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STEFANIA CAVALIERE

Riflessioni per una "composizione" del "contrasto" fra tutela e valorizzazione dei beni culturali


Sommario: Premessa. – 1. Origine e termini della questione. – 2. La revisione del Titolo V e la permanenza del problema. – 3. L’orientamento della Corte. – 4. Il Codice dei beni culturali e del paesaggio. – 5. Una possibile composizione.


Premessa
Costituiscano, o meno, sotto un qualche profilo, una “materia” sola ed unica, i “beni culturali” sono stati, dalla Costituzione, distinti in relazione alla tutela ed in relazione alla valorizzazione e diversamente “trattati” quanto a regime giuridico. La tutela, infatti, spetta ai sensi dell’art. 117, II comma Cost., alla legislazione esclusiva dello Stato; la valorizzazione, è, ai sensi 117, III comma Cost., “materia” di legislazione concorrente nella quale la potestà legislativa spetta alle Regioni, salvo che per la determinazione dei principi fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato.
La distinzione così operata dalla Costituzione, peraltro, si presta ad essere fonte di non poca confusione nei rapporti tra Stato e Regioni proprio o soprattutto a causa dell’individuazione e delimitazione della tutela e della valorizzazione, cioè di due “materie” piuttosto artificiali e, perciò, difficilmente distinguibili concettualmente, contenutisticamente e, magari, perfino finalisticamente.
La maggior parte della dottrina, come vedremo tra poco, dopo aver a lungo dibattuto sulla questione, ha ritenuto risolvibile il problema con l’affermazione del principio dominicale[1], estrapolato dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 26/2004 e quasi contemporaneamente accolto dal D.Lgs. 22/1/2004 n. 42, Codice dei beni culturali e del paesaggio, e precisamente nell’art. 112, commi 2 e 6. Ma la questione è davvero chiarita? Tenendo presente che la maggior parte dei beni culturali sono di proprietà dello Stato e non delle Regioni e che, come detto, il legislatore costituzionale del riformato art. 117 Cost. ha attribuito la valorizzazione alla legislazione concorrente, si può ritenere pienamente risolutivo e/o soddisfacente il criterio dominicale? O, piuttosto, vi è il pericolo che tale principio possa in qualche modo tradire lo spirito del nuovo Titolo V, parte II, della Costituzione che, al fine di realizzare il “pluralismo istituzionale”, ha ampliato le attribuzioni degli enti territoriali?
Non sembra inutile, dopo queste considerazioni, un’ulteriore riflessione sulla questione, alla luce del novellato art. 117 Cost., dei principi ispiratori della riforma costituzionale, della giurisprudenza della Corte Costituzionale e del nuovo Codice dei beni culturali e del paesaggio.


1. Origine e termini della questione.
La nuova politica dei beni culturali, avviata con il D.Lgs. 112/98 (decreto di attuazione della legge n.59/1997, cd. legge Bassanini), ha segnato, come è noto, una notevole inversione di tendenza per ciò che riguarda il modo di concepire questi ultimi. Si è passati, infatti, da una normativa fortemente centralizzatrice, caratterizzata da una concezione estetizzante, che disciplinava la “cosa d’arte” soprattutto dal punto di vista della conservazione e della protezione dall’incuria[2] (la Legge 1089/1939), ad una legislazione contraddistinta da una concezione più dinamica, che intende il bene culturale come bene di fruizione collettiva, fonte di elevazione culturale e sociale e, nello stesso tempo, di potenziale reddito e di sviluppo economico[3].
Il problema relativo al conflitto di competenze tra Stato e Regioni sulla materia “de qua” e, di conseguenza, sulle funzioni[4] di tutela e valorizzazione non è sorto, in realtà, con il novellato art. 117 Cost. perché è stato anticipato per molti aspetti dalla citata legge ordinaria, che ha attuato il federalismo amministrativo a “Costituzione invariata”, e dal richiamato decreto legislativo, di attuazione di quest’ultima legge, le cui norme rappresentano proprio il substrato normativo sul quale è stato delineato il riparto delle competenze relative ai beni culturali dal nuovo Titolo V della parte II della Costituzione.
Il D.Lgs. 112/98 costituisce il primo tentativo di dare una disciplina compiuta ed organica ai fini della ripartizione delle competenze tra Stato e Regioni (dal punto di vista amministrativo) in relazione alle attività riguardanti i beni culturali. Individuava nella tutela, nella valorizzazione e nella gestione le tre funzioni relative al patrimonio storico ed artistico, definendo la prima “ogni attività diretta a riconoscere, conservare e proteggere i beni culturali” (una disciplina della tutela fu comunque già prevista nella legislazione degli Stati preunitari e nella Legge 1089/1939, e, addirittura, anche in alcune bolle papali del XV[5]); la seconda come “ogni attività diretta a migliorare le condizioni di conoscenza e di conservazione dei beni culturali ed ad incrementarne la fruizione” (la valorizzazione, invece, è una funzione emersa più recentemente e si lega strettamente alla nuova concezione dei beni culturali considerati fattore di arricchimento culturale e di sviluppo economico e come termine compariva nella legislazione italiana relativa ai beni culturali per la prima volta con la Legge 26/4/1964 n. 310, istitutiva della Commissione Franceschini)[6], la terza come “ogni attività diretta, mediante l’organizzazione di risorse umane e materiali, ad assicurare la fruizione dei beni culturali” (nella legge n. 1089/1939 la gestione era quasi assimilata alla tutela, poiché era identificata come ogni attività diretta a permettere la conservazione, l’integrità e la sicurezza del bene).
Questa distinzione e queste definizioni, peraltro, anziché chiarire, o contribuire a chiarire, i concetti di cui trattasi ebbero l’effetto di un’ulteriore confusione soprattutto perché davano vita a sovrapposizioni terminologiche, che furono definite, da un’accorta dottrina, “nozioni circolari”[7], anche se non mancò chi, invece, sostenne con forza la positività e l’opportunità del decreto in esame[8].
Le definizioni di quest’ultimo furono in parte modificate dal T.U. n. 490/99, ma, ancora una volta, non si raggiunse l’obiettivo della chiarezza e della univocità. Il binomio tutela/valorizzazione fu sostituito da quello conservazione/valorizzazione; la tutela venne definita come un insieme di funzioni volte a dare attuazione all’art. 9 Cost.; la valorizzazione (attribuendole un significato limitato rispetto alla precedente legislazione) venne in sostanza fatta coincidere con la fruizione e ritenuta attività strettamente legata all’uso del bene, senza che si tenessero presenti gli aspetti relativi all’organizzazione ed alla politica promozionale come studi, eventi culturali[9], ecc. (artt 21, 55).
Le definizioni contenute nel T.U. furono ritenute insufficienti tanto che, prima dell’emanazione del D.Lgs. n. 42/2004 e dopo la riforma del Titolo V, per chiarire il significato terminologico delle due funzioni, così come previste nel nuovo art. 117 Cost., furono di gran lunga preferite da dottrina e giurisprudenza quelle del D.Lgs. 112/98 (ritenute più chiare rispetto a quelle contenute nel T.U. n. 490/99) anche se, per altro verso, tacciate di ambiguità e sovrapposizioni logiche, con la conseguenza che la questione di fatto rimase ancora non priva di dubbi ed incertezze.
A tal proposito vi è chi ha ritenuto[10] di poter rintracciare il principio distintivo tra tutela e valorizzazione proprio nella definizione contenuta nel D.Lgs. 112/98 accogliendo il criterio tipologico-contenutistico, che si basa sulla natura e sul contenuto delle norme e dei poteri che ineriscono ai beni culturali. La tutela, secondo questa interpretazione, sarebbe amministrazione di intervento, la valorizzazione amministrazione di prestazione. In pratica, sembra, secondo questa tesi, che la distinzione tra tutela e valorizzazione risieda nella diversa posizione assunta dall’interesse pubblico, che nella prima confligge con coloro che ne sono i destinatari e nella seconda, invece, converge con i loro interessi. Al contrario, per un’altra tesi[11], il decreto n. 112/98 non sarebbe in grado di prevenire e risolvere i conflitti a causa di “quella divorante definizione di tutela che va inevitabilmente a collocarsi trasversalmente in qualunque ambito” e, quindi, anche nella valorizzazione. Il nodo fondamentale, così, continuava ad essere rappresentato dalla difficoltà di superare le incertezze interpretative e, quindi, dalla necessità di trovare una definizione precisa di entrambe le nozioni. La questione definitoria, tuttavia, era ed è tutt’ora ineludibile in quanto, come è stato detto[12], solamente “bloccando l’espansione ermeneutica” si riesce a garantire e stabilizzare le distinte competenze.


2. La revisione del Titolo V e la permanenza del problema.
La riforma del Titolo V, parte II, della Costituzione ha recepito la concezione dei beni culturali che, da un lato, impone la necessità di conservare il patrimonio storico ed artistico e, dall’altro, prevede una sua migliore promozione e valorizzazione. Essa, inoltre, cerca di mediare tra l’esigenza di dare un ruolo attivo alle Regioni (giustificato dal fatto che i beni culturali insistono su di un preciso territorio e possono essere gestiti meglio da un governo locale che è espressione della comunità dalla quale hanno avuto origine) e l’esigenza di mantenere un esercizio unitario per salvaguardare e proteggere i beni culturali della Nazione nella medesima maniera in tutto il territorio dello Stato.
