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CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL'UOMO - Sentenza 5 ottobre 2000 - Causa Mennitto c. Italia.

Giustizia amministrativa - Generalità – Diritto ad una ragionevole durata del processo – Distinzione tra diritti ed interessi fatti valere – Irrilevanza qualora il privato riponga un ragionevole affidamento nel comportamento dell’amministrazione.

Un procedimento giurisdizionale amministrativo durato quattro anni e cinque mesi, in materia di accesso ai benefici economici per la tutela di persone handicappate, non soddisfa l’esigenza di "ragionevole termine" del processo, ex art. 6 della Convenzione di Strasburgo.

Qualora il privato possa vantare una ragionevole aspettativa ad una prestazione per la quale ha agito in giudizio innanzi la magistratura amministrativa, non è necessario che la Corte europea dei diritti dell’Uomo, adita per violazione dell’art. 6 della Convenzione di Strasburgo in tema di ragionevole durata del processo, verifichi se l’azione tenda al riconoscimento di un diritto oppure rifletta un interesse (situazione quest’ultima priva di detta garanzia di durata ragionevole) (1).

(1) La Corte dei diritti dell’uomo dubita dell’utilità dell’attuale distinzione tra diritti soggettivi ed interessi legittimi.

di GUGLIELMO SAPORITO

Viene da Strasburgo una nuova lettura del rapporto tra diritti ed interessi legittimi, in singolare coincidenza con le nuove regole in materia di giurisdizione esclusiva per le prestazioni attinenti pubblici servizi (art. 7 l. 205/2000).

1 - La sentenza Mennitto del 5 ottobre 2000 potrebbe aprire un varco all’indennizzabilità di tutti i ritardi di sentenze su questioni relative ad interessi legittimi. Fino ad oggi, l’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo è stato interpretato come un mezzo di difesa contro la durata irragionevole delle sole controversie in tema di diritti e doveri di carattere civile (con esclusione quindi delle possibilità di chiedere risarcimenti per processi troppo lunghi in materia di interessi legittimi). I casi di condanna dello Stato italiano per la durata dei processi TAR (Abenvoli, de Santa, 2 settembre 1997, in Rassegna TAR 1998, 2, 238) riguardano infatti pretese economiche di pubblici dipendenti: le controversie potrebbero tuttavia moltiplicarsi con enormi danni per l’erario qualora la nuova interpretazione della Corte si stabilizzasse in più precedenti.

2 - Occorre focalizzare il caso esaminato per meglio orientarsi.

Si discuteva di importi economici riconosciuti da una Regione ai cittadini che mantengano presso di loro un parente handicappato. Il contenzioso a suo tempo sorto innanzi i TAR ha affrontato la questione pregiudiziale della configurablità di un interesse legittimo all’erogazione economica: ne è derivato un orientamento favorevole alla giurisdizione amministrativa (Cons. Stato, V, 17.2.1999 n. 172, in Foro Amm. 2000, 365 ed ivi ulteriori richiami), riconoscendo l’esistenza di interessi legittimi anche nei casi in cui il quantum sia fissato dalla legge. Osserva infatti la V Sezione (172/1999, cit.) che la circostanza che il quantum sia vincolato, non esclude la discrezionalità nell’an.

La Cassazione a Sezioni unite ha esaminato la stessa materia sotto altri aspetti, ritenendo che l’erogazione del contributo ha contenuti di discrezionalità, dovendosi comparare l’interesse pubblico perseguito con altri interessi secondari pubblici e privati (Cass. 711/1991); in altri termini, la p.a. può attribuire una somma, ma tale attribuzione avviene sulla base della valutazione delle disponibilità finanziarie dell’ente e del numero delle persone assistibili (Cass. 823/1994). Di fronte a questa distinzione diritto-interesse, la Corte europea introduce un proprio meccanismo di valutazione: nel paragrafo 23 della sentenza, la Corte sottolinea che si verte in materia di diritti non solo quando si discuta dell’esistenza attuale del diritto, ma anche quando si discuta del modo del suo esercizio. Quindi, tutte le volte che un procedimento amministrativo "è direttamente decisivo per il diritto in questione", si verte in materia di diritti e quindi vi è giurisdizione della Corte se il processo non ha una durata ragionevole.

3 - Viene così fortemente incrinata la configurazione degli interessi legittimi, del resto in parte autodistrutti dalla sentenza 500/2000 della Cassazione: tali interessi sono ritenuti attratti nel diritto che concorrono a materializzare.

