Giustizia Amministrativa - on line
 
Articoli e Note
n. 3-2007 - © copyright
PASQUALE DE LISE
(Presidente del T.A.R. Lazio)


Inaugurazione dell’anno giudiziario del T.A.R. Lazio


I - INTRODUZIONE
INDIRIZZI DI SALUTO
IL PRIMO ANNO “A REGIME”: L’IMPORTANZA DI UNO SGUARDO D’INSIEME AL “SERVIZIO” CHE RENDIAMO
IL “FILO CONDUTTORE”: COSTITUIRE UN PUNTO DI RIFERIMENTO DI COERENZA E DI CHIAREZZA IN UN SISTEMA ECONOMICO, LEGISLATIVO E AMMINISTRATIVO COMPLESSO

II – IL RUOLO DEL T.A.R. DEL LAZIO
LE NUOVE COMPETENZE
LE RAGIONI DELLE NUOVE FUNZIONI - 1) RAGIONI GIURIDICHE: IL GIUDICE NATURALE, IN PRIMO GRADO, DEGLI ATTI GENERALI E “DI REGOLAZIONE” SU TUTTO IL TERRITORIO NAZIONALE
SEGUE - 2) RAGIONI ECONOMICHE: IL GIUDICE NATURALE, IN PRIMO GRADO, DEL “MERCATO REGOLATO” E DELLA “NUOVA ECONOMIA”
LA RICERCA DI UN DIFFICILE EQUILIBRIO NEL SINDACATO GIURISDIZIONALE SU AUTORITÀ “INDIPENDENTI”

III – GIUDICE AMMINISTRATIVO E LEGISLAZIONE
IL GIUDICE AMMINISTRATIVO E LA “CRISI DELLA GENERALITÀ” DELLE REGOLE
UN’ATTUAZIONE DEI PRINCIPI COSTITUZIONALI ATTENTA ALLE ESIGENZE ATTUALI
SEGUE: 1) LA FUNZIONE “ATTIVA” (SE NON “CREATIVA”) DEL GIUDICE (SOPRATTUTTO DI QUELLO AMMINISTRATIVO) IN UN SISTEMA LACUNOSO E CONTRADDITTORIO
SEGUE: 2) UN GIUDICE AMMINISTRATIVO UNICO PER UN DESTINATARIO UNICO DI PIÙ “LIVELLI DI REGOLE”
SEGUE: 3) QUALITÀ DELLE REGOLE E “COMPETITIVITÀ” DEL PAESE, IN UN’OTTICA MULTIDISCIPLINARE: …
… IMPORTANZA DELLA GIURISPRUDENZA COME FATTORE DI INNOVAZIONE, SEMPLIFICAZIONE E “SVILUPPO” DEL SISTEMA

IV – GIUDICE AMMINISTRATIVO E PUBBLICA AMMINISTRAZIONE
IL RUOLO DEL GIUDICE AMMINISTRATIVO DI “INDIRIZZO” DI UN’AMMINISTRAZIONE COMPLESSA; …
… UN “INDIRIZZO” NON SOLO FORMALE MA SOPRATTUTTO SOSTANZIALE
QUALITÀ DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE E COMPETITIVITÀ DEL PAESE: …
… IMPORTANZA DI UNA GIURISPRUDENZA INNOVATIVA, CHE SUPERI LE RESISTENZE IN SEDE ATTUATIVA DELLE RIFORME

V – GIUDICE AMMINISTRATIVO E PROCESSO
I PREGI DI UNA “LETTURA UNIFICANTE” DELLE NORME COSTITUZIONALI SULLA GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA
LE RECENTI DECISIONI DELLA CORTE REGOLATRICE DELLA GIURISDIZIONE: L’IMPORTANZA DEL METODO E DEI VALORI ENUNCIATI
IN FAVORE DELLA TRANSLATIO IUDICII
LA TUTELA ANTE CAUSAM
LA TUTELA CAUTELARE E I SUOI TEMPI
I RIMEDI ALTERNATIVI ALLA GIURISDIZIONE

VI – I PROBLEMI DI SEMPRE: INNANZITUTTO, I TEMPI
IL PROBLEMA DEI TEMPI IN GENERALE
LA “CULTURA” DEI TEMPI
RAPPORTO TRA TEMPI E CONTENUTI DELLE DECISIONI: CHIAREZZA DEGLI INDIRIZZI E DEFLAZIONE DEI TEMPI

VII – SEGUE: MISURE ORGANIZZATIVE E RISORSE
L’IMPORTANZA DELL’ORGANIZZAZIONE
I COSTI DELL’ORGANIZZAZIONE
GLI INTERVENTI NORMATIVI RECENTI
LA SITUAZIONE PARTICOLARMENTE GRAVE DEL T.A.R. DEL LAZIO; …
… I RISULTATI OTTENUTI, NONOSTANTE TUTTO, …
… CON UN CONTENZIOSO IMPONENTE IN QUALITÀ E QUANTITÀ …
… E L’ASSEGNAZIONE SPEREQUATA DI RISORSE

VIII – CONCLUSIONE: L’IMPORTANZA DELLA VISIONE DEL “SISTEMA”

 

 



I - INTRODUZIONE

INDIRIZZI DI SALUTO


Autorità, colleghi, gentili ospiti,
un sentito grazie a tutte le Autorità politiche, civili e militari qui convenute.
Porgo un saluto deferente ai rappresentanti del nostro Organo di autogoverno, il Consiglio di Presidenza della Giustizia Amministrativa.
Un saluto cordiale a tutti i Colleghi del Consiglio di Stato e dei T.A.R., nonché a quelli delle altre magistrature e ai rappresentanti delle loro Associazioni.
Desidero rivolgere un affettuoso saluto ai Presidenti emeriti del Consiglio di Stato, i miei maestri Gabriele Pescatore, Giorgio Crisci e Renato Laschena, e ai miei predecessori nella presidenza del T.A.R. del Lazio, che sono presenti e che tanto lustro hanno dato con la loro opera a questo Tribunale: Alberto de Roberto, Mario Schinaia e Corrado Calabrò. Ai primi due va un saluto particolare, in occasione del recente avvicendamento nel ruolo di Presidente del Consiglio di Stato e del Consiglio di Presidenza, saluto che estendo al neo-presidente aggiunto Paolo Salvatore.
Un saluto riconoscente ai rappresentanti dell’Accademia, dell’Avvocatura dello Stato e del libero Foro: sanno bene quanto io consideri insostituibile il loro apporto, in una dialettica franca e costruttiva con il giudice amministrativo al fine di cooperare ai grandi indirizzi di riforma e alla loro “messa a regime”.
Sento poi l’esigenza di manifestare la mia profonda gratitudine a tutti coloro che, con la loro quotidiana attività esercitata spesso in condizioni disagevoli, si impegnano a rendere efficiente questo Tribunale, offrendo, nelle aule di udienza come nelle segreterie delle Sezioni e negli uffici di supporto, un servizio fondamentale al Paese. La loro generosa, intelligente ed attiva collaborazione rappresenta una risorsa preziosa, che mi consente di adempiere ai miei doveri in un clima di diffusa condivisione verso gli obiettivi da conseguire.
La peculiare posizione, in termini istituzionali e organizzativi, del T.A.R. del Lazio convince dell’opportunità di tener conto dell’opinione di tutti i soggetti comunque in prima linea nella giustizia amministrativa, tramite le associazioni dei magistrati e del personale amministrativo, nonché i rappresentanti del Foro e dell’Accademia. Purtroppo, la necessaria brevità di questa cerimonia – che contempla, oltre alla mia relazione, gli interventi del Presidente del Consiglio di Stato Mario Schinaia e del Vice Presidente del Consiglio di Presidenza, prof. Pasquale Stanzione – rende impossibile, oggi, ascoltare queste voci, nonostante l’importanza delle questioni di cui si fanno interpreti.
In ragione di questa innegabile importanza, mi auguro che si possa trovare una prossima occasione di incontro, che si rivelerà sicuramente proficua e per la cui realizzazione mi dichiaro sin d’ora pienamente disponibile.

 

IL PRIMO ANNO “A REGIME”: L’IMPORTANZA DI UNO SGUARDO D’INSIEME AL “SERVIZIO” CHE RENDIAMO
A differenza del primo discorso inaugurale, stavolta ho potuto vivere l’intero anno giudiziario come Presidente di questo Tribunale. Le impressioni iniziali hanno avuto modo di approfondirsi e di adeguarsi alla realtà dell’Istituto.
Resta innanzitutto confermato il “senso” che ha per me questo lavoro: un profondo senso del “servizio”, nell’accezione più elevata dell’espressione.
Un servizio al quale si chiede, in primo luogo, funzionalità ed efficienza ma che non va inteso nel senso “aziendalistico” del termine: le parti nei nostri processi sono ben più che degli “utenti”, sono titolari di un diritto costituzionale, consacrato nell’articolo 24 e nel principio del “giusto processo” di cui al rinnovato articolo 111 della Costituzione.
Un servizio di cui è importante, periodicamente, “dar conto”, evidenziando le tendenze che lo caratterizzano, i problemi in atto e le possibili soluzioni.
Inoltre, questa esperienza mi conforta nella scelta di privilegiare, rispetto agli elenchi di dati statistici – utili, ma non sempre idonei a rappresentare adeguatamente la realtà della nostra giustizia – l’analisi delle tendenze, dei problemi, delle grandi questioni sottese all’attività che svolgiamo, delle prospettive del sistema.
Occasioni come questa consentono di guardare alle nostre funzioni anche da un’ottica diversa. Nel nostro lavoro quotidiano siamo abituati a valutare, uno ad uno, i singoli casi che esaminiamo, nella loro autonomia e nella pienezza, in ciascuno di essi, dell’esercizio della giustizia. A questa doverosa prospettiva, si affianca, all’inizio del nuovo anno giudiziario, la possibilità di considerare tali casi in una visione d’insieme, come parti di un sistema unitario; un sistema non fisso ma in continua evoluzione.

