I
- INTRODUZIONE
INDIRIZZI DI SALUTO
IL PRIMO ANNO “A REGIME”: L’IMPORTANZA DI UNO
SGUARDO D’INSIEME AL “SERVIZIO” CHE RENDIAMO
IL “FILO CONDUTTORE”: COSTITUIRE UN PUNTO DI RIFERIMENTO
DI COERENZA E DI CHIAREZZA IN UN SISTEMA ECONOMICO, LEGISLATIVO
E AMMINISTRATIVO COMPLESSO
II
– IL RUOLO DEL T.A.R. DEL LAZIO
LE NUOVE COMPETENZE
LE RAGIONI DELLE NUOVE FUNZIONI - 1) RAGIONI GIURIDICHE: IL GIUDICE
NATURALE, IN PRIMO GRADO, DEGLI ATTI GENERALI E “DI REGOLAZIONE”
SU TUTTO IL TERRITORIO NAZIONALE
SEGUE - 2) RAGIONI ECONOMICHE: IL GIUDICE NATURALE, IN PRIMO GRADO,
DEL “MERCATO REGOLATO” E DELLA “NUOVA ECONOMIA”
LA RICERCA DI UN DIFFICILE EQUILIBRIO NEL SINDACATO GIURISDIZIONALE
SU AUTORITÀ “INDIPENDENTI”
III
– GIUDICE AMMINISTRATIVO E LEGISLAZIONE
IL GIUDICE AMMINISTRATIVO E LA “CRISI DELLA GENERALITÀ”
DELLE REGOLE
UN’ATTUAZIONE DEI PRINCIPI COSTITUZIONALI ATTENTA ALLE ESIGENZE
ATTUALI
SEGUE: 1) LA FUNZIONE “ATTIVA” (SE NON “CREATIVA”)
DEL GIUDICE (SOPRATTUTTO DI QUELLO AMMINISTRATIVO) IN UN SISTEMA
LACUNOSO E CONTRADDITTORIO
SEGUE: 2) UN GIUDICE AMMINISTRATIVO UNICO PER UN DESTINATARIO
UNICO DI PIÙ “LIVELLI DI REGOLE”
SEGUE: 3) QUALITÀ DELLE REGOLE E “COMPETITIVITÀ”
DEL PAESE, IN UN’OTTICA MULTIDISCIPLINARE: …
… IMPORTANZA DELLA GIURISPRUDENZA COME FATTORE DI INNOVAZIONE,
SEMPLIFICAZIONE E “SVILUPPO” DEL SISTEMA
IV
– GIUDICE AMMINISTRATIVO E PUBBLICA AMMINISTRAZIONE
IL RUOLO DEL GIUDICE AMMINISTRATIVO DI “INDIRIZZO”
DI UN’AMMINISTRAZIONE COMPLESSA; …
… UN “INDIRIZZO” NON SOLO FORMALE MA SOPRATTUTTO
SOSTANZIALE
QUALITÀ DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE E COMPETITIVITÀ
DEL PAESE: …
… IMPORTANZA DI UNA GIURISPRUDENZA INNOVATIVA, CHE SUPERI
LE RESISTENZE IN SEDE ATTUATIVA DELLE RIFORME
V
– GIUDICE AMMINISTRATIVO E PROCESSO
I PREGI DI UNA “LETTURA UNIFICANTE” DELLE NORME COSTITUZIONALI
SULLA GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA
LE RECENTI DECISIONI DELLA CORTE REGOLATRICE DELLA GIURISDIZIONE:
L’IMPORTANZA DEL METODO E DEI VALORI ENUNCIATI
IN FAVORE DELLA TRANSLATIO IUDICII
LA TUTELA ANTE CAUSAM
LA TUTELA CAUTELARE E I SUOI TEMPI
I RIMEDI ALTERNATIVI ALLA GIURISDIZIONE
VI
– I PROBLEMI DI SEMPRE: INNANZITUTTO, I TEMPI
IL PROBLEMA DEI TEMPI IN GENERALE
LA “CULTURA” DEI TEMPI
RAPPORTO TRA TEMPI E CONTENUTI DELLE DECISIONI: CHIAREZZA DEGLI
INDIRIZZI E DEFLAZIONE DEI TEMPI
VII
– SEGUE: MISURE ORGANIZZATIVE E RISORSE
L’IMPORTANZA DELL’ORGANIZZAZIONE
I COSTI DELL’ORGANIZZAZIONE
GLI INTERVENTI NORMATIVI RECENTI
LA SITUAZIONE PARTICOLARMENTE GRAVE DEL T.A.R. DEL LAZIO; …
… I RISULTATI OTTENUTI, NONOSTANTE TUTTO, …
… CON UN CONTENZIOSO IMPONENTE IN QUALITÀ E QUANTITÀ
…
… E L’ASSEGNAZIONE SPEREQUATA DI RISORSE
VIII
– CONCLUSIONE: L’IMPORTANZA DELLA VISIONE DEL “SISTEMA”
I - INTRODUZIONE
INDIRIZZI
DI SALUTO
Autorità, colleghi, gentili ospiti,
un sentito grazie a tutte le Autorità politiche, civili
e militari qui convenute.
Porgo un saluto deferente ai rappresentanti del nostro Organo
di autogoverno, il Consiglio di Presidenza della Giustizia Amministrativa.
Un saluto cordiale a tutti i Colleghi del Consiglio di Stato e
dei T.A.R., nonché a quelli delle altre magistrature e
ai rappresentanti delle loro Associazioni.
Desidero rivolgere un affettuoso saluto ai Presidenti emeriti
del Consiglio di Stato, i miei maestri Gabriele Pescatore, Giorgio
Crisci e Renato Laschena, e ai miei predecessori nella presidenza
del T.A.R. del Lazio, che sono presenti e che tanto lustro hanno
dato con la loro opera a questo Tribunale: Alberto de Roberto,
Mario Schinaia e Corrado Calabrò. Ai primi due va un saluto
particolare, in occasione del recente avvicendamento nel ruolo
di Presidente del Consiglio di Stato e del Consiglio di Presidenza,
saluto che estendo al neo-presidente aggiunto Paolo Salvatore.
Un saluto riconoscente ai rappresentanti dell’Accademia,
dell’Avvocatura dello Stato e del libero Foro: sanno bene
quanto io consideri insostituibile il loro apporto, in una dialettica
franca e costruttiva con il giudice amministrativo al fine di
cooperare ai grandi indirizzi di riforma e alla loro “messa
a regime”.
Sento poi l’esigenza di manifestare la mia profonda gratitudine
a tutti coloro che, con la loro quotidiana attività esercitata
spesso in condizioni disagevoli, si impegnano a rendere efficiente
questo Tribunale, offrendo, nelle aule di udienza come nelle segreterie
delle Sezioni e negli uffici di supporto, un servizio fondamentale
al Paese. La loro generosa, intelligente ed attiva collaborazione
rappresenta una risorsa preziosa, che mi consente di adempiere
ai miei doveri in un clima di diffusa condivisione verso gli obiettivi
da conseguire.
La peculiare posizione, in termini istituzionali e organizzativi,
del T.A.R. del Lazio convince dell’opportunità di
tener conto dell’opinione di tutti i soggetti comunque in
prima linea nella giustizia amministrativa, tramite le associazioni
dei magistrati e del personale amministrativo, nonché i
rappresentanti del Foro e dell’Accademia. Purtroppo, la
necessaria brevità di questa cerimonia – che contempla,
oltre alla mia relazione, gli interventi del Presidente del Consiglio
di Stato Mario Schinaia e del Vice Presidente del Consiglio di
Presidenza, prof. Pasquale Stanzione – rende impossibile,
oggi, ascoltare queste voci, nonostante l’importanza delle
questioni di cui si fanno interpreti.
In ragione di questa innegabile importanza, mi auguro che si possa
trovare una prossima occasione di incontro, che si rivelerà
sicuramente proficua e per la cui realizzazione mi dichiaro sin
d’ora pienamente disponibile.
IL
PRIMO ANNO “A REGIME”: L’IMPORTANZA DI UNO SGUARDO
D’INSIEME AL “SERVIZIO” CHE RENDIAMO
A differenza del primo discorso inaugurale, stavolta ho potuto
vivere l’intero anno giudiziario come Presidente di questo
Tribunale. Le impressioni iniziali hanno avuto modo di approfondirsi
e di adeguarsi alla realtà dell’Istituto.
Resta innanzitutto confermato il “senso” che ha per
me questo lavoro: un profondo senso del “servizio”,
nell’accezione più elevata dell’espressione.
Un servizio al quale si chiede, in primo luogo, funzionalità
ed efficienza ma che non va inteso nel senso “aziendalistico”
del termine: le parti nei nostri processi sono ben più
che degli “utenti”, sono titolari di un diritto costituzionale,
consacrato nell’articolo 24 e nel principio del “giusto
processo” di cui al rinnovato articolo 111 della Costituzione.
Un servizio di cui è importante, periodicamente, “dar
conto”, evidenziando le tendenze che lo caratterizzano,
i problemi in atto e le possibili soluzioni.
Inoltre, questa esperienza mi conforta nella scelta di privilegiare,
rispetto agli elenchi di dati statistici – utili, ma non
sempre idonei a rappresentare adeguatamente la realtà della
nostra giustizia – l’analisi delle tendenze, dei problemi,
delle grandi questioni sottese all’attività che svolgiamo,
delle prospettive del sistema.
Occasioni come questa consentono di guardare alle nostre funzioni
anche da un’ottica diversa. Nel nostro lavoro quotidiano
siamo abituati a valutare, uno ad uno, i singoli casi che esaminiamo,
nella loro autonomia e nella pienezza, in ciascuno di essi, dell’esercizio
della giustizia. A questa doverosa prospettiva, si affianca, all’inizio
del nuovo anno giudiziario, la possibilità di considerare
tali casi in una visione d’insieme, come parti di un sistema
unitario; un sistema non fisso ma in continua evoluzione.
IL
“FILO CONDUTTORE”: COSTITUIRE UN PUNTO DI RIFERIMENTO
DI COERENZA E DI CHIAREZZA IN UN SISTEMA ECONOMICO, LEGISLATIVO
E AMMINISTRATIVO COMPLESSO
E allora proverei, quest’anno, a individuare un “filo
conduttore” di siffatto resoconto, che prende le mosse dalla
collocazione del T.A.R. del Lazio e della giustizia amministrativa
in generale al crocevia di importanti cambiamenti nel sistema
economico, legislativo e amministrativo. Cambiamenti che emergono,
in positivo e in negativo, anche da recenti interventi ordinamentali,
dalla legge finanziaria alle iniziative in materia di liberalizzazioni
e competitività, alle proposte di riforma dell’amministrazione
pubblica.