La conseguenza di tale attrazione dell’interesse nel diritto è oggi limitata alle liti innanzi la Corte europea per violazione dell’art. 6 della convenzione, tutte le volte che cioè si discuta della durata del contenzioso in tema di interessi legittimi. È peraltro evidente che il giudice di Strasburgo ritiene – a monte - poco credibile la stessa distinzione tra diritto ed interesse. Ciò per due motivi, uno di diritto e l’altro di fatto. Il primo motivo, secondo quei giudici, è che nello specifico caso esaminato l’interesse legittimo era strettamente prodromico al diritto soggettivo (esprimendo un "procedimento direttamente decisivo per il diritto in questione", paragrafo 23 della sentenza). Il secondo motivo è ancora più insidioso: avendo il ricorrente già ricevuto due (delle dodici) rate mensili, poteva ritenere di avere (non solo un interesse legittimo, ma un vero e proprio) diritto a ricevere l’intera erogazione. Quindi, secondo la Corte europea, il ragionevole affidamento che l’interessato può riporre in un comportamento della p.a. può irrobustire la sua posizione al punto da far diventare evanescente la differenza tra interesse e diritto.

4 - Come si vede, il ragionamento è molto insidioso e, seppur limitato alla risarcibilità per violazione del principio della durata ragionevole del processo, si coniuga bene con le innovazioni della legge 205/2000. Strasburgo infatti dà rilievo al comportamento della p.a., non diversamente da come l’art. 7 della legge 205, dove si parla di "comportamenti in materia edilizia ed urbanistica". Strasburgo invita altresì ad evitare bizantine distinzioni tra diritti ed interessi, non diversamente da quanto ritiene il legislatore nazionale prevedendo una giurisdizione amministrativa esclusiva in materia di servizi pubblici (art. 7 L. 205 cit.).

Ne esce, in sintesi, con le ossa rotte l’attuale sistema italiano di giustizia amministrativa, nel quale sta avvenendo una trasformazione dell' interesse in diritto, tutte le volte in cui vi sia un ragionevole affidamento sul comportamento della p.a.

Del resto, se si intende avvicinare l’attività amministrativa a canoni privatistici (proposta di legge 6844-A Camera, art. 2, in questo sito), non deve meravigliare la vis actractiva del diritto rispetto all’interesse: ad esempio, vengono meno gli interessi legittimi puramente formali, quali quello al mero rispetto della scansione procedimentale nella formazione di un valido provvedimento. (G.S., 06.11.2000)

 

TESTO DELLA SENTENZA IN ITALIANO (per il testo originale in inglese, clicca qui; ha collaborato alla traduzione dei testi il dott. Mauro Rossi).

CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL'UOMO

Sentenza 5 ottobre 2000

Causa Mennitto c. Italia.

corte europea dei diritti dell’uomo

caso mennitto c. italia

(ricorso n. 33804/96)

decisione

Strasburgo

5 ottobre 2000

Nel caso Mennitto c. Italia.

La Corte Europea dei diritti dell’uomo, riunita a Sezioni Unite composta dai seguenti gudici:

Sig. L. Wildhaber, Presidente,

Sig.ra E. Palm,

Sig. J.-P. Costa,

Sig. A. Pastor Ridruejo,

Sig. L. Ferrari Bravo,

Sig. G. Bonello,

Sig. J. Makarczyck,

Sig. R. Turmen,

Sig.ra V. Straznicka,

Sig. P. Lorenzen,

Sig. M. Fischbach,

Sig. V. Butkevych,

Sig. J. Casadevall,

Sig.ra H.S. Greve,

Sig. A.B. Baka,

Sig.ra S. Botoucharova,

Sig. M. Ugrekhelidze,

e dal Sig. M. de Salvia, cancelliere,

avendo deliberato in camera di consiglio nei giorni 8 marzo, 7 giugno e 6 settembre 2000, emana la seguente sentenza, adottata nell’ultima data menzionata.

Svolgimento del processo:

Il caso fu assegnato alla Corte, in conformità alle previsioni applicabili anteriormente all’entrata in vigore del Protocollo No. 11 della Convenzione per la tutela dei diritti umani e delle libertà fondamentali ("la Convenzione"), da parte della Commissione Europea dei Diritti dell’Uomo ("La Commissione") e da parte del Sig. Mario Mennitto ("il ricorrente"), cittadino italiano, rispettivamente il 3 giugno e il 12 maggio 1999 (Art. 5 § 4 del Protocollo No. 11 e precedenti Art. 47 e 48 della Convenzione).

Il caso originava una domanda (no. 33804/96) contro l’Italia rivolta alla Commissione dal ricorrente sotto la vigenza del precedente Art. 25 della Convenzione il 2 gennaio 1996. Il ricorrente asseriva che la sua causa non era stata decisa entro un ragionevole termine, come richiesto dall’Art. 6 § 1 della Convenzione.