IL “FILO CONDUTTORE”: COSTITUIRE UN PUNTO DI RIFERIMENTO DI COERENZA E DI CHIAREZZA IN UN SISTEMA ECONOMICO, LEGISLATIVO E AMMINISTRATIVO COMPLESSO
E allora proverei, quest’anno, a individuare un “filo conduttore” di siffatto resoconto, che prende le mosse dalla collocazione del T.A.R. del Lazio e della giustizia amministrativa in generale al crocevia di importanti cambiamenti nel sistema economico, legislativo e amministrativo. Cambiamenti che emergono, in positivo e in negativo, anche da recenti interventi ordinamentali, dalla legge finanziaria alle iniziative in materia di liberalizzazioni e competitività, alle proposte di riforma dell’amministrazione pubblica.
Questi mutamenti palesano un sistema (fisiologicamente, ma talvolta anche patologicamente) complesso, in cui il giudice amministrativo è uno dei protagonisti.
Con le sue pronunce, ma anche con i modi e i tempi del suo processo, può aggiungere ulteriori elementi di complessità; può ridurre la portata innovativa delle riforme, facendo prevalere interpretazioni restrittive o formalistiche; può costituire un fattore di rallentamento, se non di arresto, della crescita. O, al contrario, può apportare un contributo di semplificazione; può favorire l’attuazione e l’accelerazione dei cambiamenti; può indurre, direttamente o indirettamente, ad una loro correzione; può costituire un fattore di sviluppo, di crescita e di “competitività”.
Mai come in questo momento, suonano attualissime le parole del noto giurista (consigliere di Stato e Ministro della giustizia) francese Pierre Paul Nicolas Henrion de Pansey (“De l’autorité judiciaire en France”, 3 éd., 1827) a proposito dei rapporti tra amministrazione e giudice amministrativo: “Juger l’administration, c’est encore une fois administrer”. Vale per i singoli atti amministrativi, ma vale anche per le riforme, per le tendenze evolutive.
Occorre quindi che le nostre decisioni, nel loro insieme, assicurino indirizzi giurisprudenziali univoci; operino una “semplificazione” giurisprudenziale della “complicazione” legislativa; valorizzino il tradizionale ruolo di guida e di impulso del giudice nei confronti di una pubblica amministrazione complessa e in via di modernizzazione.
Occorre che il processo amministrativo offra una tutela rapida e completa, e che a tal fine si investa anche in termini organizzativi e di risorse.

 

II – IL RUOLO DEL T.A.R. DEL LAZIO

 

LE NUOVE COMPETENZE
Anche il “rendiconto” di quest’anno non può non prendere le mosse dalla peculiarità del ruolo del T.A.R. del Lazio nell’ambito del sistema della giustizia amministrativa: tale peculiarità si è ulteriormente accentuata nello scorso anno, sotto due aspetti.
L’art. 3, co. 2 bis, del d.l. n. 245 del 2005, inserito dalla legge di conversione n. 21 del 2006, ha attribuito in via esclusiva, anche per l’emanazione di misure cautelari, al T.A.R. del Lazio la competenza di primo grado a conoscere della legittimità dei provvedimenti di protezione civile in tutte le situazioni di emergenza dichiarate ai sensi dell’art. 5, co. 1, della l. n. 225 del 1992.
Il recente disegno di legge di iniziativa governativa in materia di Autorità indipendenti prevede l’attribuzione al T.A.R. del Lazio della competenza esclusiva a giudicare, anche in fase cautelare, su tutti i loro provvedimenti.
Si tratta di misure che comportano un indubbio aggravio di lavoro e di responsabilità. Un aggravio certo non richiesto ma che risponde ad innegabili esigenze di funzionalità.
Segnalo almeno due profili che fanno emergere la necessità di un “giudice naturale” unico, anche in primo grado, per l’intero territorio nazionale: quello giuridico, relativo all’attività di amministrazione generale e di normazione, e quello economico, relativo alle esigenze del mercato.

LE RAGIONI DELLE NUOVE FUNZIONI - 1) RAGIONI GIURIDICHE: IL GIUDICE NATURALE, IN PRIMO GRADO, DEGLI ATTI GENERALI E “DI REGOLAZIONE” SU TUTTO IL TERRITORIO NAZIONALE
Il T.A.R. del Lazio è, sin dal 1971, competente su tutti gli atti che producono i loro effetti sull’intero territorio nazionale.
È, quindi, il giudice naturale dell’attività cd. “di regolazione”. Rientrano in questa tipologia di provvedimenti svariati atti di natura amministrativa (i cd. atti a efficacia generale) ma anche, per definizione, tutti gli atti di natura normativa.
Questo tradizionale (e ormai ultratrentennale) criterio – squisitamente “giuridico” – di attribuzione di competenze si è arricchito di profili nuovi negli ultimi anni, significativi dell’evoluzione del sistema, specie nel settore delle cd. “Autorità indipendenti”.
Ad esse, infatti (secondo una linea di tendenza inaugurata dal Consiglio di Stato nel parere sul codice delle assicurazioni e confermata dal citato disegno di legge), è ormai riconosciuto un potere normativo autonomo, superando la tradizionale impostazione negativa secondo la quale l’attribuzione di un siffatto potere era configurabile solo a fronte di soggetti dotati di rappresentatività (Parlamento, Governo, Consigli regionali e comunali, etc.).
Si è rilevato come la legge “arretri” dal mercato, affidando alle Autorità, in primo luogo, una competenza regolatoria, la quale ha per scopo la stabilità, la protezione di alcuni diritti e il “livellamento dei campi di gioco” in settori nei quali si registrava, fino a pochi anni or sono, il dominio di monopolisti ed ex monopolisti. Il mercato non rimane, quindi, senza regole, ma la legge lascia spazio a norme secondarie “speciali”, spesso dettate dalle Autorità di regolazione, in un sistema di fonti del diritto in cui il principio “di competenza” prende il posto, sempre più spesso, di quello “di gerarchia”.
In primo grado, il giudice naturale di queste regole non può che essere il T.A.R. del Lazio e le proposte attribuzioni completano in sistema.

SEGUE - 2) RAGIONI ECONOMICHE: IL GIUDICE NATURALE, IN PRIMO GRADO, DEL “MERCATO REGOLATO” E DELLA “NUOVA ECONOMIA”
Oltre alle descritte ragioni di ordine giuridico-sistematico, militano per questo ruolo del T.A.R. del Lazio anche ragioni diverse, “sostanziali”, più sentite dal “mondo reale”, dai cittadini, dalle imprese, dagli operatori economici e sociali, dal mercato.
Con la proposta concentrazione di competenze si conferma e si completa il ruolo del T.A.R. del Lazio quale “giudice del mercato” – come è stato chiamato – con una visione d’insieme su tutti i provvedimenti che riguardano la gestione dell’economia nazionale e le discipline di regolazione e liberalizzazione.
È stato detto che il diritto pubblico dell’economia e il mercato “hanno bisogno di un unico foro”.
Da un lato, si rileva che con sempre maggiore frequenza i soggetti che a vario titolo partecipano al procedimento regolatorio (Authorities e Governo) utilizzano lo stesso strumentario logico-giuridico (come i concetti di “mercato rilevante” e di “potere di mercato”), sicché appare necessario concentrare dinanzi allo stesso giudice le controversie relative alla legittimità di tutti gli atti di regolazione emanati da questi soggetti (organi politici o autorità indipendenti), “per assicurare una maggiore omogeneità nelle modalità di sindacato giurisdizionale”.
D’altro lato – si aggiunge – sia le imprese che i regolatori hanno bisogno di un unico punto di riferimento sin dal primo grado di giudizio, al fine di garantire la certezza del diritto nei tempi brevi imposti dal mercato. Poiché la regolazione incide sui fattori che determinano la convenienza economica degli investimenti e più in generale delle scelte d’impresa, avere un unico giudice significa: per le imprese, poter contare su precedenti giurisprudenziali coerenti, sulla base dei quali modellare la propria condotta; per i regolatori, uniformare i propri interventi a indirizzi interpretativi univoci.

LA RICERCA DI UN DIFFICILE EQUILIBRIO NEL SINDACATO GIURISDIZIONALE SU AUTORITÀ “INDIPENDENTI”
Se, come si è detto, vi sono svariate ragioni che inducono a giustificare il peculiare ruolo del T.A.R. del Lazio nel sindacato sulle Autorità indipendenti, e il suo completamento ad opera dei recenti interventi, va anche detto che tale sindacato è esso stesso peculiare.
Innanzitutto, superando dubbi pure emersi in passato, è ormai certo che si tratta di un sindacato necessario, nonostante la “indipendenza” (che non significa insindacabilità) di queste Autorità. Esse adottano atti amministrativi, non politici. Questa necessarietà è confermata anche dalla proposta governativa di riforma prima richiamata. Anzi, la posizione e la natura delle Authorities, meno legate al potere politico e agli indirizzi del Governo, esaltano, in assenza di altri parametri di riferimento, i poteri e il ruolo stesso del giudice amministrativo.
In secondo luogo, deve essere un sindacato “equilibrato”, ancor più che in altri settori. Si pone infatti il problema – cui avevo già fatto cenno lo scorso anno – di ricercare la giusta misura nel percorrere, con un esame sempre più incisivo, territori prima mai esplorati dai giudici del pubblico potere. La recente evoluzione degli orientamenti in materia di sindacato della cd. discrezionalità tecnica consente di affermare che il giudice può conoscere dei fatti in modo pieno, sì da verificare – avvalendosi, se del caso, del conforto della consulenza tecnica – la logicità, la congruità, la ragionevolezza e l’adeguatezza del provvedimento e della sua motivazione, la regolarità del procedimento e la completezza dell’istruttoria, pur rimanendo nel solco della nostra tradizione giuspubblicistica, posto che la distinzione tra “cognizione piena del fatto” e “potere di determinazione in ordine al fatto” giammai permette all’organo giurisdizionale di esprimere proprie autonome scelte, perché in tal caso assumerebbe egli la titolarità del potere.
Un equilibrio – non una “timidezza”, come pure qualcuno ebbe ad affermare – che eviti due pericoli opposti: quello di un “sindacato debole” che possa agevolare, come è stato detto, “fughe in avanti ad alcune autorità animate talvolta da un eccesso di ‘ardore regolatorio’” ovvero quello di un controllo che sconfini nel merito delle decisioni adottate dalle Autorità, vanificando di fatto l’istituzione di apparati di regolazione ad elevata complessità e profonda competenza tecnica.

