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n. 11-2007 - © copyright

 

FRANCESCO MANGANARO

L’indennità di espropriazione tra Corte costituzionale e Corte europea dei diritti dell’uomo*


Sommario: 1. L’evoluzione del diritto di proprietà privata nell’ordinamento italiano; 2. Indennità espropriativa e risarcimento del danno dovuto ad occupazione ablatoria; 3. La tutela della proprietà privata nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo; 4. Le modifiche conseguenti alla giurisprudenza di Strasburgo, introdotte nel d.p.r. n. 327 dell’8 giugno 2001; 5. Il valore normativo della Convenzione europea dei diritti dell’uomo nell’ordinamento italiano; 6. Le recenti sentenze della Corte costituzionale sulla tutela della proprietà.



1. L’evoluzione del diritto di proprietà privata nell’ordinamento italiano
Con le sentenze 348 e 349 del 24 ottobre 2007, la Corte costituzionale dichiara l’illegittimità dell’art. 5 bis commi 1 e 2 (sent. 348) e comma 7 bis (sent. 349) del decreto-legge 11 luglio 1992, n. 333, convertito, con modificazioni, dalla legge 8 agosto 1992, n. 359, pronunciandosi sul rapporto tra la Convenzione europea dei diritti dell’uomo e l’ordinamento interno.
Ripercorrendo l’evoluzione della vicende oggetto delle sentenze della Corte, si potrà comprendere la portata “storica” della suddette pronunce, con cui la Corte risolve, ad un tempo, la vexata quaestio relativa all’indennità espropriativa e la ben più spinosa questione di carattere generale sul rapporto tra le sentenze della Corte dei Diritti di Strasburgo e l’ordinamento interno.
Come è noto, il diritto di proprietà privata ha avuto storicamente un’evoluzione assai complessa, che dalla definizione totalizzante del codice del 1865 («La proprietà è il diritto di godere e disporre delle cose nella maniera più assoluta...») passa a quella più tenue dell’attuale Codice civile, che, pur configurando la proprietà come diritto pieno ed assoluto, la sottopone all’osservanza di limiti ed obblighi stabiliti dall’ordinamento giuridico.
L’ulteriore crisi del concetto di proprietà è dovuto sia alla moltiplicazione dei regimi proprietari, che trasforma la proprietà ne le proprietà[1], sia alla radicale modificazione dell’oggetto, in quanto la forte connotazione “fisica” della proprietà svanisce nella titolarità del diritto d’autore, nella categoria dell’impresa, nella proprietà societaria e nelle fondazioni, per arrivare alla totale “smaterializzazione” del concetto in altre forme “astratte” di proprietà[2].
L’art. 42 della Costituzione amplia i problemi interpretativi dell’istituto, introducendo la funzione sociale della proprietà[3], che - secondo la tesi più accreditata - configura un peculiare limite al diritto di proprietà (non riconducibile al principio dell’alterum non laedere di cui all’art. 2043 cod. civ.), individuabile nel dovere di esercitare i propri diritti senza comportare un eccessivo sacrifico degli interessi altrui. Con la funzione sociale, la proprietà privata non viene negata, ma inserita in una visione comunitaria (non collettivista) dell’ordinamento giuridico, in cui diritti e doveri si integrano a vicenda. Lo stesso termine “funzione” connota il diritto di proprietà come volto ad uno scopo, che deve essere “sociale”, cioè misurato sul corretto rapporto con la comunità di cui si fa parte[4].
La collocazione della proprietà nel capo dei rapporti economici e l’attribuzione al legislatore ordinario del potere di regolare la proprietà privata sembrano non configurarne un “contenuto minimo”, tanto che la garanzia apprestata alla proprietà si ridurrebbe nell’ammettere un qualche diritto di proprietà privata, senza alcun contenuto predefinito. Dall’altra, però, l’art. 42 “riconosce” (oltre a tutelare) la proprietà, rievocando nelle parole e nelle intenzioni una visione di un diritto preesistente al suo riconoscimento legislativo, richiamando così alla mente un concetto giusnaturalistico di proprietà. 
In particolare, la questione si appunta sulla scorporabilità dello jus aedificandi dal diritto di proprietà, cioè sulla legittimità dei vincoli espropriativi, anche impliciti. La querelle si sviluppa a partire dalle prime sentenze della Corte costituzionale sui vincoli alla proprietà imposti dai piani urbanistici (sent. 5/1968), proponendo subito una netta distinzione tra chi configura lo jus aedificandi come consustanziale al diritto di proprietà[5] e chi ritiene che il diritto di conformazione della proprietà fondiaria sia oggetto del potere pubblico di pianificazione urbanistica[6].
E’ su questo punto che si innesta la questione (poi affrontata esplicitamente nelle sentenze della Corte di Strasburgo) della riconducibilità della proprietà privata al catalogo dei diritti inviolabili dell’uomo.
Invero, la costante dottrina e la giurisprudenza della Corte costituzionale non attribuiscono alla proprietà privata tale connotazione[7], poiché essa appartiene all’ambito dei diritti patrimoniali, benché non si neghi l’importanza della titolarità di beni privati al fine di migliorare la qualità della vita personale, la dignità e la libertà delle persone[8].
I diritti fondamentali sono, infatti, universali, mentre i diritti patrimoniali, come la proprietà, spettano a singoli soggetti, che, anzi, escludono altri dal godimento del diritto. Perciò, per i primi vale “la chiave di lettura dell’uguaglianza, per i secondi la logica della differenziazione e dell’esclusione; i primi non sono, in via di principio, modificabili dalle maggioranze perché le maggioranze non possono disporre di quanto appartiene a tutti ed a ciascuno; i secondi sono, invece, disponibili, almeno fino a certe condizioni, si deve aggiungere, da parte della maggioranza politica in quanto, pur afferendo alla forma di Stato non sono sottratti al potere conformativo del legislatore né in tutto garantiti contro la possibile revisione costituzionale”[9].


2. Indennità espropriativa e risarcimento del danno dovuto ad occupazione ablatoria
Le vicende relative all’espropriazione ed all’occupazione acquisitiva nel nostro ordinamento sono assai note e tormentate.
Già nella legge fondamentale sull’espropriazione n. 2359 del 1865, il legislatore stabilisce casi peculiari e marginali (art. 64) in cui l’amministrazione può occupare beni privati per esigenze temporanee (ad esempio, per installare le opere di cantiere) al procedimento espropriativo[10], stabilendo altresì l’obbligo di risarcire il danno, ove l’occupazione ecceda i limiti previsti (art. 70). L’art. 71 prevede, poi, che in caso di necessità ed urgenza, l’autorità amministrativa possa ordinare l’occupazione temporanea, previa redazione dello stato di consistenza dei luoghi.
Il problema si presenta nella sua singolarità quando l’occupazione temporanea, prevista dall’art. 71, viene estesa in via generale dall’art. 39 r.d. 8 febbraio 1923, n. 422 a qualsiasi opera di pubblica utilità dichiarata urgente ed indifferibile dall’amministrazione[11] e la questione si aggrava vieppiù quando il legislatore, partendo da questa disposizione normativa, moltiplica i casi di indifferibilità ed urgenza ex lege, associandola alla dichiarazione di pubblica utilità (l. 3 gennaio 1978, n. 1).
La teorica distinzione tra occupazione temporanea ed espropriazione, nonché tra questa e l’occupazione d’urgenza[12] non impedisce il crearsi di un vero e proprio procedimento espropriativo alternativo a quello tradizionale, che – come era prevedibile – prende il sopravvento su quello “ordinario”, ritenuto dalle amministrazioni più complesso[13].
La legge n. 865 del 1971 estende l’occupazione d’urgenza, prevedendo che ciò possa avvenire – per un periodo non eccedente i cinque anni e con indennizzo - termine entro il quale dovrà essere emanato il decreto di esproprio. Il proprietario che subisce l’occupazione ha diritto all’indennità, che può immediatamente chiedere al giudice competente, senza dover attendere un’offerta dell’amministrazione.
Il problema riguarda le conseguenze a cui va incontro l’amministrazione nel caso in cui all’occupazione non faccia seguito – nel termine stabilito – il provvedimento di espropriazione, quando comunque sul terreno siano state iniziate o concluse opere pubbliche.
La giurisprudenza e la dottrina cominciano a distinguere tra occupazione sine titulo ab initio ed occupazione divenuta successivamente illecita per l’annullamento del titolo originario[14].
La prima opinione giurisprudenziale ritiene che il proprietario non perda il suo diritto, ma, non potendo ottenere la retrocessione del bene per l’esistenza dell’opera pubblica, possa avere adeguato risarcimento del danno[15]. Secondo un’altra opinione, ove l’utilità pubblica non sia stata perseguita, il proprietario può chiedere la remissione in pristino stato del bene occupato[16]. Infine, secondo una terza opinione, il proprietario perde il suo diritto nel momento della “irreversibile trasformazione” del fondo, avendo il diritto di chiedere il risarcimento per il danno subito[17].