La Commissione dichiavarava il ricorso ammissibile il 10 Settembre 1998. Nel suo rapporto del 4 Marzo 1999 (precedente Art. 31 della Convenzione), la Commissione esprimeva l’avviso che l’Art. 6 non fosse applicabile al procedimento in questione e che conseguentemente non c’era stata violazione della stessa previsione (tredici voti a dieci).

Avanti alla Corte il ricorrente era rappresentato dal Sig. G. Romano, del Foro di Benevento, e dal Sig. D.A. Parrotta; il Governo italiano ("il Governo") era rappresentato dal suo Procuratore, Sig. U. Leanza, e dal suo Co-Procuratore, Sig. V. Esposito.

 

Il 20 settembre 1999 la giuria dell’Alta Corte stabilì che il caso poteva essere deciso dall’Alta Corte (clausola 100 § 1 del regolamento della Corte). Il Sig. B. Conforti, il giudice eletto in rappresentanza dell’Italia, che aveva preso parte all’esame del caso operato dalla Commissione, si ritirò dalle Sezioni Unite (clausola 28). Il Governo nominò di conseguenza il Sig. Ferrari Bravo, il giudice eletto in rappresentanza di San Marino, a prendere il suo posto (Art. 27 § 2 della Convenzione e clausola 29 § 1).

Il ricorrente e il Governo depositavano memorie.

Si teneva udienza pubblica nel Palazzo dei Diritti dell’Uomo, Strasburgo, l’8 marzo 2000.

Comparivano avanti alla Corte:

per il Governo

Il Sig. Vitaliano Esposito, Co-Procuratore;

per il ricorrente

Il Sig. Giovanni Romano, Avvocato;

Il Sig. Domenico Antonio Parrotta, Consulente;

La Corte udiva gli interventi del Sig. Romano e del Sig. Esposito e le loro repliche alle domande di due giudici.

i fatti

le circostanze del caso

Il 15 Marzo 1984, in applicazione della L. n. 833/78, che isituì il Servizio Sanitario Nazionale e incaricava i governi regionali, inter alia, di adottare misure appropriate per la prevenzione, il controllo e la cura delle invalidità, il Consiglio Regionale della Campania emanava la Legge Regionale n. 11 ("la Legge Regionale"). L’art. 26 della Legge Regionale autorizzava i locali pubblici servizi sanitari (Unità Sanitarie Locali – "USLs") ad assegnare contributi per i primi tre anni successivi alla sua entrata in vigore alle famiglie che si occupavano direttamente presso le loro case dei loro membri disabili.

Il 5 Dicembre 1989 il Comitato di gestione della USL n. 5 di Benevento, applicando l’Art. 26 della Legge Regionale, stabiliva che 134 persone, incluso il figlio del ricorrente, soddisfacevano le condizioni legittimanti le loro famiglie al pagamento dell’assegno. La decisione autorizzava solo la classificazione per qualificare i beneficiari, in relazione alla data in cui essi erano stati riconosciuti disabili al 100%, della somma di 35.328.240 lire italiane (LIT) per l’anno 1985; il ricorrente riceveva LIT 84.720 in riferimento ai mesi di Novembre e Dicembre 1985.

Con avviso di pagamento il 12 giugno 1993 il ricorrente richiedeva alla USL n. 5 di Benevento di accordargli il contributo. Il ricorrente osservava che l’inserimento del nome di suo figlio nella lista delle persone che integravano le condizioni richieste dalla Legge Regionale per il conferimento del diritto all’assegno non era stato seguito dal pagamento previsto dall’Art. 26 della Legge Regionale.

Dato che l’USL non aveva risposto, il ricorrente instaurava un procedimento contro lo stesso ente presso il Tribunale Amministrativo Regionale della Campania (TAR) il 2 Agosto 1993. Sulla base dell’Art. 26 della Legge Regionale, il ricorrente dichiarava che l’assenza di una risposta da parte della USL – equivalente ad un rifiuto – era stata illegittima e che egli era legittimato a percepire il contributo in questione per gli anni 1985, 1986 e 1987.

Il 13 Agosto 1993 il ricorrente richiedeva la fissazione della data dell’udienza. Il 25 luglio 1995 egli presentava una richiesta urgente di fissazione udienza, osservando inter alia che le USL sarebbero state ristrutturate il 31 dicembre 1995 e che la legislazione italiana non faceva previsioni per la continuità finanziaria tra i vecchi e i nuovi enti. Il ricorrente richiedeva pertanto che il suo caso fosse deciso perché dopo la fine del 1995 egli non avrebbe più potuto ottenere il contributo preteso.