III – GIUDICE AMMINISTRATIVO E LEGISLAZIONE




IL GIUDICE AMMINISTRATIVO E LA “CRISI DELLA GENERALITÀ” DELLE REGOLE

Il descritto ruolo del T.A.R. del Lazio come “giudice dell’uniformità giurisprudenziale” di primo grado sugli atti normativi a efficacia generale consente di muovere ad un secondo punto di questa trattazione.
Esso riguarda l’idea stessa della “generalità” delle regole.
Anzi, si potrebbe dire, riguarda l’idea della “crisi della generalità” della legislazione.
Quale è, oggi, il ruolo del giudice amministrativo che, al primo impatto del contenzioso, deve fornire un giudizio su regole “generali e astratte” che sempre più spesso sembrano non possedere tali caratteri?
Quale deve essere l’atteggiamento verso una legislazione dello Stato che sembra aver perso, da tempo, una funzione strategica e di indirizzo, su cui oggi sarebbe invece indispensabile concentrarsi a seguito della riforma del Titolo V?
È stato affermato (Cacciari) che l’attuale società, per sua natura, tende a favorire la domanda di diritti, inflazionandola; in conseguenza, la politica tende a soddisfare questa domanda inflazionando la normativa. La risposta (politica) alla domanda (sociale) di diritti consiste nella produzione di norme occasionale, caotica, sovrabbondante, volta a rispondere alle istanze particolaristiche della domanda sociale.
Se qualcuno avesse ancora dei dubbi, per fugarli basta contare il numero dei commi dell’articolo unico della legge n. 296 del 27 dicembre 2006, la legge finanziaria per il 2007. Sono 1364: un “numero abnorme”, come ha detto il Capo dello Stato, che “rende sempre più difficile il rapporto tra i cittadini e la legge”.
Per non parlare delle cd. leggi-provvedimento che intervengono direttamente su singoli rapporti giuridici, arrivando talvolta a travolgerli nel nome della “sovranità del legislatore”: da quelle che revocano bandi di gara e risolvono rapporti convenzionali in essere (il ricordato d.l. n. 245 del 2005, convertito dalla legge n. 21 del 2006, o il d.l. n. 7 del 2007), ai numerosi esempi di interruzione di rapporti di lavoro dirigenziale o di altre attività continuative che vanno ben al di là del modello anglosassone del cd. spoils system, che pure ha le sue regole “generali e astratte”.
In un saggio recentissimo si parla (Merusi) di “legalità ‘usurpata’ dal legislatore”.

UN’ATTUAZIONE DEI PRINCIPI COSTITUZIONALI ATTENTA ALLE ESIGENZE ATTUALI
Di fronte a questi problemi, sono allo studio dei rimedi, dal ripensamento della legge finanziaria alla cd. delega taglia-leggi all’avvio di una “Unità per la semplificazione”. È il tema della “qualità della regolazione”, la better regulation. Mi auguro che queste iniziative producano qualche risultato, al più presto.
Ma anche noi giudici dobbiamo raccogliere l’autorevole monito del Capo dello Stato e farci carico della questione, nei limiti delle nostre funzioni.
Sono passati ormai cento anni da quando Ermanno U. Kantorowicz, con lo pseudonimo di Gnaeus Flavius (il mitico redattore delle 12 Tavole), si scagliava, con la sua “Lotta per la scienza del diritto” (il manifesto del “diritto libero”), contro il positivismo giuridico – cioè contro le dottrine che identificano il diritto con la legge statale, negando che quest’ultima abbia lacune o non sappia colmarle dentro di sé, con propri rimedi e strumenti – e denunciava l’impotenza del diritto a seguire da presso la concretezza e la singolarità dei casi giudiziari.
Allora, come oggi, ci si chiedeva che fare. Accelerare la produzione di leggi e così aggiungere ulteriori norme speciali ed eccezionali, di contingenza e d’emergenza, ovvero affidare alla dottrina e, soprattutto, alla giurisprudenza, il compito di trarre corollari dalle leggi già poste e, se necessario, di integrarle e completarle dall’esterno?
Per evitare il rischio – che pure è stato profilato – di dover scegliere tra il “volontarismo del legislatore” e il “volontarismo del giudice” senza avere alcun criterio per stabilire la “verità” dell’uno o dell’altro, occorre non perdere di vista i pilastri dello Stato di diritto, che sono anche le fondamenta della nostra Costituzione e che “tuttora ci appaiono ciò che di meglio l’uomo abbia saputo inventare come regola di convivenza”: la divisione dei poteri, il principio di legalità, l’indipendenza dei giudici, etc. (Irti).
Ma, oggi, vista la “crisi di generalità” delle regole, assicurare un rispetto “effettivo” di questi principi fondamentali è particolarmente difficile; richiede equilibrio e saggezza, ma anche fermezza e coraggio. Il giudice deve tener conto dei grandi mutamenti del quadro istituzionale e – ove possibile – deve cercare di adeguare il proprio ruolo.
Questa presa di coscienza assume, a mio avviso, rilievo concreto sotto almeno tre profili: quello della (non voluta) “creatività” del giudice, quello della combinazione della pluralità di livelli di regole, quello della semplificazione interpretativa di una complicazione normativa che pesa sulla competitività del Paese.

SEGUE: 1) LA FUNZIONE “ATTIVA” (SE NON “CREATIVA”) DEL GIUDICE (SOPRATTUTTO DI QUELLO AMMINISTRATIVO) IN UN SISTEMA LACUNOSO E CONTRADDITTORIO
Il giudice è soggetto alla legge, e soltanto ad essa. Lo dice la Costituzione; lo ribadiamo fortemente.
Ma deve anche operare delle scelte. Il giudice, in un sistema di civil law come il nostro, non è “creatore” delle regole, ma talvolta è costretto a divenirlo, anche contro la sua volontà.
Perché, nell’applicare la legge, deve colmare lacune, risolvere antinomie, sciogliere ambiguità, applicare a casi concreti leggi che contengono enunciazioni programmatiche, far funzionare nella vita reale affermazioni normative adottate talvolta nel contesto di un dibattito politico o mediatico.
Insomma, deve trasformare una “disposizione sulla carta” in una “norma”, in precetto giuridico. Che è un modo, forse uno dei modi principali, per “avvicinare” la legge al cittadino.
Il problema non è solo italiano, o dei sistemi con “Corti amministrative”, ma avvertito anche in altri Paesi. Il giudice della Corte Suprema degli Stati Uniti Stephen Breyer, nella relazione ad un convegno su “effettività ed efficacia del sistema di giustizia” svoltosi a Venezia nel novembre scorso, ha affermato che “when the text is clear, you follow the text; but when the text is not clear – and the text is never clear in a serious case – then you look for the values, the purposes that underline the text. Well, those purposes are very important in the administrative law area” (“se il testo [del dettato normativo] è chiaro, si segua il testo; ma se il testo non è chiaro – e il testo non è mai chiaro in una causa importante – allora si guardi ai valori, ai principi che lo sottendono. Bene, questi principi sono molto importanti nel settore del diritto amministrativo”).
La differenza rispetto al modello ottocentesco mi sembra sostanziale, se si pensa che Napoleone aveva ripreso l’idea di “codice” con l’intento opposto, introducendo regole chiare e certe, “che si potevano solo applicare o violare”, per trasformare i Tribunali, da creatori di un ordinamento sino ad allora formato soltanto da editti sparsi, in mere bouches de la loi.
Ma allora, in un sistema normativo particolarmente complesso come il nostro, il ruolo “sistematico” delle Corti, soprattutto di quelle amministrative, si enfatizza ancorché sminuirsi. Anche se le loro decisioni non sono “vincolanti” come nei sistemi anglosassoni.
Questo ruolo è ancora più evidente in relazione alla normativa secondaria, che come è noto è cospicuamente aumentata negli anni ’90 a causa di una massiccia “delegificazione” (il processo si è parzialmente invertito a seguito della riforma del Titolo V). Il sindacato su tale normativa (ma anche su quella delle Autorità indipendenti e degli Organi di autogoverno) appartiene alla giurisdizione generale di legittimità del giudice amministrativo, che la esamina con criteri e argomentazioni in parte non dissimili da quelli utilizzati dalla Corte costituzionale per le fonti di livello primario (si pensi alla disparità di trattamento o alla irragionevolezza).
In un mondo pieno di contaminazioni culturali, vengono meno anche i luoghi comuni che disegnano gli ordinamenti di common law come ordinamenti “a diritto non codificato” con un “giudice forte” e gli ordinamenti di civil law come ordinamenti “a diritto codificato” con un “giudice debole”.
D’altro canto vi è, a mio avviso, un esempio molto illustre di “giudice creativo” in un ordinamento “a diritto scritto”: quello della Corte di giustizia delle Comunità Europee, che ha trasformato una serie di norme disorganiche, spesso nate sulla fragile base del compromesso diplomatico e politico internazionale, in un sistema giuridico: il “diritto dell’Unione Europea”.

