CORTE DEI CONTI, SEZIONE GIURISDIZIONALE PER IL PIEMONTE - Sentenza 14 marzo 2001 n. 218/01
- G.U. Crea.Pensioni civili e militari - Cumulo – Di pensione con retribuzione per lavoro dipendente – Divieto – Cessazioni dal servizio frutto di scelta volontaria del lavoratore – Applicabilità.
L’espressione pensionamento anticipato, prevista dall’art. 10, comma 7, del D.L. 29 gennaio 1983 n. 17, convertito nella legge 25 marzo 1983 n. 79, che prevede la non cumulabilità tra pensione e retribuzione per lavoro dipendente nei confronti dei soggetti che fruiscono di pensionamenti anticipati, deve intendersi riferita a tutte le cessazioni dal servizio che siano effetto di una scelta volontaria del lavoratore; conseguentemente il suddetto divieto si applica anche all’ipotesi di decadenza dal servizio per aver esercitato attività lavorativa incompatibile con l’impiego.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE DEI CONTI
SEZIONE GIURISDIZIONALE PER LA REGIONE PIEMONTE
Composta dal Giudice unico delle pensioni nella persona del dott. Paolo Crea.
Visto il ricorso iscritto al numero 6336\C del registro di Segreteria;
Vista l’istanza con la quale viene tempestivamente richiesta la prosecuzione innanzi a questa Sezione territorialmente competente;
Visto il decreto ritualmente notificato con il quale il Presidente della Sezione ha fissato l’odierna udienza di discussione;
Sentito l’Avv. Luca Cattinelli per delega dell’Avv. Fabrizio Borasio per la parte ricorrente e la dott.sa Valeria Vittimberga per l’amministrazione, come da verbale d’udienza;
Visti gli atti ed i documenti tutti della causa;
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso proposto dal Sig C.P., rappresentato e difeso per delega in atti dall’Avv. Fabrizio Borasio ed elettivamente domiciliato presso lo studio Maniscalchi Reduzzi in Torino, C.so Matteotti 25, avverso il Ministero del Tesoro.
FATTO
La parte ricorrente ha impugnato il provvedimento n.11344 in data 14.08.95 con cui è stato disposto dalla Direzione Provinciale del Tesoro di Asti il recupero, previa sospensione della pensione in godimento dal 30.08.95, del credito erariale di L. 87.343.383 a titolo di pensione corrisposta illegittimamente dal 1.07.87 al 30.07.95. In sintesi, dagli atti emerge che la parte ricorrente era dipendente dell’USL 1\23, Ospedale S. Giovanni Battista, sede Eremo, con qualifica di infermiere generico di ruolo.Con delibera n. 1429\66\39\87 in data 29.05.87 è stato dichiarato decaduto dal servizio, previa diffida, ai sensi dell’art. 63 del DPR n.3\1957 richiamato dall’art. 27 del DPR n.761\1979, per avere esercitato altra attività lavorativa incompatibile con l’impiego pubblico.Più precisamente, dagli atti, risulta che il ricorrente lavorava presso un banco di ferramenta durante il mercato settimanale e, su rapporto dei Carabinieri in data 10.06.86, fu sottoposto a procedimento disciplinare e diffidato con lettera n.8413 del 21.11.86 a cessare l’attività lavorativa intrapresa in quanto incompatibile con il suo impiego alle dipendenze della citata USL. Successivamente, la Procura della Repubblica di Torino con fonogramma n. 349\86\AU ha segnalato che nei giorni 31.03.87 e 7.04.87 il dipendente in questione è stato nuovamente notato dai Carabinieri mentre prestava servizio presso il negozio di ferramenta "Marone" in occasione del mercato rionale. Seguiva, come detto, provvedimento di decadenza e corresponsione del trattamento pensionistico maturato, la cui riscossione avveniva da parte dell’interessato previa compilazione del modello 294\T nel quale il pensionato dichiarava, sotto la propria responsabilità, di non prestare opera retribuita e di non essere stato riassunto presso altri uffici.
Poiché in data 14.06.95 il predetto pensionato presentava dichiarazione sostitutiva al Comune di Castelnuovo Don Bosco in cui affermava di prestare opera retribuita in qualità di lavoratore dipendente dal 1.07.87, l’Amministrazione, in applicazione dell’art. 10 del DL 29 gennaio 1983 n.17, convertito nella legge 25 marzo 1983 n. 79, provvedeva alla sospensione della pensione ed al recupero di quanto già erogato come sopra evidenziato.
Il comma sette della norma in questione, infatti, prevede che per i soggetti che <fruiscono di pensionamenti anticipati > in applicazione delle disposizioni del medesimo articolo incorrono nei divieti di cumulo previsti dall’art. 22 della legge 30.04.69, n. 153.Altrimenti detto, la norma in questione vieta che colui il quale vada in quiescenza anticipata possa percepire il trattamento pensionistico in costanza di altro impiego alle dipendenze di terzi.