In una memoria depositata in data non precisata, la USL n. 5 faceva notare, tra gli altri argomenti, che la stessa non aveva legittimazione passiva, sul fondamento che solo la Regione era legittimata a rendere disponibili le risorse finanziarie necessarie per il pagamento dell’assegno. La USL affermava che il ricorrente, il quale aveva ricevuto l’assegno per l’anno 1985, entro i limiti degli stanziamenti in bilancio, avrebbe dovuto impugnare la decisione del 5 Dicembre 1989, ma dato che non lo aveva fatto la stessa era diventata definitiva e l’importo pagato non avrebbe più potuto essere messo in dubbio.

Il caso fu discusso il 14 gennaio 1997. Nella sentenza del 14 Gennaio e 4 Febbraio 1997, il testo della quale veniva depositato in cancelleria il 3 Marzo 1997, il TAR osservava in primo luogo che al ricorrente non era richiesto di impugnare la decisione in questione, dato che la stessa non conteneva un rifiuto a pagare il pieno importo dell’assegno. Al contrario, ci sarebbero stati diversi validi modi di interpretare la condotta della USL. Per esempio, il ricorrente avrebbe potuto pensare che la USL stesse eseguendo un pagamento in acconto, mentre riservava la determinazione definitiva dell’ammontare a pagarsi ad una successiva valutazione, o che la stessa aveva deciso di pagare una somma più congrua con una rata iniziale seguita da altre. Nel merito, il TAR riteneva che una volta che fosse stato verificato che le condizioni richieste dalla legge per la legittimazione al contributo fossero state soddisfatte, lo stesso avrebbe dovuto essere pagato nel quantum previsto ex art. 26. L’autorità amministrativa non ha cioè un potere discrezionale e il suo ruolo sarebbe stato ristretto alla esecuzione di un semplice calcolo aritmetico. Il ricorrente aveva correttamente affermato di essere padre di un disabile civile al 100% convivente con la sua famiglia; in più, il nome di suo figlio era il novantacinquesimo incluso nella lista nella decisione del 5 Dicembre 1989. L’USL avrebbe perciò dovuto accogliere la sua domanda. Comunque, dato che la Corte di Cassazione aveva statuito, risolvendo una questione sulla giurisdizione (sentenza n. 8297 dell’11 Ottobre 1994), il ricorrente non poteva pretendere di avere un diritto soggettivo perfetto ma solo un interesse legittimo, vale a dire una posizione individuale indiretta, tutelata in tanto in quanto conforme al pubblico interesse. Ciò fino all’adozione da parte dell’ amministrazione di una decisione che assegnasse il contributo e specificasse il totale importo da pagare. Il TAR perciò rigettava la domanda del ricorrente nella parte in cui essa concerneva il riconoscimento del suo diritto al contributo in questione.

Rispettivamente il 20 giugno e il 5 luglio 1997 la USL n. 5 e il Consiglio Regionale della Campania proponevano appello al Consiglio di Stato. Con decisione 30 Agosto 1997 il Consiglio di Stato sospendeva la sentenza di primo grado.

Il 14 Novembre 1997 il Direttore Generale della ASL (Azienda Sanitaria Locale), l’ente che aveva sostituito le USL, approvava il testo di un accordo amichevole concluso tra l’autorità amministrativa e il ricorrente, tra gli altri, il 7 Novembre. Rilevando che in numerosi casi simili i giudici competenti avevano quasi sempre riconosciuto che i ricorrenti erano legittimati all’assegno per gli anni 1985-87, notando inoltre che l’accordo era stato firmato dopo l’avvenuta verifica che le condizioni richieste dalla Legge Regionale fossero state integrate, e avendo riguardo al fatto che l’accordo poneva fine ad un caso di alto profilo che sarebbe con ogni probabilità terminato a sfavore dell’ l’autorità amministrativa, dato l’orientamento che avevano assunto i tribunali sulla questione, per cui l’erario pubblico avrebbe risparmiato miliardi di lire, il Direttore Generale ordinava il pagamento del contributo economico. Con decisione 25 Novembre 1997 il testo della quale fu depositato in cancelleria il 27 Dicembre 1997, il Consiglio di Stato prese formale atto dell’accordo raggiunto tra le parti e cancellava la causa dal suo ruolo.

legislazione nazionale applicabile e prassi

L’assegno per le famiglie degli invalidi civili è disciplinato dall’art. 26 della Legge Regionale n. 11 del 15 Marzo 1984, la relativa parte del quale prevede:

"Per i primi tre anni dall’entrata in vigore della presente Legge, le Unità Sanitarie Locali sono autorizzate ad erogare un contributo economico alle famiglie che provvedono direttamente all’assistenza dei soggetti non autosufficienti portatori di handicaps psico-fisici, incapaci di provvedere ai propri bisogni primari e che rendono necessaria un’assistenza intensa e continuativa".