Questi mutamenti palesano un sistema (fisiologicamente, ma talvolta
anche patologicamente) complesso, in cui il giudice amministrativo
è uno dei protagonisti.
Con le sue pronunce, ma anche con i modi e i tempi del suo processo,
può aggiungere ulteriori elementi di complessità;
può ridurre la portata innovativa delle riforme, facendo
prevalere interpretazioni restrittive o formalistiche; può
costituire un fattore di rallentamento, se non di arresto, della
crescita. O, al contrario, può apportare un contributo
di semplificazione; può favorire l’attuazione e l’accelerazione
dei cambiamenti; può indurre, direttamente o indirettamente,
ad una loro correzione; può costituire un fattore di sviluppo,
di crescita e di “competitività”.
Mai come in questo momento, suonano attualissime le parole del
noto giurista (consigliere di Stato e Ministro della giustizia)
francese Pierre Paul Nicolas Henrion de Pansey (“De l’autorité
judiciaire en France”, 3 éd., 1827) a proposito dei
rapporti tra amministrazione e giudice amministrativo: “Juger
l’administration, c’est encore une fois administrer”.
Vale per i singoli atti amministrativi, ma vale anche per le riforme,
per le tendenze evolutive.
Occorre quindi che le nostre decisioni, nel loro insieme, assicurino
indirizzi giurisprudenziali univoci; operino una “semplificazione”
giurisprudenziale della “complicazione” legislativa;
valorizzino il tradizionale ruolo di guida e di impulso del giudice
nei confronti di una pubblica amministrazione complessa e in via
di modernizzazione.
Occorre che il processo amministrativo offra una tutela rapida
e completa, e che a tal fine si investa anche in termini organizzativi
e di risorse.
II
– IL RUOLO DEL T.A.R. DEL LAZIO
LE
NUOVE COMPETENZE
Anche il “rendiconto” di quest’anno non può
non prendere le mosse dalla peculiarità del ruolo del T.A.R.
del Lazio nell’ambito del sistema della giustizia amministrativa:
tale peculiarità si è ulteriormente accentuata nello
scorso anno, sotto due aspetti.
L’art. 3, co. 2 bis, del d.l. n. 245 del 2005, inserito
dalla legge di conversione n. 21 del 2006, ha attribuito in via
esclusiva, anche per l’emanazione di misure cautelari, al
T.A.R. del Lazio la competenza di primo grado a conoscere della
legittimità dei provvedimenti di protezione civile in tutte
le situazioni di emergenza dichiarate ai sensi dell’art.
5, co. 1, della l. n. 225 del 1992.
Il recente disegno di legge di iniziativa governativa in materia
di Autorità indipendenti prevede l’attribuzione al
T.A.R. del Lazio della competenza esclusiva a giudicare, anche
in fase cautelare, su tutti i loro provvedimenti.
Si tratta di misure che comportano un indubbio aggravio di lavoro
e di responsabilità. Un aggravio certo non richiesto ma
che risponde ad innegabili esigenze di funzionalità.
Segnalo almeno due profili che fanno emergere la necessità
di un “giudice naturale” unico, anche in primo grado,
per l’intero territorio nazionale: quello giuridico, relativo
all’attività di amministrazione generale e di normazione,
e quello economico, relativo alle esigenze del mercato.
LE
RAGIONI DELLE NUOVE FUNZIONI - 1) RAGIONI GIURIDICHE: IL GIUDICE
NATURALE, IN PRIMO GRADO, DEGLI ATTI GENERALI E “DI REGOLAZIONE”
SU TUTTO IL TERRITORIO NAZIONALE
Il T.A.R. del Lazio è, sin dal 1971, competente su tutti
gli atti che producono i loro effetti sull’intero territorio
nazionale.
È, quindi, il giudice naturale dell’attività
cd. “di regolazione”. Rientrano in questa tipologia
di provvedimenti svariati atti di natura amministrativa (i cd.
atti a efficacia generale) ma anche, per definizione, tutti gli
atti di natura normativa.
Questo tradizionale (e ormai ultratrentennale) criterio –
squisitamente “giuridico” – di attribuzione
di competenze si è arricchito di profili nuovi negli ultimi
anni, significativi dell’evoluzione del sistema, specie
nel settore delle cd. “Autorità indipendenti”.
Ad esse, infatti (secondo una linea di tendenza inaugurata dal
Consiglio di Stato nel parere sul codice delle assicurazioni e
confermata dal citato disegno di legge), è ormai riconosciuto
un potere normativo autonomo, superando la tradizionale impostazione
negativa secondo la quale l’attribuzione di un siffatto
potere era configurabile solo a fronte di soggetti dotati di rappresentatività
(Parlamento, Governo, Consigli regionali e comunali, etc.).
Si è rilevato come la legge “arretri” dal mercato,
affidando alle Autorità, in primo luogo, una competenza
regolatoria, la quale ha per scopo la stabilità, la protezione
di alcuni diritti e il “livellamento dei campi di gioco”
in settori nei quali si registrava, fino a pochi anni or sono,
il dominio di monopolisti ed ex monopolisti. Il mercato non rimane,
quindi, senza regole, ma la legge lascia spazio a norme secondarie
“speciali”, spesso dettate dalle Autorità di
regolazione, in un sistema di fonti del diritto in cui il principio
“di competenza” prende il posto, sempre più
spesso, di quello “di gerarchia”.
In primo grado, il giudice naturale di queste regole non può
che essere il T.A.R. del Lazio e le proposte attribuzioni completano
in sistema.
SEGUE
- 2) RAGIONI ECONOMICHE: IL GIUDICE NATURALE, IN
PRIMO GRADO, DEL “MERCATO REGOLATO” E DELLA “NUOVA
ECONOMIA”
Oltre alle descritte ragioni di ordine giuridico-sistematico,
militano per questo ruolo del T.A.R. del Lazio anche ragioni diverse,
“sostanziali”, più sentite dal “mondo
reale”, dai cittadini, dalle imprese, dagli operatori economici
e sociali, dal mercato.
Con la proposta concentrazione di competenze si conferma e si
completa il ruolo del T.A.R. del Lazio quale “giudice del
mercato” – come è stato chiamato – con
una visione d’insieme su tutti i provvedimenti che riguardano
la gestione dell’economia nazionale e le discipline di regolazione
e liberalizzazione.
È stato detto che il diritto pubblico dell’economia
e il mercato “hanno bisogno di un unico foro”.
Da un lato, si rileva che con sempre maggiore frequenza i soggetti
che a vario titolo partecipano al procedimento regolatorio (Authorities
e Governo) utilizzano lo stesso strumentario logico-giuridico
(come i concetti di “mercato rilevante” e di “potere
di mercato”), sicché appare necessario concentrare
dinanzi allo stesso giudice le controversie relative alla legittimità
di tutti gli atti di regolazione emanati da questi soggetti (organi
politici o autorità indipendenti), “per assicurare
una maggiore omogeneità nelle modalità di sindacato
giurisdizionale”.
D’altro lato – si aggiunge – sia le imprese
che i regolatori hanno bisogno di un unico punto di riferimento
sin dal primo grado di giudizio, al fine di garantire la certezza
del diritto nei tempi brevi imposti dal mercato. Poiché
la regolazione incide sui fattori che determinano la convenienza
economica degli investimenti e più in generale delle scelte
d’impresa, avere un unico giudice significa: per le imprese,
poter contare su precedenti giurisprudenziali coerenti, sulla
base dei quali modellare la propria condotta; per i regolatori,
uniformare i propri interventi a indirizzi interpretativi univoci.
LA
RICERCA DI UN DIFFICILE EQUILIBRIO NEL SINDACATO GIURISDIZIONALE
SU AUTORITÀ “INDIPENDENTI”
Se, come si è detto, vi sono svariate ragioni che inducono
a giustificare il peculiare ruolo del T.A.R. del Lazio nel sindacato
sulle Autorità indipendenti, e il suo completamento ad
opera dei recenti interventi, va anche detto che tale sindacato
è esso stesso peculiare.
Innanzitutto, superando dubbi pure emersi in passato, è
ormai certo che si tratta di un sindacato necessario, nonostante
la “indipendenza” (che non significa insindacabilità)
di queste Autorità. Esse adottano atti amministrativi,
non politici. Questa necessarietà è confermata anche
dalla proposta governativa di riforma prima richiamata. Anzi,
la posizione e la natura delle Authorities, meno legate al potere
politico e agli indirizzi del Governo, esaltano, in assenza di
altri parametri di riferimento, i poteri e il ruolo stesso del
giudice amministrativo.
In secondo luogo, deve essere un sindacato “equilibrato”,
ancor più che in altri settori. Si pone infatti il problema
– cui avevo già fatto cenno lo scorso anno –
di ricercare la giusta misura nel percorrere, con un esame sempre
più incisivo, territori prima mai esplorati dai giudici
del pubblico potere. La recente evoluzione degli orientamenti
in materia di sindacato della cd. discrezionalità tecnica
consente di affermare che il giudice può conoscere dei
fatti in modo pieno, sì da verificare – avvalendosi,
se del caso, del conforto della consulenza tecnica – la
logicità, la congruità, la ragionevolezza e l’adeguatezza
del provvedimento e della sua motivazione, la regolarità
del procedimento e la completezza dell’istruttoria, pur
rimanendo nel solco della nostra tradizione giuspubblicistica,
posto che la distinzione tra “cognizione piena del fatto”
e “potere di determinazione in ordine al fatto” giammai
permette all’organo giurisdizionale di esprimere proprie
autonome scelte, perché in tal caso assumerebbe egli la
titolarità del potere.
Un equilibrio – non una “timidezza”, come pure
qualcuno ebbe ad affermare – che eviti due pericoli opposti:
quello di un “sindacato debole” che possa agevolare,
come è stato detto, “fughe in avanti ad alcune autorità
animate talvolta da un eccesso di ‘ardore regolatorio’”
ovvero quello di un controllo che sconfini nel merito delle decisioni
adottate dalle Autorità, vanificando di fatto l’istituzione
di apparati di regolazione ad elevata complessità e profonda
competenza tecnica.