La difesa di parte attrice, richiamandosi alla giurisprudenza, anche costituzionale, emanata in applicazione della norma, esclude che la stessa sia applicabile fuori dai casi in essa espressamente previsti che, in buona sostanza, coincidono con una "domanda" di pensionamento, ossia con un atto di libera volontà del soggetto, situazione non riscontrabile nella fattispecie all’odierno esame che, invece, si realizza per il tramite della cennata dichiarazione di decadenza per incompatibilità. Deduce, inoltre, l’illegittimità del provvedimento di recupero emesso in violazione dell’art. 7 della legge 241\90 ed invoca l’applicazione dell’art. 80 del RD 1422\1924 che consente la ripetizione delle somme non dovute entro il termine di un anno decorrenti dal momento in cui l’ente dispone delle informazioni per l’accertamento del reddito del pensionato.
Con ordinanza n. 080\C\99 del 19-10\15-12.99 di questa Sezione Giurisdizionale, è stata sollevata d’ufficio questione di legittimità costituzionale dell’art. 10 più volte menzionato, in quanto non comprende espressamente tra i suoi destinatari i soggetti che siano andati in quiescenza per ipotesi diverse dalla domanda di pensionamento, ma pur sempre riconducibili al comportamento volontario del dipendente.
Con ordinanza n. 592 del 15-29 dicembre 2000 la Corte Costituzionale ha dichiarato la manifesta inammissibilità della sollevata questione di legittimità costituzionale, in quanto il giudice a quo < benché si soffermi diffusamente sulla peculiarità della fattispecie al suo esame, sì da rinvenire elementi di volontarietà nel comportamento dell’interessato tali da consentire, a suo avviso, un giudizio di sostanziale equiparazione rispetto a quella oggetto di disciplina sul divieto di cumulo tra pensione e retribuzione, non si dà carico, …se sulla base di un siffatto postulato, e traendo eventualmente dallo stesso ulteriori possibili implicazioni, non sia dato pervenire ad un’interpretazione idonea a superare il dubbio di costituzionalità che egli stesso prospetta >.
DIRITTO
Appare opportuno prendere le mosse dalla ratio della norma in argomento, che non appare collocabile tra le norme di divieto in senso stretto, ma sembra posta a tutela di interessi più generali dello Stato e segnatamente di quelli del bilancio e del lavoro.La norma, infatti, non vieta né qualifica la condotta del pensionato, né prevede per la sua violazione alcuna tipica sanzione, lasciando libero il pensionato di scegliere se fruire della sola pensione oppure se lavorare altrove, nonostante il pensionamento, garantendosi attraverso la retribuzione, comunque, quel sostentamento necessario per vivere che, nell’altro caso sarebbe, invece, fornito dal solo trattamento pensionistico.In sostanza, la norma non vieta al pensionato di lavorare, ma lo rende edotto delle conseguenze di una sua scelta, che egli è libero di poter fare. Appare, inoltre, che attraverso tale disincentivo, il vigente ordinamento miri a non aiutare due volte lo stesso soggetto, giacché se il medesimo lavora, sottraendo in astratto ad altro soggetto quel posto di lavoro che lo Stato concorre a supportare e garantire ai soggetti disoccupati, non pare equo che le pubbliche finanze siano anche impegnate nell’erogazione di un trattamento pensionistico.Del resto, la norma è principalmente riferita all’Amministrazione erogante, la quale al verificarsi di certi presupposti, non deve erogare il trattamento.
Il rinvio, infatti, che l’art. 10.co. 7, del DL n.17\1983 effettua all’art.22 della L. 153\1969 prevede semplicemente che la pensione < non è cumulabile con la retribuzione lorda percepita in costanza di rapporto di lavoro alle dipendenze di terzi >.
Il convincimento che la norma in argomento non sia inquadrabile tra quelle di divieto in senso proprio è, inoltre, confortato dalla considerazione che la stessa appare indifferente ai profili soggettivi della condotta del pensionato.Laddove le norme di divieto, ossia quelle che nel porre precetti alla condotta la qualificano come illecita ovvero illegittima, considerano non solo il dolo o la colpa dell’agente ma anche le cause esimenti, come lo stato di necessità ovvero di legittima difesa ovvero ancora i vizi della volontà, che non rilevano per la norma in questione. Infatti, inquadrata tra quelle di divieto, la norma non potrebbe essere applicata allorquando l’agente dimostrasse di averla violata, per esempio, in stato di necessità.