SEGUE: 2) UN GIUDICE AMMINISTRATIVO UNICO PER UN DESTINATARIO UNICO DI PIÙ “LIVELLI DI REGOLE”
Il ruolo “attivo” (se non “creativo”) del giudice di oggi non dipende soltanto dalla quantità e dalla cattiva qualità delle disposizioni da applicare. Dipende anche da fattori propri di un sistema “aperto”, pluralista, rispettoso delle autonomie locali e parte dell’ordinamento europeo.
Alcuni recenti pareri della Sezione normativa del Consiglio di Stato sui “codici di settore” hanno parlato di “policentrismo normativo” come aspetto della più generale multilevel governance: le regole non provengono più solo dal Parlamento e dal Governo statali, ma anche dall’Europa, dalle Regioni, dalle Province, dai Comuni, dalle Autorità indipendenti, dagli Organi di autogoverno delle Magistrature, etc. .
Il giudice amministrativo garantisce la corretta applicazione sia del diritto comunitario (e, in prospettiva, del diritto europeo) che del diritto regionale, nonché dei diritti “speciali” dei nuovi soggetti con poteri normativi.
Il nostro ruolo di interlocuzione con la Corte di giustizia è ben noto, e ciò accade sempre più spesso anche come giudici di primo grado, pur in mancanza dell’obbligatorietà del rinvio pregiudiziale interpretativo ai sensi dell’art. 234 (ex art. 177), ultimo comma, del Trattato CE.
Ugualmente noto è il nostro ruolo nei confronti delle normative regionali. In Italia queste regole, pur se di “livelli diversi”, non vengono applicate da giudici appartenenti a “circuiti diversi”, come accade negli stati federali, ma vi è un giudice unico per tutto il territorio nazionale. Ciò vale anche per il giudice amministrativo, del quale la riforma del Titolo V ha preservato la statalità e la unicità, pur se egli resta diffuso sul territorio e vicino ai cittadini di ogni Regione. La scelta è stata, a mio avviso, consapevole e saggia.
Ancora più marcato è il ruolo nei confronti dei regolamenti emanati dalle Autorità indipendenti e dagli Organi di autogoverno, su cui vi è un sindacato diretto del giudice amministrativo, analogo a quello sui regolamenti statali, che ho menzionato poco fa, con poteri di vero e proprio “giudice delle norme”.
In Italia, quindi, vi è solo un riparto verticale con il giudice ordinario, ma non vi sono diversi livelli orizzontali: la nostra giurisdizione è generale e piena. È quindi il giudice che deve combinare, nel suo ambito di giurisdizione, tutti i livelli di regole che ricadono su un unico destinatario: il singolo cittadino, la singola impresa, la società civile.

SEGUE: 3) QUALITÀ DELLE REGOLE E “COMPETITIVITÀ” DEL PAESE, IN UN’OTTICA MULTIDISCIPLINARE: …
Il terzo profilo fuoriesce dal mondo del diritto.
Perché le regole “costano”, soprattutto quelle di cattiva qualità e quelle particolarmente complesse. Esse incidono sullo sviluppo e sulla competitività del Paese.
Il tema è molto avvertito in Europa: la presidenza tedesca di turno sta insistendo molto sul tema della better regulation (vi è un programma di riduzione del 25% degli attuali oneri amministrativi derivanti dalle norme comunitarie).
Ma vale anche per gli Stati Membri: in Olanda, oltre il 50% degli oneri burocratici viene dall’Europa e quindi meno della metà deriva da oneri nazionali. Da noi questa misurazione non è stata ancora fatta, ma non oso immaginare il risultato a carico delle norme nazionali …
Tutto ciò dimostra che la “dimensione giuridica” non è più sufficiente per la produzione e l’applicazione delle norme. Occorre che i giuristi lavorino insieme con chi “misura” l’impatto delle leggi anche sulla vita reale, oltre che sul contesto normativo: occorre interagire con economisti, statistici, etc. .

… IMPORTANZA DELLA GIURISPRUDENZA COME FATTORE DI INNOVAZIONE, SEMPLIFICAZIONE E “SVILUPPO” DEL SISTEMA
Anche a questo riguardo il giudice può dare un suo contributo: acquisendo consapevolezza dell’impatto, anche economico, della sua funzione; fornendo, ove possibile, l’interpretazione più semplice a regole onerose; favorendo “la certezza del diritto nell’età dell’incertezza” (Alpa).
Perché il servizio-giustizia, soprattutto di quella amministrativa, se ben organizzato, può avere un ruolo di “semplificazione” interpretativa della “complicazione” del quadro normativo in un sistema multilivello, su cui incidono anche i processi di globalizzazione, che possono trovare un correttivo proprio nelle garanzie offerte dal giudice.
Il rendere più chiara e più semplice una disciplina talvolta frammentaria e confusa segna una nuova tappa della funzione di garanzia: in un tempo di regole complesse, la garanzia diventa garanzia della semplificazione delle regole, perché questa semplificazione è essenziale per la realizzazione dei diritti di cittadinanza sociale e di libertà, anche economica.
Ciò richiede, da un lato, uno sforzo costante per una giurisprudenza “moderna”, al passo con i tempi, anche a costo di ribaltare indirizzi consolidati (e quindi più comodi da seguire) ma ormai obsoleti, per andare incontro alle esigenze dei cittadini, delle imprese, della società, dell’economia, dello sviluppo, interpretando ove possibile in modo nuovo le regole che non sono ancora riuscite a “mettersi al passo”.
Dall’altro, richiede che la libertà piena di ogni giudice (in ogni sede, in ogni grado, in ogni collegio) si concilî, attraverso opportune modalità processuali e organizzative, con l’esigenza di “chiarezza” e di “coerenza” degli indirizzi della giurisprudenza. Questa si persegue valorizzando il ruolo della “nomofilachia” (nel suo significato letterale di “garanzia dell’uniforme applicazione della legge”) sin dal primo grado (specie per l’impatto del cautelare).
Una nomofilachia non rigida, non immutabile, che si arricchisce del contributo, anche innovativo, e della maggiore libertà della giurisprudenza dei Tribunali Amministrativi nell’individuare soluzioni originali, anche se essa va temperata dalla cautela nell’evitare pericolose fughe in avanti.
Peraltro, non si verifica nel nostro sistema la situazione per cui a un primo giudice tendenzialmente “progressista” si contrappone un giudice di ultima istanza “conservatore”, essendo ciò smentito proprio dalla circostanza che il Consiglio di Stato, sulla base della sua lunga e prestigiosa tradizione (ma anche di una spinta innovativa sempre dimostrata), ha spesso compiuto il passo decisivo verso un ampliamento delle ordinarie forme di tutela giurisdizionale.
Si può perciò affermare che il dialogo tra organi giudicanti di ordine diverso risulta, in Italia, particolarmente felice: anche per questo, al di là di divergenze fisiologiche nella dialettica istituzionale, il giudice amministrativo complessivamente considerato ha meritato e continua a meritare il rispetto e la piena fiducia della collettività.
Tale dialogo deve avere a cuore non soltanto la coerenza degli indirizzi tra TAR e Consiglio di Stato, ma soprattutto l’importanza che l’uniforme applicazione della legge – sin dal primo grado – riveste per il mondo reale. Al di là del problema giuridico; al di là del caso concreto.


IV – GIUDICE AMMINISTRATIVO E PUBBLICA AMMINISTRAZIONE

 

IL RUOLO DEL GIUDICE AMMINISTRATIVO DI “INDIRIZZO” DI UN’AMMINISTRAZIONE COMPLESSA;
La estrema complessità del contesto legislativo si riflette su quello amministrativo.
Con due ulteriori fattori di “complicazione”: uno fisiologico nelle democrazie moderne, l’altro patologico e specifico della situazione italiana.
Il primo fattore è la “dimensione multilivello” degli interessi pubblici, cui si accompagna la frammentazione (e spesso la contrapposizione) degli interessi pubblici anche all’interno dello stesso livello (statale o regionale): non vi è più “l’interesse pubblico”, ma diversi interessi pubblici, tutti meritevoli di tutela, in una relazione non di gerarchia ma di equiordinazione e, talvolta, in contrasto tra loro (ad es., ambiente, sviluppo economico, occupazione). In questo contesto, occorrerebbe una amministrazione capace di selezionare e ponderare i diversi interessi che emergono nel corso del procedimento per identificare quelli capaci di divenire generali.
Vi è invece – e questo è il secondo fattore – la condizione in cui versa la pubblica amministrazione italiana, soprattutto dal punto di vista culturale (cultura delle forme e non dei risultati, cultura della prudenza e non della produttività, cultura dell’interesse di settore e non del servizio pubblico).
In questo contesto così articolato, la sola soluzione del caso concreto può non essere sufficiente a evitare che il problema si riproponga, più e più volte. A detrimento della credibilità e della tenuta del sistema.
Anche in tale ipotesi, seguendo il filo conduttore indicato all’inizio, parte essenziale del “servizio giustizia” è non soltanto la decisione della singola controversia ma la coerenza e la chiarezza degli indirizzi.
Il giudice amministrativo – ovviamente nei limiti dei suoi poteri – deve allora farsi “monitore” verso la pubblica amministrazione, nel senso che la deve “ammonire”, orientare per i molteplici aspetti dell’esercizio del potere pubblico, non solo badando alla soddisfazione concreta delle esigenze delle parti ma avendo anche riguardo alla coerenza delle sue pronunce, per evitare di “confondere” invece che di “ammonire”.
Si tratta, d’altra parte, di una funzione non estranea alla tradizione della giustizia amministrativa, ed anzi ben conosciuta dagli studiosi e dagli stessi operatori. È noto, infatti, che al giudicato amministrativo è attribuito non soltanto un effetto meramente caducatorio o annullatorio, ma anche un effetto conformativo, volto cioè a dare indicazioni e prescrizioni per la riedizione del potere amministrativo necessaria per dare, in concreto, soddisfazione all’interesse azionato dal ricorrente. Ora, tale effetto conformativo ha, per così dire, una naturale attitudine a diventare “direttivo”, a porsi cioè come regola generale per i casi futuri, nei quali, in situazioni analoghe, il potere amministrativo dovrà essere esercitato.
È quindi evidente il compito – o meglio il fine – della giustizia nei riguardi della pubblica amministrazione: la tutela del singolo cittadino ma, al contempo, la garanzia del corretto funzionamento dell’amministrazione, nel suo interesse, anche quando le viene “dato torto”: perché la rimozione di un atto illegittimo deve aiutare a rendere legittimi gli analoghi atti successivi.

… UN “INDIRIZZO” NON SOLO FORMALE MA SOPRATTUTTO SOSTANZIALE
Questo compito “di indirizzo” richiede che si presti attenzione non solo alla correttezza formale, all’astratta rispondenza al parametro normativo, ma soprattutto alla concreta capacità dell’attività amministrativa di perseguire l’interesse pubblico con efficienza e trasparenza.
Il giudice amministrativo deve intendere il suo “sindacato sulla discrezionalità” in senso moderno e “sostanzialistico”. Occorre stare al passo con i tempi, anche se i tempi accelerano il passo.
Occorre essere consapevoli, quando si esamina l’esercizio della discrezionalità, che nelle democrazie moderne i cittadini non si accontentano più di atti formalmente ossequiosi di leggi e regolamenti, ma si chiedono se essi sono davvero “utili”, rispondenti allo scopo o se invece impongono oneri burocratici non necessari: si giunge in tal modo alla prevalenza della legalità sostanziale su quella formale.
A questo deve conformarsi la discrezionalità di un’amministrazione moderna.
A questo la deve indirizzare il sindacato di un giudice amministrativo moderno.