III
– GIUDICE AMMINISTRATIVO E LEGISLAZIONE
IL GIUDICE AMMINISTRATIVO E LA “CRISI DELLA GENERALITÀ”
DELLE REGOLE
Il descritto ruolo del T.A.R. del Lazio come “giudice dell’uniformità
giurisprudenziale” di primo grado sugli atti normativi a
efficacia generale consente di muovere ad un secondo punto di
questa trattazione.
Esso riguarda l’idea stessa della “generalità”
delle regole.
Anzi, si potrebbe dire, riguarda l’idea della “crisi
della generalità” della legislazione.
Quale è, oggi, il ruolo del giudice amministrativo che,
al primo impatto del contenzioso, deve fornire un giudizio su
regole “generali e astratte” che sempre più
spesso sembrano non possedere tali caratteri?
Quale deve essere l’atteggiamento verso una legislazione
dello Stato che sembra aver perso, da tempo, una funzione strategica
e di indirizzo, su cui oggi sarebbe invece indispensabile concentrarsi
a seguito della riforma del Titolo V?
È stato affermato (Cacciari) che l’attuale società,
per sua natura, tende a favorire la domanda di diritti, inflazionandola;
in conseguenza, la politica tende a soddisfare questa domanda
inflazionando la normativa. La risposta (politica) alla domanda
(sociale) di diritti consiste nella produzione di norme occasionale,
caotica, sovrabbondante, volta a rispondere alle istanze particolaristiche
della domanda sociale.
Se qualcuno avesse ancora dei dubbi, per fugarli basta contare
il numero dei commi dell’articolo unico della legge n. 296
del 27 dicembre 2006, la legge finanziaria per il 2007. Sono 1364:
un “numero abnorme”, come ha detto il Capo dello Stato,
che “rende sempre più difficile il rapporto tra i
cittadini e la legge”.
Per non parlare delle cd. leggi-provvedimento che intervengono
direttamente su singoli rapporti giuridici, arrivando talvolta
a travolgerli nel nome della “sovranità del legislatore”:
da quelle che revocano bandi di gara e risolvono rapporti convenzionali
in essere (il ricordato d.l. n. 245 del 2005, convertito dalla
legge n. 21 del 2006, o il d.l. n. 7 del 2007), ai numerosi esempi
di interruzione di rapporti di lavoro dirigenziale o di altre
attività continuative che vanno ben al di là del
modello anglosassone del cd. spoils system, che pure ha le sue
regole “generali e astratte”.
In un saggio recentissimo si parla (Merusi) di “legalità
‘usurpata’ dal legislatore”.
UN’ATTUAZIONE
DEI PRINCIPI COSTITUZIONALI ATTENTA ALLE ESIGENZE ATTUALI
Di fronte a questi problemi, sono allo studio dei rimedi, dal
ripensamento della legge finanziaria alla cd. delega taglia-leggi
all’avvio di una “Unità per la semplificazione”.
È il tema della “qualità della regolazione”,
la better regulation. Mi auguro che queste iniziative producano
qualche risultato, al più presto.
Ma anche noi giudici dobbiamo raccogliere l’autorevole monito
del Capo dello Stato e farci carico della questione, nei limiti
delle nostre funzioni.
Sono passati ormai cento anni da quando Ermanno U. Kantorowicz,
con lo pseudonimo di Gnaeus Flavius (il mitico redattore delle
12 Tavole), si scagliava, con la sua “Lotta per la scienza
del diritto” (il manifesto del “diritto libero”),
contro il positivismo giuridico – cioè contro le
dottrine che identificano il diritto con la legge statale, negando
che quest’ultima abbia lacune o non sappia colmarle dentro
di sé, con propri rimedi e strumenti – e denunciava
l’impotenza del diritto a seguire da presso la concretezza
e la singolarità dei casi giudiziari.
Allora, come oggi, ci si chiedeva che fare. Accelerare la produzione
di leggi e così aggiungere ulteriori norme speciali ed
eccezionali, di contingenza e d’emergenza, ovvero affidare
alla dottrina e, soprattutto, alla giurisprudenza, il compito
di trarre corollari dalle leggi già poste e, se necessario,
di integrarle e completarle dall’esterno?
Per evitare il rischio – che pure è stato profilato
– di dover scegliere tra il “volontarismo del legislatore”
e il “volontarismo del giudice” senza avere alcun
criterio per stabilire la “verità” dell’uno
o dell’altro, occorre non perdere di vista i pilastri dello
Stato di diritto, che sono anche le fondamenta della nostra Costituzione
e che “tuttora ci appaiono ciò che di meglio l’uomo
abbia saputo inventare come regola di convivenza”: la divisione
dei poteri, il principio di legalità, l’indipendenza
dei giudici, etc. (Irti).
Ma, oggi, vista la “crisi di generalità” delle
regole, assicurare un rispetto “effettivo” di questi
principi fondamentali è particolarmente difficile; richiede
equilibrio e saggezza, ma anche fermezza e coraggio. Il giudice
deve tener conto dei grandi mutamenti del quadro istituzionale
e – ove possibile – deve cercare di adeguare il proprio
ruolo.
Questa presa di coscienza assume, a mio avviso, rilievo concreto
sotto almeno tre profili: quello della (non voluta) “creatività”
del giudice, quello della combinazione della pluralità
di livelli di regole, quello della semplificazione interpretativa
di una complicazione normativa che pesa sulla competitività
del Paese.
SEGUE:
1) LA FUNZIONE “ATTIVA” (SE NON “CREATIVA”)
DEL GIUDICE (SOPRATTUTTO DI QUELLO AMMINISTRATIVO) IN UN SISTEMA
LACUNOSO E CONTRADDITTORIO
Il giudice è soggetto alla legge, e soltanto ad essa. Lo
dice la Costituzione; lo ribadiamo fortemente.
Ma deve anche operare delle scelte. Il giudice, in un sistema
di civil law come il nostro, non è “creatore”
delle regole, ma talvolta è costretto a divenirlo, anche
contro la sua volontà.
Perché, nell’applicare la legge, deve colmare lacune,
risolvere antinomie, sciogliere ambiguità, applicare a
casi concreti leggi che contengono enunciazioni programmatiche,
far funzionare nella vita reale affermazioni normative adottate
talvolta nel contesto di un dibattito politico o mediatico.
Insomma, deve trasformare una “disposizione sulla carta”
in una “norma”, in precetto giuridico. Che è
un modo, forse uno dei modi principali, per “avvicinare”
la legge al cittadino.
Il problema non è solo italiano, o dei sistemi con “Corti
amministrative”, ma avvertito anche in altri Paesi. Il giudice
della Corte Suprema degli Stati Uniti Stephen Breyer, nella relazione
ad un convegno su “effettività ed efficacia del sistema
di giustizia” svoltosi a Venezia nel novembre scorso, ha
affermato che “when the text is clear, you follow the text;
but when the text is not clear – and the text is never clear
in a serious case – then you look for the values, the purposes
that underline the text. Well, those purposes are very important
in the administrative law area” (“se il testo [del
dettato normativo] è chiaro, si segua il testo; ma se il
testo non è chiaro – e il testo non è mai
chiaro in una causa importante – allora si guardi ai valori,
ai principi che lo sottendono. Bene, questi principi sono molto
importanti nel settore del diritto amministrativo”).
La differenza rispetto al modello ottocentesco mi sembra sostanziale,
se si pensa che Napoleone aveva ripreso l’idea di “codice”
con l’intento opposto, introducendo regole chiare e certe,
“che si potevano solo applicare o violare”, per trasformare
i Tribunali, da creatori di un ordinamento sino ad allora formato
soltanto da editti sparsi, in mere bouches de la loi.
Ma allora, in un sistema normativo particolarmente complesso come
il nostro, il ruolo “sistematico” delle Corti, soprattutto
di quelle amministrative, si enfatizza ancorché sminuirsi.
Anche se le loro decisioni non sono “vincolanti” come
nei sistemi anglosassoni.
Questo ruolo è ancora più evidente in relazione
alla normativa secondaria, che come è noto è cospicuamente
aumentata negli anni ’90 a causa di una massiccia “delegificazione”
(il processo si è parzialmente invertito a seguito della
riforma del Titolo V). Il sindacato su tale normativa (ma anche
su quella delle Autorità indipendenti e degli Organi di
autogoverno) appartiene alla giurisdizione generale di legittimità
del giudice amministrativo, che la esamina con criteri e argomentazioni
in parte non dissimili da quelli utilizzati dalla Corte costituzionale
per le fonti di livello primario (si pensi alla disparità
di trattamento o alla irragionevolezza).
In un mondo pieno di contaminazioni culturali, vengono meno anche
i luoghi comuni che disegnano gli ordinamenti di common law come
ordinamenti “a diritto non codificato” con un “giudice
forte” e gli ordinamenti di civil law come ordinamenti “a
diritto codificato” con un “giudice debole”.
D’altro canto vi è, a mio avviso, un esempio molto
illustre di “giudice creativo” in un ordinamento “a
diritto scritto”: quello della Corte di giustizia delle
Comunità Europee, che ha trasformato una serie di norme
disorganiche, spesso nate sulla fragile base del compromesso diplomatico
e politico internazionale, in un sistema giuridico: il “diritto
dell’Unione Europea”.
SEGUE:
2) UN GIUDICE AMMINISTRATIVO UNICO PER UN DESTINATARIO
UNICO DI PIÙ “LIVELLI DI REGOLE”
Il ruolo “attivo” (se non “creativo”)
del giudice di oggi non dipende soltanto dalla quantità
e dalla cattiva qualità delle disposizioni da applicare.
Dipende anche da fattori propri di un sistema “aperto”,
pluralista, rispettoso delle autonomie locali e parte dell’ordinamento
europeo.
Alcuni recenti pareri della Sezione normativa del Consiglio di
Stato sui “codici di settore” hanno parlato di “policentrismo
normativo” come aspetto della più generale multilevel
governance: le regole non provengono più solo dal Parlamento
e dal Governo statali, ma anche dall’Europa, dalle Regioni,
dalle Province, dai Comuni, dalle Autorità indipendenti,
dagli Organi di autogoverno delle Magistrature, etc. .
Il giudice amministrativo garantisce la corretta applicazione
sia del diritto comunitario (e, in prospettiva, del diritto europeo)
che del diritto regionale, nonché dei diritti “speciali”
dei nuovi soggetti con poteri normativi.
Il nostro ruolo di interlocuzione con la Corte di giustizia è
ben noto, e ciò accade sempre più spesso anche come
giudici di primo grado, pur in mancanza dell’obbligatorietà
del rinvio pregiudiziale interpretativo ai sensi dell’art.