La questione viene risolta dalla famosa sentenza delle Sezioni unite della Cassazione n. 1464 del 16 febbraio 1983, che, adottando l’ultima interpretazione giurisprudenziale, dà corpo alla cosiddetta accessione invertita od occupazione acquisitiva, in quanto, a differenze della normale accessione, è il titolare del costruito che acquisisce la proprietà del fondo. La Corte, poi, distingue tra occupazione con o senza titolo, solo quanto al termine da cui far decorrere la decadenza dell’azione. Se l’occupazione è già in origine senza titolo, il trasferimento della proprietà in capo all’amministrazione si ha al momento della realizzazione dell’opera pubblica, altrimenti (quando l’occupazione è consentita inizialmente da un titolo, poi ritenuto invalido) il trasferimento si avrebbe alla scadenza del termine di occupazione legittima. Il punto assai debole della sentenza è che essa configura l’illecito come istantaneo, facendone derivare un termine breve (5 anni) per l’esercizio dell’azione, computandolo per giunta da un fatto altamente incerto, quale è l’irreversibile trasformazione del fondo. Quest’ultima opinione si manifesta nelle sentenze della prima sezione della stessa Cassazione[18], che attribuisce all’occupazione illegittima natura di illecito permanente, estendendo così il termine per ricorrere, ma le Sezioni unite ribadiscono il loro pregresso orientamento[19].
A giustificare la soluzione giurisprudenziale sull’accessione invertita, parte della dottrina privatistica sostiene che l’acquisto della proprietà da parte dell’amministrazione non avverrebbe a seguito di un illecito; infatti, una volta avvenuta la trasformazione irreversibile del fondo, non esisterebbe più quel bene su cui si esercitava il diritto del proprietario: avremmo ora una specie di res nullius, che va attribuita, secondo il criterio della funzione sociale, a chi lo può utilizzare per il bene comune e, perciò, all’amministrazione pubblica[20].
Dal versante pubblicistico, invece, tale soluzione è subito avversata, poiché la soluzione giurisprudenziale si sostituisce al regolare procedimento espropriativo, mettendo così in pericolo la legalità amministrativa e confermando un insopportabile privilegio a vantaggio dell’amministrazione, sottratta alla responsabilità[21].
Dopo le citate sentenze della Cassazione, la Corte dei diritti, con la famosa sentenza Zubani c. Italia 7 agosto 1986, condanna l’amministrazione a causa del lungo tempo trascorso per il pagamento dell’indennità di espropriazione.
Il legislatore nazionale, volendo limitare i danni suscitati da tale decisione, emana la l. 27 ottobre 1988 n. 458, con cui si stabilisce che il proprietario di un terreno espropriato illegalmente, può chiedere il risarcimento del danno, ma non la restituzione del bene su cui è stata realizzata l’opera pubblica (norma giudicata legittima dalla sentenza della Corte costituzionale n. 384 del 31 luglio 1990)[22].
Questa interpretazione trova autorevole conferma nella sentenza n. 188 del 1995 della Corte costituzionale, in quanto la salvaguardia dell’opera pubblica prevale sull’interesse del proprietario, che, comunque, può essere adeguatamente indennizzato, applicando la previsione dell’art. 2043 sull’illecito aquiliano[23]. Tale principio non si applica nel caso in cui il provvedimento di occupazione e la dichiarazione di pubblica utilità siano stati annullati, facendo cessare i loro effetti ab initio[24].
Il problema si ripresenta quanto all’entità del risarcimento dovuto, poiché, mentre la giurisprudenza della Cassazione impedisce la retrocessione del bene, sul presupposto di un integrale risarcimento del danno, il legislatore, con la legge finanziaria del 1992 (art. 5 bis del decreto-legge n. 333 dell'11 luglio 1992) prevede una decurtazione del risarcimento, in quanto lo parifica all’indennizzo dovuto nel caso di espropriazione legittima.
La Corte interviene nuovamente con la sentenza 2 novembre 1996, n. 369, che dichiara l'illegittimità costituzionale del comma 6 dell'art. 5 bis del d.l. 11 luglio 1992, n. 333, come sostituito dall'art. 1, comma 65, della legge 28 dicembre 1995, n. 549, nella parte in cui applica al “risarcimento del danno” i criteri di determinazione stabiliti per “il prezzo, l'entità dell'indennizzo”.
Il legislatore, preso atto della nuova decisione, introduce (art. 3, comma 65, della legge 23 dicembre 1996, n. 662) il comma 7 bis del citato art. 5 bis del d.l. 333/92, stabilendo che il risarcimento del danno, per le occupazioni precedenti al 30 settembre 1996, corrisponda all’equivalente del valore previsto per l’espropriazione legittima (semisomma tra valore di mercato e reddito catastale rivalutato, decurtata del 40%) con esclusione della predetta decurtazione e contestuale aumento del 10%. La Corte costituzionale, con sentenza 148 del 30 aprile 1999, giudica legittima tale disposizione, in quanto “deve ritenersi ragionevole la riduzione imposta dalla norma denunciata, essendosi realizzato un equilibrato componimento dei contrapposti interessi in gioco, con l'eliminazione della ingiustificata coincidenza della entità dell'indennizzo per l'illecito della pubblica amministrazione con quello relativo al caso di legittima procedura ablatoria”[25].
Quello che è più sorprendente dell’intera vicenda è che la giurisprudenza della Suprema Corte italiana non si modifica nemmeno dopo le famose sentenze della Corte di Strasburgo del 30 maggio 2000 Belvedere Alberghiera e Carbonara e Ventura c. Italia (su cui, infra).
Infatti, con le sentenze n. 5902 e n. 6853 del 2003, le Sezioni unite della Cassazione ritengono che l’espropriazione acquisitiva non costituisca violazione della Convenzione europea, in quanto l’interpretazione data dalla giurisprudenza dal 1983 è divenuta costante, soddisfacendo al requisito della “prevedibilità”, richiesto dalla Corte europea come garanzia del principio di legalità.
La dottrina si dimostra nettamente contraria non solo perché si viola il principio di legalità amministrativa, ma anche perché si perpetua una superata concezione dell’irresponsabilità civile della pubblica amministrazione, che non tiene conto dell’evoluzione avvenuta anche nell’ambito del regime della responsabilità civile, secondo cui la funzione preventiva delle regole sulla responsabilità civile consiste nella misura del danno: quanto più alta è l’entità del danno risarcibile tanto più la norma sulla responsabilità svolge una funzione preventiva, dissuadendo i consociati dal tenere quel comportamento dannoso[26]. Nel caso dell’occupazione acquisitiva, si vanificherebbe l’iter procedimentale previsto per l’espropriazione regolare, consentendo all’amministrazione un’esenzione dalla responsabilità.


3. La tutela della proprietà privata nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo
L’art. 1 del Primo Protocollo allegato alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, siglato a Parigi il 20 marzo 1952, contiene tre disposizioni distinte ma collegate[27]: il diritto al rispetto dei beni di proprietà privata; le condizioni di legittimità dell’espropriazione per pubblica utilità; il diritto degli Stati di disciplinare l’uso dei beni in relazione all’interesse generale o per assicurare il pagamento delle imposte o di altri tributi o ammende (Iatridis c. Grecia 25 marzo 1999). Nel caso James c. Regno Unito 21 febbraio 1986, la Corte rileva che la differente formula utilizzata nei due commi - utilité publique nel primo comma e intérêt général nel secondo - rivela l’intenzione del legislatore europeo di differenziarne il contenuto normativo, lasciando ai singoli Stati plus de latitude per regolamentare l’uso dei beni[28].
La discussione sul significato di proprietà nella Convenzione non può che essere fatta a partire dall’interpretazione giurisprudenziale che ne ha dato la Corte dei Diritti, che si sofferma più sulla nozione di bene che su quella di diritto[29], facendo coincidere la nozione di bene con tutti gli interessi sostanziali[30], che non siano “teorici o illusori, ma concreti ed effettivi”[31].
In questo modo la Corte conforma una propria idea di bene - e quindi di proprietà - autonoma rispetto alla qualificazione giuridica data dagli ordinamenti interni, relativamente a quella medesima fattispecie[32]. Si ha, così, conferma della libertà interpretativa adottata dalla Corte, che amplia il concetto di bene tutelato – e quindi di proprietà – muovendosi in maniera autonoma rispetto agli ordinamenti nazionali, utilizzando i principi comuni degli Stati membri, solo ove siano utili alla ricostruzione di una nozione autonoma del concetto di bene e, dunque, dello stessa fattispecie proprietaria.