Proprio allo scopo di armonizzare le istanze unitarie e le istanze autonomistiche, il legislatore costituzionale del novellato art. 117 Cost., creando non poche incertezze ha, come si è detto, diviso in due le competenze sui beni culturali, attribuendo la tutela alla legislazione esclusiva dello Stato e la valorizzazione alla legislazione concorrente. A questo proposito vi è chi parla[13] di inadeguatezza del nuovo art.117 Cost., poiché, al contrario delle altre materie in esso indicate, la competenza sui beni culturali si basa sulla distinzione tra le principali funzioni relative agli stessi invece che sull’attribuzione di un’unica materia alla legislazione concorrente o esclusiva dello Stato o delle Regioni e, proprio da questa situazione, deriverebbe una difficoltà pratica di operare una demarcazione tra le due funzioni, che, in effetti, sono concettualmente e concretamente collegate tra loro.
Ciò ha anche comportato, come conseguenza, che la tutela e la valorizzazione dei beni culturali siano diventate una questione di livello politico-costituzionale e non più solo di livello normativo ordinario ed amministrativo (come era invece nel D.Lgs. 112/98), dato che ora occorre ricercare il significato di entrambe, allo scopo di delimitare le competenze tra Stato e Regioni[14], anche alla luce della Costituzione.
La ricerca del significato delle nozioni di tutela e di valorizzazione, e, ovviamente, delle attività rientranti nell’una o nell’altra non ha cessato di essere, ancora di più, dopo la riforma del Titolo V, parte II, della Costituzione, una questione di fondamentale importanza anche se, come abbiamo detto, di non facile soluzione a causa della difficoltà di demarcazione dei due concetti, delle sovrapposizioni e delle inevitabili interazioni tra le due funzioni[15] e soprattutto della mancanza di criteri univoci di definizione delle due attività[16].
Dal dibattito che è sorto sembrano potersi delineare, in sostanza, due correnti di pensiero: da una parte quella che ha criticato aspramente la distinzione di competenze e le sue conseguenze[17] e, dall’altra, quella che, invece, ha trovato razionale la riforma costituzionale e quindi l’attribuzione di diverse potestà legislative[18].
Si è determinata, così, una vera e propria “radicalizzazione” del conflitto di competenza tra Stato e Regioni[19], che ha avuto come conseguenza perfino l’aumento dei problemi interpretativi e pratici[20].
In merito, anche la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 9/2004, consolidando l’orientamento emerso già nella sentenza n. 94/2003, come si analizzerà meglio in seguito, ha fatto notare che le nozioni di tutela e di valorizzazione sono strettamente connesse ed a volte, ad una lettura non approfondita, addirittura sovrapponibili, poiché, solo “riportate nei loro contesti normativi, dimostrano che la prima è diretta ad impedire che il bene possa degradarsi nella sua struttura fisica” e la seconda è diretta soprattutto alla fruizione del bene culturale[21].
Tra le due funzioni esiste, quindi, una correlazione ed una inscindibilità, in quanto la valorizzazione deve svolgersi nel rispetto delle misure di tutela e così la tutela non deve impedire la fruizione (valorizzazione) del bene[22].
Alla luce di quanto detto appare comprensibile il motivo per il quale il confine delle competenze tra Stato e Regioni in materia di beni culturali è stato definito “un confine mobile”, modificabile di volta in volta secondo le interpretazioni che si attribuiscano alle varie attività[23].


3. L’orientamento della Corte.
La Corte Costituzionale, dopo la riforma del Titolo V, parte II, della Costituzione, al fine della composizione dei contrasti tra i due tipi di competenze relative ai beni culturali[24], sembra aver tracciato un percorso interpretativo che si può articolare su quattro punti generali:
1) utilizzo del criterio storico-normativo[25] al fine di interpretare il nuovo art. 117 Cost. alla luce della legislazione vigente (la Corte parte dal presupposto che all’elenco delle materie contenute nell’art. 117 Cost. occorra attribuire il significato che avevano alla luce della normativa vigente nel momento in cui è stata elaborata la revisione) [26];
2) spostamento del fulcro del problema dal tipo di intervento al bene oggetto dello stesso;
3) “correzione” del riparto di competenza Stato-Regione, delineato dal Titolo V, basandolo sulla titolarità/disponibilità del bene culturale pubblico (criterio dominicale) invece che sulla dicotomia tra tutela e valorizzazione;
4) propensione a risolvere i conflitti tra Stato e Regioni sulla base di un’interpretazione restrittiva della potestà legislativa regionale e, quindi, di una sorta di ampliamento in via giurisprudenziale di quella dello Stato, anche se , per la verità, non mancano casi in cui non potrebbe dirsi favorito totalmente l’Ente centrale. Ad esempio, nel 2005, con le due sentenze n. 160 e n. 232, l’orientamento “statocentrico” sembra mitigato dalla dichiarazione di incostituzionalità di un articolo della legge Finanziaria per il 2004, la Legge n. 350/2003, che autorizzava una spesa allo scopo di “promuovere la diffusione della cultura italiana”, perché lesivo della competenza legislativa concorrente delle Regioni in materia di valorizzazione dei beni culturali (sent. n.160/2005).
La Corte ha ammesso che la promozione della diffusione della cultura rientra nella valorizzazione[27] mentre allo Stato compete, ex art. 119 Cost., comma 4, il finanziamento integrale delle funzioni regionali nell’ambito delle quali le stesse Regioni, poi, dovranno dettare norme per le singole materie secondo i principi generali stabiliti dalla legislazione statale.
Spunti interessanti si rinvengono anche nella sentenza n. 232/2005, dove si è affermata la competenza della Regione a dettare norme che incidono in maniera aggiuntiva sulla tutela dei beni culturali propriamente detti e di “altri” non identificati secondo la normativa statale, purché “si trovino a far parte di un territorio avente una propria conformazione ed una propria storia” (criterio dominicale).
Questa sentenza scaturisce da una questione di legittimità sollevata dal Presidente del Consiglio dei Ministri in merito ad una legge della Regione Veneto, ritenuta lesiva dell’art. 117 Cost., comma 2, lettera s) e comma 6 in quanto alla Regione era consentito attribuire specifici interventi di tutela per una particolare categoria di immobili.
La Corte Costituzionale ha sostenuto che in questo caso hanno rilievo sia la tutela (della quale fornisce una seppur scarna definizione, ribadendo che è da considerarsi materia/attività), sia la valorizzazione definendo le due attività “intrecciate” tra loro. Ha specificato, inoltre, che occorre riferirsi al Codice dei beni culturali e del paesaggio[28] al fine di distinguerle e ha puntualizzato che quest’ultimo stabilisce l’esigenza dell’esercizio unitario della tutela, ma al contempo dispone che non solo lo Stato, ma anche tutti gli enti locali sono tenuti ad assicurare la conservazione (tutela) dei beni culturali ed a favorirne la fruizione e la valorizzazione.
Essa ha rilevato, in effetti, che, in particolari materie, come beni culturali e tutela dell’ambiente, in cui ha rilievo il profilo finalistico della disciplina, la coesistenza di competenze rappresenta la generalità dei casi e, richiamando l’art. 118, comma 3, Cost., ha sostenuto che proprio nella disciplina dei beni culturali occorrerebbero forme d’intesa e coordinamento. La Corte, però, non ha dato a questo principio il ruolo che ci si sarebbe potuto aspettare per risolvere la questione e ha utilizzato, invece, a tale scopo, il criterio dominicale, che questa volta è adoperato, comunque, per attribuire la competenza alla Regione.
Dopo queste precisazioni è opportuno, se non necessario, analizzare, seppur brevemente, le sentenze più significative in cui la Corte Costituzionale ha dimostrato chiaramente una propensione ad ampliare, nella materia di cui si parla, le competenze statali, al fine di comprendere l’iter logico seguito nell’elaborazione dei principi sopra richiamati.
Nella sentenza n. 94/2003, fondamentale perché rappresenta la prima volta, dopo la riforma costituzionale del 2001, in cui è stata risolta una questione di legittimità costituzionale relativamente alla tutela e alla valorizzazione, la Corte ha dichiarato infondato un ricorso governativo proposto contro una legge della Regione Lazio (la quale prevede la possibilità, per alcuni locali considerati dalla stessa Regione di “valore storico artistico ed ambientale”, di ottenere finanziamenti regionali finalizzati alla manutenzione, al restauro o a coprire eventuali aumenti di canone di locazione) perché ha ritenuto che quest’ultima, così, non istituisce una nuova categoria di beni culturali (che in tal caso spetterebbe allo Stato), ma si riferisce ad altri beni, cui è applicabile la disciplina speciale prevista dalla legge regionale. Ha evitato, però, di stabilire se le attività previste dalla legge (restauro e manutenzione) costituissero valorizzazione o tutela perché, contrariamente a come aveva operato nelle sentenze n. 64/87 e n. 277/93[29], ha probabilmente ritenuto opportuno “sorvolare” sulle inevitabili sovrapposizioni di competenze statali e regionali relative ai beni culturali[30].
