l’avvenuto accertamento se non se ne prova l’intrinseca regolarità, e che regolari non fossero è ampiamente dimostrato dalla acclarata ed incontestata dinamica dei fatti.

Ed allora non può certamente più sostenersi che danno per l’Erario non vi fu. Il danno causato dalle irregolarità fiscali non rilevate e dalle relative minori entrate emerge dagli atti in tutta la sua esistenza ontologica. Affermarne la sua genericità od inconsistenza è, a parere di questo Giudice, giuridicamente non plausibile.

L’errore dal quale è necessario rifuggire è quello di non confondere il profilo della esatta quantificazione del danno con quello della esistenza del danno stesso. La valutazione equitativa del danno, ha ribadito più volte la giurisprudenza, presuppone che questo, pur non potendo essere provato nel suo preciso ammontare, sia certo nella sua esistenza ontologica, mentre ove tale certezza non sussista il potere discrezionale del giudice non ha spazio per estrinsecarsi. L’art. 1226 c.c., in altri termini, non può essere utilizzato per colmare una insufficienza di prova sulla esistenza del danno, ma solo per rendere in concreto possibile la sua quantificazione non altrimenti determinabile.

Nel caso di specie, il danno esiste, ve ne è la prova ontologica; spetta quindi al giudice, nell’indeterminatezza quantitativa dello stesso, determinarne, anche soggettivamente, la concreta entità, a questo fine, e solo questo, utilizzando gli strumenti dell’apprezzamento equitativo.

A tal proposito, e seguendo la giurisprudenza di questa Corte (cfr. Sez. I, 20.4.1995, n.62) va affermato che in sede di giudizio di responsabilità a carico di pubblici dipendenti resisi responsabili del reato di concussione, per aver percepito tangenti, il danno subito dall’amministrazione può essere determinato al minimum, ai sensi dell’art.1226 c.c., nella somma pari alla dazione solo dove non sia possibile una diversa quantificazione del danno medesimo che tenga conto dell’effettivo pregiudizio economico patito dalla P.A.

L’assenza, peraltro, di parametri oggettivamente rilevabili e relativi al calcolo della effettiva minore entrata derivata dagli irregolari accertamenti posti in essere dai convenuti, fa sì che questo Giudice, affidandosi al predetto principio determini il danno nella sua quantificazione complessiva tenendo conto delle conclusioni cui il giudice d’appello di Torino (citata sentenza n.1880 del 30.4.98) è giunto in via definitiva nel determinare l’entità delle dazioni medesime, esse quantificate nella complessiva somma di £ 1.542.000.000.

Nel fare riferimento alle medesime conclusioni ed alla relativa dichiarazione di responsabilità per tutti i reati ascritti in capo agli appellanti, appare possibile dalla conseguente statuizione dei fatti e dal coinvolgimento e dal ruolo dei singoli, anche non appellanti, così come emergono dai capi di imputazione della sentenza, poter desumere il quantum corrisposto ai singoli convenuti a titolo di tangente e quindi computabile a titolo di danno in capo a ciascuno di essi.

Tale ripartizione risulta essere tale:

- B. 4 milioni

- B. 65 milioni

- B. 120 milioni

- C. 241 milioni

- C. 16 milioni

- C. 24 milioni

- D. 8 milioni

- G. 169 milioni

- P. 73 milioni

- R. 540 milioni

- S. 16 milioni

- S. 20 milioni

- G. 16 milioni

- V. 230 milioni

Tale computo, frutto quindi della valutazione del ruolo che i singoli convenuti hanno rivestito nella lunga vicenda che li ha visti protagonisti appare quindi poter comprendere, in seno all’attività illecita posta in essere, non solo il danno da minore entrata tributaria, così come si è venuto esponendo, ma anche quello che è stato il relativo disservizio, consistente nel mancato raggiungimento dei risultati ai quali era finalizzata la spesa sostenuta dallo Stato, causando uno spreco di risorse finanziarie pubbliche, ed in particolare di quelle destinate al funzionamento della Guardia di finanza, la cui attività è sottesa anche, nell’evitare frodi ed evasioni fiscali, alla salvaguardia degli equilibri di bilancio sotto il profilo delle entrate.

Ma questo Giudice ritiene anche, facendo ricorso al proprio potere equitativo, che la cifra identificata quale prezzo, da una parte, sotteso alla violazione degli obblighi di servizio da parte di pubblici ufficiali, e quale somma quindi, destinata, dall’altra, ad essere risarcita all’Erario a poter coprire anche quello che a dir poco è il disdoro causato dalle condotte in esame ai danni dell’immagine della Guardia di finanza.