Tale contributo viene erogato allo scopo di perseguire i seguenti obiettivi:

rientro in famiglia di handicappati già ricoverati a tempo pieno in istituti;

diffusione dell’affidamento familiare di minori handicappati (…);

socializzazione dell’handicappato e suo rapporto con l’ambiente circostante;

alleviamento delle condizioni di vita della famiglia dell’handicappato;

predisposizione di un ambiente idoneo alla vita dell’handicappato; (…)

Il contributo economico alle famiglie è pari al 25% dell’importo della retta giornaliera di assistenza per l’internato a tempo pieno.

La Corte di Cassazione ha fissato numerosi principi in materia di assegni di assistenza in coincidenza con i ricorsi di legittimità concernenti controversie sulla giurisdizione.

Per esempio, nella sentenza no. 5386 del 12 Maggio 1993, La Corte di Cassazione riteneva che dove la giurisdizione del giudice ordinario fosse stata riconosciuta con decisione divenuta definitiva, le controversie relative all’Art. 26 della Legge Regionale ricadevano nella categoria delle controversie assistenziali, la quale rientrava entro la giurisdizione del giudice del lavoro.

Nella sentenza no. 8297 dell’11 Ottobre 1994 la Corte di Cassazione affermava che i tribunali amministrativi avevano giurisdizione sulle controversie relative alla legittimazione al contributo economico, stabilendo che il beneficiario non poteva pretendere di avere un diritto soggettivo perfetto, ma soltanto un interesse legittimo, vale a dire una posizione individuale indirettamente tutelata in tanto in quanto conforme all’interesse pubblico, e che tale sarebbe rimasta fino al tempo in cui l’autorità avesse adottato la decisione di assegnare il contributo e specificato l’importo globale da pagare.

I ricorrenti erano in questi due casi in situazioni simili a quella del Sig. Mennitto, ma avevano proposto ricorso al giudice ordinario.

Il TAR Campania ha in più occasioni accolto le pretese di altre persone che si occupavano dei loro invalidi.

Nella sentenza no. 251, depositata in cancelleria il 16 Maggio 1995, il TAR stabiliva:

"[La Corte] dichiara che il ricorrente è legittimato a ricevere il contributo previsto dall’Art. 26 [della Legge Regionale]…;

ordina alla competente autorità di pagare la somma in questione…"

In quella decisione e in altre (sentenza no. 310 del 4 luglio 1995 e sentenze nn. 323 e 324 del 6 Febbraio e dell’11 Giugno 1996) il TAR forniva le seguenti motivazioni alla sua decisione:

"[L’Art. 26 della Legge Regionale] subordina la decisione di assegnare il contributo in oggetto, tra le altre esigenze, alla verifica che i beneficiari soddisfino le relative condizioni di qualificazione. Quando tale verifica sia stata fatta, la determinazione dell’importo in pagamento non avrebbe dovuto richiedere più che un semplice calcolo aritmetico…

Alla luce di questi principi…, l’esercizio del potere discrezionale invocato dalla USL non ha attinenza con il caso, in quanto altrimenti sarebbe possibile per una decisione amministrativa sostituire una valutazione già ineluttabilmente compiuta dal legislatore…"

Dopo avere sancito che G. C. (il parente del ricorrente) era invalido al 100% e richiedeva costante assistenza, quale era perché, seguendo gli esami eseguiti dalla competente autorità, il suo nome era stato inserito nella lista di abilitazione dei beneficiari, il TAR sancì che c’era una obbligazione di pagamento del contributo.

Il Consiglio di Stato, decidendo sulla domanda di determinazione dell’importo del contributo, riteneva che la Regione non poteva essere liberata dall’obbligazione di rendere disponibile a ciascuna USL una somma destinata alle famiglie che provvedevano direttamente alla cura delle persone invalide, somma sufficientemente congrua per assicurare a ciascuna di queste famiglie di potere ricevere l’importo dell’assegno prescritto dalla legge (sentenza no. 766 del 3 Ottobre 1994).