Nelle motivazioni della sentenza n. 9/2004 risultano utilizzati il criterio tipologico-contenutistico e quello storico normativo (richiamando nuovamente il D.Lgs. 11.02.98 ma anche il TU n. 490/99). Il Giudice costituzionale, infatti, ha cercato di interpretare una attività, nel caso di specie il restauro, stabilendo che quest’ultimo è ricompreso nella tutela, poiché incidente “sulla struttura materiale del bene”.
Nella circostanza la Corte si è espressa su un conflitto di attribuzioni scaturito da un regolamento ministeriale (il D.M. 420/2001) relativo ai requisiti di formazione dei restauratori e di coloro che compiono lavori per conto di amministrazioni statali o enti pubblici nazionali sui beni culturali.
E’ da notare come, dilatando, forse in maniera eccessiva, la nozione di tutela[31], si sia dimostrata favorevole ad ampliare le competenze dello Stato a svantaggio delle Regioni, che di fatto vengono escluse dalla possibilità di incidere in qualche maniera sul restauro dei beni culturali. Giova rilevare che nella sentenza in oggetto vi è un ”fugace” richiamo al III comma dell’art. 118 Cost. ed alla prescrizione di forme di intese e coordinamento tra Stato e Regioni per la tutela dei beni culturali, sia pure senza che questo tema sia stato approfondito come, forse, sarebbe stato opportuno.
La sentenza n. 26/2004 (di rigetto del ricorso regionale), poi, ha evitato “elegantemente” di affrontare il problema della distinzione tra tutela e valorizzazione attraverso l’elaborazione di una specifica interpretazione delle due funzioni per stabilire la competenza ai sensi dell’art. 117 Cost. spostando l’attenzione dal “tipo” di attività ai beni oggetto della stessa. La decisione in esame scaturiva da un giudizio sull’illegittimità costituzionale di un articolo della Legge finanziaria per il 2002 (n. 448/2001), che consente al Ministro la facoltà di “dare in concessione a soggetti diversi da quelli statali la gestione di servizi finalizzati al miglioramento della fruizione pubblica ed alla valorizzazione del patrimonio artistico”.
Le principali censure di illegittimità erano due. Le Regioni ricorrenti facevano notare, innanzitutto, che la materia indicata nella norma impugnata si riferiva alla valorizzazione dei beni culturali oggetto di potestà legislativa regionale concorrente e che, quindi, lo Stato avrebbe dovuto emanare una norma di principi generali senza disciplinare nel dettaglio le modalità ed i criteri della citata concessione. Contestavano, inoltre, l’attribuzione al Ministro del potere regolamentare nella materia considerata, poiché, ai sensi dell’art. 117 Cost., comma 6, tale potere nelle materie concorrenti spetta in via esclusiva alle Regioni.
La Corte ha premesso che i termini utilizzati dal legislatore costituzionale del 2001 sono ambigui e che ciò rende difficile l’individuazione dei confini tra le singole attività ed anche del loro effettivo contenuto semantico, ma non si è spinta oltre e non ha tentato neanche di dare una definizione.
Nel tentativo di risolvere agevolmente il problema della ripartizione delle competenze relative alla valorizzazione dei beni culturali, utilizzando il più volte richiamato criterio storico normativo, la Corte ha ricavato dall’art. 152 del D.Lgs. 112/88 il “principio dominicale” stabilendo, così, la legittimità della norma impugnata e la competenza, però, dello Stato (Ministero) e delle norme statali, anche di dettaglio, sui beni di cui lo Stato ha la titolarità.
Tale principio scaturisce, a suo avviso, da una “comune interpretazione” derivata dal criterio di ragionevolezza e si sostanzia nell’affermazione ”ciascuno (è competente) nel proprio ambito”. Proprio da questo assunto si deduce che lo Stato, anche in materia di valorizzazione può emanare norme di dettaglio qualora abbia la titolarità/disponibilità del bene oggetto dell’intervento.
Il principio dominicale, però, lascia alquanto perplessi. Se è vero, infatti, che, utilizzando tale principio, si elimina alla base ogni problema, è anche vero che, nello stesso tempo, esso sembra comportare una manipolazione del riparto di competenze del Titolo V, andando oltre la ratio che permea la riforma costituzionale del 2001.
Inoltre, se il criterio dominicale deve sostituire la ripartizione delle competenze operata dall’art. 117 Cost., perché è valido per la valorizzazione e non per la tutela? Dalla lettura della sentenza in esame sembra quasi che la Consulta voglia favorire lo Stato probabilmente perché non ritiene, forse, le Regioni capaci di porre in essere azioni efficaci come sarebbe in grado di fare lo Stato stesso[32]. Occorre, inoltre, specificare che, nella giurisprudenza costituzionale, si rinviene l’applicazione del principio dominicale anche, per esempio, nella sentenza n. 427/2004, in tema di istituzioni di assistenza e beneficenza e di politica sociale, dove, infatti, si conferma tale principio con l’affermazione che “la competenza della Regione nella materia non può incidere sulle facoltà che spettano allo Stato in quanto proprietario … e precedono logicamente la ripartizione delle competenze …”.
A conclusione di questa breve disamina sull’atteggiamento interpretativo della Corte Costituzionale circa i diversi tipi di potestà legislativa sui beni culturali, è necessario effettuare un’ultima osservazione sulle sentenze 9/04 e 26/04, le quali (specialmente la seconda) introducono un altro elemento interessante. La tutela e la valorizzazione dei beni culturali vengono identificate, infatti, come “materie-attività”[33]. Tale qualificazione si evincerebbe dal novellato art. 117 Cost., che, accanto a queste ultime, prevederebbe altri tipi di materie quali: ~ le “materie-oggetto” (che riguardano un oggetto specifico, come nella gran parte dei casi era nel vecchio 117 Cost); ~ le materie-trasversali o scopo[34] (in cui le competenze si determinano in base al raggiungimento di una finalità); ~ le materie-tipo di disciplina[35] (nelle quali si evidenziano i possibili ”modi di disciplina” degli oggetti ad esse sottese).
La tutela e la valorizzazione dei beni culturali sarebbero, quindi (secondo la Corte), materie-attività dal momento che i beni culturali (l’oggetto) non costituiscono il fattore esclusivo ai fini dell’attribuzione della competenza. L’elemento discretivo si ritrova, infatti, nelle attività ad essi relative e per interpretare l’attribuzione delle varie competenze previste dall’art. 117 Cost. è necessario utilizzare non uno ma più criteri diversi, a seconda del “tipo di materia” di cui trattasi.


4. Il Codice dei beni culturali e del paesaggio.
Sembra opportuno procedere, ora, ad una breve riflessione sul Codice dei beni culturali e del paesaggio (D.Lgs. 22 gennaio 2004 n. 42) per comprendere in che maniera il legislatore delegato abbia adeguato la disciplina di settore ai nuovi principi costituzionali di cui alla riforma del 2001 e quali innovazioni abbia apportato nella questione in argomento rispetto alla precedente disciplina.
Il Codice ha recepito i principi del “federalismo amministrativo” ed ha riproposto la separazione tra tutela e valorizzazione cercando di fornire una definizione sostanziale e non solo organizzativa (come avveniva per il D.Lgs. 112/98) dell’una e dell’altra funzione considerando che i beni culturali devono essere preservati (e quindi tutelati dallo Stato) e, nello stesso tempo, utilizzati come risorsa culturale ed economica (e quindi valorizzati dalle Regioni nei limiti dei principi stabiliti dallo Stato) . Queste prospettive, in realtà, sono potenzialmente contrapposte, ma il Codice sembra aver fatto convergere l’una nell’altra[36] precisando in più articoli che la valorizzazione deve svolgersi in maniera compatibile con la tutela[37]. Per il nuovo Codice dei Beni Culturali, sia la tutela, sia la valorizzazione “concorrono a preservare la memoria della comunità nazionale e del suo territorio ed a promuovere lo sviluppo della cultura” (art 1). Ciò sembra sottintendere una chiara volontà del legislatore di superare la contrapposizione tra le due materie. Infatti, nella relazione illustrativa del D.Lgs. 22 gennaio 2004 n. 42, vengono richiamati il principio di adeguatezza ed il principio di sussidiarietà verticale per meglio coordinare gli interventi tra Ente centrale ed Ente locale in merito a tutela e valorizzazione e tutto ciò pare lasciare intendere che le due attività siano inscindibilmente collegate non potendo operare l’una se non vi è l’altra.
Soprattutto è interessante notare che molte disposizioni prevedono il principio di leale collaborazione tra enti territoriali, il quale offre spunti senza dubbio interessanti (come meglio si vedrà in seguito) proprio ai fini della risoluzione di conflitti di competenza tra Stato e Regioni anche nell’ambito dei beni culturali. Numerosi infatti sono gli articoli del Codice che si riferiscono a modelli convenzionali con riguardo, sia alla tutela, sia alla valorizzazione[38].
Il D.Lgs. 22 gennaio 2004 n. 42 sembra ribadire, comunque, la subordinazione della valorizzazione alla tutela (art. 1 comma 6), che diventa termine di raffronto e limite di tutti gli interventi in materia di beni culturali.