A poco a poco, la Corte sviluppa la sua giurisdizione in materia di proprietà, ampliando non solo – come si è visto in precedenza - la nozione di bene, ma anche sottoponendo a valutazione lo spazio discrezionale lasciato al legislatore nazionale nella regolazione della proprietà: formalmente ossequiosa del potere discrezionale degli Stati, ne riduce i confini, sottoponendolo a obblighi e prescrizioni
La prima sentenza significativa sul concetto di espropriazione è la famosa Sporrong e Lönnroth c. Svezia 23 settembre 1982, che concerne un vincolo rinnovato per oltre ventitre anni dal Comune di Stoccolma su beni dei ricorrenti. Si configura altresì un’espropriazione di fatto nel caso Loizidou c. Turchia 18 dicembre 1996, ove gli occupanti turchi dell’isola di Cipro impediscono di fatto alla ricorrente di accedere alla sua proprietà. Vi è altresì un’interferenza illecita nel diritto di proprietà, quando si priva il coltivatore diretto del 60% della sua proprietà senza che l’indennità sia adeguata all’utile del lavoro che il ricorrente perde con l’espropriazione (Lallement c. Francia 11 aprile 2002) o quando le previste realizzazione sociali, per le quali era avvenuto l’esproprio, non vengono realizzate (Motais de Narbonne c. Francia 2 luglio 2002); oppure ancora quando l’indennità viene pagata con estremo ritardo e senza tener conto del fatto che tutto il fondo, anche per la parte non espropriata, è inutilizzabile (Tsirikakis c. Grecia 17 gennaio 2002); o nel caso di requisizione di un bene per realizzare una caserma (Satka c. Grecia 27 marzo 2003).
La giurisprudenza della Corte si affina nel tempo, trovando ulteriori argomentazioni rispetto alla formula normativa della limitazione del diritto proprietario. Secondo la Corte, vi è violazione dall’art. 1 sia quando l’espropriazione è avvenuta in maniera illegittima[33] sia quando non vi sia stata determinazione dell’indennità[34] o anche quando vi sia espropriazione di fatto[35].
Si ha così conferma che la Corte, pur affermando che gli Stati nazionali hanno un ampio margine di apprezzamento nella regolazione della proprietà privata per fini di interesse pubblico, finisce per stabilire essa stessa, attraverso il controllo di ragionevolezza e proporzionalità della legislazione nazionale, quali siano i presupposti per ritenere legittimo il singolo atto di regolazione della proprietà privata.
La prima e principale condizione dell’espropriazione è che essa avvenga alle “condizioni previste dalla legge”, anche se il principio di legalità, espressamente stabilito solo per l’espropriazione, concerne invero ogni misura regolativa o limitativa del diritto di proprietà.
La questione affrontata dalla giurisprudenza della Corte è cosa debba intendersi per riserva di legge, se cioè, al fine prescritto dall’art. 1, sia necessaria una legge in senso formale e se, in secondo luogo, sia considerata normativa l’interpretazione della giurisprudenza nazionale.
In un primo momento, la Corte non enuncia il principio di legalità come titolo autonomo di condanna dello Stato, ma rileva esclusivamente l’eccessiva durata dei processi in materia espropriativa, con violazione del principio del giusto processo, sancito dall’art. 6 della Convenzione: la Corte, così, invece di valutare il margine di discrezionalità lasciato agli Stati nella regolamentazione della proprietà, si limita a constatare se la violazione del diritto sia avvenuta a seguito di un processo troppo lungo nel tempo.
Solo poco a poco la violazione del principio di legalità previsto dall’art. 1 assurge a criterio autonomo di giudizio della illegittimità delle decisioni nazionali.
Proprio nei casi proposti contro lo Stato italiano in materia di occupazione acquisitiva, la Corte afferma che il principio di legalità si concretizza nell’esistenza di norme “suffisamment accessibles, précises et prévisibles”, rilevando che, invece, nel caso in specie, la stessa applicazione giurisprudenziale è contraddittoria[36].
Questo orientamento viene ripetutamente confermato in casi successivi (Elia c. Italia 2 agosto 2001) e soprattutto nelle famose sentenze sul caso Scordino[37]. La Corte trova sostegno alla sua giurisprudenza nella decisione n. 2/2005 dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato[38], nella parte in cui si riconosce che il principio giurisprudenziale dell’espropriazione indiretta non ha mai dato luogo ad una regolamentazione “stabile, completa e prevedibile”, a garanzia della legalità dell’istituto[39]. Ancora nel caso Iuliano c. Italia del 14 dicembre 2006, il governo eccepisce che la nozione di legge comprende i principi generali espliciti o impliciti[40], ma ora la Corte si limita a richiamare la sua precedente e ormai consolidata giurisprudenza, secondo cui le norme debbono essere suffisamment accessibles, précises et prévisibles.


4. Le modifiche conseguenti alla giurisprudenza di Strasburgo, introdotte nel d.p.r. n. 327 dell’8 giugno 2001
La nuova legge sull’espropriazione n. 327 dell’8 giugno 2001 (modificata dal decreto legislativo n. 302 del 27 dicembre 2002 ed entrata in vigore il 30 giugno 2003), prendendo atto dell’orientamento della giurisprudenza della Corte di Strasburgo, normativizza l’occupazione ablativa. L’art. 43 del d.p.r. 327/2001 prevede che l’autorità che utilizzi un bene immobile per l’interesse pubblico, “modificato in assenza del valido ed efficace provvedimento di esproprio e dichiarativo della pubblica utilità” (anche quando tali atti, originariamente esistenti, siano stati annullati) può disporre l’acquisizione al suo patrimonio con il risarcimento del danno. Il proprietario può chiederne la restituzione, ma se il giudice lo ritiene impossibile, stabilisce la misura del risarcimento. La restituzione del bene (art. 46) si può avere solo ove l’opera pubblica non sia stata realizzata o cominciata entro dieci anni dalla data del decreto di esproprio o se la sua realizzazione era impossibile.
L’emanazione della legge sull’espropriazione appare ai giudici nazionali come il rimedio alla lamentata mancanza di un fondamento normativo dell’occupazione ablativa[41].
Così si consolida nella giurisprudenza della Cassazione successiva al 2003, un orientamento secondo cui, dopo l’approvazione della legge generale sull’espropriazione, l’occupazione acquisitiva non sarebbe più in contrasto con la disciplina CEDU, in quanto la Corte europea non avrebbe rilevato l'illiceità dell’istituto dell’occupazione acquisitiva, ma solo la necessità di una sua regolamentazione con norme "sufficientemente accessibili precise e prevedibili, tali da accordare una protezione efficace"[42].
La disciplina dell'istituto dell'occupazione appropriativa, che aveva già una base legale nei principi generali dell'ordinamento - ed aveva trovato previsione normativa settoriale con l'art. 3 l. 27 ottobre 1988 n. 458 e poi con l'art. 3, comma 65, l. 23 dicembre 1996 n. 662 (successivamente trasfuso nell'art. 55 d.P.R. 8 giugno 2001 n. 327) - risulterebbe così fondata su regole sufficientemente accessibili, precise e prevedibili[43] e l'occupazione appropriativa quale modo di acquisto della proprietà in capo all'ente pubblico non potrebbe ritenersi, allo stato della legislazione e dell'evoluzione giurisprudenziale, in contrasto con i principi contenuti nella Convenzione europea dei diritti dell'uomo, in particolare con il rispetto delle proprietà, sancito dall'art. 1 del Protocollo addizionale[44].
Tale interpretazione ha riacceso un dibattito sia tra Corte europea dei Diritti e Cassazione nonché tra i giudici nazionali, soprattutto tra Cassazione e Consiglio di Stato, con reciproche interferenze e richiami incrociati[45]
Quanto al primo conflitto interpretativo, la Corte di Strasburgo, di fronte alla nuove sentenze della Cassazione, conferma in maniera ancora più decisa del passato che in tutti i casi di occupazione appropriativa vi è violazione dell’art. 1 del Protocollo aggiuntivo[46].
Il governo italiano tenta ancora di distinguere tra occupazione sino titulo ab origine ed occupazione con titolo inizialmente legittimo, ma divenuta successivamente illecita per la mancanza del decreto di espropriazione nei termini previsti. La Corte non accoglie questa distinzione, sul presupposto che, comunque, non vi è stato adeguato ristoro dell’espropriato e che il titolo di proprietà dell’amministrazione sarebbe sempre un fatto illecito (Fiore c. Italia 13 ottobre 2005; Dora Chirò c. Italia 11 ottobre 2005).
L’ultimo e definitivo passo è compiuto dalla Corte nelle tre sentenze del maggio 2005 (Scordino c. Italia, Acciardi e Campagna c. Italia, Pasculli c. Italia), in cui la Corte non pronuncia l’illegittimità dell’occupazione acquisitiva nel singolo caso esaminato, ma evidenzia l’illiceità dell’istituto, che non consente una certezza giuridica della proprietà privata[47].
Ancora più di recente, nella sentenza 6 marzo 2007, sempre in causa Scordino c. Italia, la Corte afferma decisamente che l’espropriazione sine titulo, di origine giurisprudenziale, è contraria al principi di legalità e che, pertanto, la quantificazione del giusto ristoro deve avvenire sulla base del valore effettivo di mercato del bene, oltre rivalutazione ed interessi, esprimendo così un giudizio negativo sull’istituto e non solo sul singolo caso sottoposto al suo giudizio[48].