234 (ex art. 177), ultimo comma, del Trattato CE.
Ugualmente noto è il nostro ruolo nei confronti delle normative
regionali. In Italia queste regole, pur se di “livelli diversi”,
non vengono applicate da giudici appartenenti a “circuiti
diversi”, come accade negli stati federali, ma vi è
un giudice unico per tutto il territorio nazionale. Ciò
vale anche per il giudice amministrativo, del quale la riforma
del Titolo V ha preservato la statalità e la unicità,
pur se egli resta diffuso sul territorio e vicino ai cittadini
di ogni Regione. La scelta è stata, a mio avviso, consapevole
e saggia.
Ancora più marcato è il ruolo nei confronti dei
regolamenti emanati dalle Autorità indipendenti e dagli
Organi di autogoverno, su cui vi è un sindacato diretto
del giudice amministrativo, analogo a quello sui regolamenti statali,
che ho menzionato poco fa, con poteri di vero e proprio “giudice
delle norme”.
In Italia, quindi, vi è solo un riparto verticale con il
giudice ordinario, ma non vi sono diversi livelli orizzontali:
la nostra giurisdizione è generale e piena. È quindi
il giudice che deve combinare, nel suo ambito di giurisdizione,
tutti i livelli di regole che ricadono su un unico destinatario:
il singolo cittadino, la singola impresa, la società civile.
SEGUE:
3) QUALITÀ DELLE REGOLE E “COMPETITIVITÀ”
DEL PAESE, IN UN’OTTICA MULTIDISCIPLINARE: …
Il terzo profilo fuoriesce dal mondo del diritto.
Perché le regole “costano”, soprattutto quelle
di cattiva qualità e quelle particolarmente complesse.
Esse incidono sullo sviluppo e sulla competitività del
Paese.
Il tema è molto avvertito in Europa: la presidenza tedesca
di turno sta insistendo molto sul tema della better regulation
(vi è un programma di riduzione del 25% degli attuali oneri
amministrativi derivanti dalle norme comunitarie).
Ma vale anche per gli Stati Membri: in Olanda, oltre il 50% degli
oneri burocratici viene dall’Europa e quindi meno della
metà deriva da oneri nazionali. Da noi questa misurazione
non è stata ancora fatta, ma non oso immaginare il risultato
a carico delle norme nazionali …
Tutto ciò dimostra che la “dimensione giuridica”
non è più sufficiente per la produzione e l’applicazione
delle norme. Occorre che i giuristi lavorino insieme con chi “misura”
l’impatto delle leggi anche sulla vita reale, oltre che
sul contesto normativo: occorre interagire con economisti, statistici,
etc. .
…
IMPORTANZA DELLA GIURISPRUDENZA COME FATTORE DI INNOVAZIONE, SEMPLIFICAZIONE
E “SVILUPPO” DEL SISTEMA
Anche a questo riguardo il giudice può dare un suo contributo:
acquisendo consapevolezza dell’impatto, anche economico,
della sua funzione; fornendo, ove possibile, l’interpretazione
più semplice a regole onerose; favorendo “la certezza
del diritto nell’età dell’incertezza”
(Alpa).
Perché il servizio-giustizia, soprattutto di quella amministrativa,
se ben organizzato, può avere un ruolo di “semplificazione”
interpretativa della “complicazione” del quadro normativo
in un sistema multilivello, su cui incidono anche i processi di
globalizzazione, che possono trovare un correttivo proprio nelle
garanzie offerte dal giudice.
Il rendere più chiara e più semplice una disciplina
talvolta frammentaria e confusa segna una nuova tappa della funzione
di garanzia: in un tempo di regole complesse, la garanzia diventa
garanzia della semplificazione delle regole, perché questa
semplificazione è essenziale per la realizzazione dei diritti
di cittadinanza sociale e di libertà, anche economica.
Ciò richiede, da un lato, uno sforzo costante per una giurisprudenza
“moderna”, al passo con i tempi, anche a costo di
ribaltare indirizzi consolidati (e quindi più comodi da
seguire) ma ormai obsoleti, per andare incontro alle esigenze
dei cittadini, delle imprese, della società, dell’economia,
dello sviluppo, interpretando ove possibile in modo nuovo le regole
che non sono ancora riuscite a “mettersi al passo”.
Dall’altro, richiede che la libertà piena di ogni
giudice (in ogni sede, in ogni grado, in ogni collegio) si concilî,
attraverso opportune modalità processuali e organizzative,
con l’esigenza di “chiarezza” e di “coerenza”
degli indirizzi della giurisprudenza. Questa si persegue valorizzando
il ruolo della “nomofilachia” (nel suo significato
letterale di “garanzia dell’uniforme applicazione
della legge”) sin dal primo grado (specie per l’impatto
del cautelare).
Una nomofilachia non rigida, non immutabile, che si arricchisce
del contributo, anche innovativo, e della maggiore libertà
della giurisprudenza dei Tribunali Amministrativi nell’individuare
soluzioni originali, anche se essa va temperata dalla cautela
nell’evitare pericolose fughe in avanti.
Peraltro, non si verifica nel nostro sistema la situazione per
cui a un primo giudice tendenzialmente “progressista”
si contrappone un giudice di ultima istanza “conservatore”,
essendo ciò smentito proprio dalla circostanza che il Consiglio
di Stato, sulla base della sua lunga e prestigiosa tradizione
(ma anche di una spinta innovativa sempre dimostrata), ha spesso
compiuto il passo decisivo verso un ampliamento delle ordinarie
forme di tutela giurisdizionale.
Si può perciò affermare che il dialogo tra organi
giudicanti di ordine diverso risulta, in Italia, particolarmente
felice: anche per questo, al di là di divergenze fisiologiche
nella dialettica istituzionale, il giudice amministrativo complessivamente
considerato ha meritato e continua a meritare il rispetto e la
piena fiducia della collettività.
Tale dialogo deve avere a cuore non soltanto la coerenza degli
indirizzi tra TAR e Consiglio di Stato, ma soprattutto l’importanza
che l’uniforme applicazione della legge – sin dal
primo grado – riveste per il mondo reale. Al di là
del problema giuridico; al di là del caso concreto.
IV – GIUDICE AMMINISTRATIVO E PUBBLICA AMMINISTRAZIONE
IL
RUOLO DEL GIUDICE AMMINISTRATIVO DI “INDIRIZZO” DI
UN’AMMINISTRAZIONE COMPLESSA; …
La estrema complessità del contesto legislativo si riflette
su quello amministrativo.
Con due ulteriori fattori di “complicazione”: uno
fisiologico nelle democrazie moderne, l’altro patologico
e specifico della situazione italiana.
Il primo fattore è la “dimensione multilivello”
degli interessi pubblici, cui si accompagna la frammentazione
(e spesso la contrapposizione) degli interessi pubblici anche
all’interno dello stesso livello (statale o regionale):
non vi è più “l’interesse pubblico”,
ma diversi interessi pubblici, tutti meritevoli di tutela, in
una relazione non di gerarchia ma di equiordinazione e, talvolta,
in contrasto tra loro (ad es., ambiente, sviluppo economico, occupazione).
In questo contesto, occorrerebbe una amministrazione capace di
selezionare e ponderare i diversi interessi che emergono nel corso
del procedimento per identificare quelli capaci di divenire generali.
Vi è invece – e questo è il secondo fattore
– la condizione in cui versa la pubblica amministrazione
italiana, soprattutto dal punto di vista culturale (cultura delle
forme e non dei risultati, cultura della prudenza e non della
produttività, cultura dell’interesse di settore e
non del servizio pubblico).
In questo contesto così articolato, la sola soluzione del
caso concreto può non essere sufficiente a evitare che
il problema si riproponga, più e più volte. A detrimento
della credibilità e della tenuta del sistema.
Anche in tale ipotesi, seguendo il filo conduttore indicato all’inizio,
parte essenziale del “servizio giustizia” è
non soltanto la decisione della singola controversia ma la coerenza
e la chiarezza degli indirizzi.
Il giudice amministrativo – ovviamente nei limiti dei suoi
poteri – deve allora farsi “monitore” verso
la pubblica amministrazione, nel senso che la deve “ammonire”,
orientare per i molteplici aspetti dell’esercizio del potere
pubblico, non solo badando alla soddisfazione concreta delle esigenze
delle parti ma avendo anche riguardo alla coerenza delle sue pronunce,
per evitare di “confondere” invece che di “ammonire”.
Si tratta, d’altra parte, di una funzione non estranea alla
tradizione della giustizia amministrativa, ed anzi ben conosciuta
dagli studiosi e dagli stessi operatori. È noto, infatti,
che al giudicato amministrativo è attribuito non soltanto
un effetto meramente caducatorio o annullatorio, ma anche un effetto
conformativo, volto cioè a dare indicazioni e prescrizioni
per la riedizione del potere amministrativo necessaria per dare,
in concreto, soddisfazione all’interesse azionato dal ricorrente.
Ora, tale effetto conformativo ha, per così dire, una naturale
attitudine a diventare “direttivo”, a porsi cioè
come regola generale per i casi futuri, nei quali, in situazioni
analoghe, il potere amministrativo dovrà essere esercitato.
È quindi evidente il compito – o meglio il fine –
della giustizia nei riguardi della pubblica amministrazione: la
tutela del singolo cittadino ma, al contempo, la garanzia del
corretto funzionamento dell’amministrazione, nel suo interesse,
anche quando le viene “dato torto”: perché
la rimozione di un atto illegittimo deve aiutare a rendere legittimi
gli analoghi atti successivi.
…
UN “INDIRIZZO” NON SOLO FORMALE MA SOPRATTUTTO SOSTANZIALE
Questo compito “di indirizzo” richiede che si presti
attenzione non solo alla correttezza formale, all’astratta
rispondenza al parametro normativo, ma soprattutto alla concreta
capacità dell’attività amministrativa di perseguire
l’interesse pubblico con efficienza e trasparenza.
Il giudice amministrativo deve intendere il suo “sindacato
sulla discrezionalità” in senso moderno e “sostanzialistico”.
Occorre stare al passo con i tempi, anche se i tempi accelerano
il passo.
Occorre essere consapevoli, quando si esamina l’esercizio
della discrezionalità, che nelle democrazie moderne i cittadini
non si accontentano più di atti formalmente ossequiosi
di leggi e regolamenti, ma si chiedono se essi sono davvero “utili”,
rispondenti allo scopo o se invece impongono oneri burocratici
non necessari: si giunge in tal modo alla prevalenza della legalità
sostanziale su quella formale.