QUALITÀ DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE E COMPETITIVITÀ DEL PAESE: …
Un siffatto modo di realizzare la garanzia giurisdizionale nei confronti del potere pubblico appare in sintonia con il ruolo che l’amministrazione deve svolgere nel Paese e nel sistema economico.
Il Ministro per le riforme e le innovazioni nella pubblica amministrazione ha di recente affermato che “la competitività del Paese è strettamente legata alla qualità dell’amministrazione, da cui dipende la qualità dell’attuazione delle politiche pubbliche e la qualità dei servizi resi ai cittadini e alle imprese”. Per rispondere a tali esigenze nella complessa macchina pubblica occorre agire congiuntamente sull’innovazione amministrativa, sull’innovazione tecnologica e sulla valorizzazione delle risorse umane.
In quest’ottica, si guarda con grande interesse e aspettativa alle proposte del d.d.l. Nicolais (presentato alle Camere il 18 gennaio scorso) sui tempi del procedimento e sul danno per il ritardo (dove la nostra giurisprudenza – Ad. Plen. n. 7/05 – è forse un po’ troppo restrittiva), alle iniziative dell’ultimo “pacchetto liberalizzazioni” volte a migliorare e a diffondere la cultura di sportelli unici e conferenze di servizi, per rendere contestuale l’esame di molteplici interessi pubblici relativi ad una singola fattispecie.
Soprattutto, è oltremodo positivo che il Governo lavori sulla meritocrazia, sulla qualità e sulla cultura dei risultati: dall’accordo con i sindacati sul nuovo contratto collettivo giunge un segnale molto incoraggiante (che forse dovremmo seguire – mutatis mutandis – anche per il personale di magistratura).

… IMPORTANZA DI UNA GIURISPRUDENZA INNOVATIVA, CHE SUPERI LE RESISTENZE IN SEDE ATTUATIVA DELLE RIFORME
Ma – aggiungo – anche il giudice amministrativo può e deve fare la sua parte.
Perché è il giudice delle pubbliche amministrazioni, che sono destinatarie e interpreti delle riforme e che possono determinarne, nella fase attuativa, il successo o il fallimento.
La “cultura dei destinatari” delle riforme, della loro fattibilità, è ancora agli albori qui da noi, a differenza che nei Paesi anglosassoni, dove si dà importanza alla cd. compliance analysis, l’“analisi dell’obbedienza” ad una legge, la misurazione del “tasso di attuazione e di rispetto” di una disciplina.
L’importanza di destinatari – pubblici o privati – “recettivi” alle innovazioni è, invece, a mio avviso fondamentale. Un Ministro della funzione pubblica, prendendo ad esempio l’istituzione della sezione normativa del Consiglio di Stato, ha affermato che erano stati sufficienti due commi per riformare le sue funzioni consultive, perché in quel caso si era trovato un destinatario recettivo, che aveva compreso l’innovazione e saputo metterla in pratica. Troppe leggi restano invece inattuate per inerzia, o incapacità, di coloro che sono tenuti ad applicarle o a farle applicare.
Anche qui il giudice amministrativo può essere di ausilio, perché, nel suo ruolo di indirizzo, può far funzionare meglio la pubblica amministrazione e può quindi contribuire a rendere l’economia più competitiva.
Per quanto di nostra competenza, forniremo – fin dalla fase cautelare – tutto il contributo possibile per favorire queste scelte coraggiose e per evitare inerzie o possibili “fughe all’indietro” di amministrazioni o di singoli amministratori restii al cambiamento.
Lo si è fatto già per la prima “rivoluzione sostanziale” del diritto amministrativo, la legge n. 241/90 (la prima “rivoluzione processuale” è stata la legge sui T.A.R. del 1971). Molti studiosi affermano che senza la coraggiosa giurisprudenza amministrativa – cui si aggiunse una serie di importanti pareri del Consiglio di Stato in sede consultiva e “di indirizzo” – dei primi anni ’90, la legge n. 241 sarebbe restata in gran parte lettera morta nella prassi amministrativa (si pensi all’avviso di avvio del procedimento o al diritto di accesso).
Siamo pronti a farlo di nuovo.

V – GIUDICE AMMINISTRATIVO E PROCESSO


Si può ora passare – seguendo lo stesso “filo conduttore” – dal ruolo dei contenuti delle nostre pronunce a quello del processo.
Come ho detto all’inizio, un “servizio-giustizia” coerente e chiaro richiede anche un processo efficiente e una tutela completa e “piena”.
Il nostro processo ha visto attuarsi un rafforzamento senza precedenti della posizione dell’interesse legittimo, passando dalla tutela di annullamento (che pure richiudeva in sé le altre forme di tutela meno radicali) alla tutela risarcitoria, che incide sull’intero assetto dei rapporti tra cittadino e pubblica amministrazione.
Vorrei prendere le mosse da questo tema – tutela risarcitoria e riparto – per poi affrontare altre questioni di interesse per gli “utenti” del nostro servizio: la previsione della translatio iudicii, l’estensibilità della tutela cautelare ante causam, i pregi dell’attuale processo cautelare, i rimedi alternativi alla giurisdizione (le cd. ADR).

I PREGI DI UNA “LETTURA UNIFICANTE” DELLE NORME COSTITUZIONALI SULLA GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA
Una lettura moderna e “unificante” delle norme costituzionali sulla giustizia amministrativa (Pajno) consente di individuare nell’art. 24 Cost., come parte integrante del diritto alla tutela giurisdizionale, anche il diritto alla sua concentrazione.
Tale lettura, coerente con il nuovo art. 111 Cost. e con il principio della ragionevole durata del processo, configura un sistema volto ad assicurare una tutela tempestiva, piena e completa a tutte le situazioni soggettive vantate dal cittadino nei confronti dei poteri pubblici.
La stessa lettura induce a ritenere che l’art. 103 Cost. sancisca la differenza fra i diversi ambiti di tutela giurisdizionale tra giudice ordinario e giudice amministrativo e la indifferenza fra le tecniche di tutela necessarie a tal fine, la cui identificazione è rimessa alla discrezionalità del legislatore.
In quest’ottica, l’art. 113, terzo comma, Cost., attribuendo alla legge – e soltanto ad essa – l’indicazione del giudice dotato del potere di annullamento dell’atto, evidenzia che non esiste un monopolio, da parte dei diversi giudici, delle varie tecniche di tutela giurisdizionale adoperate.
Ne consegue che non esistono effetti tipici o “necessari” dell’annullamento, potendo essere modellati, al di là della mera caducazione, dal legislatore (anche con la configurazione di poteri sostitutivi o risarcitori) a seconda delle esigenze delle varie fattispecie.

LE RECENTI DECISIONI DELLA CORTE REGOLATRICE DELLA GIURISDIZIONE: L’IMPORTANZA DEL METODO E DEI VALORI ENUNCIATI
Di questa “lettura unificante” sembra aver preso atto la Cassazione con le tre note ordinanze del giugno scorso in materia di riparto di giurisdizione sulla tutela risarcitoria per lesione degli interessi legittimi.
Con tali pronunce, la suprema Corte – seguendo la strada tracciata dalla Consulta con le sentenze n. 204 del 2004 e n. 191 del 2006 – ha propiziato un chiarimento importante sul punto.
È questo il problema oggi forse più rilevante per i giudici amministrativi. Ne ha già parlato, pochi giorni fa, il presidente Schinaia: condivido pienamente le sue parole di “attento ottimismo”. Bene ha fatto il Presidente del Consiglio di Stato a indicare le prospettive di un necessario approfondimento, per il quale ci sentiamo tutti impegnati.
Così come andrebbe accolta con favore una presa di posizione del legislatore.
Io qui voglio soltanto accennare a due aspetti, per così dire, collaterali ma pregiudiziali: uno di metodo e l’altro di principio, di scelta di valori, di priorità di lavoro.
Quanto al primo aspetto, le sentenze muovono da lontano, operano una dettagliata ricostruzione delle questioni, con attenti e precisi richiami al passato, anche remoto. Danno conto di tutte le esigenze, di tutte le ragioni, di tutte le posizioni, anche di quelle più estreme – da una parte e dall’altra – e non condivisibili, ma dalle quali si può comunque imparare qualcosa.
Quando si tratta di operare una svolta storica, di tracciare un indirizzo giurisprudenziale che deve durare negli anni, è bene fare così; e alla Cassazione deve andare la nostra considerazione in primo luogo per il metodo seguito, per l’attenzione dimostrata, per gli approfondimenti sistematici effettuati, per i rapporti tra diverse giurisdizioni di recente ripresi e portati a frutto.
In particolare, con queste pronunce si compie un passo avanti importante in quell’opera di “dialogo” costruttivo tra noi e la Magistratura ordinaria (il giudice finale della giurisdizione) che – come ho già sostenuto – avrebbe potuto stemperare molti dei contrasti che avevano portato ad adire la Corte costituzionale e, comunque, contribuire ad attuare uniformemente i suoi dicta interpretativi.
Quanto al secondo aspetto, oltre al metodo usato ciò che mi colpisce di più di queste pronunce è la “scelta delle priorità”. È il fatto che, prima ancora delle questioni del riparto, si mette al centro di tutto la tutela del cittadino.
Ci si attendeva (da più parti si temeva) una pronuncia sul riparto. Una pronuncia che dicesse “che cosa è mio e che cosa è tuo”. Sono giunte decisioni che – pur facendo indubbiamente chiarezza su molti profili controversi sul riparto tra giurisdizioni – considerano tale questione come secondaria rispetto alla tutela del cittadino.
Sono giunte delle decisioni di un giudice civile che nega, di fatto, la propria giurisdizione in molti casi, in nome del principio (con base costituzionale) di concentrazione e di celerità della tutela dinanzi al giudice amministrativo.
Ma che la riafferma, sempre in nome della difesa del cittadino, sulla base di una “norma di chiusura” – l’art. 2 della legge 20 marzo 1865, n. 2248, all. E, reinterpretato e “modernizzato” alla luce della “lettura unificante” degli articoli 24 e 113 della Costituzione sopra accennata – che attribuisce al giudice ordinario il potere-dovere di assicurare la pienezza della tutela, quando la giurisdizione competente non riesca a concedere una tutela piena (anche sul piano risarcitorio) all’interesse legittimo.