5. Il valore normativo della Convenzione europea dei diritti dell’uomo nell’ordinamento italiano
Le decisioni della Corte dei Diritto in materia di proprietà privata pongono il problema generale del rapporto tra ordinamento interno e CEDU[49], ben sapendo che la tutela di alcuni diritti, nell’attuale sistema multilivello[50], presenta interferenze e sovrapposizioni
La tutela dei diritti fondamentali è terreno di scontro tra Corte dei diritti dell’uomo e Corti costituzionali nazionali, soprattutto perché la Corte di Strasburgo, assumendo il ruolo di giudice internazionale, tende a considerarsi organo supremo di garanzia[51].
Il conflitto tra Corte costituzionale italiana e Corte dei Diritti si fonda sul ruolo che la Convenzione europea dei diritti ha nell’ordinamento interno[52]. L’opinione storicamente consolidata nella giurisprudenza della Corte costituzionale è che le norme della CEDU, in quanto regole pattizie, non abbiano la stessa forza delle norme costituzionali, essendo state introdotte nel nostro ordinamento con legge ordinaria (Corte cost. 104/69; 123/70)[53].
Più specificamente, nella sentenza n. 188/80, la Corte afferma che le regole introdotte dalla CEDU non trovano fondamento costituzionale né nell’art. 10 (“l’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute”) né nell’art. 11 della Costituzione (“l'Italia … consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo”). Pertanto “in mancanza di specifica previsione costituzionale le norme pattizie, rese esecutive nell’ordinamento interno della Repubblica, hanno valore di legge ordinaria”, cosicché bisogna escludere “le norme internazionali pattizie, ancorché generali, dall'ambito di operatività dell'art. 10 Cost. (sent. 48/79; 32/60; 104/69; 14/64) mentre l'art. 11 Cost. neppure può venire in considerazione non essendo individuabile, con riferimento alle specifiche norme pattizie in esame, alcuna limitazione della sovranità nazionale”.
Considerata la visione della Corte, i giudici nazionali tentano d’introdurre i principi della CEDU, considerandoli come “parametro interposto” tra la norma ordinaria impugnata e l’art. 10 della Costituzione: invece d’impugnare una norma per contrasto diretto con la CEDU, i giudici tentano di far valere la violazione dell’art. 10 Cost., che, a sua volta, legittimerebbe le norme CEDU, considerate regole di diritto internazionale generalmente riconosciute[54].
La Corte non accoglie tale ragionamento, in quanto l’adattamento automatico nel nostro ordinamento avverrebbe per le norme internazionali consuetudinarie e non – come nel caso in specie – per le norme pattizie, che, riconosciute con legge ordinaria, ne assumono la stessa forza (sent. 32/60 323/89; 342/1999), anche se non è chiaro perché tra le norme di diritto internazionale generalmente riconosciute debbano intendersi solo quelle consuetudinarie e non anche quelle pattizie.
L’ipotesi, occasionalmente prospettata, che attribuisce alla CEDU natura di fonte atipica rafforzata (sent. 10/93) viene rapidamente abbandonata, per tornare all’idea che le norme internazionali pattizie abbiano la forza giuridica dell’atto che le introduce nell’ordinamento italiano (sent. 73/2001)[55].
La questione si ripropone dopo la riforma costituzionale del 2001, poiché l’art. 117 comma 1 stabilisce che “la potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali”.
La dottrina maggioritaria ritiene che la riforma costituzionale non abbia alterato il contenuto sostanziale degli artt. 10 e 11, poiché le modifiche intervenute nella Carta costituzionale non incidono sui principi fondamentali previsti nella prima parte della Costituzione. La modifica dell’art. 117 servirebbe, perciò, a ripartire tra Stato e Regioni la materia relativa agli obblighi derivanti dal diritto internazionale, ma non a modificare la forza normativa di questi ultimi. Tuttavia, altra parte della dottrina ritiene riduttiva tale interpretazione del nuovo art. 117 Cost., sostenendo, invece, che il nuovo testo costituzionale – parificando le norme comunitarie agli obblighi internazionali - abbia attribuito anche a questi ultimi forza superiore alle norme di legge ordinaria[56].
La Corte di Cassazione, proprio adoperando come criterio d’interpretazione il nuovo art. 117 della Costituzione, solleva di fronte alla Corte costituzionale alcune questioni di legittimità costituzionale, in quanto l’art. 117, facendo riferimento al rispetto degli obblighi internazionali, introdurrebbe nel nostro ordinamento il rispetto dell’art. 1 del protocollo addizionale CEDU.
L'art. 5 bis del d.l. 11 luglio 1992 n. 333 (conv. in l. 8 agosto 1992 n. 359), stabilendo un’indennità espropriativa ridotta, sarebbe lesivo del diritto di proprietà per violazione dei vincoli derivanti dagli obblighi internazionali[57], ora tutelati dall'art. 117 Cost., comma 1, in quanto “le norme della Convenzione, in particolare gli artt. 6 e 1, prot. 1° add., divengono norme interposte, attraverso l'autorevole interpretazione che ne ha reso la Corte di Strasburgo, nel giudizio di costituzionalità”[58]. Non potendo, pertanto, disapplicare la norma nazionale in contrasto con la CEDU[59], il giudice italiano, dovrà chiedere il giudizio di legittimità costituzionale, anche in ordine alla violazione del principio del giusto processo previsto dall’art. 6 della CEDU: nel caso specifico, l’articolo 5 bis contrasterebbe con la disciplina CEDU nella parte in cui, disponendo l'applicabilità, ai procedimenti espropriativi in corso e ai giudizi pendenti, dei criteri di determinazione dell'indennità in esso contenuti per i suoli edificabili, violerebbe il diritto a un giusto processo per il soggetto espropriato e, in specie, le condizioni di parità delle parti davanti al giudice, determinando altresì un ristoro inadeguato ed eccessivamente riduttivo del valore venale del bene espropriato[60].
La Corte costituzionale viene chiamata, perciò, a pronunciarsi di nuovo sull’indennità espropriativa e, questa volta, dovendo valutare se il rinnovato articolo 117 Cost. – facendo riferimento agli obblighi internazionali – abbia attribuito alla Convenzione europea dei diritti una nuova efficacia normativa nell’ordinamento interno.


6. Le recenti sentenze della Corte costituzionale sulla tutela della proprietà
In questo complesso quadro interpretativo si pongono ora le due “storiche” sentenze n. 348 e n. 349 del 24 ottobre della Corte costituzionale[61].
Con la sentenza n. 348, la Corte dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 5 bis, commi 1 e 2, del decreto-legge 11 luglio 1992, n. 333, convertito, con modificazioni, dalla legge 8 agosto 1992, n. 359, che stabilisce il criterio di determinazione dell’indennità di espropriazione[62]. Inoltre, la Corte (seppure la questione non era stata sollevata nell’ordinanza di rimessione) dichiara l'illegittimità costituzionale, in via consequenziale, dell'art. 37, commi 1 e 2, del d.P.R. 8 giugno 2001, n. 327, che ha riproposto, nella nuova legge sull’espropriazione, lo stesso criterio indennitario.
Con la sentenza n. 349, la Corte dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 5 bis, comma 7 bis, del decreto-legge 11 luglio 1992, n. 333, convertito, con modificazioni, dalla legge 8 agosto 1992, n. 359, come introdotto dall'art. 3, comma 65, della legge 23 dicembre 1996, n. 662[63], il quale prevede, nel caso di occupazioni illegittime per causa di pubblica utilità (occupazione acquisitiva) intervenute anteriormente al 30 settembre 1996, lo stesso criterio indennitario delle occupazioni legittime con l’esclusione della riduzione del 40% e rivalutazione del 10%.
La questione analizzata in entrambe le sentenze concerne l’indennità nelle due diverse ipotesi di espropriazione (sent. 348) o di occupazione illegittima (sent. 349), ora considerata alla luce delle numerose sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo, che condannano lo Stato italiano per l’insufficiente valore attribuito all’indennizzo, soprattutto nel caso di occupazione acquisitiva[64].
La Corte si trova, in questa occasione, di fronte ad un bivio interpretativo, che concerne la sua stessa funzione di garante della Costituzione: riconoscere il ruolo sovraordinato delle norme della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, perdendo la sua potestà interpretativa delle norme costituzionali oppure negare rilievo alla giurisprudenza della Corte dei diritti in una materia quale l’indennità espropriativa, su cui la stessa Corte costituzionale aveva spesso manifestato perplessità, pur senza giungere a dichiararne l’incostituzionalità.
La Corte costituzionale non intende rinunciare alle sue precedenti convinzioni, secondo cui la CEDU, in quanto norma pattizia, non ha efficacia diretta nell’ordinamento nazionale. Essa non ha un ruolo sovraordinato rispetto alle norme costituzionali né trova fondamento negli artt. 10 e 11 della Costituzione. La CEDU, a differenza dei Trattati dell’Unione europea, non crea un nuovo ordinamento giuridico sovranazionale (come quello dell’Unione europea), i cui atti sono immediatamente applicabili negli Stati contraenti, cosicché non si può disapplicare (come, peraltro, alcuni giudici di merito hanno fatto: Cass., sez. I, sentenza n. 6672 del 1998; Cass., sez. un., sentenza n. 28507 del 2005) la norma interna in contrasto con la CEDU.