Nella sentenza no. 172 del 17 Febbraio 1999 il Consiglio di Stato stabiliva che l’importo del contributo alle famiglie che provvedevano direttamente alla cura delle persone invalide, nella misura in cui fosse prevista dalla legge, non poteva subire riduzioni da parte dell’autorità amministrativa, che su questo punto non aveva alcun potere discrezionale riguardo al quantum, e che tale conclusione non era in contrasto con la natura dell’interesse legittimo delle famiglie degli invalidi.

la legge

presunta violazione dell’art. 6 § 1 della Convenzione

Il ricorrente si doleva della lunghezza del procedimento che aveva instaurato presso il Tribunale Amministrativo della Campania ("il TAR"). Egli affermava la violazione dell’art. 6 § 1 della Convenzione, che prevede:

"Nelle controversie su diritti e doveri di carattere civile …, ognuno ha diritto a … un processo entro un termine ragionevole da parte di [un] … tribunale …"

Applicabilità

Il ricorrente sosteneva che l’Art. 6 § 1 era applicabile al presente caso perché il suo ricorso al TAR concerneva un diritto civile di natura patrimoniale e che il procedimento che aveva instaurato era decisivo per i suoi diritti individuali e doveri, secondo la giurisprudenza della Corte. Questo era reso evidente, in primo luogo, dalle sentenze sul medesimo oggetto nelle quali i tribunali amministrativi avevano ordinato alle autorità amministrative di pagare il contributo in questione alle famiglie di altre persone invalide, e secondariamente dal fatto che lo stesso contributo era stato pagato seguendo l’accordo amichevole del 7 Novembre 1997. Inoltre, a detta del ricorrente, una volta che il nome di suo figlio fosse stato inserito nella lista delle persone che soddisfacevano le condizioni richieste dalla legge (una grave invalidità che richieda una assistenza costante risultante da un esame medico) non avrebbe potuto esserci dubbio circa l’obbligo di pagare il contributo.

Il Governo sosteneva l’opposto, affermando che la lettera della legge era predominante. Il contributo ricevuto dal ricorrente era un pagamento ex gratia elargito dallo Stato in riguardo della eccezionale situazione risultante dalla grave infermità del figlio del ricorrente ed era stato suggerito da considerazioni di politica economica pubblica. Nessun diritto patrimoniale poteva essere riconosciuto nei confronti della competente autorità amministrativa, la quale aveva pieno potere discrezionale in materia, che aveva assunto la decisione di erogare il contributo. Non c’erano state perciò controversie su un diritto "civile". Inoltre, l’accordo amichevole citato dal ricorrente aveva soltanto messo fine al procedimento intentato, e non conteneva un riconoscimento del diritto preteso. Infine, il Governo si limitava a contestare l’affermazione secondo la quale i tribunali amministrativi avevano emesso sentenze che ordinavano alle autorità di pagare il contributo a persone che versavano nella stessa situazione del ricorrente.

La Corte ribadisce che, secondo i principi stabiliti dalla sua giurisprudenza, occorre prima accertare se la controversia riguardi un "diritto" definibile come tale, almeno nell’argomento in discussione, che debba essere riconosciuto dalla legge nazionale. La controversia deve essere seria e importante; può concernere non solo l’esistenza attuale di un diritto ma anche il suo scopo e il modo del suo esercizio. Il risultato del procedimento deve essere direttamente decisivo per il diritto in questione (vv. le seguenti sentenze: Acquaviva c. Francia, 21 Novembre 1995, Serie A no. 333-A, p. 14, § 46; Balmer-Schafroth e Altri c. Svizzera, 26 Agosto 1997, Raccolta di Sentenze e Decisioni 1997-IV, p. 1357, § 32; Le Calvez c. Francia, 29 luglio 1998, Raccolta 1998-V, p. 1899, § 56; e Athanassoglou e Altri c. Svizzera [GC], no. 27644/95, § 43, in corso di pubblicazione). Infine, il diritto deve essere un diritto "civile".

La Corte rileva, in primo luogo, che il Governo non negava che, seguendo il tacito rifiuto dell’autorità amministrativa, la controversia era insorta tra il ricorrente e quelle autorità. La lite era indubitabilmente seria e importante, in quanto quando il TAR Campania accoglieva la pretesa del ricorrente, liquidava in parte la stessa. Il risultato del procedimento era altresì decisivo in quanto concerneva l’esistenza del diritto del ricorrente ad ottenere il pieno importo del contributo.