A questo deve conformarsi la discrezionalità di un’amministrazione
moderna.
A questo la deve indirizzare il sindacato di un giudice amministrativo
moderno.
QUALITÀ
DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE E COMPETITIVITÀ DEL PAESE:
…
Un siffatto modo di realizzare la garanzia giurisdizionale nei
confronti del potere pubblico appare in sintonia con il ruolo
che l’amministrazione deve svolgere nel Paese e nel sistema
economico.
Il Ministro per le riforme e le innovazioni nella pubblica amministrazione
ha di recente affermato che “la competitività del
Paese è strettamente legata alla qualità dell’amministrazione,
da cui dipende la qualità dell’attuazione delle politiche
pubbliche e la qualità dei servizi resi ai cittadini e
alle imprese”. Per rispondere a tali esigenze nella complessa
macchina pubblica occorre agire congiuntamente sull’innovazione
amministrativa, sull’innovazione tecnologica e sulla valorizzazione
delle risorse umane.
In quest’ottica, si guarda con grande interesse e aspettativa
alle proposte del d.d.l. Nicolais (presentato alle Camere il 18
gennaio scorso) sui tempi del procedimento e sul danno per il
ritardo (dove la nostra giurisprudenza – Ad. Plen. n. 7/05
– è forse un po’ troppo restrittiva), alle
iniziative dell’ultimo “pacchetto liberalizzazioni”
volte a migliorare e a diffondere la cultura di sportelli unici
e conferenze di servizi, per rendere contestuale l’esame
di molteplici interessi pubblici relativi ad una singola fattispecie.
Soprattutto, è oltremodo positivo che il Governo lavori
sulla meritocrazia, sulla qualità e sulla cultura dei risultati:
dall’accordo con i sindacati sul nuovo contratto collettivo
giunge un segnale molto incoraggiante (che forse dovremmo seguire
– mutatis mutandis – anche per il personale di magistratura).
…
IMPORTANZA DI UNA GIURISPRUDENZA INNOVATIVA, CHE SUPERI LE RESISTENZE
IN SEDE ATTUATIVA DELLE RIFORME
Ma – aggiungo – anche il giudice amministrativo può
e deve fare la sua parte.
Perché è il giudice delle pubbliche amministrazioni,
che sono destinatarie e interpreti delle riforme e che possono
determinarne, nella fase attuativa, il successo o il fallimento.
La “cultura dei destinatari” delle riforme, della
loro fattibilità, è ancora agli albori qui da noi,
a differenza che nei Paesi anglosassoni, dove si dà importanza
alla cd. compliance analysis, l’“analisi dell’obbedienza”
ad una legge, la misurazione del “tasso di attuazione e
di rispetto” di una disciplina.
L’importanza di destinatari – pubblici o privati –
“recettivi” alle innovazioni è, invece, a mio
avviso fondamentale. Un Ministro della funzione pubblica, prendendo
ad esempio l’istituzione della sezione normativa del Consiglio
di Stato, ha affermato che erano stati sufficienti due commi per
riformare le sue funzioni consultive, perché in quel caso
si era trovato un destinatario recettivo, che aveva compreso l’innovazione
e saputo metterla in pratica. Troppe leggi restano invece inattuate
per inerzia, o incapacità, di coloro che sono tenuti ad
applicarle o a farle applicare.
Anche qui il giudice amministrativo può essere di ausilio,
perché, nel suo ruolo di indirizzo, può far funzionare
meglio la pubblica amministrazione e può quindi contribuire
a rendere l’economia più competitiva.
Per quanto di nostra competenza, forniremo – fin dalla fase
cautelare – tutto il contributo possibile per favorire queste
scelte coraggiose e per evitare inerzie o possibili “fughe
all’indietro” di amministrazioni o di singoli amministratori
restii al cambiamento.
Lo si è fatto già per la prima “rivoluzione
sostanziale” del diritto amministrativo, la legge n. 241/90
(la prima “rivoluzione processuale” è stata
la legge sui T.A.R. del 1971). Molti studiosi affermano che senza
la coraggiosa giurisprudenza amministrativa – cui si aggiunse
una serie di importanti pareri del Consiglio di Stato in sede
consultiva e “di indirizzo” – dei primi anni
’90, la legge n. 241 sarebbe restata in gran parte lettera
morta nella prassi amministrativa (si pensi all’avviso di
avvio del procedimento o al diritto di accesso).
Siamo pronti a farlo di nuovo.
V
– GIUDICE AMMINISTRATIVO E PROCESSO
Si può ora passare – seguendo lo stesso “filo
conduttore” – dal ruolo dei contenuti delle nostre
pronunce a quello del processo.
Come ho detto all’inizio, un “servizio-giustizia”
coerente e chiaro richiede anche un processo efficiente e una
tutela completa e “piena”.
Il nostro processo ha visto attuarsi un rafforzamento senza precedenti
della posizione dell’interesse legittimo, passando dalla
tutela di annullamento (che pure richiudeva in sé le altre
forme di tutela meno radicali) alla tutela risarcitoria, che incide
sull’intero assetto dei rapporti tra cittadino e pubblica
amministrazione.
Vorrei prendere le mosse da questo tema – tutela risarcitoria
e riparto – per poi affrontare altre questioni di interesse
per gli “utenti” del nostro servizio: la previsione
della translatio iudicii, l’estensibilità della tutela
cautelare ante causam, i pregi dell’attuale processo cautelare,
i rimedi alternativi alla giurisdizione (le cd. ADR).
I
PREGI DI UNA “LETTURA UNIFICANTE” DELLE NORME COSTITUZIONALI
SULLA GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA
Una lettura moderna e “unificante” delle norme costituzionali
sulla giustizia amministrativa (Pajno) consente di individuare
nell’art. 24 Cost., come parte integrante del diritto alla
tutela giurisdizionale, anche il diritto alla sua concentrazione.
Tale lettura, coerente con il nuovo art. 111 Cost. e con il principio
della ragionevole durata del processo, configura un sistema volto
ad assicurare una tutela tempestiva, piena e completa a tutte
le situazioni soggettive vantate dal cittadino nei confronti dei
poteri pubblici.
La stessa lettura induce a ritenere che l’art. 103 Cost.
sancisca la differenza fra i diversi ambiti di tutela giurisdizionale
tra giudice ordinario e giudice amministrativo e la indifferenza
fra le tecniche di tutela necessarie a tal fine, la cui identificazione
è rimessa alla discrezionalità del legislatore.
In quest’ottica, l’art. 113, terzo comma, Cost., attribuendo
alla legge – e soltanto ad essa – l’indicazione
del giudice dotato del potere di annullamento dell’atto,
evidenzia che non esiste un monopolio, da parte dei diversi giudici,
delle varie tecniche di tutela giurisdizionale adoperate.
Ne consegue che non esistono effetti tipici o “necessari”
dell’annullamento, potendo essere modellati, al di là
della mera caducazione, dal legislatore (anche con la configurazione
di poteri sostitutivi o risarcitori) a seconda delle esigenze
delle varie fattispecie.
LE
RECENTI DECISIONI DELLA CORTE REGOLATRICE DELLA GIURISDIZIONE:
L’IMPORTANZA DEL METODO E DEI VALORI ENUNCIATI
Di questa “lettura unificante” sembra aver preso atto
la Cassazione con le tre note ordinanze del giugno scorso in materia
di riparto di giurisdizione sulla tutela risarcitoria per lesione
degli interessi legittimi.
Con tali pronunce, la suprema Corte – seguendo la strada
tracciata dalla Consulta con le sentenze n. 204 del 2004 e n.
191 del 2006 – ha propiziato un chiarimento importante sul
punto.
È questo il problema oggi forse più rilevante per
i giudici amministrativi. Ne ha già parlato, pochi giorni
fa, il presidente Schinaia: condivido pienamente le sue parole
di “attento ottimismo”. Bene ha fatto il Presidente
del Consiglio di Stato a indicare le prospettive di un necessario
approfondimento, per il quale ci sentiamo tutti impegnati.
Così come andrebbe accolta con favore una presa di posizione
del legislatore.
Io qui voglio soltanto accennare a due aspetti, per così
dire, collaterali ma pregiudiziali: uno di metodo e l’altro
di principio, di scelta di valori, di priorità di lavoro.
Quanto al primo aspetto, le sentenze muovono da lontano, operano
una dettagliata ricostruzione delle questioni, con attenti e precisi
richiami al passato, anche remoto. Danno conto di tutte le esigenze,
di tutte le ragioni, di tutte le posizioni, anche di quelle più
estreme – da una parte e dall’altra – e non
condivisibili, ma dalle quali si può comunque imparare
qualcosa.
Quando si tratta di operare una svolta storica, di tracciare un
indirizzo giurisprudenziale che deve durare negli anni, è
bene fare così; e alla Cassazione deve andare la nostra
considerazione in primo luogo per il metodo seguito, per l’attenzione
dimostrata, per gli approfondimenti sistematici effettuati, per
i rapporti tra diverse giurisdizioni di recente ripresi e portati
a frutto.
In particolare, con queste pronunce si compie un passo avanti
importante in quell’opera di “dialogo” costruttivo
tra noi e la Magistratura ordinaria (il giudice finale della giurisdizione)
che – come ho già sostenuto – avrebbe potuto
stemperare molti dei contrasti che avevano portato ad adire la
Corte costituzionale e, comunque, contribuire ad attuare uniformemente
i suoi dicta interpretativi.
Quanto al secondo aspetto, oltre al metodo usato ciò che
mi colpisce di più di queste pronunce è la “scelta
delle priorità”. È il fatto che, prima ancora
delle questioni del riparto, si mette al centro di tutto la tutela
del cittadino.
Ci si attendeva (da più parti si temeva) una pronuncia
sul riparto. Una pronuncia che dicesse “che cosa è
mio e che cosa è tuo”. Sono giunte decisioni che
– pur facendo indubbiamente chiarezza su molti profili controversi
sul riparto tra giurisdizioni – considerano tale questione
come secondaria rispetto alla tutela del cittadino.
Sono giunte delle decisioni di un giudice civile che nega, di
fatto, la propria giurisdizione in molti casi, in nome del principio
(con base costituzionale) di concentrazione e di celerità
della tutela dinanzi al giudice amministrativo.