La Corte, per regolare la questione, utilizza perciò l’art. 117 Cost. come parametro interposto rispetto all’art. 1 del protocollo aggiuntivo della CEDU. La Corte, senza contraddire la sua precedente giurisprudenza[65], rileva che il nuovo art. 117 introduce – come vincolo all’attività legislativa – quelli “derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali”, differenziando gli uni dagli altri, cosicché anche gli obblighi internazionali diventano criterio di legittimità delle norme interne.
Ad avviso della Corte, la nuova statuizione dell’art. 117 ha “costituzionalizzato” gli obblighi internazionali, nel modo in cui le norme pattizie li determinano, ma costituzionalizzandoli consente alla Corte di valutarne la conformità alla Costituzione[66]. Infatti, le norme richiamate come parametro di costituzionalità (in questo caso, le norme CEDU), “sono di rango subordinato alla Costituzione, ma intermedio tra questa e la legge ordinaria” (sent. 348). Si tratta perciò - come afferma esplicitamente la sent. 349 - di un rinvio mobile alla norma internazionale[67].
Rimane, tuttavia, incerta la forza giuridica della CEDU nell’ordinamento interno, poiché essa assumerebbe un ruolo sovralegislativo, ma non costituzionale, che serve a concretizzare quali siano gli obblighi internazionali, a cui l’ordinamento nazionale deve adeguarsi, ai sensi dell’art. 117 Cost.
Questa soluzione lascia parecchi dubbi concettuali, poiché non appare chiaro come la CEDU, introdotta nel nostro ordinamento con legge ordinaria, secondo quanto ribadito dalla stessa Corte costituzionale, possa acquisire una forza sovralegislativa: la dottrina ha rilevato, infatti, che questa finalità sarebbe perseguibile ove “l’adattamento avvenga con una legge costituzionale, che stabilisca espressamente la prevalenza delle norme così create sulle fonti primarie”[68].
La Corte risolve, perciò, la questione, rivendicando di essere l’unica interprete della Costituzione, in quanto l’esegesi della CEDU fornita dalla Corte di Strasburgo rimane sempre oggetto della valutazione della Corte costituzionale, quanto alla conformità alla Costituzione nazionale[69]. Non basta, perciò, l’interpretazione della Corte dei diritti per ritenere, nel caso in specie, illegittima la norma impugnata in materia di indennità espropriativa, ma vi è sempre bisogno di un giudizio della Corte costituzionale sulla conformità di tale interpretazione al parametro costituzionale.
In via generale, la sentenza n. 349 afferma che “questa Corte e la Corte di Strasburgo hanno in definitiva ruoli diversi, sia pure tesi al medesimo obiettivo di tutelare al meglio possibile i diritti fondamentali dell'uomo…. Non si tratta, invero, di sindacare l'interpretazione della norma CEDU operata dalla Corte di Strasburgo, come infondatamente preteso dalla difesa erariale nel caso di specie, ma di verificare la compatibilità della norma CEDU, nell'interpretazione del giudice cui tale compito è stato espressamente attribuito dagli Stati membri, con le pertinenti norme della Costituzione. In tal modo, risulta realizzato un corretto bilanciamento tra l'esigenza di garantire il rispetto degli obblighi internazionali voluto dalla Costituzione e quella di evitare che ciò possa comportare per altro verso un vulnus alla Costituzione stessa”.
Seguendo il medesimo iter argomentativo, la conclusione a cui la Corte perviene, nella sentenza n. 348, è che la norma sottoposta a giudizio, “la quale prevede un'indennità oscillante, nella pratica, tra il 50 ed il 30 per cento del valore di mercato del bene, non supera il controllo di costituzionalità in rapporto al «ragionevole legame» con il valore venale, prescritto dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo e coerente, del resto, con il «serio ristoro» richiesto dalla giurisprudenza consolidata di questa Corte”.
L’incostituzionalità viene, perciò, sancita perché l’interpretazione della Corte di Strasburgo corrisponde a quanto previsto dall’art. 42 della Costituzione, secondo la costante interpretazione della Corte costituzionale, che attribuisce all’indennità il valore di un serio ristoro. Introdotta la forza normativa della CEDU attraverso il rinvio dell’art. 117 Cost. al rispetto degli obblighi internazionali, l’indennità conseguente al sacrifico della proprietà privata è ritenuta inadeguata secondo i parametri costituzionali.
Rimane ancora affidata al legislatore la determinazione di un’adeguata indennità, poiché, rispettando i ruoli, la Corte, come in tutte le precedenti sentenze in tema di espropriazione, sancisce l’illegittimità di quel determinato modo di computo dell’indennità fissato dalla norma incostituzionale, ma lascia al legislatore di stabilire come debba essere calcolata.
Invero, né nella sentenza della Corte costituzionale né nelle numerose decisioni della Corte dei diritti si afferma che la corretta indennità sia eguale al valore venale del bene, benché questo debba essere considerato parametro di riferimento dell’indennità. Lo riafferma esplicitamente la sentenza n. 348, rilevando che “il legislatore non ha il dovere di commisurare integralmente l'indennità di espropriazione al valore di mercato del bene ablato”, poiché “l'art. 42 Cost. prescrive alla legge di riconoscere e garantire il diritto di proprietà, ma ne mette in risalto la «funzione sociale». Quest'ultima deve essere posta dal legislatore e dagli interpreti in stretta relazione all'art. 2 Cost., che richiede a tutti i cittadini l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà economica e sociale”. In questa occasione, la Corte va ancora oltre nell’indirizzare le future decisioni del legislatore, in quanto rileva la correttezza di quella interpretazione della Corte dei diritti che differenzia l’indennizzo secondo che si tratti di un “esproprio isolato” o di un complesso di espropri dovuti a leggi di riforma economico-sociale, attribuendo ai primi minore funzione sociale rispetto ai secondi e, dunque, considerandoli maggiormente indennizzabili rispetto a questi ultimi.
Ovviamente differente è la conclusione a cui perviene la sentenza n. 349 sul punto specifico, poiché, nel caso di occupazione acquisitiva, l’illiceità della condotta dell’amministrazione comporta il pagamento di una somma equivalente al valore venale del bene, secondo una costante interpretazione della Corte di Strasburgo[70].
Permane, invece, ancora una sostanziale differenza tra Corte costituzionale e Corte dei diritti circa la valutazione sulla legittimità dell’occupazione acquisitiva. A partire dalle sentenze del 2005, la Corte dei Diritti rileva – come abbiamo già visto – che l’occupazione acquisitiva contraddice il principio di legalità e non può essere, dunque, considerata un modo lecito di trasferimento della proprietà, in quanto viene favorita l’illegalità e non certo la buona amministrazione. La Corte costituzionale, invece, si limita a pronunciarsi solo sulla misura dell’indennità in quanto “entrambe le ordinanze di rimessione non sollevano il problema della compatibilità dell'istituto dell'occupazione acquisitiva in quanto tale con il citato art. 1, ma censurano la norma denunciata esclusivamente nella parte in cui ne disciplina la ricaduta patrimoniale” (par. 8, sent. 349).
Se, dunque, non vi è dubbio circa la definitiva cessazione dell’impugnato criterio indennitario per l’espropriazione di suoli edificatori (sent. 348), non si può dire che l’istituto dell’occupazione acquisitiva sia stato espunto dal nostro ordinamento, essendo anzi rimasta inalterata la regolamentazione predisposta dall’art. 43 del d.p.r. 327 del 2001, che prevede l’utilizzazione senza titolo di un bene per scopi di interesse pubblico. Anche la determinazione del risarcimento del danno in questo caso rimane confermata, in quanto – per stabilire il valore di un terreno edificabile – il comma 6 del citato art. 43 rinvia ai commi 3,4,5,6, e 7 dell’art. 37, che non sono stati dichiarati incostituzionali dalla sentenza n. 348.
Che questa sia l’unica interpretazione possibile è confermato dal diverso modo con cui le due sentenze della Corte utilizzano il potere di dichiarare l’illegittimità costituzionale consequenziale, ai sensi dell'art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87. Infatti, mentre nella sentenza n. 348, si deduce la conseguente illegittimità (pur non eccepita nell’ordinanza di rimessione) dell’art. 37 del d.p.r. 327/2001 che riproponeva integralmente il contenuto della norma dichiarata incostituzionale, nella sentenza n. 349 la Corte si premura di limitare il thema decidendum alla “ricaduta patrimoniale” dell’occupazione acquisitiva, rilevando che l’ordinanza di rimessione fa riferimento solo a questo profilo, senza pronunciarsi sull’occupazione acquisitiva di cui all’art. 43 del d.p.r. 327/2001.