La complessa questione interpretativa relativa a tutela e valorizzazione non sembra, comunque, chiarita del tutto, in primo luogo, perché, come appena detto, la definizione di tutela, anche se è stata ridimensionata rispetto a quella troppo generica fornita dall’art. 148 lett. c), del D.Lgs. 112/98, continua ad essere caratterizzata, come si è riferito, da eccessiva ampiezza[39]. Le diverse attività in essa ricomprese, infatti, sembrano spesso sovrapporsi a quelle che dovrebbero rientrare nel campo della valorizzazione[40] (ad esempio, la conservazione deve essere garantita dalla tutela, ma deve essere promossa attraverso la valorizzazione).
In secondo luogo il Codice accoglie il criterio dominicale nell’art. 112, comma 2 e comma 6 con tutte le contraddizioni e le incongruenze che sono state già rilevate a proposito della sentenza n. 26/2004. Infatti, a mente del comma 2, “nel rispetto dei principi richiamati al comma 1, la legislazione regionale disciplina le funzioni e le attività di valorizzazione di beni presenti negli istituti e nei luoghi della cultura non appartenenti allo Stato o dei quali lo Stato abbia trasferito la disponibilità sulla base della normativa vigente”. Tale comma, tra l’altro, non è del tutto chiaro: dall’espressione letterale non si comprende quale disciplina avranno i beni “esterni” agli istituti ed ai luoghi della cultura in proprietà della Regione, degli altri enti territoriali e degli enti pubblici sottoposti alla sua vigilanza. Il comma 3, infatti, pur riferendosi esplicitamente ai beni culturali pubblici al di fuori degli istituti e dei luoghi della cultura, non chiarisce tale questione interpretativa, poiché sembra riferirsi alle competenze amministrative e non a quelle legislative. Il comma 6 dello stesso articolo, così come novellato dal D.Lgs. 24 marzo 2006 n. 156, conferma, in maniera ancora più decisa, il principio dominicale[41], che sembra addirittura assumere una funzione centrale lì dove prevede che, in assenza degli accordi previsti nel comma 4 (accordi finalizzati a definire strategie ed obiettivi comuni di valorizzazione, nonché per elaborare conseguenti piani strategici di sviluppo culturale), ciascun soggetto pubblico è tenuto a garantire la valorizzazione dei beni di cui ha comunque la disponibilità.
Il nuovo Codice sembra, quindi, considerare il principio dominicale come il fulcro ed il criterio risolutivo della questione di cui si parla, come gran parte della dottrina ha ritenuto[42].
A tal proposito occorre, però, ricordare, ancora una volta, che la Costituzione prevede espressamente nell’art. 117, comma 3, che la valorizzazione dei beni culturali (statali e regionali) è materia di legislazione concorrente e non sembra che tale dato normativo possa essere superato da un principio che non è recepito dalla Costituzione, ma è frutto di una elaborazione giurisprudenziale[43].
Tale principio, per giunta, oltre ad essere foriero di discordanze relativamente all’art. 117 Cost., attribuendo di fatto sia la normativa di principio, sia la normativa di dettaglio sulla valorizzazione dei beni di disponibilità statale allo Stato stesso, invece che risolvere la questione genera anche concrete difficoltà in relazione al potere regolamentare in materia, ex art. 117, comma 6, Cost. poiché sembra che “metta in discussione la regola del rigido ribaltamento del c.d. parallelismo, aprendo ad opzioni più graduate e legate alla realtà del modello organizzativo ministeriale ancora fortemente accentrato”[44] (oltre ad intaccare anche il principio di sussidiarietà). Tale criterio, tra l’altro, non definisce i confini tra tutela e valorizzazione e non risolve concretamente gli eventuali conflitti di competenza che possono sorgere tra Stato e Regioni a causa della difficile distinzione tra le due attività, ma può essere utilizzato, piuttosto, unicamente per risolvere i contrasti relativi alla sola valorizzazione. Inoltre, il principio di cui si tratta non chiarisce a chi dovrebbe spettare la competenza normativa in ordine alla valorizzazione dei beni culturali appartenenti ai privati (quindi non di proprietà dello Stato e neanche delle Regioni), generando ancora una volta ambiguità.
Come si può notare, i problemi sul tappeto sono diversi ed occorre tentare di trovare una lettura delle disposizioni esistenti (anche e soprattutto quelle del nuovo Codice dei beni culturali e del paesaggio) che limiti le eventuali discrasie che possono venire a crearsi nella materia in oggetto.


5. Una possibile composizione.
In merito alla dicotomia tutela/valorizzazione, in maniera pressoché unanime la dottrina[45] ha sostenuto che, al di là dei dubbi interpretativi e delle definizioni normative, occorre sfumare i contrasti tra i due termini, che, anziché contrapporsi, dovrebbero armonizzarsi tra loro per raggiungere le finalità generali dell’azione pubblica e per realizzare una politica organica ed efficace, poiché non sembra ragionevole, ad es., che la tutela dei beni culturali sia un valore per lo Stato ed un ostacolo[46] per le Regioni.
Allo scopo di risolvere i complessi problemi interpretativi che possono sorgere dal difficile riparto delle competenze Stato-Regioni sulle materie tutela/valorizzazione dei beni culturali, che, se non chiariti, presentano il rischio di creare una frammentazione degli interventi ed anche, in casi estremi, di paralisi[47], merita di essere ricordata anche la tesi[48] che affronta la questione delle competenze Stato Regioni in materia di beni culturali facendo riferimento al principio regionalista – pluralista. Nelle nuove norme costituzionali contenute nel Titolo V, secondo tale teoria, si rinvengono, infatti, significativi spunti, espliciti ed impliciti, capaci di modificare sia il “monopolio” statale della tutela, che per questa concezione andrebbe superato, sia la potestà legislativa concorrente sulla valorizzazione.
Questi elementi di novità sono: ~ la possibilità di delegare la potestà regolamentare da parte dello Stato alle Regioni; ~ la creazione con legge statale di forme di intesa tra Stato e Regioni sul piano amministrativo ex art. 118 c. III Cost.; ~ l’utilizzazione del “regionalismo differenziato”[49] previsto dall’art. 116, comma 3 Cost[50]., vale a dire la possibilità di attribuire alle Regioni a statuto ordinario ulteriori forme e condizioni di autonomia, favorendo le identità e le differenze, sia nelle materie di competenza concorrente, come la valorizzazione dei beni culturali, sia in alcune materie di competenza esclusiva, come la tutela dei beni culturali[51].
Inoltre, vi è chi[52] afferma con forza che le attività relative ai beni culturali (tutela, valorizzazione, ma anche gestione, fruizione e conservazione) siano strettamente collegate e non divisibili e sostiene, non a torto, che esse comportino una unità di procedure conoscitive e di azioni amministrative, mentre la divisione di competenze operata dal legislatore costituzionale sarebbe servita, invece, solo a “dividere la torta” senza tener conto del frazionamento dell’azione amministrativa, della dispersione delle responsabilità e delle relative conseguenze negative sul patrimonio culturale.
Una tesi che a noi sembra senz’altro da sostenere è quella di chi[53] ha fatto riferimento allo strumento della leale collaborazione e della cooperazione tra gli enti pubblici auspicando un’intesa sia normativa che istituzionale tra i diversi livelli di governo. In merito al principio di leale collaborazione ed alle previsioni del Codice ad esso relative, vi sono sostanzialmente due correnti di pensiero. Una[54], che critica severamente le scelte del D.Lgs. 22 gennaio 2004 n.42, in quanto sembrano non accogliere una prospettiva di sistema integrato, anzi, al contrario, sembrano mantenere la dicotomia tutela-valorizzazione senza utilizzare le possibilità offerte dal Titolo V ed un’altra, che giudica positiva la linea di tendenza marcata da quest’ultimo decreto[55].
In effetti, lo strumento della leale cooperazione[56] e non il principio dominicale, sembra, forse, la soluzione più appropriata al fine di comporre il contrasto che, inutile negarlo, si crea e si creerà in futuro per il complicato (dis)equilibrio di competenze tra Stato e Regioni. Il criterio dominicale, in definitiva, come già anticipato più che risolvere, sembra eliminare del tutto il problema, nel senso della quasi esclusione di uno dei due soggetti, cioè delle Regioni. La chiarezza, insomma, o la presunta chiarezza, sembra costare troppo, cioè l’alterazione qualitativa del sistema predisposto dalla Costituzione.
Non si deve dimenticare che il principio di leale collaborazione è previsto dall’art. 118 Cost. anche per la materia dei beni culturali[57]: al comma 3, infatti, crea i presupposti per un sistema integrato di governo ed amministrazione tra Stato e Regioni.