Secondariamente, la Corte rileva che l’Art. 26 della Legge Regionale no. 11 del 15 Marzo 1984 ("la Legge Regionale") autorizzava le Unità sanitarie locali a pagare il contributo in oggetto ma non conferiva automaticamente alle famiglie che si occupano delle persone affette da invalidità fisiche o mentali il diritto a ricevere il contributo stesso. Così il TAR spiegava la situazione nella sua sentenza del 14 Gennaio e 4 Febbraio 1997 quando rigettava la domanda del ricorrente. Il ricorrente poteva soltanto vantare un interesse legittimo ad ottenere una risposta dall’USL alla sua diffida a pagare del 12 Giugno 1993 (vv. paragrafo 12 sopra). La sua legittimazione al contributo economico non poteva essere riconosciuta fino a quando l’USL non avesse adottato la decisione di assegnare il contributo e avesse precisato il totale importo. Il TAR aveva seguito la giurisprudenza della Corte di Cassazione in base alla quale, quando vi fosse un interesse legittimo ad impugnare la decisione delle autorità amministrative ma non un diritto soggettivo, il tribunale amministrativo, e non il tribunale civile, aveva giurisdizione. Tuttavia, nella stessa decisione il TAR stabiliva che la condotta della USL, che aveva pagato al ricorrente due rate mensili, avrebbe potuto essere interpretata in diversi modi; per esempio, il ricorrente poteva pensare che la USL stava eseguendo un pagamento in acconto, mentre riservava la determinazione definitiva dell’importo a pagarsi ad una successiva valutazione, o che lo stesso ente aveva convenuto di pagare una somma più congrua con una iniziale rata cui farne seguire altre. Inoltre, le autorità amministrative non avevano potere discrezionale sull’importo del contributo, che era fissato dalla legge. Dopo avere verificato che il ricorrente soddisfaceva le condizioni per la legittimazione al contributo, la USL avrebbe dovuto semplicemente compiere un calcolo aritmetico del quantum (vv. paragrafo 18 sopra). Lo stesso orientamento era stato seguito in numerose sentenze nelle quali il TAR Campania stabiliva che persone nella stessa situazione del ricorrente erano legittimate al contributo, quantunque la loro idoneità fosse negata dal Governo. Il Consiglio di Stato affermava inoltre che le autorità amministrative non hanno potere discrezionale e stabiliva che sulla Regione grava l’onere di procurare le risorse necessarie a garantire il pagamento del contributo ai beneficiari, nell’importo fissato dalla legge.

L’argomento del Governo secondo il quale il contributo economico costituiva un pagamento ex gratia dello Stato è contraddetto dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione, che ha stabilito che nei casi in cui la giurisdizione del giudice ordinario fosse stata riconosciuta con sentenza divenuta definitiva, le controversie concernenti l’Art. 26 della Legge Regionale ricadono nella categoria delle controversie sull’assistenza e previdenza assegnate al giudice monocratico del lavoro (vv. paragrafo 17 sopra).

La Corte non ritiene necessario verificare se l’autonomo concetto di diritto all’azione di cui all’Art. 6 § 1 della Convenzione riguardi solo il diritto soggettivo perfetto o anche l’interesse legittimo. La Corte rileva soltanto che l’Art. 26 della Legge Regionale aveva dato luogo ad una controversia giurisdizionale. Sulla base di quelle sentenze del TAR e del Consiglio di Stato che non avevano seguito la giurisprudenza della Corte di Cassazione, e del fatto che, nel sistema italiano, la Corte di Cassazione non ha l’autorità per imporre una soluzione delle questioni di diritto pendenti dinnanzi ai tribunali amministrativi, il ricorrente poteva pretendere, almeno secondo gli argomenti in oggetto, il diritto a ricevere il pieno importo del contributo – in special modo in quanto egli aveva già ricevuto due rate mensili, per cui avrebbe potuto essere portato a credere che egli avesse un tale diritto.

Infine, la Corte ritiene che il diritto in domanda, che era di natura patrimoniale, era un diritto "civile" secondo il senso della sua giurisprudenza (vv., tra le altre autorità, la sentenza Salesi c. Italia del 26 Febbraio 1993, Serie A no. 257-E, p. 59, § 19).

Di conseguenza, l’Art. 6 § 1 della Convenzione è applicabile al caso.

Ottemperanza

Resta da stabilire se il "ragionevole termine" sia stato violato. Il periodo da prendere in considerazione iniziava il 2 Agosto 1993 con il ricorso al TAR e terminava il 27 Dicembre 1997, quando la sentenza del Consiglio di Stato che cancellava la causa dal ruolo veniva depositata in cancelleria. Tale termine durava perciò circa quattro anni e cinque mesi.

30. La Corte osserva di avere rilevato in numerose occasioni (vv., per esempio, Bottazzi c. Italia [GC], no. 34884/97, § 22, ECHR 1999-V) che in Italia vige una prassi incompatibile con la Convenzione, risultante da una stratificazione di violazioni dell’esigenza di "ragionevole termine".

Nei casi in cui la Corte rileva tali violazioni, la stratificazione costituisce circostanza aggravante della violazione dell’Art. 6 § 1.

Avendo esaminato i fatti di causa alla luce degli argomenti delle parti, e avendo riguardo alla sua giurisprudenza sul punto, la Corte considera che la lamentata lunghezza del procedimento non soddisfaceva l’esigenza di "ragionevole termine" e che questa costituiva una ulteriore dimostrazione della summenzionata prassi.