Se pertanto la norma è caratterizzata da questa ratio, devono trarsi almeno due considerazioni: la prima è che la stessa non sia di stretta interpretazione, ammettendo, perciò, l’applicazione dei canoni di comune ermeneutica, compresa l’interpretazione estensiva ovvero l’analogia; la seconda è che l’interpretazione della stessa nel senso di riferirsi alle sole "domande di dimissioni" appare immotivatamente riduttiva, rispetto alle sue finalità, tanto da ritenerla viziata per contrasto con il principio di uguaglianza costituzionale, ove interpretata in tal senso. Sarebbe, infatti, non solo una norma facilmente eludibile attraverso comportamenti comunque coscienti e volontari al pari della domanda di dimissioni, ma che all’interno di un'unica categoria (quella, appunto, dei comportamenti comunque imputabili all’agente) considererebbe solo una delle ipotesi di cessazione anticipata, senza considerare le altre che per le finalità della legge sono equivalenti.
Tali considerazioni appaiono avvalorate anche dall’ulteriore considerazione che la domanda di dimissioni, come atto di sicura e consapevole volontà del dimissionario, non può essere condotto nello schema degli atti di volontà propriamente detti, perché per essa vale l’irrilevanza degli stati soggettivi e l’irrilevanza dei vizi della volontà, come da giurisprudenza conforme sul punto.Le dimissioni sono, infatti, insensibili ai motivi dell’agente, al suo errore, alle eventuali cause di giustificazione.Non sono, inoltre, da sole sufficienti alla formazione dell’effetto di legge, per le quali è necessario anche l’atto di accettazione. Sicché è più corretto inquadrarle tra gli atti di avvio di un procedimento nel quale l’inizio dello stesso può anche avvenire per espressa richiesta dell’interessato con la domanda di quiescenza, ma anche attraverso altri meccanismi in cui lo stesso interessato può sempre manifestare espressamente, o per comportamenti liberi e volontari, le proprie scelte.
Giova al riguardo evidenziare che la medesima norma di cui oggi si chiede l’applicazione, al comma 6, riconosce rilevanza al comportamento del dipendente, addirittura nel caso in cui lo stesso avendo presentato domanda di dimissioni accettata con provvedimento divenuto efficace, possa revocare la stessa < purché sia ancora in servizio >.Nel qual caso il medesimo art. 10 del DL 17\1983 come convertito in legge 79\1983, riconnette rilevanza al comportamento del dipendente (la permanenza in servizio) anziché alla sua volontà in precedenza espressa.Ma anche il successivo comma sette dell’articolo, nel prevedere proprio i divieti di cui si tratta, usa l’espressione testuale "soggetti che fruiscono di pensionamenti anticipati", seppure con riferimento ai commi precedenti, che induce a ritenere che il puntuale riferimento alla sola "domanda" di pensione nei commi precedenti sia dalla legge effettuato senza escludere altre ipotesi, egualmente assimilabili, sotto il profilo della riferibilità al soggetto, alla domanda pensionistica.
A tale ultimo riguardo, deve essere evidenziato che l’affermazione secondo cui la norma in argomento sarebbe riferibile solo alle domande di pensionamento, appare superabile sia perché la legge non usa espressioni come "solo", "esclusivamente" e simili riferendosi alla "domanda" di pensionamento, sia perché la materia disciplinata dalla norma non è tra quelle rette dal principio di tassativià e tipicità, in quanto mancano, in tal senso, precise disposizioni di Costituzione ovvero di legge.
In sostanza, non può riconoscersi quel valore di assoluta certezza sulle conseguenze cui il dipendente va incontro alle sole dimissioni volontarie, giacché sia la norma in questione, che più in generale quelle di disciplina delle dimissioni nel pubblico impiego, non autorizzano una tale assoluta conclusione.
In base a tali considerazioni tutta la giurisprudenza citata dalla difesa di parte ricorrente, pertanto, deve essere letta nel senso di escludere il meccanismo dell’art 10 più volte citato solo in quei casi in cui il collocamento in quiescenza anticipata sia ascrivibile a fatti assolutamente non riconducibili alla coscienza e volontà del soggetto. Giacché da tutte le sentenze in argomento può trarsi il convincimento che ciò che la giurisprudenza intende escludere è che il soggetto si trovi inconsapevolmente nelle condizioni previste dall’art 10 già citato.
Del resto, esiste anche giurisprudenza di senso contrario a quella citata dalla parte (cfr.per tutte Cons. Stato sez VI, 29 gennaio 1997 n. 173; Corte Conti Sez. Sicilia, 5 febbraio 1991 n. 12\C, idem, Sez. Contr., 30 luglio 1990 n. 44) secondo cui nella locuzione "pensionamento anticipato" rientrano tutte le cessazioni che, per effetto di una scelta volontaria, comportino il venir meno di attività lavorative anticipatamente rispetto ai limiti di età < e, quindi, anche le cessazioni anticipate dal servizio che discendano dall’assunzione di altro impiego incompatibile > (Cfr Cons. Stato appena citato).