Ma che la riafferma, sempre in nome della difesa del cittadino,
sulla base di una “norma di chiusura” – l’art.
2 della legge 20 marzo 1865, n. 2248, all. E, reinterpretato e
“modernizzato” alla luce della “lettura unificante”
degli articoli 24 e 113 della Costituzione sopra accennata –
che attribuisce al giudice ordinario il potere-dovere di assicurare
la pienezza della tutela, quando la giurisdizione competente non
riesca a concedere una tutela piena (anche sul piano risarcitorio)
all’interesse legittimo.
IN
FAVORE DELLA TRANSLATIO IUDICII
Questo tipo di “lettura unificante” delle norme costituzionali
sulla giustizia amministrativa consente una rappresentazione meno
“separata” e “divisa” del sistema di tutela
giurisdizionale nei confronti della pubblica amministrazione.
Ma, allora, il fatto che la Cassazione, anche superando contrasti
interni e precedenti recenti, abbia riaffermato la centralità
del criterio di riparto per situazioni soggettive ed escluso ipotesi
di “doppio binario” non può risolversi nella
perdita o nella messa in pericolo di quelle esigenze di concentrazione
della tutela giurisdizionale che sono direttamente connesse agli
artt. 24, 111 e 113 Cost. .
In questa prospettiva, va salutato con favore il superamento,
con una recente sentenza delle Sezioni Unite (22 febbraio 2007,
n. 4109) del principio che sinora ha escluso la translatio iudicii
per le questioni di giurisdizione. Si consente, così, la
prosecuzione del giudizio dinanzi al giudice dotato del potere
di decidere la controversia.
Anche questo costituisce un modo di evitare la dispersione del
potere giurisdizionale, ponendo come esigenza primaria la tutela
rapida ed effettiva del cittadino, al di là delle ripartizioni
formali, che devono essere utili solo per fare chiarezza, non
per ritardare la tutela.
LA
TUTELA ANTE CAUSAM
Un’altra innovazione “forte” – che per
la verità non viene dal legislatore nazionale ma dalla
giurisprudenza della Corte di Giustizia delle Comunità
Europee – è quella della tutela cautelare ante causam.
Si tratta di un problema con il quale stiamo imparando a fare
i conti a partire dalla sua introduzione nel recente codice dei
contratti pubblici (d.lgs. n. 163 del 12 aprile 2006).
Si tratta, come ho detto, di una tutela imposta dall’Europa
per il solo settore degli appalti, ma occorrerà considerare
la sua estensione generalizzata.
Di ciò facciamo espressa richiesta al legislatore, perché
non si può consentire di conservare un rito speciale, una
“tutela rafforzata” – soprattutto nella fase
forse più sensibile, quella cautelare – soltanto
per limitate materie come i contratti pubblici.
LA
TUTELA CAUTELARE E I SUOI TEMPI
Sui “tempi rapidissimi” della nostra tutela cautelare,
consentitemi una ulteriore considerazione, che ribadisce quanto
avevo già detto l’anno scorso.
Anche se due ricorsi su tre contengono un’istanza cautelare
(il che sconfina nel patologico: a fronte di oltre 12.000 ricorsi
proposti, le istanze cautelari sono più di 8.000), noi
siamo in grado di decidere praticamente in tempo reale le sospensive
ordinarie, non soltanto nei casi più urgenti o rilevanti
ma per tutti.
Le richieste di tutela cautelare provvisoria vengono sempre decise
ad horas (compresa quella di due giorni fa sui compensi al festival
di Sanremo).
Le istanze ordinarie sono decise comunque ad dies, poiché
sono portate di regola alla prima camera di consiglio successiva
al deposito del ricorso. Quando necessario, sono anche fissate
camere di consiglio straordinarie.
Alla luce di questi dati di fatto, che avevo enunciato sin dallo
scorso anno, non può non sorprendere l’accusa di
rapidità “eccessiva” che talvolta ci è
stata mossa. Siamo pronti a subire tutti gli attacchi, a fare
tesoro delle critiche, che però non accettiamo quando dimostriamo
rapidità ed efficienza per tutti.
Va infatti considerato che una tutela cautelare “sana”,
che sia attenta agli indirizzi più radicati della giurisprudenza
e soprattutto si muova in coerenza con essi, può fornire
una anticipazione ragionevole degli effetti del processo e una
tutela a volte pienamente satisfattoria in tempi rapidissimi.
I
RIMEDI ALTERNATIVI ALLA GIURISDIZIONE
Un aspetto virtuoso del servizio giustizia che, invece, nel nostro
Paese stenta a mettere radici è quello dei rimedi alternativi
alla giurisdizione, fra cui le cd. Alternative Dispute Resolutions
(ADR), su cui oggi l’Unione Europea insiste molto.
Si tratta di esperienze che – per ragioni spesso differenti
tra loro e tra i vari Paesi – vedono tutte la presenza,
accanto a forme di tutela caratterizzate dall’intervento
del giudice, di riti alternativi e di tecniche di risoluzione
stragiudiziale delle controversie.
L’idea di fondo è che la giurisdizione va considerata
come una vera e propria “risorsa”; come tale, non
illimitata, ma da riservare alle questioni che non possono essere
risolte efficacemente, celermente e più economicamente
con altri rimedi. Pertanto, nell’interesse del cittadino,
occorre introdurre rimedi di tutela che ne assicurino la soddisfazione
“a prescindere dall’intervento del giudice”.
L’Unione Europea sta incoraggiando il ricorso a siffatti
rimedi. Tra le ragioni del successo che queste iniziative stanno
riscuotendo negli altri ordinamenti vi sono la tempestiva risoluzione
delle controversie, l’opportunità di una risoluzione
elastica e nel dominio delle parti, con la ricerca di soluzioni
improntate all’equità in senso lato, la specializzazione
del soggetto chiamato a dirimere le controversie o l’utilizzazione
di esperti per sciogliere nodi di natura tecnica, l’esigenza,
infine, di deflazionare il carico del contenzioso attribuito ad
un giudice sempre più spesso chiamato in causa dai cittadini.
Nel nostro ordinamento, tali rimedi non mancano, almeno sulla
carta.
E non mi riferisco soltanto alla giustizia arbitrale, ma soprattutto
a quei rimedi “generali” e di ampia accessibilità
che erano stati inseriti, con molte speranze, in un’amministrazione
diversa da quella di oggi, e che andrebbero ripresi e adeguati:
i ricorsi gerarchici. Non tanto quelli propri – ormai superati
insieme con il modello “piramidale” di amministrazione
per il quale erano sorti – bensì quelli cd. impropri.
Ma, soprattutto, occorre guardare al ricorso straordinario al
Capo dello Stato, che la legge stessa considera come “rimedio
alternativo” e che presenta il valore aggiunto dell’economicità
e dell’unicità del grado di giudizio.
Vanno poi ricordati i rimedi fondati sulla “specialità”,
che pure esistono nel nostro sistema e che dovrebbero essere valorizzati:
dai ricorsi al difensore civico a quelli alla Commissione per
l’accesso, ai ricorsi interni alle Autorità indipendenti.
Per tutti questi (con la sola eccezione del ricorso straordinario,
che viene già deciso, con la terzietà propria del
giudice, dal Consiglio di Stato) vi è bisogno principalmente
di un elemento, senza il quale sembra difficile ripetere il successo
delle ADR negli altri Paesi: una maggiore terzietà rispetto
alle amministrazioni interessate, per incoraggiare il cittadino
che oggi, invece, si vede quasi sempre confermare la scelta negativa
dell’ufficio competente, “tanto poi si può
andare al T.A.R. …”.
Più serietà e più fiducia nel rimedio, a
cominciare dai soggetti tenuti a gestirlo.
Con una cautela: i rimedi alternativi sono preferibili ai riti
speciali. Creare, dinanzi allo stesso giudice che dovrebbe comunque
decidere, procedure “disegnate” sulla materia della
lite può, se si eccede, condurre a rallentamenti della
definizione delle cause da parte del medesimo giudice. Prevedere
diciassette riti diversi dinanzi al giudice civile che resta sempre
lo stesso mi sembra, francamente, un paradosso. Per ciò
che riguarda noi, a parte i riti “accelerati” ex art.
23-bis della legge n. 1034 del 1971, abbiamo solo pochi riti speciali,
soprattutto in materia di silenzio e di accesso: la nostra giurisprudenza
ha cercato di aumentarne l’integrazione con il rito principale,
e il legislatore ha dimostrato di adeguarsi prontamente.
Tornando alle ADR in senso proprio, si ribadisce la necessità
di un investimento serio su di loro, accompagnato da misure che
rafforzino la terzietà dei rimedi e da iniziative di formazione
dei loro responsabili.
Questo – non costoso – investimento potrebbe condurre
a risultati rilevanti per la nostra giustizia, amministrativa
e non.
Noi non ci sentiremo “svalutati” se si rafforzeranno
le alternative al nostro lavoro. Anzi, ci sentiremo trattati come
una risorsa preziosa, non illimitata e da preservare.
VI – I PROBLEMI DI SEMPRE: INNANZITUTTO, I TEMPI
IL
PROBLEMA DEI TEMPI IN GENERALE
Passo ora ai problemi della nostra giustizia. I principali sono.
Ancora una volta, quello dei tempi e quello delle risorse.
Su questi temi si rischia davvero di essere ripetitivi, ma non
posso evitare di parlarne.
Comincio dal primo.
Il problema non è certo soltanto italiano, se la candidata
alla Presidenza della Repubblica d’oltralpe, Ségolène
Royal, ha di recente elogiato, di ritorno da un suo viaggio in
Cina, i tempi della giustizia cinese, ritenuta più rapida
di quella francese per i suoi “méthodes expéditives”.
Ma, se Parigi piange, l’Italia certo non ride!
Già l’anno scorso richiamavo un rapporto della Banca
Mondiale (Doing business 2004, WB 2004, che compara 145 diversi
Paesi), secondo cui uno dei principali freni allo sviluppo produttivo
dell’Italia è dato dalla lentezza dei processi, che
produce incertezza negli scambi e scoraggiamento negli investitori.
Questo – si osservava – è particolarmente vero
per il giudice amministrativo perché, come detto prima,
anche noi siamo un fattore di competitività del sistema-Paese.
I tempi della nostra giustizia sono certamente meno drammatici
di quella ordinaria.