Nel Codice Urbani, come detto, sono più frequentemente previsti accordi ed intese su singole attività piuttosto che su programmi[58]. In ogni caso, tali disposizioni vanno valutate positivamente, poiché, se utilizzate correttamente, sembrano adatte ad eliminare, prima che sorgano, i possibili contrasti tra Stato e Regioni armonizzando le varie norme sui beni culturali con risvolti sicuramente proficui per questi ultimi. L’art. 5 del Codice prevede espressamente che le Regioni, le province, i comuni, le città metropolitane cooperino nelle funzioni di tutela con il Ministero per i Beni e le Attività Culturali e nel comma 4 è sancita la possibilità, sulla base dei principi di differenziazione e di adeguatezza, di individuare ulteriori forme di coordinamento con le Regioni che ne facciano richiesta[59]. Inoltre, nello stesso articolo si specifica che gli accordi e le intese possono anche prevedere particolari forme di cooperazione con gli altri enti pubblici territoriali[60] anche se allo Stato, per mezzo del Ministero, permane la titolarità di un potere di indirizzo, vigilanza ed intervento sostitutivo in caso di perdurante inerzia o inadempienza.
Con la revisione dell’art. 112 Codice dei beni culturali e del paesaggio operata nel 2006, sembra che il legislatore (oltre a ribadire il principio dominicale) abbia voluto regolare in maniera forse anche troppo puntuale l’aspetto funzionale ed organizzativo della concertazione in materia di valorizzazione, che si presenta ora ordinata in più livelli (strategico, programmatorio e gestionale). E’ previsto che gli accordi si stipulino non più solo su base regionale (come statuiva la precedente normativa), ma anche su base sub-regionale (se l’ambito territoriale su cui insistono i beni culturali lo richiede), per stabilire le strategie e gli obiettivi comuni della valorizzazione e per rinviare ai piani strategici di sviluppo culturale ed ai programmi per i beni culturali pubblici che possono essere elaborati e sviluppati da appositi soggetti giuridici ed a cui possono partecipare anche i privati.
Anche la Corte Costituzionale, in diverse sentenze[61], ha mostrato, in linea generale, di non sottovalutare i risvolti positivi di tale criterio nella risoluzione di situazioni in cui le competenze Stato/Regioni siano strettamente congiunte, tanto da non poter essere esercitate separatamente, sebbene, come già detto, proprio nella materia dei beni culturali non sempre abbia rimarcato tale principio in maniera troppo decisa.
Recentemente, comunque, con la sentenza 31/2006, ha manifestato un rinnovato interesse per il principio della leale collaborazione, sottolineando che esso deve presiedere a tutti i rapporti che intercorrono tra Stato e Regioni, e quindi anche in materia di beni culturali, e che “la sua elasticità e la sua adattabilità lo rendono particolarmente idoneo a regolare in modo dinamico i rapporti in questione, attenuando i dualismi ed evitando eccessivi irrigidimenti”. La Corte riconosce la genericità di questo criterio, che richiede per sua natura continue precisazioni e concretizzazioni, che possono essere di natura legislativa, amministrativa o giurisdizionale, individuando nel sistema delle Conferenze Stato-Regioni ed autonomie locali una delle sedi più qualificate per l’elaborazione delle “regole destinate ad integrare il parametro della leale collaborazione”[62]. Anche la sentenza n. 182/2006 sottolinea il valore degli accordi Stato-Regioni e l’importanza di predisporre una metodologia uniforme nella normativa dei beni culturali e del paesaggio sull’intero territorio nazionale perché, sostiene sempre la Corte Costituzionale, l’impronta unitaria nella legislazione di tali materie è un valore imprescindibile del nostro ordinamento.
Alla luce delle considerazioni su esposte, quindi, sarebbe opportuno considerare la contrapposizione tra tutela e valorizzazione in maniera meno esasperata cercando di superare l’attuale assetto dualistico di separazione delle competenze. Tutto ciò potrebbe realizzarsi non attraverso il criterio dominicale, che, come si è visto, oltre che essere discutibile in sé non sembra risolvere del tutto la questione, creando rilevanti disarmonie nell’ordinamento[63], ma proprio attraverso il principio di leale collaborazione, che, come detto precedentemente, è previsto nel Codice dei beni culturali e del paesaggio[64] e soprattutto nella Costituzione e dovrebbe essere maggiormente valorizzato invece che “sacrificato”, come sembra accadere attualmente. Appare, infatti, importante, al fine di realizzare interventi efficaci ed organici sui beni culturali, che le due attività principali ad essi relative siano programmate e attuate congiuntamente tra Stato e Regioni e non poste in essere attraverso politiche separate. Per fare ciò si potrebbero utilizzare i numerosi accordi e le intese previste dal D.Lgs. n. 42/2004. E’ altresì vero ed occorre tenere conto che anche tale principio presenta aspetti problematici, poiché potrebbero presentarsi difficoltà (in fase di concertazione) dovute all’individualismo delle Regioni (senza escludere, naturalmente, “possibili tentazioni” accentratrici dello Stato). La cooperazione si può realizzare, infatti, solo se gli enti locali sono in grado di “guadagnarsi ambiti di intervento commisurati alla loro capacità di meritarli nell’ambito del confronto pattizio[65]”. Le Regioni relativamente alla collaborazione, infatti, svolgono un ruolo molto importante, perché rappresentano un punto di raccordo fondamentale non solo per l’attuazione di un ruolo attivo dei privati, ma anche per la collaborazione tra gli enti locali, che possono intervenire in maniera più mirata sui singoli beni culturali.
E’ necessario, inoltre, notare che le forme di intese previste dal Codice parrebbero configurare “intese deboli”, dove l’amministrazione statale è posta quasi sempre in una posizione preminente. Nell’art. 5, per esempio, come si è già detto, per quanto riguarda gli accordi e le intese relative alla funzione di tutela, al Ministero è riconosciuto potere di indirizzo, vigilanza e, soprattutto, in caso di perdurante inerzia o inadempienza, potere di intervento sostitutivo.
Per quanto riguarda la funzione di valorizzazione, l’art. 112 del Codice, come già riferito, sembra rimarcare maggiormente il principio di leale collaborazione stabilendo che lo Stato, le Regioni e gli altri enti pubblici territoriali devono stipulare accordi per definire strategie ed obbiettivi comuni di valorizzazione, per elaborare programmi e piani strategici di sviluppo culturale. In tal caso, però, qualora le amministrazioni non riescano ad addivenire all’accordo, prevale il criterio dominicale, che è contenuto in un nuovo comma introdotto con il D.Lgs. n. 156/2006 (il comma 6) e che finirebbe con l’essere “motore primo dell’intera configurazione”[66] tanto che vi è chi[67] lo ha addirittura definito, in maniera forse non del tutto persuasiva, “fondamento del principio consensualistico”.
In realtà, utilizzare il criterio dominicale per risolvere i possibili conflitti tra Stato e Regioni potrebbe sembrare essere la soluzione più idonea. Non è, però, così perché, si ribadisce ancora una volta, il principio suddetto comporta altri e forse più seri problemi. Si è visto, infatti, che esso non serve a distinguere i confini fra tutela e valorizzazione, e, oltre a creare confusione in merito alla potestà regolamentare in materia di valorizzazione (che, in quanto materia di legislazione concorrente, dovrebbe spettare ex art. 117, comma 6 Cost. alle Regioni), favorisce lo Stato a scapito delle Regioni, che, in realtà, hanno una titolarità/disponibilità dei beni culturali sicuramente inferiore rispetto al primo. Tutto ciò comporta una riduzione consistente dell’ambito materiale di esercizio del potere normativo regionale e mal si compone con le istanze che hanno ispirato la riforma del Titolo V, parte II della Costituzione e che hanno attribuito alle Regioni maggiore autonomia e, quindi, un rafforzamento dei loro poteri. Con il principio dominicale, invece, sembra che venga quasi rinnegato il principio autonomistico ed il suo rafforzamento, che è un valore fondamentale perseguito dalla nostra Costituzione, come affermato nell’art. 5 Cost. e ribadito con la novella del 2001, con una sorta di riproposizione della precedente normativa relativa al patrimonio storico artistico, imperniata su un approccio totalmente centralista. Tanto premesso, sembra, proprio, che la ratio della divisione tra valorizzazione e tutela nella materia beni culturali risieda nella necessità, avvertita dal riformatore costituzionale, di attribuire un ruolo attivo in questo ambito, oltre che allo Stato, anche alle Regioni e che tale previsione non si armonizzi di certo il principio dominicale.
Alla luce di queste considerazioni, è senz’altro interessante ed appropriata, al fine di risolvere le eventuali contrapposizioni tra Stato e Regioni, la teoria detta “dei cerchi concentrici”[68]. Quest’ultima prevede un cerchio più piccolo ed essenziale che rappresenta la normativa statale (comprendente funzioni il cui esercizio unitario è necessario in quanto riconducibile all’interesse nazionale non frazionabile) e tanti cerchi più ampi che rappresentano le competenze normative delle Regioni, che si allontanano dal cerchio più piccolo con il diminuire dell’interesse unitario.
Una “politica multilivello condivisa”[69], che abbia comunque un nucleo centrale appartenente allo Stato (per mantenere quella particolare unitarietà prevista dall’art. 5 Cost. e per conservare all’ente centrale il coordinamento dell’intera materia) al fine di non disgiungere completamente le politiche e le attività locali dal centro, e che attribuisca il resto delle funzioni normative ed amministrative ai vari livelli di governo attraverso il principio di leale collaborazione, sembra, infatti, essere la più adatta a realizzare risultati concreti ed a superare i contrasti Stato/Regioni salvaguardando i principi sanciti dalla Costituzione, che esplicitamente impone alla Repubblica di riconoscere e di promuovere le autonomie locali (art. 5).