IN FAVORE DELLA TRANSLATIO IUDICII
Questo tipo di “lettura unificante” delle norme costituzionali sulla giustizia amministrativa consente una rappresentazione meno “separata” e “divisa” del sistema di tutela giurisdizionale nei confronti della pubblica amministrazione.
Ma, allora, il fatto che la Cassazione, anche superando contrasti interni e precedenti recenti, abbia riaffermato la centralità del criterio di riparto per situazioni soggettive ed escluso ipotesi di “doppio binario” non può risolversi nella perdita o nella messa in pericolo di quelle esigenze di concentrazione della tutela giurisdizionale che sono direttamente connesse agli artt. 24, 111 e 113 Cost. .
In questa prospettiva, va salutato con favore il superamento, con una recente sentenza delle Sezioni Unite (22 febbraio 2007, n. 4109) del principio che sinora ha escluso la translatio iudicii per le questioni di giurisdizione. Si consente, così, la prosecuzione del giudizio dinanzi al giudice dotato del potere di decidere la controversia.
Anche questo costituisce un modo di evitare la dispersione del potere giurisdizionale, ponendo come esigenza primaria la tutela rapida ed effettiva del cittadino, al di là delle ripartizioni formali, che devono essere utili solo per fare chiarezza, non per ritardare la tutela.

LA TUTELA ANTE CAUSAM
Un’altra innovazione “forte” – che per la verità non viene dal legislatore nazionale ma dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia delle Comunità Europee – è quella della tutela cautelare ante causam.
Si tratta di un problema con il quale stiamo imparando a fare i conti a partire dalla sua introduzione nel recente codice dei contratti pubblici (d.lgs. n. 163 del 12 aprile 2006).
Si tratta, come ho detto, di una tutela imposta dall’Europa per il solo settore degli appalti, ma occorrerà considerare la sua estensione generalizzata.
Di ciò facciamo espressa richiesta al legislatore, perché non si può consentire di conservare un rito speciale, una “tutela rafforzata” – soprattutto nella fase forse più sensibile, quella cautelare – soltanto per limitate materie come i contratti pubblici.

LA TUTELA CAUTELARE E I SUOI TEMPI
Sui “tempi rapidissimi” della nostra tutela cautelare, consentitemi una ulteriore considerazione, che ribadisce quanto avevo già detto l’anno scorso.
Anche se due ricorsi su tre contengono un’istanza cautelare (il che sconfina nel patologico: a fronte di oltre 12.000 ricorsi proposti, le istanze cautelari sono più di 8.000), noi siamo in grado di decidere praticamente in tempo reale le sospensive ordinarie, non soltanto nei casi più urgenti o rilevanti ma per tutti.
Le richieste di tutela cautelare provvisoria vengono sempre decise ad horas (compresa quella di due giorni fa sui compensi al festival di Sanremo).
Le istanze ordinarie sono decise comunque ad dies, poiché sono portate di regola alla prima camera di consiglio successiva al deposito del ricorso. Quando necessario, sono anche fissate camere di consiglio straordinarie.
Alla luce di questi dati di fatto, che avevo enunciato sin dallo scorso anno, non può non sorprendere l’accusa di rapidità “eccessiva” che talvolta ci è stata mossa. Siamo pronti a subire tutti gli attacchi, a fare tesoro delle critiche, che però non accettiamo quando dimostriamo rapidità ed efficienza per tutti.
Va infatti considerato che una tutela cautelare “sana”, che sia attenta agli indirizzi più radicati della giurisprudenza e soprattutto si muova in coerenza con essi, può fornire una anticipazione ragionevole degli effetti del processo e una tutela a volte pienamente satisfattoria in tempi rapidissimi.

I RIMEDI ALTERNATIVI ALLA GIURISDIZIONE
Un aspetto virtuoso del servizio giustizia che, invece, nel nostro Paese stenta a mettere radici è quello dei rimedi alternativi alla giurisdizione, fra cui le cd. Alternative Dispute Resolutions (ADR), su cui oggi l’Unione Europea insiste molto.
Si tratta di esperienze che – per ragioni spesso differenti tra loro e tra i vari Paesi – vedono tutte la presenza, accanto a forme di tutela caratterizzate dall’intervento del giudice, di riti alternativi e di tecniche di risoluzione stragiudiziale delle controversie.
L’idea di fondo è che la giurisdizione va considerata come una vera e propria “risorsa”; come tale, non illimitata, ma da riservare alle questioni che non possono essere risolte efficacemente, celermente e più economicamente con altri rimedi. Pertanto, nell’interesse del cittadino, occorre introdurre rimedi di tutela che ne assicurino la soddisfazione “a prescindere dall’intervento del giudice”.
L’Unione Europea sta incoraggiando il ricorso a siffatti rimedi. Tra le ragioni del successo che queste iniziative stanno riscuotendo negli altri ordinamenti vi sono la tempestiva risoluzione delle controversie, l’opportunità di una risoluzione elastica e nel dominio delle parti, con la ricerca di soluzioni improntate all’equità in senso lato, la specializzazione del soggetto chiamato a dirimere le controversie o l’utilizzazione di esperti per sciogliere nodi di natura tecnica, l’esigenza, infine, di deflazionare il carico del contenzioso attribuito ad un giudice sempre più spesso chiamato in causa dai cittadini.
Nel nostro ordinamento, tali rimedi non mancano, almeno sulla carta.
E non mi riferisco soltanto alla giustizia arbitrale, ma soprattutto a quei rimedi “generali” e di ampia accessibilità che erano stati inseriti, con molte speranze, in un’amministrazione diversa da quella di oggi, e che andrebbero ripresi e adeguati: i ricorsi gerarchici. Non tanto quelli propri – ormai superati insieme con il modello “piramidale” di amministrazione per il quale erano sorti – bensì quelli cd. impropri.
Ma, soprattutto, occorre guardare al ricorso straordinario al Capo dello Stato, che la legge stessa considera come “rimedio alternativo” e che presenta il valore aggiunto dell’economicità e dell’unicità del grado di giudizio.
Vanno poi ricordati i rimedi fondati sulla “specialità”, che pure esistono nel nostro sistema e che dovrebbero essere valorizzati: dai ricorsi al difensore civico a quelli alla Commissione per l’accesso, ai ricorsi interni alle Autorità indipendenti.
Per tutti questi (con la sola eccezione del ricorso straordinario, che viene già deciso, con la terzietà propria del giudice, dal Consiglio di Stato) vi è bisogno principalmente di un elemento, senza il quale sembra difficile ripetere il successo delle ADR negli altri Paesi: una maggiore terzietà rispetto alle amministrazioni interessate, per incoraggiare il cittadino che oggi, invece, si vede quasi sempre confermare la scelta negativa dell’ufficio competente, “tanto poi si può andare al T.A.R. …”.
Più serietà e più fiducia nel rimedio, a cominciare dai soggetti tenuti a gestirlo.
Con una cautela: i rimedi alternativi sono preferibili ai riti speciali. Creare, dinanzi allo stesso giudice che dovrebbe comunque decidere, procedure “disegnate” sulla materia della lite può, se si eccede, condurre a rallentamenti della definizione delle cause da parte del medesimo giudice. Prevedere diciassette riti diversi dinanzi al giudice civile che resta sempre lo stesso mi sembra, francamente, un paradosso. Per ciò che riguarda noi, a parte i riti “accelerati” ex art. 23-bis della legge n. 1034 del 1971, abbiamo solo pochi riti speciali, soprattutto in materia di silenzio e di accesso: la nostra giurisprudenza ha cercato di aumentarne l’integrazione con il rito principale, e il legislatore ha dimostrato di adeguarsi prontamente.
Tornando alle ADR in senso proprio, si ribadisce la necessità di un investimento serio su di loro, accompagnato da misure che rafforzino la terzietà dei rimedi e da iniziative di formazione dei loro responsabili.
Questo – non costoso – investimento potrebbe condurre a risultati rilevanti per la nostra giustizia, amministrativa e non.
Noi non ci sentiremo “svalutati” se si rafforzeranno le alternative al nostro lavoro. Anzi, ci sentiremo trattati come una risorsa preziosa, non illimitata e da preservare.