Nel caso di specie, peraltro, la situazione riscontrabile è peculiare giacché connotata da dolo, o quantomeno da grave negligenza ed ignoranza inescusabile anche di norme di legge, del dipendente. Infatti, non è sostenibile ipotizzare, di fronte alla precisa diffida dell’amministrazione di cessare i comportamenti causativi dell’incompatibilità, peraltro prevista sia dalla legge che dalle norme di servizo specifiche del dipendente, che l’interessato non avesse cognizione delle conseguenze della sua condotta.Come parimenti insostenibile appare che il dipendente sottoposto a procedimento disciplinare per gli stessi fatti che hanno portato alla decadenza, non si rendesse conto della gravità della situazione in cui versava.Del pari grave appare il comportamento di firmare il modello di prelievo della pensione con dichiarazioni non veritiere, laddove lo stesso era riempito di pugno dell’interessato il quale affermava per iscritto di non svolgere altra attività di lavoro. In sede di udienza, peraltro, la difesa di parte ha sostenuto, per tale ultimo profilo, che la parte di modulo riempito dall’interessato con l’apposizione di un "NON", nel rigo che testualmente riporta < che (non) presta opera retribuita sotto qualsiasi forma presso l’Ufficio o l’Ente >, si presti ad equivoci.Ciò in quanto, a dire della difesa, l’"Ufficio"o l’"Ente" si sarebbe dovuto intendere come riferito alla USL (ex datore di lavoro dell’interessato) che non poteva non conoscere le cause di pensionamento anticipato, dovute proprio alla decadenza per incompatibilità dalla stessa pronunciata.In sostanza, l’interessato era convinto, apponendo il "non", di confermare che non era più retribuito dalla USL. A parte la considerazione che sotto l’espressione "ente", per la sua genericità possono ricomprendersi innumerevoli ipotesi che, comunque avrebbero dovuto sollevare, quantomeno, dubbi nell’interessato, il quale li avrebbe potuti sciogliere informandosi, appare decisivo considerare che tutto intero il documento di cui trattasi, che peraltro non proviene dalla USL datrice di lavoro, ma da altra amministrazione esecutrice che non è tenuta a conoscere i fatti antecedenti, né se gli stessi permangano, si riferisce al "titolare della pensione", e perciò a soggetto che certamente non lavora più presso l’amministrazione originaria. Pertanto, se fosse corretto il ragionamento di parte, con il modulo in questione la stessa amministrazione, che ben conosce lo status di pensionato dell’interessato, (come, appunto, affermato dalla difesa) chiederebbe allo stesso, se presta opera retribuita presso sé stessa. E’ chiaro, perciò, che l’espressione del modulo dovesse riferirsi necessariamente e logicamente ad uffici ed enti, diversi da quello abbandonato, nell’intento di accertare proprio le cause di incompatibilità previste dalla legge.
Del pari violato appare il dovere, previsto dall’art 197 del DPR 1092\1973, di comunicare all’amministrazione il verificarsi di fatti incidenti sull’erogazione pensionistica.
Ed al riguardo, sia detto per inciso, non risulta violato, comunque, l’art. 7 della legge 241\1990 giacché anche solo la diffida di cui sopra, tacendo dello stesso procedimento disciplinare, avevano reso edotto il dipendente dell’avvio del procedimento, in questa sede non valutabile sotto il profilo dell’eventuale mera illegittimità, giacché la Corte in materia pensionistica giudica del rapporto e sull’esistenza del diritto sostanziale controverso, e non dell’illegittimità degli atti. Inoltre, il medesimo art. 7, co.2, consente di avviare il procedimento prima delle eventuali comunicazioni nel caso, come quello di specie, in cui si esercitano poteri cautelari.
Quanto al richiamo del RD 1422\1924, esso non appare decisivo, sia perché, nei fatti, il recupero è avvenuto entro il termine di un anno decorrente dalla data in cui l’Amministrazione ha avuto la certezza del verificarsi delle condizioni di legge per il recupero ivi previsto, come emerso in sede di udienza, sia perché la materia è disciplinata dall’art. 206 del DPR 1092\1973 e dall’art. 1, co.260 e ss della legge 662\1996, che escludono, comunque, la irripetibilità delle somme in caso di dolo del percettore.
Quanto alle spese del presente procedimento, appare equo compensarle, solo in considerazione della difformità giurisprudenziale sull’applicazione dell’art. 10 più volte citato.
Il ricorso, pertanto, non può essere accolto.
P.Q.M.
la Corte dei Conti, Sezione Giurisdizionale per la Regione Piemonte, non accoglie per quanto esposto in motivazione il ricorso proposto da C. P. avverso il decreto indicato in epigrafe.
Nulla per le spese.
Così deciso in Torino nella pubblica udienza del 14.03.2001 ore 10.
Depositata il 14 marzo 2001.