Invero, i beni culturali sono gestiti senza dubbio in maniera più efficiente e con misure più appropriate da chi conosce le specificità delle culture del luogo, mentre, lì dove le amministrazioni locali non hanno i mezzi necessari o non pongono in essere gli interventi opportuni, può “entrare in azione” lo Stato attuando concretamente il principio di adeguatezza richiamato nella riforma del Titolo V. In questo modo, quindi, proprio attribuendo maggiore rilevanza (al) ed utilizzando concretamente, anche in maniera flessibile, il principio di leale collaborazione, che attua un sistema integrato tra tutela e valorizzazione, si potrebbe dare al regime dei beni culturali una interpretazione conforme al nuovo Titolo V della Costituzione, accomodando le distonie e le ambiguità di un sistema basato su competenze attigue e difficilmente separabili.

 

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[1] Secondo il quale la competenza sulla valorizzazione (e non sulla tutela, per la quale non sarebbe applicabile) spetterebbe al soggetto (Stato o Regione) che ha la proprietà del bene (da valorizzare).
[2] La “cosa d’arte” veniva considerata, nella Legge n. 1089/1939, “oggetto statico ed esistente in sé”, che non aveva bisogno di altro se non di tutela, che, infatti, è finalizzata a conservare l’integrità della cosa: così M. AINIS, I beni culturali, in M. AINIS, M. FIORILLO (a cura di), L’ordinamento della cultura. Manuale di legislazione dei beni culturali, Milano, 2003, 103.
[3] Per un’analisi più approfondita del passaggio da una legislazione centralista ad una aperta alle istanze regionali si veda, tra gli altri, G. PASTORI, Tutela e valorizzazione dei beni culturali in Italia, situazioni in atto e tendenze, in G. MAZZOCCHI, A. VILLANI (a cura di), Sulla città, oggi. I beni culturali in Italia dopo il Codice Urbani, Milano, 2004, 51 e ss.
[4] La dottrina è concorde nel qualificare tutela e valorizzazione come funzioni. Tale termine, infatti, è usato solitamente per indicare l’insieme di attività che le amministrazioni pubbliche espletano in ordine ai beni culturali e caratterizzate da finalità generali. A tal proposito si veda, ad es. G.SCIULLO, Le funzioni, in C BARBATI, M. CAMMELLI, G. SCIULLO, (a cura di) Il diritto dei beni culturali, Bologna, 2006, 35. Occorre notare, in proposito, che i riformati artt.117 e 118 sembrano utilizzare un uso improprio dei termini funzione e materia. Il primo viene utilizzato in maniera “ambigua” nei due articoli. Ad esempio, nell’art 118 Cost. la parola funzione può essere intesa sia nel significato tecnico di “svolgimento del potere amministrativo” (comma 1), sia nel significato atecnico di “materia di competenza” (comma 2). In tal senso si veda G. CLEMENTE DI SAN LUCA, R. SAVOIA, Manuale di diritto dei beni culturali, Napoli, 2005, 91.
[5] Per un esame storico della legislazione sulla tutela si veda M. AINIS, M. FIORILLO, I beni culturali, in S. CASSESE (a cura di), Trattato di diritto amministrativo, vol. II, Milano, 2003, 1449 e ss.
[6] Per un’analisi storica del concetto di valorizzazione si veda L. CASINI, La valorizzazione dei beni culturali, in Riv. Trim. di Dir. Pubbl. 2001, 651 e ss.
[7] Cfr. S. CASSESE, I beni culturali dalla tutela alla valorizzazione, in Gior. Dir. Amm., 1998, 674; G. SCIULLO, Le funzioni, in Il diritto dei beni culturali, op.cit., 38, parla di “gioco di rimando”; V. CAPUTI JAMBRENGHI, Postfazione in V. CAPUTI IAMBRENGHI (a cura di), La cultura ed i suoi beni giuridici, Milano, 1999, 430, sostiene che è la difficoltà di trovare definizioni precise da utilizzare all’interno di “un rapporto sempre delicato qual è quello che intercorre tra Stato e Regioni” a comportare un offuscamento dei concetti. M.P. CHITI, La nuova nozione di” beni culturali” nel D.Lgs. 112/98: prime note esegetiche, in Aedon,n. 1/98, parla di “pasticcio verbale” per quanto riguarda le definizioni del D.Lgs 112/98.
[8] M. AINIS, Il decentramento possibile, in Aedon,n. 1/98, sostiene, invece, che i campi delle diverse funzioni sono sufficientemente delineati.
[9] In questo senso si veda T. ALIBRANDI, P. FERRI, I beni culturali ed ambientali, Milano, 2001, 418.
[10] N. AICARDI, L’ordinamento amministrativo dei beni culturali. La sussidiarietà nella tutela e nella valorizzazione, Torino, 2002, 98 e 106.
[11] A. POGGI, Verso una definizione aperta di bene culturale? A proposito della sentenza n. 94/2003 della Corte Costituzionale, in Aedon, n. 1/2003.
[12] cfr. N. AICARDI, Recenti sviluppi sulla distinzione tra tutela e valorizzazione dei beni culturali e sul ruolo del Ministero per i Beni e le attività culturali in materia di valorizzazione del patrimonio culturale di appartenenza statale, in Aedon, 1/2003.
[13] G. SCIULLO, Beni culturali e Riforma Costituzionale, in Aedon, 1/2001.
[14] La distinzione di competenze normative tra tutela e valorizzazione nella disciplina dei beni culturali è estranea a gran parte degli ordinamenti europei; si veda a tal proposito, tra gli altri, L. CASINI, La codificazione dei beni culturali in Italia e in Francia, in Gior. Dir. Amm., 2005, 98.
[15] Così , L. CASINI, La valorizzazione dei beni culturali, op. cit., 654.
[16] Cfr. A. POGGI, La Corte torna sui beni culturali (Brevi osservazioni a margine della sentenza n. 26/2004), www.federalismi.it, n. 6/2004.
[17] Molti Autori hanno criticato la separazione delle funzioni dei beni culturali: ad esempio, F. P. MANSI, La tutela dei beni culturali e del paesaggio, Padova, 2004, 122 e ss., sostiene essere fantasiosi la creazione e lo scorporo di tutela, valorizzazione, fruizione e gestione; durissima la critica di B. ZANARDI, Proposte per una nuova Legge di tutela, in Le dimore storiche, 2001, n. 2, 6, che accusa il legislatore di “schizofrenia”; così anche G. PASTORI, Commento all’art. 5, in Il Codice dei beni culturali e del paesaggio a cura di M. CAMMELLI 2004, 85, che parla di schizofrenia e strabismo nella divaricazione tra tutela e valorizzazione; a proposito della dicotomia tra tutela e valorizzazione nel D.Lgs. 112/98, S. AMOROSINO, art. 138 - 165, in La nuova disciplina dei beni culturali ed ambientali, a cura di M. CAMMELLI, Bologna, 2000, 441, non ritiene assolutamente proficua una scissione netta tra le due funzioni.
[18] A. PAPA, Strumenti e procedimenti della valorizzazione del Patrimonio culturale, Napoli, 2006, 107, secondo la quale la separazione tra tutela e valorizzazione avrebbe il merito di avere delineato una soluzione alla questione dell’individuazione di un equo riparto delle competenze in materia tra centro ed autonomia. Per N. AICARDI, L’ordinamento amministrativo dei beni culturali. La sussidiarietà nella tutela e nella valorizzazione, Torino 2002, 260 e 261, è giusto che tutela e valorizzazione siano separate, poiché ciò risponde ad una logica giustificata da ragioni storiche e pratiche. Per M. AINIS, Il decentramento possibile, in Aedon, 1/1998, la separazione concettuale tra le funzioni corrisponde addirittura ad una richiesta fatta dalle Regioni e dalle autonomie locali nel documento unitario discusso al CNEL nel 1997, poiché, a suo avviso, la separazione delle funzioni favorisce i diversi ruoli dello Stato e degli Enti Locali.
[19] Così C. TUBERTINI, Potestà legislativa statale e regionale e disciplina del restauro dopo la riforma del Titolo V della Costituzione, in Le Istituzioni del Federalismo, n. 6/2004, 980 e ss; A. POGGI in La corte torna sui beni culturali (Brevi osservazioni sulla sentenza 26/04), in www.federalismi.it, n. 6/2004, parla invece di “drammatizzazione” del conflitto.
[20] La questione non si poneva con il vecchio art. 117 Cost., che, invece, assegnava alle Regioni la competenza legislativa concorrente su biblioteche e musei di enti locali e ciò non creava problemi per stabilire e delimitare le competenze Stato/Regioni.
[21] In realtà la Corte aveva avuto modo di esprimersi più volte sull’interpretazione relativa a tutela e valorizzazione e su quali attività ricadano nell’una o nell’altra funzione anche prima della riforma del Titolo V; a tal proposito, ad esempio, si vedano la sentenza n. 277/93, dove la Corte affermava che il restauro aveva una funzione di tutela e la sentenza n. 921/98, dove il giudice delle leggi rilevava che la conservazione ricadeva nella nozione di tutela.