VI – I PROBLEMI DI SEMPRE: INNANZITUTTO, I TEMPI

 

IL PROBLEMA DEI TEMPI IN GENERALE
Passo ora ai problemi della nostra giustizia. I principali sono. Ancora una volta, quello dei tempi e quello delle risorse.
Su questi temi si rischia davvero di essere ripetitivi, ma non posso evitare di parlarne.
Comincio dal primo.
Il problema non è certo soltanto italiano, se la candidata alla Presidenza della Repubblica d’oltralpe, Ségolène Royal, ha di recente elogiato, di ritorno da un suo viaggio in Cina, i tempi della giustizia cinese, ritenuta più rapida di quella francese per i suoi “méthodes expéditives”.
Ma, se Parigi piange, l’Italia certo non ride!
Già l’anno scorso richiamavo un rapporto della Banca Mondiale (Doing business 2004, WB 2004, che compara 145 diversi Paesi), secondo cui uno dei principali freni allo sviluppo produttivo dell’Italia è dato dalla lentezza dei processi, che produce incertezza negli scambi e scoraggiamento negli investitori.
Questo – si osservava – è particolarmente vero per il giudice amministrativo perché, come detto prima, anche noi siamo un fattore di competitività del sistema-Paese.
I tempi della nostra giustizia sono certamente meno drammatici di quella ordinaria.
Il rito accelerato introdotto dalla legge n. 205 del 2000 per alcune controversie (dagli appalti ai provvedimenti delle Autorità indipendenti, dalle privatizzazioni ai provvedimenti di nomina adottati dal Consiglio dei Ministri) dimostra di funzionare bene: di regola, è sufficiente qualche mese per giungere alla decisione di primo grado.
Il contenzioso ordinario segna il passo, ma funzionerebbe anch’esso bene, con il nuovo regime processuale, se non vi fosse l’ingente arretrato creatosi prima della riforma. I dati confermano che la produttività aumenta, a carico delle limitate (e sempre decrescenti) risorse esistenti.
Ma i nostri sforzi, comunque, non bastano di fronte agli oltre 160.000 ricorsi pendenti dinanzi a questo TAR e alla possibilità di definirne, in tutto, poco meno di 16.000 l’anno (di cui oltre l’80% è “azzerato” dai ricorsi in arrivo).
Come ho già detto l’anno scorso, non si può pensare seriamente di smaltire questo arretrato con misure ordinarie. Si può discutere sulle modalità, si può ragionare sulla necessità di istituire sezioni-stralcio o rinvenire altri rimedi. Occorre anche tenere ben presente che in molti casi si tratta di un arretrato “apparente”, meramente cartaceo, costituito da ricorsi per i quali le parti hanno perso ogni interesse a seguito della successiva attività dell’amministrazione o per il semplice decorso del tempo.
Ed è un peccato, poiché la legge n. 205, a regime, potrebbe consentire finalmente un funzionamento efficiente dell’intero sistema-giustizia amministrativa.
È quindi importante farsi carico del problema, perché questo peso può minare seriamente la credibilità della giustizia amministrativa e, più in generale, quella del Paese.
Per evitare di essere esclusivamente ripetitivo su un problema che, purtroppo, si ripresenta tutti gli anni, provo a fornire due ulteriori elementi di riflessione.

LA “CULTURA” DEI TEMPI
Il primo spunto può apparire un po’ troppo “in prospettiva” ma occorre comunque, a mio avviso, metterlo in campo adesso.
Il problema dei tempi del processo amministrativo è connesso – a differenza di quanto accade per la giustizia ordinaria – con il problema dei tempi della pubblica amministrazione .
Ed è un problema culturale, oltre che funzionale.
La dimensione-tempo riassume, come ha affermato di recente il Ministro Amato, tutte le disfunzioni della pubblica amministrazione.
Occorre, quindi, chiedersi se si possa rimediare a tali disfunzioni semplicemente “tagliando” le procedure, imponendo all’amministrazione una scelta in tempi brevi, qualunque essa sia.
Ho molti dubbi a dare una risposta positiva, pur se essa può essere suggestiva.
L’amministrazione, come il giudice, ha bisogno di tempo per operare scelte credibili, almeno nei settori di maggiore delicatezza.
Ha bisogno di tempo, e non di fretta, per vagliare i diversi interessi pubblici che sottendono ad una singola scelta, e per contemperarli con quelli dei privati, dei cittadini e delle imprese.
Questi tempi devono essere ragionevoli. Solo allora si può esigere che siano certi. La semplice riduzione “sulla carta” dei tempi non porta a nulla. Occorre quantificare, caso per caso, le necessità. E lavorare sugli operatori, sulla loro formazione, sulla loro professionalità, sulla loro dedizione al risultato piuttosto che alle forme.
Occorre una “cultura” dei tempi connessa con la cultura dei risultati. Per gli amministratori pubblici ma anche per i giudici dell’amministrazione. Una cultura che non può che arricchirsi degli apporti multidisciplinari cui facevo cenno prima, di cui noi siamo molto carenti non avendo alcuna tradizione delle facoltà di “law and economics” così diffuse nell’esperienza anglosassone.

RAPPORTO TRA TEMPI E CONTENUTI DELLE DECISIONI: CHIAREZZA DEGLI INDIRIZZI E DEFLAZIONE DEI TEMPI
Il secondo spunto si richiama, ancora una volta, al nostro filo conduttore iniziale.
Il problema dei tempi si risolve anche attraverso i contenuti delle decisioni, gli indirizzi giurisprudenziali.
Una maggiore certezza sugli indirizzi, sulla loro “tenuta” e coerenza determina certamente una deflazione del contenzioso, specie se accompagnata da un più coraggioso ricorso alla condanna alle spese e da un comportamento responsabile della classe forense.
E qui occorre un richiamo a tutti, soprattutto a quegli avvocati che, facendo commistione tra il diritto di difesa e la temerarietà della lite, propongono cinquanta ricorsi identici tra loro invece di uno solo, magari con la speranza che collegi diversi li decidano in modo diverso. O che prolungano irragionevolmente cause dall’esito probabilmente scontato (o che sarebbe tale alla luce dei suddetti indirizzi più “stabili”) e, come è accaduto qui al T.A.R. del Lazio, al momento in cui un ricorso presentato molti anni fa era stato finalmente messo in discussione, ne chiedono la cancellazione dal ruolo “per approfondimenti”!


VII – SEGUE: MISURE ORGANIZZATIVE E RISORSE

L’IMPORTANZA DELL’ORGANIZZAZIONE
La qualità delle pronunce e l’effettività del nostro processo sono cruciali; danno senso alla nostra vita e al nostro lavoro. Ma non bastano.
Come è stato detto (Cassese), la giustizia è un sistema in cui la domanda cresce con la qualità dell’offerta. E oggi, vista la massa di lavoro, non ci si può permettere una qualità mediamente buona delle pronunce (come è, nonostante tutto, quella resa dalle Corti italiane) senza considerare come altrettanto decisivo l’aspetto quantitativo.
Occorrono anche una buona organizzazione e risorse adeguate ai bisogni.
Nei giorni scorsi, in occasione delle relazioni di apertura dell’anno giudiziario presso la Cassazione e le Corti d’appello, è stato affermato che l’equazione “più mezzi uguale più efficienza” va esaminata con attenzione e spirito critico. Perché non sempre è esatta. Se un’amministrazione pubblica, o un’azienda privata, si trovano ad affrontare una contingenza difficile, non possono limitarsi a chiedere più risorse. Si guardano dentro, si slanciano in avanti, si riorganizzano, rinunciano a qualcosa, si ripensano e finalmente ripartono.
Non si possono non condividere, in linea di principio, queste affermazioni. E allora dico subito che non mancano le iniziative organizzative volte a migliorare il nostro servizio anche indipendentemente da modifiche ordinamentali o dall’aumento di risorse.
Seguendo l’esempio delle Sezioni unite civili della Cassazione, anche noi stiamo cercando di migliorare le soluzioni organizzative a legislazione e a organico vigente.
Ad esempio, sulla base di significative esperienze della IV Sezione del Consiglio di Stato, lavorando sulla preparazione delle assegnazioni alle udienze, cercando di trovare e di accorpare le cause seriali che si possono decidere con un’unica pronuncia ovvero riproducendo un’unica sentenza-pilota, o infine pensando a “udienze tematiche” e ad un uso più incisivo dell’informatica.
Il Consiglio di Presidenza sta ora rilanciando strutture centrali importanti, che da noi di fatto non erano curate da magistrati, come l’ufficio del Massimario.

I COSTI DELL’ORGANIZZAZIONE
Ma questi ed altri accorgimenti organizzativi sono destinati all’insuccesso se le risorse non si adeguano, anzi continuano a diminuire.
Il lavoro sui fascicoli da accorpare e da “trattare”, ad esempio, non è facile e richiede un grande sforzo da parte delle segreterie. Così come la trattazione delle cause seriali.
Un esempio concreto per tutti. Nel novembre scorso ho tenuto due udienze straordinarie (per le quali ringrazio ancora i colleghi che volontariamente hanno affrontato questo onere), smaltendo di colpo – in aggiunta al carico mensile ordinario – circa 400 ricorsi per ciascuna. Avrei voluto ancora ripetere l’esperienza, ma non è stato sinora possibile perché non ho potuto distogliere il poco personale disponibile dagli impegni delle udienze ordinarie. Dai commessi che spostano i fascicoli al personale di segreteria che cura gli adempimenti di cancelleria: per tutti costoro il singolo ricorso seriale comporta esattamente lo stesso carico di lavoro del ricorso che segna grandi svolte giurisprudenziali.
Insomma, anche il lavoro sull’organizzazione – che siamo pronti a proseguire e a incoraggiare – richiede risorse.
E queste, occorre dirlo con franchezza, sono drammaticamente carenti, soprattutto al TAR del Lazio.

GLI INTERVENTI NORMATIVI RECENTI
Certo, qualcosa si muove.
Prendo atto che di alcune misure contenute nella legge finanziaria per il 2007 (legge 27 dicembre 2006, n. 296, commi 1307, 1308 e 1309), che ha previsto – per tutta la giustizia amministrativa! – un aumento di organico di cinquanta unità di personale di segreteria (peraltro, interamente autofinanziato con l’incremento del contributo unificato per le cause di maggiore valore economico).
Ma ricordo che un rafforzamento di dimensioni più ampie era stato previsto, con un consenso bipartisan, nella primavera del 2001, alla fine della XIII legislatura, come “copertura” della riforma di cui alla l. n. 205 del 2000. L’intervento non riuscì ad arrivare all’approvazione finale in seconda lettura per un soffio. Poi, però, non se ne è fatto più nulla.
Nel frattempo, nel 2005 sono sopraggiunte le riduzioni forzate di organico e, con la finanziaria per il 2006, il blocco delle assunzioni è stato esteso anche al personale di magistratura.
I benefici della finanziaria 2007 recano, quindi, misure che compensano solo in parte i più gravi pregiudizi arrecati dalle leggi degli anni precedenti. Perché le riduzioni e i blocchi delle assunzioni, se certo sono il segno di una situazione di emergenza della finanza pubblica, vanno calibrati caso per caso.
Misure come queste trovano un fondamento per le amministrazioni che occorre ristrutturare profondamente, a causa dei processi di trasferimento alle Regioni e della esternalizzazione di svariate funzioni. Ma risultano oggettivamente inspiegabili per un sistema come la giustizia, che non è interessato da nessuno di tali fenomeni (certo non la regionalizzazione, ma neppure una politica credibile sulle ADR) e in cui, anzi, la domanda continua a crescere, soprattutto in complessità.
In Germania, per una popolazione superiore alla nostra di meno del 20%, i giudici amministrativi federali sono circa 2.600 e il rapporto tra i giudici e gli impiegati di cancelleria è di uno a otto; da noi i giudici sono meno di 500 e il rapporto con gli impiegati non arriva neppure a uno a due.
Dobbiamo proprio rassegnarci a queste differenze abissali?