Il rito accelerato introdotto dalla legge n. 205 del 2000 per
alcune controversie (dagli appalti ai provvedimenti delle Autorità
indipendenti, dalle privatizzazioni ai provvedimenti di nomina
adottati dal Consiglio dei Ministri) dimostra di funzionare bene:
di regola, è sufficiente qualche mese per giungere alla
decisione di primo grado.
Il contenzioso ordinario segna il passo, ma funzionerebbe anch’esso
bene, con il nuovo regime processuale, se non vi fosse l’ingente
arretrato creatosi prima della riforma. I dati confermano che
la produttività aumenta, a carico delle limitate (e sempre
decrescenti) risorse esistenti.
Ma i nostri sforzi, comunque, non bastano di fronte agli oltre
160.000 ricorsi pendenti dinanzi a questo TAR e alla possibilità
di definirne, in tutto, poco meno di 16.000 l’anno (di cui
oltre l’80% è “azzerato” dai ricorsi
in arrivo).
Come ho già detto l’anno scorso, non si può
pensare seriamente di smaltire questo arretrato con misure ordinarie.
Si può discutere sulle modalità, si può ragionare
sulla necessità di istituire sezioni-stralcio o rinvenire
altri rimedi. Occorre anche tenere ben presente che in molti casi
si tratta di un arretrato “apparente”, meramente cartaceo,
costituito da ricorsi per i quali le parti hanno perso ogni interesse
a seguito della successiva attività dell’amministrazione
o per il semplice decorso del tempo.
Ed è un peccato, poiché la legge n. 205, a regime,
potrebbe consentire finalmente un funzionamento efficiente dell’intero
sistema-giustizia amministrativa.
È quindi importante farsi carico del problema, perché
questo peso può minare seriamente la credibilità
della giustizia amministrativa e, più in generale, quella
del Paese.
Per evitare di essere esclusivamente ripetitivo su un problema
che, purtroppo, si ripresenta tutti gli anni, provo a fornire
due ulteriori elementi di riflessione.
LA
“CULTURA” DEI TEMPI
Il primo spunto può apparire un po’ troppo “in
prospettiva” ma occorre comunque, a mio avviso, metterlo
in campo adesso.
Il problema dei tempi del processo amministrativo è connesso
– a differenza di quanto accade per la giustizia ordinaria
– con il problema dei tempi della pubblica amministrazione
.
Ed è un problema culturale, oltre che funzionale.
La dimensione-tempo riassume, come ha affermato di recente il
Ministro Amato, tutte le disfunzioni della pubblica amministrazione.
Occorre, quindi, chiedersi se si possa rimediare a tali disfunzioni
semplicemente “tagliando” le procedure, imponendo
all’amministrazione una scelta in tempi brevi, qualunque
essa sia.
Ho molti dubbi a dare una risposta positiva, pur se essa può
essere suggestiva.
L’amministrazione, come il giudice, ha bisogno di tempo
per operare scelte credibili, almeno nei settori di maggiore delicatezza.
Ha bisogno di tempo, e non di fretta, per vagliare i diversi interessi
pubblici che sottendono ad una singola scelta, e per contemperarli
con quelli dei privati, dei cittadini e delle imprese.
Questi tempi devono essere ragionevoli. Solo allora si può
esigere che siano certi. La semplice riduzione “sulla carta”
dei tempi non porta a nulla. Occorre quantificare, caso per caso,
le necessità. E lavorare sugli operatori, sulla loro formazione,
sulla loro professionalità, sulla loro dedizione al risultato
piuttosto che alle forme.
Occorre una “cultura” dei tempi connessa con la cultura
dei risultati. Per gli amministratori pubblici ma anche per i
giudici dell’amministrazione. Una cultura che non può
che arricchirsi degli apporti multidisciplinari cui facevo cenno
prima, di cui noi siamo molto carenti non avendo alcuna tradizione
delle facoltà di “law and economics” così
diffuse nell’esperienza anglosassone.
RAPPORTO
TRA TEMPI E CONTENUTI DELLE DECISIONI: CHIAREZZA DEGLI INDIRIZZI
E DEFLAZIONE DEI TEMPI
Il secondo spunto si richiama, ancora una volta, al nostro filo
conduttore iniziale.
Il problema dei tempi si risolve anche attraverso i contenuti
delle decisioni, gli indirizzi giurisprudenziali.
Una maggiore certezza sugli indirizzi, sulla loro “tenuta”
e coerenza determina certamente una deflazione del contenzioso,
specie se accompagnata da un più coraggioso ricorso alla
condanna alle spese e da un comportamento responsabile della classe
forense.
E qui occorre un richiamo a tutti, soprattutto a quegli avvocati
che, facendo commistione tra il diritto di difesa e la temerarietà
della lite, propongono cinquanta ricorsi identici tra loro invece
di uno solo, magari con la speranza che collegi diversi li decidano
in modo diverso. O che prolungano irragionevolmente cause dall’esito
probabilmente scontato (o che sarebbe tale alla luce dei suddetti
indirizzi più “stabili”) e, come è accaduto
qui al T.A.R. del Lazio, al momento in cui un ricorso presentato
molti anni fa era stato finalmente messo in discussione, ne chiedono
la cancellazione dal ruolo “per approfondimenti”!
VII – SEGUE: MISURE ORGANIZZATIVE E RISORSE
L’IMPORTANZA
DELL’ORGANIZZAZIONE
La qualità delle pronunce e l’effettività
del nostro processo sono cruciali; danno senso alla nostra vita
e al nostro lavoro. Ma non bastano.
Come è stato detto (Cassese), la giustizia è un
sistema in cui la domanda cresce con la qualità dell’offerta.
E oggi, vista la massa di lavoro, non ci si può permettere
una qualità mediamente buona delle pronunce (come è,
nonostante tutto, quella resa dalle Corti italiane) senza considerare
come altrettanto decisivo l’aspetto quantitativo.
Occorrono anche una buona organizzazione e risorse adeguate ai
bisogni.
Nei giorni scorsi, in occasione delle relazioni di apertura dell’anno
giudiziario presso la Cassazione e le Corti d’appello, è
stato affermato che l’equazione “più mezzi
uguale più efficienza” va esaminata con attenzione
e spirito critico. Perché non sempre è esatta. Se
un’amministrazione pubblica, o un’azienda privata,
si trovano ad affrontare una contingenza difficile, non possono
limitarsi a chiedere più risorse. Si guardano dentro, si
slanciano in avanti, si riorganizzano, rinunciano a qualcosa,
si ripensano e finalmente ripartono.
Non si possono non condividere, in linea di principio, queste
affermazioni. E allora dico subito che non mancano le iniziative
organizzative volte a migliorare il nostro servizio anche indipendentemente
da modifiche ordinamentali o dall’aumento di risorse.
Seguendo l’esempio delle Sezioni unite civili della Cassazione,
anche noi stiamo cercando di migliorare le soluzioni organizzative
a legislazione e a organico vigente.
Ad esempio, sulla base di significative esperienze della IV Sezione
del Consiglio di Stato, lavorando sulla preparazione delle assegnazioni
alle udienze, cercando di trovare e di accorpare le cause seriali
che si possono decidere con un’unica pronuncia ovvero riproducendo
un’unica sentenza-pilota, o infine pensando a “udienze
tematiche” e ad un uso più incisivo dell’informatica.
Il Consiglio di Presidenza sta ora rilanciando strutture centrali
importanti, che da noi di fatto non erano curate da magistrati,
come l’ufficio del Massimario.
I
COSTI DELL’ORGANIZZAZIONE
Ma questi ed altri accorgimenti organizzativi sono destinati all’insuccesso
se le risorse non si adeguano, anzi continuano a diminuire.
Il lavoro sui fascicoli da accorpare e da “trattare”,
ad esempio, non è facile e richiede un grande sforzo da
parte delle segreterie. Così come la trattazione delle
cause seriali.
Un esempio concreto per tutti. Nel novembre scorso ho tenuto due
udienze straordinarie (per le quali ringrazio ancora i colleghi
che volontariamente hanno affrontato questo onere), smaltendo
di colpo – in aggiunta al carico mensile ordinario –
circa 400 ricorsi per ciascuna. Avrei voluto ancora ripetere l’esperienza,
ma non è stato sinora possibile perché non ho potuto
distogliere il poco personale disponibile dagli impegni delle
udienze ordinarie. Dai commessi che spostano i fascicoli al personale
di segreteria che cura gli adempimenti di cancelleria: per tutti
costoro il singolo ricorso seriale comporta esattamente lo stesso
carico di lavoro del ricorso che segna grandi svolte giurisprudenziali.
Insomma, anche il lavoro sull’organizzazione – che
siamo pronti a proseguire e a incoraggiare – richiede risorse.
E queste, occorre dirlo con franchezza, sono drammaticamente carenti,
soprattutto al TAR del Lazio.
GLI
INTERVENTI NORMATIVI RECENTI
Certo, qualcosa si muove.
Prendo atto che di alcune misure contenute nella legge finanziaria
per il 2007 (legge 27 dicembre 2006, n. 296, commi 1307, 1308
e 1309), che ha previsto – per tutta la giustizia amministrativa!
– un aumento di organico di cinquanta unità di personale
di segreteria (peraltro, interamente autofinanziato con l’incremento
del contributo unificato per le cause di maggiore valore economico).
Ma ricordo che un rafforzamento di dimensioni più ampie
era stato previsto, con un consenso bipartisan, nella primavera
del 2001, alla fine della XIII legislatura, come “copertura”
della riforma di cui alla l. n. 205 del 2000. L’intervento
non riuscì ad arrivare all’approvazione finale in
seconda lettura per un soffio. Poi, però, non se ne è
fatto più nulla.
Nel frattempo, nel 2005 sono sopraggiunte le riduzioni forzate
di organico e, con la finanziaria per il 2006, il blocco delle
assunzioni è stato esteso anche al personale di magistratura.
I benefici della finanziaria 2007 recano, quindi, misure che compensano
solo in parte i più gravi pregiudizi arrecati dalle leggi
degli anni precedenti. Perché le riduzioni e i blocchi
delle assunzioni, se certo sono il segno di una situazione di
emergenza della finanza pubblica, vanno calibrati caso per caso.
Misure come queste trovano un fondamento per le amministrazioni
che occorre ristrutturare profondamente, a causa dei processi
di trasferimento alle Regioni e della esternalizzazione di svariate
funzioni. Ma risultano oggettivamente inspiegabili per un sistema
come la giustizia, che non è interessato da nessuno di
tali fenomeni (certo non la regionalizzazione, ma neppure una
politica credibile sulle ADR) e in cui, anzi, la domanda continua
a crescere, soprattutto in complessità.