[22] Interessante a questo proposito la teoria delle “nozioni circolari” nel senso che l’una, la tutela, rinvia all’altra, la valorizzazione, elaborata da S. CASSESE, I beni culturali: dalla tutela alla valorizzazione, in Gior. Dir. Amm., 1998, 674.
[23] Così A. POGGI, La difficile attuazione del Titolo V: Il caso dei beni culturali, in www.federalismi.it, n. 8/2003.
[24] A tal proposito si veda D. NARDELLA, Un nuovo indirizzo giurisprudenziale per superare le difficoltà nell’attuazione del Titolo V in materia di beni culturali?, in Aedon, 2/2004.
[25] La Corte Costituzionale, prima dell’emanazione del “Codice Urbani”, per interpretare le nozioni di tutela e valorizzazione ha richiamato spesso il D.Lgs. 112/98; a tal proposito si veda F. S. MARINI, La tutela e la valorizzazione dei beni culturali come materia attività nella più recente giurisprudenza della Corte Costituzionale, in Giur. cost., 2004, 197.
[26] Così A. POGGI, Verso una definizione aperta di bene culturale? A proposito della sentenza n. 94/2003 della Corte Costituzionale, in Aedon, 1/2003 e F.S. MARINI, I beni culturali ed i locali storici del Lazio: una differenza storico-normativa, in Giur. cost., 2003, 776.
[27] E’ da notare che tale definizione è stata poi ripresa nella novella del 2006 al Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio: infatti, nell’art. 6, e precisamente nella definizione di valorizzazione, è stata aggiunta anche la finalità di promuovere lo sviluppo della cultura.
[28] La Corte Costituzionale si serve ancora una volta del criterio storico-normativo, ma questa volta si riferisce giustamente al nuovo Codice BB.CC. anziché al D.Lgs 112/98, come fa anche nelle recenti sentenze n. 51/2006 e n. 103/2006, sempre in materia di Beni Culturali.
[29] Per un commento alle sentenze precedenti si veda A. PELILLO, I beni culturali nella giurisprudenza costituzionale: definizioni, poteri e disciplina, in Aedon, 2/1998.
[30] A tal riguardo si veda S. FOÀ, La Legge Regionale sulla tutela dei locali storici è legittima perché non riguarda beni culturali ma beni a rilevanza culturale. La Corte Costituzionale “sorvola” sulla distinzione tra tutela e valorizzazione, in Le Regioni, n. 6/2003, 1231.
[31] Critica nei confronti della visione tutelo-centrica è A. POGGI, La difficile attuazione del Titolo V: il caso dei beni cultuali, op. cit., 6 e ss.
[32] D. NARDELLA, Un nuovo indirizzo giurisprudenziale per superare le difficoltà nell’attuazione del Titolo V in materia di beni culturali?, nota a sentenza 26/2004, in Aedon, 2/2004, critica la Corte per l’elaborazione del criterio dominicale, ma poi ammette l’efficacia di tale principio per risolvere il contrasto tra tutela e valorizzazione e, per appianare eventuali problemi sulla normativa regolamentare, sostiene che tale principio non modifica, ma integra quello della competenza per materia dell’art. 117 Cost. e non crea “strappi interpretativi”.
[33] Sul punto si veda F.S. MARINI, La tutela e la valorizzazione dei beni culturali come “materia-attività” nella più recente giurisprudenza della Corte Cost., in Giur. cost. 2004, 198.
[34] Come la tutela dei beni culturali o dell’ambiente, così definite per la loro caratteristica espansiva, che può legittimare lo Stato a riappropriarsi (di) o a restringere settori assegnati sia alla competenza concorrente, sia a quella residuale. A tal proposito si veda la sentenza della Corte Costituzionale n. 407/2002 e A. D’ATENA, Materie legislative e tipologia delle competenze, in Quaderni Costituzionali, 2003, 15 e ss. e A. CHIAPPETTI, Il rebus del federalismo all’italiana, Torino, 2004, 54.
[35] La distinzione è di F.S. MARINI, Lo Statuto costituzionale dei beni culturali, Milano, 2002, 268 e ss, al quale si rinvia per ulteriori approfondimenti.
[36] Cfr. G. PASTORI, Tutela e valorizzazione dei beni culturali in Italia, situazioni in atto e tendenze, in Aedon, n. 3/2004.
[37] Così, ad es., art 6 Codice dei beni culturali e del paesaggio.
[38] Accordi sono previsti dagli artt. 5, 24, 29, 37, 38, 40, 60, 67, 76, 86, 102, 112, 113, 115, 118, 119, 121, 143, 148, 156; intese sono previste dagli artt. 4, 5, 9, 17, 18, 29, 82, 103, 110, 114, 121, 125, 143, 156, 147, 156.
[39] N. AICARDI, Art. 3, in G. TROTTA, G. CAIA e N. AICARDI (a cura di), Codice dei beni culturali e del paesaggio, in Le nuove leggi civili commentate, 2005, 1067.
[40] Per C. BARBATI, La valorizzazione del patrimonio culturale (art. 6), in Aedon,n. 1/2004, il Codice Urbani ha attenuato l’esigenza di definire la tutela e la valorizzazione attraverso il principio dominicale, anche se ha ridotto il ruolo delle Regioni in materia di valorizzazione.
[41] Nell’art. 112, comma 6, del Codice Urbani è stata eliminata una disposizione relativa ad un accordo di carattere generale tra enti per sostituirla con un’altra, che ribadisce anche in questo comma, il criterio della titolarità/disponibilità.
[42] Si veda, ad es.: C. BARBATI, La valorizzazione del patrimonio culturale (art. 6), in Aedon, n. 1/2004; A. POGGI, La Corte torna sui beni cultural, op. cit.; L. ZANETI, La valorizzazione dei beni culturali di appartenenza pubblica (art. 112), in Aedon, n. 1/2004; A. PAPA, Strumenti e procedimenti della valorizzazione del patrimonio culturale, Napoli, 2006, 133.
[43] Occorre notare che, se la Costituzione avesse voluto attribuire parte della materia (solo i beni culturali di titolarità/ disponibilità regionale) alle Regioni, lo avrebbe, forse, stabilito espressamente; ricordiamo a tal proposito l’abrogato art. 117 Cost. là dove, elencando le materie di potestà legislativa regionale concorrente come “viabilità, acquedotti e lavori pubblici”, specificava espressamente “di interesse regionale” in quanto, attribuiva alle Regioni tale materia, ma solo per quella parte che poteva interessare le stesse Regioni. Il principio dominicale, invece, sembra attribuire allo Stato una legislazione esclusiva in materia di valorizzazione relativamente ai beni di sua titolarità/disponibilità, ed alle Regioni (sempre in materia di valorizzazione) una legislazione concorrente solo relativamente ai beni di loro titolarità/disponibilità; ciò, però, non sembra assolutamente evincersi dal testo del novellato art.117 Cost.
[44] Cfr. D. NARDELLA, Un nuovo indirizzo giurisprudenziale per superare le difficoltà nell’attuazione del Titolo V in materia di beni culturali?, in Aedon, n. 2/2004.
[45] Per F. PIETRANGELI, Il riparto delle funzioni legislative tra Stato e Regioni in materia di beni culturali, in P. BILANCIA (a cura di), La valorizzazione dei beni culturali tra pubblico e privato, Milano, 2002, 62, non si possono tracciare confini assoluti e definitivi tra tutela e valorizzazione, soprattutto in un contesto di così marcata e continua innovazione legislativa; così anche G. SCIULLO, Il diritto dei beni culturali, op. cit., 59 e ss. Anche prima dell’emanazione del Codice Urbani vi era chi sosteneva che tutela e valorizzazione dovessero armonizzarsi tra loro: si veda per esempio C. BARBATI, Tutela e valorizzazione dei beni culturali dopo la riforma del Titolo V: la separazione delle funzioni, in Gior. Dir. Amm., 2/2003, 149, dove afferma che “ogni politica di valorizzazione serve alla stessa tutela, in quanto valorizzare un bene significa anche tutelarlo....”; dello stesso avviso sono anche M. AINIS, M. FIORILLO, I beni culturali, in S. CASSESE (a cura di) Trattato di Diritto Amministrativo, Milano, 2000, 1482, dove si sostiene che tutela e valorizzazione si coordinano tra di loro armonizzandosi in uno scambio costante.
[46] Così A. POGGI, La difficile attuazione del Titolo V, il caso dei beni culturali, op. cit.
[47] Così G. SCIULLO, Politiche per la tutela e la valorizzazione dei beni culturali e ruolo delle Regioni, in Aedon, 3/2003.