Pur con questi limiti, le due citate sentenze rappresentano una svolta fondamentale non solo per la disciplina dell’oggetto specifico su cui si pronunciano, ma anche per il diverso rapporto che esse configurano tra la Convenzione europea dei diritti dell’uomo, secondo l’interpretazione datane dalla Corte di Strasburgo, e l’ordinamento interno.
Certo queste decisioni provocheranno ulteriori interventi normativi e nuovi orientamenti giurisprudenziali.
Riguardo al problema specifico dell’indennità di espropriazione di suoli edificatori, rimane al legislatore il compito di definire quale sia il serio ristoro, sapendo ora che il valore venale del bene costituisce un irrinunciabile parametro di riferimento.
Dal punto di vista dei rapporti tra Convenzione europea dei diritti dell’uomo e ordinamento interno sembrano possibili, a partire da queste sentenze, nuove evoluzioni giurisprudenziali, soprattutto se il quadro normativo dovesse ulteriormente modificarsi con l’approvazione definitiva del Progetto, deliberato di recente dalla Conferenza intergovernativa, che modifica il Trattato dell’Unione europea e il Trattato istitutivo della Comunità europea, ove è previsto che l'Unione aderisca alla Convenzione europea. A quel punto – ma si tratta di una previsione de iure condendo – la Convenzione, secondo l’interpretazione datane dalla Corte di Strasburgo, diventerà acquis comunitario con efficacia diretta nel nostro ordinamento interno e non più norma di rinvio mobile di un parametro interposto previsto in Costituzione.

 

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* Il lavoro prende spunto dalla relazione dal titolo La Convenzione europea dei diritti dell’uomo e il diritto di proprietà (il diritto dell’espropriazione), presentata al secondo incontro italo-francese di Diritto amministrativo, svoltosi a Parigi il 12 ottobre 2007, successivamente modificata dopo l’emanazione delle sentenze della Corte costituzionale nn. 348 e 349 del 24 ottobre 2007.
[1] S. Pugliatti. La proprietà nel nuovo diritto, Milano, 1954; S. Mangiameli, La proprietà privata nella Costituzione, Milano, 1986; P. Rescigno, Proprietà (dir. priv.), in Enc. Dir., XXXVII, Milano, 1988, A. Baldassarre, Proprietà (dir. cost.), in Enc. Giur., XXV, Roma, 1991.
[2] P. Rescigno, Proprietà (dir. priv.), cit.
[3] La “funzione sociale” è un’idea che deriva da matrici culturali differenti, che partono dalle variegate tradizioni del comunitarismo cattolico, della socialdemocrazia di Weimar ed anche dagli orientamenti solidaristici dell’ordinamento corporativo.
[4] S. Rodotà, Note critiche in tema di proprietà, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1960, 1252 ss.; S. Rodotà, Le fonti di integrazione del contratto, Milano, 1969 sostiene che la clausola di correttezza, già vigente nel codice civile del 1942, trova un diverso fondamento e significato nelle norme costituzionali. In tal senso anche L. Mengoni, Obbligazioni "di risultato" e obbligazioni "di mezzi", in Riv. dir. comm., 1954, I, 393 e U. Natoli, La proprietà. Appunti delle lezioni, I, Milano, 1965, 137.
[5] A.M. Sandulli, Profili costituzionali della proprietà privata, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1972, 473 ss..
[6] M. S. Giannini, Basi costituzionali delle proprietà privata, in Pol. dir., 1971, 475 ss. ed ora in Scritti, VI, Milano, 2005; A. Predieri, Riserva della facoltà di edificare e proprietà funzionalizzata delle aree fabbricabili, in Aa. Vv., Urbanistica, tutela del paesaggio ed espropriazione, Milano, 1969.
[7] A. Baldassarre, Proprietà (dir.cost.), cit., afferma che la proprietà cessa di essere un diritto “inviolabile” dell’uomo, o un attributo originario della personalità dell’uomo (“diritto dell’uomo”) e diviene un diritto valore basato sulla costituzione positiva e da questa variamente connessa ai valori posti al vertice del proprio ordinamento e correlato ad interessi generali (collettivi) costituzionalmente tutelati”. In tal senso: F. Fracchia – M. Occhiena, I beni privati e il potere pubblico nella giurisprudenza della Corte costituzionale, in Diritto amministrativo e Corte costituzionale (a cura di G. della Cananea e M. Dugato), Napoli, 2007, 13
[8] S. Amorosino, A. M. Sandulli ed il regime dei suoli: un “riformista” non sufficientemente “riconosciuto”, in Dir. e soc., 2006, 120 ss.; R. Chieppa, Le garanzie della proprietà privata e il pensiero di Aldo Sandulli, in Aldo M. Sandulli (1915-1984), Milano, 2004, 433 ss.
[9] A. Moscarini, Proprietà privata e tradizioni costituzionali comuni, Milano, 2006, 101, che richiama L. Ferrajoli. Diritti fondamentali. Un dibattito teorico, Roma, 2002.
[10] R. Caranta, Espropriazione per pubblica utilità (procedimento), in Enc. Dir., V agg., Milano, 2001.
[11] Ad avviso di A. Gambaro, Occupazione acquisitiva, in Enc. Dir., IV agg., Milano, 2000, questa disposizione rappresenta il vero inizio del problema, perché finisce per premiare amministrazioni incapaci di gestire le forme ordinarie di espropriazione.
[12] M. S. Giannini, Osservazioni sui provvedimenti di occupazione, in Foro amm., 1953, I, 1, 25; Id., Diritto amministrativo, II, Milano, 1970, 1236; F. Pugliese, L'occupazione preliminare nel procedimento di espropriazione, Napoli, 1984; G. Verbari, Occupazione (diritto pubblico), in Enc. Dir., XXIX, Milano, 627 ss.
[13] D. Sorace, Espropriazione per pubblica utilità, in Dig. disc. pubbl., VI, Torino, 1991, 194. In tal senso anche E. Casetta – G. Garrone, Espropriazione per pubblico interesse, in Enc. giur., XIII, Roma, 1989; M. Conticelli, L'espropriazione, in Trattato di diritto amministrativo a cura di S. Cassese, Diritto amministrativo speciale, II, Milano, 2003, 1994; F. Pugliese, Occupazione nel diritto amministrativo, in Dig. disc. pubbl., X, Torino, 1995, 263 ss.
[14] M. Calogero, L’occupazione acquisitiva, Milano, 1996; M. Calogero – A. Totano, L’occupazione acquisitiva nel quadro del procedimento espropriativo, Padova, 1998.
[15] Corte di cassazione n. 2341 del 1982, n. 4741 del 1981, n. 6452 e n. 6308 del 1980.
[16] Corte di Cassazione n. 1578 del 1976, n. 5679 del 1980.
[17] Corte di Cassazione n. 3243 del 1979.
[18] Corte di Cassazione n. 7952 del 1991 e n. 10979 del 1992.
[19] Corte di Cassazione, sez. un., 22 novembre 1992
[20] G. Costantino, Le trasformazioni irreversibili dei beni giuridici fra fatti e atti di autonomia privata, in La civilistica italiana dagli anni '50 ad oggi: tra crisi dogmatica e riforme legislative (Atti del Congresso dei civilisti italiani, Venezia, 23-26 giugno 1989), Padova, 1991, 539. Contra, A. Gambaro, Occupazione acquisitiva, in Enc. Dir., IV agg,, Milano, 2000, ad avviso del quale il rimedio risarcitorio è più realistico di quello restitutorio, teoricamente più corretto.
[21] D. Sorace, Espropriazione per pubblica utilità, in Dig. disc. pubbl., VI, 1991, 194.
[22] Corte cost., 31 luglio 1990 n. 384, in Foro it., 1992, I, 1073, con nota di S. Benini, Il riconoscimento legislativo dell’occupazione acquisitiva. La Corte – decidendo un caso di occupazione in materia di edilizia pubblica in cui è parte anche Zubani – ritiene che il legislatore “con la norma impugnata, in una completa ed adeguata valutazione degli interessi in gioco, non si è limitato a corrispondere "l'indennizzo", ma ha previsto l'integrale risarcimento del danno subito, ivi compresi (art. 3, ultimo comma, della legge impugnata) quanto dovuto a titolo di svalutazione monetaria "e le ulteriori somme di cui all'art. 1224, secondo comma, c. civ., a decorrere dal giorno dell'occupazione illegittima".
[23] Corte cost., 23 maggio 1995, n. 188, in Foro amm., 1998, 637, afferma, per quanto attiene al modo di acquisto della proprietà da parte della pubblica amministrazione, che l’acquisto del “nuovo bene risultante dalla trasformazione del precedente, si configura invece come una conseguenza ulteriore, eziologicamente dipendente non dall'illecito ma dalla situazione di fatto - realizzazione dell'opera pubblica con conseguente non restituibilità del suolo in essa incorporato - che trova il suo antecedente storico nell'illecita occupazione e nella illecita destinazione del fondo alla costruzione dell'opera stessa”.