LA SITUAZIONE PARTICOLARMENTE GRAVE DEL T.A.R. DEL LAZIO; …
Un discorso a sé merita, infine, la situazione del T.A.R. del Lazio.
Siamo l’unico T.A.R. italiano in cui i ricorsi proposti non diminuiscono: nel 2006, il loro numero (12.337) è stato sostanzialmente costante rispetto all’anno precedente (12.388), mentre il dato nazionale ha registrato una flessione del 6,4% tra i ricorsi proposti nel 2005 (complessivamente 62.049) e i ricorsi proposti nel 2006 (complessivamente 58.087). Questa controtendenza rispetto al dato nazionale comporta che, se l’anno scorso l’incidenza dei nostri ricorsi sul totale nazionale si era attestata a poco meno del 20%, quest’anno marcia verso il 22% (ove si consideri anche la sezione staccata di Latina, si arriva al 23,39% del totale nazionale dei ricorsi).
Ne consegue che il numero medio di ricorsi per singola sezione del T.A.R. Lazio si rivela sensibilmente più alto del numero medio di ricorsi delle sezioni del resto d’Italia. Infatti, per le dodici sezioni del T.A.R. Lazio, alcune costituite da soli tre o quattro magistrati compreso il Presidente, la media è di oltre 1.000 ricorsi, mentre per le sezioni del resto d’Italia la media è di circa 800 ricorsi.
Il numero di ricorsi di una singola sezione interna del Tribunale è sovente superiore al totale del contenzioso di interi T.A.R. di dimensioni consistenti (come quelli di Bologna, di Genova, di Catanzaro o di Cagliari). Sia la prima che la seconda Sezione del T.A.R. di Roma, superando i 4000 ricorsi (4988 la prima e 4095 la seconda), hanno un carico superiore a qualsiasi T.A.R. d’Italia, salvo quello di Napoli.

… I RISULTATI OTTENUTI, NONOSTANTE TUTTO, …
Nonostante gli oneri eccezionali che gravano sul T.A.R. del Lazio, prosegue la tendenza a chiudere l’anno con un saldo attivo tra giudizi definiti e ricorsi introitati.
I giudizi definiti nel 2006 sono stati 15.686, con un incremento del 5,92% rispetto al 2005, in cui furono 14.809; ove si considerino anche le decisioni interlocutorie, il dato passa a 16.399 decisioni assunte nel 2006, con un incremento dell’8% rispetto al 2005, in cui il totale delle decisioni si era attestato a 15.180.
Tali riscontri numerici, pur nella loro freddezza, riescono a rendere chiaramente l’idea della mole di lavoro che ha accompagnato gli “addetti” al Tribunale, sia il personale di magistratura che il personale amministrativo.
E danno conto dell’efficienza, non disgiunta dall’elevata qualità della produzione, con cui essi hanno saputo rispondere.
Il saldo attivo tra giudizi definiti nell’anno (15.686) e ricorsi introitati (12.337) ha determinato un’ulteriore flessione dei ricorsi pendenti che, al 31 dicembre 2006, ammontano a 162.290, rispetto ai 165.639 che risultavano pendenti al termine del 2005.
Il risultato conferma il trend dell’anno precedente in cui si era giunti a 165.639 ricorsi pendenti a fine anno rispetto a 168.060 ricorsi pendenti a fine 2004.
Di talchè, negli ultimi due anni, a fronte di 24.725 ricorsi presentati sono stati definiti 30.495 giudizi e ciò ha consentito di ridurre i ricorsi pendenti da 168.060 a 162.290, con un abbattimento del 3,43%, pur in presenza di una compagine di magistrati meno numerosa, come si dirà.

… CON UN CONTENZIOSO IMPONENTE IN QUALITÀ E QUANTITÀ …
I dati numerici non riflettono l’intera dimensione del problema poiché, come ho detto nella prima parte, il contenzioso del nostro Tribunale presenta aspetti peculiari soprattutto di tipo qualitativo, considerato che alle materie “tipiche” di ogni giudice amministrativo si aggiunge la competenza esclusiva in una molteplicità di materie dal notevole impatto sociale ed economico.
Si pensi, ad esempio, al ricorso sulla sospensione dei lavori di riconversione a carbone della centrale termoelettrica di Civitavecchia, al ricorso sulla gara d’appalto per i lavori del ponte sullo stretto di Messina, al contenzioso sull’autorizzazione all’acquisizione, da parte della Cassa Depositi e Prestiti, di una quota del capitale sociale di Terna, ai giudizi in materia di concessioni autostradali e di adeguamento delle relative tariffe, al contenzioso relativo ai provvedimenti antitrust che accertano intese restrittive della concorrenza, i quali vengono tutti impugnati (la decisione di ognuno di questi giudizi comporta la lettura di migliaia di pagine!), contenzioso che comprende materie che vanno dalle assicurazioni al latte per la prima infanzia, ai gas tecnici, etc., all’impugnazione dei provvedimenti adottati dall’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni, ai ricorsi concernenti le linee aeree, al contenzioso relativo alla nomina a Direttore Generale della RAI, alle controversie in materia di calcio.
I settori di intervento, peraltro, sono estremamente vari e riguardano anche questioni in passato sconosciute o poco usuali: dalle ipotesi di mobbing nel pubblico impiego al “numero chiuso” per l’iscrizione a facoltà universitarie, alle misure di protezione per i collaboratori di giustizia, alle provvidenze per le vittime dell’usura e dell’estorsione. Ciò in aggiunta ai settori dai quali tradizionalmente deriva al giudice amministrativo una notevole quantità di ricorsi: dal contenzioso edilizio a quello relativo al pubblico impiego “non contrattualizzato” (in particolare militari e magistrati), a quello concernente i cittadini extracomunitari, alle impugnazioni avverso le bocciature a scuola o le valutazioni di non idoneità a concorsi, soprattutto quello notarile, o ad esami di abilitazione, soprattutto quello di avvocato.

… E L’ASSEGNAZIONE SPEREQUATA DI RISORSE
A fronte di questo straordinario impegno, è doveroso segnalare che le risorse professionali e finanziarie si rivelano non solo scarse, ma anche non proporzionali rispetto agli altri uffici d’Italia.
Quanto ai magistrati, ne perdiamo sempre di più, tra collocamenti fuori ruolo, passaggi al Consiglio di Stato e altre ragioni. Il loro numero è sceso ora a 53 (di cui soltanto 47 a tempo pieno, cinque impegnati anche presso il Consiglio di Presidenza e uno presso l’Ufficio per l’informatica).
Per ciò che riguarda il personale di supporto, si continua a non tener conto delle necessità ulteriori che ci derivano dalla maggiore incidenza dei ricorsi “ponderosi” e di quelli seriali, nonché dell’arretrato che potremmo smaltire meglio, se ci fosse qualcuno in più a trattarlo nelle segreterie.
Il personale amministrativo in servizio è attualmente pari a 103 unità, inferiore di ben 11 elementi rispetto alla già esigua pianta organica, di 20 rispetto a quella vigente prima della legge n. 311 del 2004 e di ben 34 rispetto alla rilevazione eseguita dalla società “Criteia” per tutti i TAR.
Parimenti esigue sono le risorse finanziarie assegnate.
È vero che, come ho detto all’inizio di questa parte, l’equazione “più mezzi uguale più efficienza” non sempre è esatta. Ma noi non ci limitiamo a chiedere più mezzi: ne dimostriamo oggettivamente la necessità. Per continuare ad aumentare la produttività non vogliamo rinunciare ad una migliore organizzazione e ad una più razionale distribuzione delle risorse.


VIII – CONCLUSIONE: L’IMPORTANZA DELLA VISIONE DEL “SISTEMA”


La “chiave di lettura” di questa relazione, ovvero la individuazione della coerenza come componente essenziale del servizio-giustizia, mi induce a concludere con una visione “di sistema” del nostro lavoro.
Conforta, in questa visione, l’idea del diritto inteso come un cammino umano in evoluzione, che segue le esigenze espresse dai rapporti politici ed economici che intessono l’aggregato sociale.
Un percorso complesso, non necessariamente lineare, perché costretto ad accompagnare – come ha detto il Presidente de Roberto – “tumultuose trasformazioni”, le quali, tuttavia, si traducono in formule giuridiche, in complessi sistemici, in ordinate rappresentazioni. Perché dobbiamo cogliere, nel diritto, “un fenomeno ordinativo più che autoritativo”.
E, allora, anche noi dobbiamo recepire la lezione dello studente del Faust di Goethe, che si sente “poco adatto” allo studio e alla cura del diritto poiché “i diritti e le leggi si tramandano/ come una malattia che non ha fine,/ arrancano da una generazione all'altra,/ da un luogo all'altro, cauti. La ragione/ diventa assurda, il beneficio danno”. Certo, vista così, nel diritto ogni cosa può essere il suo contrario.
Ma a questo studente Goethe insegna che nel diritto “La fabbrica delle idee funziona/ come il telaio del tessitore,/ dove un pedale muove mille fili,/ le spole volano su e giù,/ i fili scorrono invisibili,/ un colpo allaccia mille vincoli”.
Noi non abbiamo, per fortuna, un solo pedale che ci muove come mille fili.
Ma se il sistema della Giustizia è chiaro e organizzato, se ogni rocchetto si muove liberamente ma con la coscienza del suo impatto sugli altri, allora tutti i colori si compongono armoniosamente e ciascun colpo contribuisce alla costruzione dell’insieme.
In tempi di grandi cambiamenti come quelli attuali, dobbiamo compiere ogni sforzo perché il nostro lavoro assomigli comunque, visto dall’alto, ad un grande e armonioso arazzo posto al servizio della società.

 

 
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