C’è stata dunque una violazione dell’Art. 6 § 1.

applicazione dell’Art. 41 della Convenzione

L’Art. 41 della Convenzione prevede:

"Se la Corte trova che ci sia stata una violazione della Convenzione o del Protocollo annesso, e se la legge interna dell’Alta Parte Contraente interessata concede soltanto l’esecuzione di un parziale risarcimento, la Corte può, se necessario, disporre una equa soddisfazione alla parte offesa".

Danno

Il ricorrente chiedeva alla Corte di ordinare al convenuto Stato di pagargli 150.000.000 di lire (LIT) solo per il danno non patrimoniale che aveva subito.

Il Governo riteneva la somma richiesta eccessiva e sproporzionata. Esso sosteneva che, data la natura del caso, la sentenza di violazione da parte della Corte avrebbe di per sé costituito una sufficiente equa riparazione per i propositi dell’Art. 41.

La Corte ritiene che il ricorrente subì una certa misura di danno non patrimoniale, tenuto conto di quello che era in gioco nella controversia. Tuttavia, dato che l’importo indicato dal ricorrente è eccessivo, la Corte, decidendo in base ad equità, come disposto dalla Convenzione, liquida lo stesso in LIT 5.000.000.

Costi e spese

Il ricorrente richiedeva un risarcimento di LIT 21.464.628 per i costi e le spese legali del procedimento innanzi la Commissione e la Corte, compreso una spesa forfettaria di LIT 6.000.000 per la partecipazione dei suoi rappresentanti all’udienza davanti alla Corte dell’8 Marzo 2000.

Il Governo si rimetteva alla discrezionalità della Corte, precisando che il ricorrente aveva ricevuto assistenza legale da parte del Consiglio d’Europa per il procedimento davanti alla Corte.

Avendo riguardo alle informazioni in suo possesso e alla prassi consolidata, la Corte ritiene ragionevole liquidare la somma in LIT 10.000.000, meno dell’importo pagato dal Consiglio d’Europa nell’assistenza legale, fissato in 8, 100 Franchi francesi.

Condanna agli interessi

In base alle informazioni in possesso della Corte, il tasso di interesse legale applicabile in Italia alla data della adozione della presente sentenza è del 2,5% annuo.

per questi motivi, la Corte

ritiene con quindici voti a due che l’Art. 6 § 1 della Convenzione è applicabile al caso e che è stato violato

 

ritiene con quindici voti a due

che lo Stato convenuto deve pagare al ricorrente, entro tre mesi, la seguente somma: 5000.000 (cinque milioni) di lire italiane per il danno non patrimoniale e 10.000.000 (dieci milioni) di lire per i costi e le spese, meno l’importo pagato dal Consiglio d’Europa nell’assistenza legale;

che l’interesse semplice al tasso annuale del 2,5% diverrà esigibile dal decorso del summenzionati tre mesi e fino al pagamento;

Rigetta all’unanimità il resto della domanda di equo risarcimento.

Fatto in Inglese e in Francese, e pronunciato nella pubblica udienza nel Palazzo dei Diritti Umani, Strasburgo, il 5 Ottobre 2000.

Luzius Wildhaber

Presidente

Michele de Salvia

Cancelliere

Conformemente all’Art. 45 § 2 della Convenzione e alla Clausola 74 § 2 del Regolamento della Corte, l’opinione dissenziente del Sig. Ferrari Bravo, registrata a verbale dal Sig. Butkevych, è allegata a questa sentenza.

L.W.

M. de S.

OPINIONE DISSENZIENTE DEL SIG. FERRARI BRAVO, cui dichiara di aderire il SIG. BUTKEVYCH

Mi dispiace di non potere votare in favore della sentenza Mennitto, ma mi sembra che la Corte tratti con eccessiva leggerezza una distinzione fondamentale, quella tra "diritto soggettivo" che la Corte chiama "perfetto" e "interesse legittimo", affermando che la stessa "non ritiene necessario verificare se l’autonomo concetto di diritto ai sensi dell’art. 6 § 1 della Convenzione riguardi soltanto" l’uno o anche l’altro (paragrafo 27 della sentenza). Qualunque sia il valore che si voglia riconoscere agli argomenti della difesa di Mennnitto, resta il fatto che la distinzione esiste nel diritto italiano, e che la Corte di Cassazione lo afferma. Ed è utile ricordare che, qualunque sia l’opinione della Corte, la giurisprudenza della Corte di Cassazione in materia di questioni di giurisdizione prevale sulla giurisprudenza del Consiglio di Stato.

Questo problema va molto al di là dei limiti del caso Mennitto, per cui in questo modo, di poi, si amplia la competenza della Corte. È questo un buon metodo? Nutro forti dubbi.

Copertina