[24] Corte di Cassazione n. 1907 del 1997; n. 6515 del 1997; n. 5902 del 2003.
[25] In tal senso, anche, Corte costituzionale 4 febbraio 2000, n. 24.
[26] P. G. Monateri, La responsabilità civile. Le fonti delle obbligazioni, in Trattato di diritto civile (diretto da R. Sacco), Torino, 1998, 313.
[27] L'art. 1 del Protocollo addizionale stabilisce: “Ogni persona fisica o giuridica ha diritto al rispetto dei suoi beni. Nessuno può essere privato della sua proprietà se non per causa di utilità pubblica e nelle condizioni previste dalla legge e dai principi generali del diritto internazionale. Le disposizioni precedenti non portano pregiudizio al diritto degli Stati di porre in vigore le leggi da essi ritenute necessarie per disciplinare l’uso dei beni in modo conforme all’interesse generale o per assicurare il pagamento di imposte o di altri contributi o delle ammende”.
[28] Sul punto, ampiamente: M. L. Padelletti, La tutela della proprietà nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo, Milano, 2003.
[29] F. Fracchia – M. Occhiena, I beni privati e il potere pubblico nella giurisprudenza della Corte costituzionale, cit., 13 ss., rilevano che il nucleo minino della proprietà è il bene. Vi sarebbe perciò una netta distinzione tra la tutela del bene come nucleo minimo dei diritto e l’imposizione di vincoli connessi alla funzione sociale. Notano gli Autori che “la confusione (se di confusione può parlarsi) è generata dalla qualificazione delle vicende impositive di vincoli urbanistici come potenzialmente espropriative, espungendo così gli altri vincoli dall’area dell’indennizzo”, cosicché si potrebbe ipotizzare l’estensione dell’indennizzo senza ampliare i limiti dell’istituto espropriativo. La tesi proposta consiste, dunque, nel configurare la disciplina della cosa (intesa come nucleo minimo della proprietà) in maniera distinta dalla funzione sociale, che concerne le situazioni giuridiche soggettive predicabili sul bene e la previsione di poteri espropriativi.
[30] Ed è tale l’interesse di un esule polacco rimpatriato, che voglia la restituzione di beni di proprietà dei suoi avi (Broniowski c. Polonia 22 giugno 2004).
[31] Nel caso Azas c. Grecia 19 settembre 2002, viene tutelato l’uso di fatto di alcuni terreni. Ad avviso della Corte, « la notion de « biens» a une portée autonome qui ne se limite certainement pas à la propriété de biens corporels: certains autres droits et intérêts constituant des actifs peuvent aussi passer pour des « droits de propriété » et donc pour des « biens » aux fins de cette disposition (arrêts Gasus Dosier- und Fördertechnik GmbH c. Pays-Bas, 23 février 1995, série A no 306-B, p. 46, § 53, et Matos e Silva, Lda., et autres c. Portugal, 16 septembre 1996, Recueil 1996-IV, p. 1111, § 75) ». In questo senso, anche, Doğan c. Turchia 29 giugno 2004.
[32] Marckx c. Belgio 13 giugno 1979; Iatridis c. Grecia 25 marzo 1999; Beyeler c. Italia 5 gennaio 2000.
[33] Hatzikakis c. Grecia 11 aprile 2002; Katsaros c. Grecia 6 giugno 2002.
[34] Konstantopoulos c. Grecia 10 luglio 2003; Interoliva Abee c. Grecia 10 luglio 2003.
[35] Papamichalopoulos c. Grecia 24 giugno 1993; Tsomtsos c. Grecia 15 novembre 1996; Katikaridis c. Grecia 15 novembre 1996, Papachelas c. Grecia 25 marzo 1999; Savvidou c. Grecia 1 agosto 2000; Malama c. Grecia 1 marzo 2001, Karagiannis c. Grecia 16 gennaio 2003; Nastou c. Grecia 16 gennaio 2003; Yiltaş Yildiz Turįstįk Tesįslerį a.s.c. Turchia 24 aprile 2003; I.R.S. c. Turchia 20 luglio 2004.
[36] La Corte evita di soffermarsi sulla spinosa questione circa la configurabilità della giurisprudenza come fonte del diritto, rilevando che “la Cour n'estime pas utile de juger in abstracto si le rôle qu'un principe jurisprudentiel, tel que celui de l'expropriation indirecte, occupe dans un système de droit continental est assimilable à celui occupé par des dispositions législatives.
[37] Scordino c. Italia sez. I, 15 luglio 2004; sez. I, 29 luglio 2004; sez. IV, 17 maggio 2005; Grande Chambre, 29 marzo 2006; sez. IV, 6 marzo 2007.
[38] M. L. Maddalena, Dalla occupazione appropriativi alla acquisizione ad effetti sananti: osservazioni a margine dell’adunanza plenaria n. 2 del 2005, in Foro amm. CDS, 2005, 2109 ss.
[39] In questo senso: Serrilli c. Italia 17 novembre 2005 e 6 dicembre 2005, decisa con procedura d’urgenza ex art. 29; Guiso-Gallisay c. Italia 8 dicembre 2005; Mason c. Italia 17 maggio 2005; Sciarrotta c. Italia 12 gennaio 2006; Cerro c. Italia 23 febbraio 2006; De Sciscio c. Italia 20 aprile 2006; Ucci c. Italia 22 giugno 2006; Lo Bue c. Italia, 13 luglio 2006; Dedda e Fragassi c. Italia 21 settembre 2006; Matthias c. Italia 2 novembre 2006.
[40] Il Governo italiano, citando alcuni precedenti della stessa Corte, tenta di dimostrata che con il termine “legge” ci si riferisce anche ai principi generali espliciti o impliciti.
[41] A. Romeo, Occupazione acquisitiva e (possibile) lesione del diritto di proprietà, in Aa.Vv., Codice delle cittadinanze (a cura di R. Ferrara, F. Manganaro, A. Romano Tassone), Milano 2006, 144 ss., esprime forti perplessità sulla sanatoria di un atto illecito, rilevando come la soluzione adottata sia comunque sostanzialmente in contrasto con le sentenze della Corte di Strasburgo. Eguali note critiche sulle garanzie per l’espropriato esprime S. Ruscica, Poteri ablativi dell’amministrazione e protezione del proprietario, ivi, 164 ss.
[42] Cassazione civile, sez. I, 17 novembre 2004, n. 21750, in Giust. civ. Mass., 2004, 11.
[43] Cassazione civile, sez. I, 15 luglio 2004, n. 13113, in Giust. civ. Mass., 2004, 7-8 e in Foro amm. CDS, 2004, 1999.
[44] Cassazione civile, sez. un., 6 maggio 2003, n. 6853, in Riv. giur. edilizia, 2004, I, 554 con nota di Masselli; Cassazione civile, sez. I, 11 giugno 2004, n. 11096, in Foro it., 2005, I, 466; Cassazione civile, sez. I, 17 novembre 2004, n. 21750; Cassazione civile, sez. I, 15 febbraio 2005, n. 3033, in Riv. giur. edilizia, 2005, 4 1196; Cassazione civile, sez. I, 11 marzo 2005, n. 5380, in Riv. giur. edilizia, 2005, 1872; contra, nel senso che l’occupazione acquisitiva contrasta con le norme CEDU: Corte appello Firenze, 22 marzo 2005, in Giur. merito, 2005, 1649 con nota di Conti.
[45] G. Milo, Giudici italiani e Corte europea dei diritti dell’uomo di fronte al diritto di proprietà, in Riv. it. dir. pubbl. com., 2003, 1485 ss.; F. Buonomo, La tutela della proprietà dinanzi alla Corte europea dei diritti dell’uomo, Milano, 2005; R. Conti, L’occupazione acquisitiva. Tutela della proprietà e dei diritti umani, Milano, 2006.
[46] Tra le tante, in questo senso: Donati c. Italia 15 luglio 2005 ; Colacrai c. Italia 13 ottobre 2005; Lantieri c. Italia 15 novembre 2005; Serrao c. Italia 13 ottobre 2005; Ciarletta c. Italia 15 luglio 2005; De Pascale c. Italia 13 ottobre 2005; Bigotti c. Italia 13 ottobre 2005; Capone c. Italia 6 dicembre 2005; Prenna c. Italia 9 febbraio 2006; Acciardi e Campagna c. Italia 19 maggio 2005; Sciarrotta c. Italia 12 gennaio 2006; Colazzo c. Italia 13 ottobre 2005; Dominaci c. Italia 15 novembre 2005; Istituto diocesano sostentamento del clero 17 novembre 2005; Pia Gloria Serpilli 17 novembre 2005; Bigotti 17 novembre 2005; Di Cola 15 dicembre 2005; Scozzari 15 dicembre 2005; Giacobbe c. Italia 15 dicembre 2005; Genovese c. Italia 2 febbraio 2006; Immobiliare Cerro c. Italia 23 febbraio 2006; Izzo c. Italia 2 marzo 2006; Lo Bue c. Italia 13 luglio 2006; Zaffuto c. Italia 13 luglio 2006; Maselli c. Italia (n. 2) 11 luglio 2006: Terrazzi c. Italia 17 ottobre 2002; Stornaiuolo c. Italia, 8 agosto 2006; Gianni c. Italia 30 marzo 2006; Mason c. Italia 24 luglio 2007.