[48] D. NARDELLA, I beni e le attività culturali tra Stato e Regione e la riforma del Titolo V della Costituzione, in Dir. Pubbl. 2002/2, 671 e ss, ha elaborato, prima dell’emanazione del Codice, tale tesi, che rimane quanto mai attuale anche in vigenza del Codice. Anche G.C. De MARTIN, Tutela e valorizzazione nello Stato delle autonomie: una questione ancora aperta, in Studi in onore di U. Pototschinig, Milano, 2002, 425, auspica un sistema policentrico con una maggiore competenza per gli enti locali. Sostiene, infatti, che vi deve essere una competenza ordinaria delle Regioni e degli Enti locali non solo per la valorizzazione e la gestione, ma anche per la tutela e la conservazione e, perciò, propone una profonda riorganizzazione degli apparati regionali, provinciali e comunali operanti nel campo dei beni culturali.
[49] Sul regionalismo differenziato è interessante la lucida analisi di L. ANTONINI, Il regionalismo differenziato, Milano, 2000, che, anche se precedente alla riforma costituzionale del 2001, offre spunti di riflessione tutt’ora validi. Più recentemente si veda F. PALERMO, Il regionalismo differenziato in La Repubblica delle autonomie, Regioni ed enti locali nel nuovo Titolo V, Torino, 2005, 55 e ss. e B. CARAVITA DI TORITTO, Diritto costituzionale federale e regionale, Torino, 2006.
[50] Da notare che la Regione che ha mostrato maggiore attivismo nell’attuare l’art.116, comma 3, Cost. è stata la Toscana, che ha proposto, nel marzo 2003, particolari condizioni di autonomia riguardo la materia dei beni culturali: si veda, al riguardo, C. TUBERTINI, La consultazione degli enti locali nel procedimento ex art.116 comma 3, Cost, in Aedon,n. 1, 2003.
[51] Favorevole ad una più ampia applicazione dell’art. 116 Cost. è anche M. CAMMELLI, Introduzione, in C. BARBATI, M. CAMMELLI, G. SCIULLO (a cura di), Il diritto dei beni culturali, op. cit., XXV, che esprime giudizi molto positivi sull’art. 116 Cost. sostenendo che tale norma ”apre la strada ad un regionalismo a geometria variabile” molto utile a causa della eterogeneità dei problemi e delle condizioni socio economiche degli enti locali italiani. L’autore afferma che l’art. 116 Cost. potrà essere utilizzato in due modi: o per garantire le condizioni di unitarietà (integrando interventi statali e locali), oppure come “dualistica e netta separazione tra residue funzioni statali e un più ampio complesso di compiti affidati all’autonomia regionale”. A questo proposito è importante notare che il Codice Urbani sembra non aver recepito le possibilità offerte dall’art. 116 Cost.
[52] S. SETTIS, Battaglie senza eroi. I beni culturali tra istituzioni e profitto, Milano, 2002, 58 e 158; per M. AINIS, M. FIORILLO, I beni culturali, in S CASSESE (a cura di) Trattato di diritto amministrativo, Milano, 2000, 482, è necessario che le varie materie riguardanti i beni culturali “non corrano su binari separati o in compartimenti stagni, ma si coordinino tra loro, armonizzandosi”.
[53] F. PIETRANGELI, Il riparto delle funzioni legislative tra Stato e Regioni in materia di beni culturali, op. cit, 62 e C. BARBATI, Tutela e valorizzazione dei beni culturali dopo la riforma del Titolo V: la separazione delle funzioni, op. cit., 149 e 150.
[54] Per G. PASTORI, Tutela e valorizzazione dei beni culturali in Italia, situazioni in atto e tendenze, in Aedon, n. 3/2003; sempre G. PASTORI, Cooperazione delle Regioni e degli altri enti pubblici territoriali in materia di tutela del patrimonio culturale, in Aedon, 1/2004, critica l’art. 5 del Codice poiché parla di cooperazione tra enti, ma nel senso di ausiliarietà e collaborazione servente per le Regioni e gli altri enti locali.
[55] A. POGGI, La Corte torna sui beni culturali, in www.federalismi.it, n. 6/2004, sostiene che può essere possibile una sostanziale “condivisione” da parte delle Regioni anche della funzione di tutela a seguito dell’applicazione del principio di leale collaborazione. Anche per M. TORSELLO, Il Codice dei beni culturali e del paesaggio, in www.giustizia-amministrativa.it, il filo conduttore del Codice sarebbe il dovere costante di collaborazione tra lo Stato e le autonomie territoriali, giudicato positivamente, poiché permette la ricomposizione delle attività di tutela e di valorizzazione.
[56] M. CAMMELLI, Introduzione, in C. BARBATI, M. CAMMELLI, G. SCIULLO (a cura di) Il diritto dei beni culturali, op.cit., XXIV, è favorevole alla cooperazione tra enti locali, così come è previsto dal Codice, ma è perplesso circa la fase dell’impostazione delle politiche di settore e circa l’adozione dei conseguenti atti di programmazione e di indirizzo.
[57] Per P. BILANCIA, Verso un federalismo cooperativo?, in AA. VV., Problemi del Federalismo, Milano, 2004, 79, l’art. 118, III comma, Cost. è stato inserito apposta nel testo costituzionale per riequilibrare il rapporto tra tutela e valorizzazione, dato il “labile confine tra le due competenze”.
[58] M. CAMMELLI, Il Codice dei beni culturali e del paesaggio: dall’analisi all’applicazione, in Aedon, 2/20004, parla di un modello parzialmente affidato alle puntiformi soluzioni di singoli accordi o intese tra ministero ed enti interessati.
[59] In questa norma sembra chiaro il riferimento all’art. 116, comma 3, il quale prevede, come detto in precedenza, condizioni particolari di autonomia per le Regioni che ne facciano richiesta.
[60] Per G. PASTORI, Commento all’art. 5 in M. CAMMELLI (a cura di), il Codice dei beni culturali e del paesaggio Bologna, 2004, 86 il ruolo degli enti locali è sempre “servente” nei confronti del Ministero.
[61] Si vedano, ad es., tra le tante, le sentenze nn. 64/87, 921/88, 70/95, 242/97, 308/2003, 9/2004, 6/2006. La Corte utilizza il principio di leale collaborazione quando i confini relativi alle potestà normative ed amministrative tra Stato e Regioni ed enti locali non sono ben delimitati o delimitabili e quando vengono poste alla sua attenzione particolari materie connesse funzionalmente tanto da essere impossibile una precisa separazione nell’esercizio delle competenze. In tal caso la Corte auspica procedimenti in cui sia le istanze centrali che quelle locali possano essere rappresentate. Per un approfondimento circa il principio di leale cooperazione nella giurisprudenza costituzionale si veda S. AGOSTA, Dall’intesa in senso debole alla leale cooperazione in senso forte? Spunti per una riflessione alla luce della più recente giurisprudenza costituzionale tra (molte) conferme e (qualche) novità, in Quad. reg., 2004, 703 e ss.
[62] Occorre ricordare che il principio di leale collaborazione viene richiamato dalla Corte anche sul piano dei rapporti tra Regioni ed enti locali, come ha affermato nella sentenza n. 370/2006. In questo senso un ruolo centrale è rivestito dal Consiglio delle autonomie locali e dai sistemi di concertazione previsti da alcuni Statuti (ad es. art. 48. St. Calabria, art. 36 St. Marche).
[63] Per R. SAVOIA, Ipotesi di applicazione della sussidiarietà in un settore di amministrazione pubblica: il complesso caso dei beni culturali, in federalismi.it n. 16/2006, 11, sembra istituire, sia pure solo per una parte di beni culturali (quelli di appartenenza/disponibilità dello Stato), una riserva, anche amministrativa, in capo agli organi ministeriali, senza operare alcun riferimento ad esigenze di esercizio unitario come, invece, prevede la Costituzione.
[64] L. ZANETTI, Commento all’art.112 in M. CAMMELLI (a cura di) Il codice dei beni culturali e del paesaggio. Commento al D.Lgs 22/1/2004 n. 42, Bologna, 2004, 442 a proposito del Codice parla di configurazione di “un sistema tutto improntato al principio di consensualità”.
[65] Cfr P. L. PORTALURI, Art. 5, in M. A. SANDULLI (a cura di), Il Codice dei beni culturali e del paesaggio, Milano, 2006, 45.
[66] Cfr. G. SEVERINI, art.112 in M. A. SANDULLI (a cura di), Il Codice dei beni culturali e del paesaggio, Milano, 2006, 736.
[67] D. VAIANO, Commento all’art. 112 Codice dei beni culturali e del paesaggio, in Le nuove leggi civili commentate, 5/6 Padova, 2005, 1448.
[68] D. NARDELLA, I beni e le attività culturali tra Stato e Regioni e la riforma del Titolo V della Costituzione, in Diritto Pubblico, 2002, 2, 699.
[69] Sul costituzionalismo multilivello e per una riflessione sul processo di riforma del 2001 della Costituzione italiana, che ha rafforzato il ruolo e l’autonomia dei livelli regionali e locali di governo e le loro interrelazioni con il livello statale, si veda P. BILANCIA, F. G. PIZZETTI, (a cura di), Aspetti e problemi del costituzionalismo multilivello, Milano, 2004, e, per un approfondimento sulla tutela dei diritti fondamentali e gli ordinamenti giuridici a più livelli, A. D’ATENA, P. GROSSI, Tutela dei diritti fondamentali e costituzionalismo multilivello, Milano, 2004.

 

(pubblicato il 1.8.2007)

 

 
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