Emblematica ed avvilente, in tal senso, è ancora una volta la sentenza del G.I.P. di Torino, che testualmente afferma: "I citati interrogatori, a cui vanno aggiunte le dichiarazioni di quasi tutti i concussi dimostrano che la Guardia di Finanza in Pinerolo era considerata da coloro che trattavano con la stessa non come un organo dello Stato, bensì come un gruppo di persone che sfruttavano la loro funzione a fini personali . Si trattava, perciò, di un’associazione avente fini diversi da quelli istituzionali e che all’uopo si era organizzata, instaurando rapporti anche con altre persone al fine di garantirsi la perpetrazione dell’ arricchimento illecito. In tale ambito, assumono rilevanza i rapporti con superiori compiacenti, con il Procuratore della Repubblica, con il Sindaco C. e con i mediatori di mazzette.

Inoltre, vi è da rilevare un’adesione psicologica al programma da parte dei singoli associati: tutti partecipavano, ricevevano, conferivano al capo, trattenevano le varie percentuali, senza che mai nessun imputato si sia ribellato al sistema, come avrebbe imposto la qualifica di pubblico ufficiale, sotto il profilo giuridico, e un appena normale senso civico, sotto il profilo morale.

L’associazione in questione era ,pertanto, finalizzata ad ottenere per i suoi componenti 1‘arricchimento veloce, indolore e con scarsi rischi, stante il suo incancrenimento all’interno del contesto sociale.

Infine, vi era una sorta di visibilità esterna dell’associazione a delinquere, testimoniata dall’accettazione supina dei metodi criminali da parte delle persone offese ed anche di quei commercialisti, che, pur non partecipando ai singoli reati, prendevano atto dell’esistenza di una degenerazione istituzionale e si adeguavano, confrontando la propria attività professionale con l’esistenza di un organismo destinato a commettere reati in continuazione.

Nessun dubbio può ,pertanto, esservi sulla sussistenza del reato di associazione per delinquere.

Non è da porre in dubbio come quindi l’immagine della Guardia di finanza, tradita dai propri componenti nel modo e nella misura descritta, esca distrutta da una vicenda che ne infanga perfino il ruolo istituzionale, senza parlare poi del fatto che protagonisti sono uomini in divisa che primi fra tutti dovrebbero fare del proprio comportamento un modello di esempio per la comunità in cui operano ed il tramite per dare, se non restituire, fiducia al rapporto fra cittadino ed istituzioni.

Quanto precede quindi traduce il convincimento di questo Giudice circa la sussistenza di un danno all’immagine che potrebbe trovare ampio riferimento, nella quantificazione, in ciò che l’Amministrazione dello stato spende per il funzionamento di questo corpo militare per la difesa di alti interessi nazionali, interessi in questo caso disattesi e vilipesi.

Ma come già specificato in precedenza, questo Collegio, in applicazione dell’art. 1226 c.c., ritiene che la individuata, complessiva somma di £ 1.542.000.000 posta a base dell’accordo criminale ben possa comprendere, pur nella sua autonoma valenza, anche questa voce di danno.

Pertanto e conclusivamente, questo Collegio ritiene gli odierni convenuti responsabili del complessivo danno erariale pari a £ 1.542.000.000, secondo le quote per ciascuno individuate, con vincolo di solidarietà, stante la natura dolosa delle condotte, oltre rivalutazione monetaria ed interessi legali.

Le spese di giustizia seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la regione Piemonte, definitivamente pronunciando, condanna, pro quota e con vincolo di solidarietà al pagamento in favore dell’Erario i sigg.

- Antonello B. per l’importo di 4 milioni

- Giuseppe B. "" 65 milioni

- Giovanni B. "" 120 milioni

- Pietro C. "" 241 milioni

- Daniela N. ved. C. "" 16 milioni

- Roberto C. "" 24 milioni

- Giacinto D. "" 8 milioni

- Marco G. "" 169 milioni

- Rolando P. "" . 73 milioni

- Antonio R. "" 540 milioni

- Gerardo S. "" 16 milioni

- Andrea S. "" 20 milioni

- Nicola G. "" 16 milioni

- Paolo V. "" 230 milioni

oltre rivalutazione monetaria ed interessi legali.

Le spese di giustizia, computate in £ omissis seguono la soccombenza.

Manda alla Segreteria per gli adempimenti di rito.

Così deciso in Torino, nella camera di consiglio del 20 giugno 2000 e del 17 luglio 2000.

omissis

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