In Germania, per una popolazione superiore alla nostra di meno
del 20%, i giudici amministrativi federali sono circa 2.600 e
il rapporto tra i giudici e gli impiegati di cancelleria è
di uno a otto; da noi i giudici sono meno di 500 e il rapporto
con gli impiegati non arriva neppure a uno a due.
Dobbiamo proprio rassegnarci a queste differenze abissali?
LA
SITUAZIONE PARTICOLARMENTE GRAVE DEL T.A.R. DEL LAZIO; …
Un discorso a sé merita, infine, la situazione del T.A.R.
del Lazio.
Siamo l’unico T.A.R. italiano in cui i ricorsi proposti
non diminuiscono: nel 2006, il loro numero (12.337) è stato
sostanzialmente costante rispetto all’anno precedente (12.388),
mentre il dato nazionale ha registrato una flessione del 6,4%
tra i ricorsi proposti nel 2005 (complessivamente 62.049) e i
ricorsi proposti nel 2006 (complessivamente 58.087). Questa controtendenza
rispetto al dato nazionale comporta che, se l’anno scorso
l’incidenza dei nostri ricorsi sul totale nazionale si era
attestata a poco meno del 20%, quest’anno marcia verso il
22% (ove si consideri anche la sezione staccata di Latina, si
arriva al 23,39% del totale nazionale dei ricorsi).
Ne consegue che il numero medio di ricorsi per singola sezione
del T.A.R. Lazio si rivela sensibilmente più alto del numero
medio di ricorsi delle sezioni del resto d’Italia. Infatti,
per le dodici sezioni del T.A.R. Lazio, alcune costituite da soli
tre o quattro magistrati compreso il Presidente, la media è
di oltre 1.000 ricorsi, mentre per le sezioni del resto d’Italia
la media è di circa 800 ricorsi.
Il numero di ricorsi di una singola sezione interna del Tribunale
è sovente superiore al totale del contenzioso di interi
T.A.R. di dimensioni consistenti (come quelli di Bologna, di Genova,
di Catanzaro o di Cagliari). Sia la prima che la seconda Sezione
del T.A.R. di Roma, superando i 4000 ricorsi (4988 la prima e
4095 la seconda), hanno un carico superiore a qualsiasi T.A.R.
d’Italia, salvo quello di Napoli.
…
I RISULTATI OTTENUTI, NONOSTANTE TUTTO, …
Nonostante gli oneri eccezionali che gravano sul T.A.R. del Lazio,
prosegue la tendenza a chiudere l’anno con un saldo attivo
tra giudizi definiti e ricorsi introitati.
I giudizi definiti nel 2006 sono stati 15.686, con un incremento
del 5,92% rispetto al 2005, in cui furono 14.809; ove si considerino
anche le decisioni interlocutorie, il dato passa a 16.399 decisioni
assunte nel 2006, con un incremento dell’8% rispetto al
2005, in cui il totale delle decisioni si era attestato a 15.180.
Tali riscontri numerici, pur nella loro freddezza, riescono a
rendere chiaramente l’idea della mole di lavoro che ha accompagnato
gli “addetti” al Tribunale, sia il personale di magistratura
che il personale amministrativo.
E danno conto dell’efficienza, non disgiunta dall’elevata
qualità della produzione, con cui essi hanno saputo rispondere.
Il saldo attivo tra giudizi definiti nell’anno (15.686)
e ricorsi introitati (12.337) ha determinato un’ulteriore
flessione dei ricorsi pendenti che, al 31 dicembre 2006, ammontano
a 162.290, rispetto ai 165.639 che risultavano pendenti al termine
del 2005.
Il risultato conferma il trend dell’anno precedente in cui
si era giunti a 165.639 ricorsi pendenti a fine anno rispetto
a 168.060 ricorsi pendenti a fine 2004.
Di talchè, negli ultimi due anni, a fronte di 24.725 ricorsi
presentati sono stati definiti 30.495 giudizi e ciò ha
consentito di ridurre i ricorsi pendenti da 168.060 a 162.290,
con un abbattimento del 3,43%, pur in presenza di una compagine
di magistrati meno numerosa, come si dirà.
…
CON UN CONTENZIOSO IMPONENTE IN QUALITÀ E QUANTITÀ
…
I dati numerici non riflettono l’intera dimensione del problema
poiché, come ho detto nella prima parte, il contenzioso
del nostro Tribunale presenta aspetti peculiari soprattutto di
tipo qualitativo, considerato che alle materie “tipiche”
di ogni giudice amministrativo si aggiunge la competenza esclusiva
in una molteplicità di materie dal notevole impatto sociale
ed economico.
Si pensi, ad esempio, al ricorso sulla sospensione dei lavori
di riconversione a carbone della centrale termoelettrica di Civitavecchia,
al ricorso sulla gara d’appalto per i lavori del ponte sullo
stretto di Messina, al contenzioso sull’autorizzazione all’acquisizione,
da parte della Cassa Depositi e Prestiti, di una quota del capitale
sociale di Terna, ai giudizi in materia di concessioni autostradali
e di adeguamento delle relative tariffe, al contenzioso relativo
ai provvedimenti antitrust che accertano intese restrittive della
concorrenza, i quali vengono tutti impugnati (la decisione di
ognuno di questi giudizi comporta la lettura di migliaia di pagine!),
contenzioso che comprende materie che vanno dalle assicurazioni
al latte per la prima infanzia, ai gas tecnici, etc., all’impugnazione
dei provvedimenti adottati dall’Autorità per le Garanzie
nelle Comunicazioni, ai ricorsi concernenti le linee aeree, al
contenzioso relativo alla nomina a Direttore Generale della RAI,
alle controversie in materia di calcio.
I settori di intervento, peraltro, sono estremamente vari e riguardano
anche questioni in passato sconosciute o poco usuali: dalle ipotesi
di mobbing nel pubblico impiego al “numero chiuso”
per l’iscrizione a facoltà universitarie, alle misure
di protezione per i collaboratori di giustizia, alle provvidenze
per le vittime dell’usura e dell’estorsione. Ciò
in aggiunta ai settori dai quali tradizionalmente deriva al giudice
amministrativo una notevole quantità di ricorsi: dal contenzioso
edilizio a quello relativo al pubblico impiego “non contrattualizzato”
(in particolare militari e magistrati), a quello concernente i
cittadini extracomunitari, alle impugnazioni avverso le bocciature
a scuola o le valutazioni di non idoneità a concorsi, soprattutto
quello notarile, o ad esami di abilitazione, soprattutto quello
di avvocato.
…
E L’ASSEGNAZIONE SPEREQUATA DI RISORSE
A fronte di questo straordinario impegno, è doveroso segnalare
che le risorse professionali e finanziarie si rivelano non solo
scarse, ma anche non proporzionali rispetto agli altri uffici
d’Italia.
Quanto ai magistrati, ne perdiamo sempre di più, tra collocamenti
fuori ruolo, passaggi al Consiglio di Stato e altre ragioni. Il
loro numero è sceso ora a 53 (di cui soltanto 47 a tempo
pieno, cinque impegnati anche presso il Consiglio di Presidenza
e uno presso l’Ufficio per l’informatica).
Per ciò che riguarda il personale di supporto, si continua
a non tener conto delle necessità ulteriori che ci derivano
dalla maggiore incidenza dei ricorsi “ponderosi” e
di quelli seriali, nonché dell’arretrato che potremmo
smaltire meglio, se ci fosse qualcuno in più a trattarlo
nelle segreterie.
Il personale amministrativo in servizio è attualmente pari
a 103 unità, inferiore di ben 11 elementi rispetto alla
già esigua pianta organica, di 20 rispetto a quella vigente
prima della legge n. 311 del 2004 e di ben 34 rispetto alla rilevazione
eseguita dalla società “Criteia” per tutti
i TAR.
Parimenti esigue sono le risorse finanziarie assegnate.
È vero che, come ho detto all’inizio di questa parte,
l’equazione “più mezzi uguale più efficienza”
non sempre è esatta. Ma noi non ci limitiamo a chiedere
più mezzi: ne dimostriamo oggettivamente la necessità.
Per continuare ad aumentare la produttività non vogliamo
rinunciare ad una migliore organizzazione e ad una più
razionale distribuzione delle risorse.
VIII – CONCLUSIONE: L’IMPORTANZA DELLA
VISIONE DEL “SISTEMA”
La “chiave di lettura” di questa relazione, ovvero
la individuazione della coerenza come componente essenziale del
servizio-giustizia, mi induce a concludere con una visione “di
sistema” del nostro lavoro.
Conforta, in questa visione, l’idea del diritto inteso come
un cammino umano in evoluzione, che segue le esigenze espresse
dai rapporti politici ed economici che intessono l’aggregato
sociale.
Un percorso complesso, non necessariamente lineare, perché
costretto ad accompagnare – come ha detto il Presidente
de Roberto – “tumultuose trasformazioni”, le
quali, tuttavia, si traducono in formule giuridiche, in complessi
sistemici, in ordinate rappresentazioni. Perché dobbiamo
cogliere, nel diritto, “un fenomeno ordinativo più
che autoritativo”.
E, allora, anche noi dobbiamo recepire la lezione dello studente
del Faust di Goethe, che si sente “poco adatto” allo
studio e alla cura del diritto poiché “i diritti
e le leggi si tramandano/ come una malattia che non ha fine,/
arrancano da una generazione all'altra,/ da un luogo all'altro,
cauti. La ragione/ diventa assurda, il beneficio danno”.
Certo, vista così, nel diritto ogni cosa può essere
il suo contrario.
Ma a questo studente Goethe insegna che nel diritto “La
fabbrica delle idee funziona/ come il telaio del tessitore,/ dove
un pedale muove mille fili,/ le spole volano su e giù,/
i fili scorrono invisibili,/ un colpo allaccia mille vincoli”.
Noi non abbiamo, per fortuna, un solo pedale che ci muove come
mille fili.
Ma se il sistema della Giustizia è chiaro e organizzato,
se ogni rocchetto si muove liberamente ma con la coscienza del
suo impatto sugli altri, allora tutti i colori si compongono armoniosamente
e ciascun colpo contribuisce alla costruzione dell’insieme.
In tempi di grandi cambiamenti come quelli attuali, dobbiamo compiere
ogni sforzo perché il nostro lavoro assomigli comunque,
visto dall’alto, ad un grande e armonioso arazzo posto al
servizio della società.