[47] F.G. Scoca, Modalità di espropriazione e “rispetto” dei beni (immobili) privati, in Dir. amm., 2006, 519 ss.; Id., Indennità di espropriazione: la diversa sensibilità della Consulta e della Corte di Strasburgo, in www.federalismi.it 11/2006, secondo cui la ragionevole indennità prevista dalla Corte dei diritti non potrebbe essere altro che il valore venale. Ulteriori osservazioni in G. Fabbrizzi, Commento a Scordino c. Italia, in Urb. e app., 2005, 1395 ss.
[48] Sul punto, anche, R. Conti, L’Italia ancora in ritardo sugli standard europei di tutela dei diritti umani, nota sent. Cedu, 5 ottobre 2006, in Urb. app., 2007, 35 ss.; L. Marzano, in Urb. app., 2007, 328; A. Guazzarotti, Gli effetti della CEDU e la teoria dei “mondi paralleli”, in Quad. cost., 2006, 155 ss.
[49] S. Gambino - G. Moschella, L’ordinamento giudiziario fra diritto comparato, diritto comunitario e CEDU, in Politica dir., 2005, 543 ss.
[50] G. Morbidelli, Corte costituzionale e corti europee: la tutela dei diritti (dal punto di vista della Corte del Lussemburgo), in Dir. proc. amm., 2006, 290; G. della Cananea, I fattori sovranazionali e internazionali di convergenza e di integrazione, in Aa.Vv., Diritto amministrativo comparato (a cura di G. Napolitano), Milano, 2007, 325 ss.
[51] S. Panunzio, I diritti fondamentali e le Corti in Europa, Napoli, 2005, 30.
[52] P. Gaeta, Il diritto europeo nella giurisprudenza della Corte costituzionale. Problemi e prospettive, Relazione al Convegno Giudici e Corte europea dei diritti dell’uomo, datt.
[53] L. Montanari, Giudici comuni e Corti sopranazionali: rapporti tra sistemi, in La Corte costituzionale e le Corti d’Europa (a cura di P. Falzea, A. Spadaro, L. Ventura), Torino, 2003, 119 ss, in part. p. 130
[54] Sull’adattamento dell’ordinamento interno alle norme dei Trattati: B. Conforti, Diritto internazionale, Napoli, 2007, 288 ed ivi anche ampia bibliografia citata.
[55] Le norme di diritto internazionale pattizio prive di un particolare fondamento costituzionale assumono invece nell’ ordinamento nazionale il valore conferito loro dalla forza dell’atto che ne dà esecuzione (sentt. nn. 32 del 1999; 288 del 1997; 323 del 1989). Quando tale esecuzione è disposta con legge, il limite costituzionale vale nella sua interezza, alla stregua di quanto accade con riguardo a ogni altra legge. Sottoponendo a controllo di costituzionalità la legge di esecuzione del trattato, è possibile valutare la conformità alla Costituzione di quest’ultimo (ad esempio, sentt. nn. 183 del 1994; 446 del 1990; 20 del 1966) e addivenire eventualmente alla dichiarazione d’incostituzionalità della legge di esecuzione, qualora essa immetta, e nella parte in cui immette, nell’ordinamento norme incompatibili con la Costituzione (sentt. nn. 128 del 1987; 210 del 1986).
[56] A. Anzon, Corte costituzionale, Corte di giustizia delle comunità europee e Corte europea dei dritti dell’uomo: problemi e prospettive dei loro rapporti, in La Corte costituzionale e le Corti d’Europa, cit., 577; B. Conforti, Diritto internazionale, cit., 292, preconizza che, l’introduzione dell’obbligo del rispetto degli obblighi internazionali con il nuovo art. 117 Cost. comporti l’illegittimità costituzionale della “legge ordinaria che non rispetti i vincoli derivanti da un trattato”.
[57] Cassazione civile, sez. I, 20 maggio 2006, n. 11887, in Giust. civ., 2006, 2018.
[58] Cassazione civile, sez. I, 29 maggio 2006, n. 12810, in Giust. civ. Mass., 2006, 5 ed in Foro amm. CDS, 2006, 2472.
[59] Vi sono tuttavia casi di disapplicazione da parte del giudice della norma interna contrastante con la Convenzione europea; sul punto: W. Chiaromonte, La disapplicazione delle norme nazionali infliggenti con la Cedu e l’accesso dei non comunitari alle prestazioni di assistenza sociale. Nota a Tribunale di Pistoia, 4 maggio 2007, in Diritto, immigrazione e cittadinanza, 2007, 2, 89 ss.
[60] Cassazione civile, sez. I, 19 ottobre 2006, n. 22357, in Resp. civ. e prev., 2007, 291.
[61] Per un primo commento: G. Virga, Le “térmiti” comunitarie ed i “tarli” dei trattati internazionali, in www.lexitalia.it, 10, 2007.
[62] Stabilisce la norma in oggetto: “1. Fino all'emanazione di un'organica disciplina per tutte le espropriazioni preordinate alla realizzazione di opere o interventi da parte o per conto dello Stato, delle regioni, delle province, dei comuni e degli altri enti pubblici o di diritto pubblico, anche non territoriali, o comunque preordinate alla realizzazione di opere o interventi dichiarati di pubblica utilità, l'indennità di espropriazione per le aree edificabili è determinata a norma dell'articolo 13, terzo comma, della legge 15 gennaio 1885, n. 2892, sostituendo in ogni caso ai fitti coacervati dell'ultimo decennio il reddito dominicale rivalutato di cui agli articoli 24 e seguenti del testo unico delle imposte sui redditi, approvato con D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917. L'importo così determinato è ridotto del 40 per cento. 2. In ogni fase del procedimento espropriativo il soggetto espropriato può convenire la cessione volontaria del bene. In tal caso non si applica la riduzione di cui al comma 1”
[63] Il comma 7 bis stabilisce che “in caso di occupazioni illegittime di suoli per causa di pubblica utilità, intervenute anteriormente al 30 settembre 1996, si applicano, per la liquidazione del danno, i criteri di determinazione dell'indennità di cui al comma 1, con esclusione della riduzione del 40 per cento. In tal caso l'importo del risarcimento è altresì aumentato del 10 per cento. Le disposizioni di cui al presente comma si applicano anche ai procedimenti in corso non definiti con sentenza passata in giudicato.
[64] Si osservi che dal punto di vista pratico – come opportunamente suggerito da un’osservazione informale di Merusi – il sistema dell’occupazione acquisitiva comporta il trasferimento della responsabilità e, soprattutto, dell’obbligo di risarcimento del danno, dall’ente espropriante – in particolare, enti locali – allo Stato.
[65] Si rileva, a tal proposito che “nella giurisprudenza di questa Corte sono individuabili pronunce le quali hanno ribadito che le norme della CEDU non si collocano come tali a livello costituzionale, non potendosi loro attribuire un rango diverso da quello dell'atto - legge ordinaria - che ne ha autorizzato la ratifica e le ha rese esecutive nel nostro ordinamento” (par. 6.1.1, sent. 349).
[66] Si sostiene, infatti, che “con riguardo alle disposizioni della CEDU, questa Corte ha più volte affermato che, in mancanza di una specifica previsione costituzionale, le medesime, rese esecutive nell'ordinamento interno con legge ordinaria, ne acquistano il rango e quindi non si collocano a livello costituzionale (tra le molte, per la continuità dell'orientamento, sentenze n. 388 del 1999, n. 315 del 1990, n. 188 del 1980; ordinanza n. 464 del 2005). Ed ha altresì ribadito l'esclusione delle norme meramente convenzionali dall'ambito di operatività dell'art. 10, primo comma, Cost. (oltre alle pronunce sopra richiamate, si vedano le sentenze n. 224 del 2005, n. 288 del 1997, n. 168 del 1994)” (par. 6.1, sent. 349).
[67] Afferma esplicitamente la Corte che “con l'art. 117, primo comma, si è realizzato, in definitiva, un rinvio mobile alla norma convenzionale di volta in volta conferente, la quale dà vita e contenuto a quegli obblighi internazionali genericamente evocati e, con essi, al parametro, tanto da essere comunemente qualificata “norma interposta”; e che è soggetta a sua volta, come si dirà in seguito, ad una verifica di compatibilità con le norme della Costituzione” (par. 6.2, sent. 349).
[68] L. Montanari, Le tecniche di adattamento alla CEDU come strumento di garanzia dei diritti: un’analisi comparata delle soluzioni adottate negli ordinamenti nazionali, in Aa. Vv., I diritti fondamentali in Europa, Milano, 2002, 535.
[69] Si afferma, infatti nella sentenza n. 348 che “quanto detto sinora non significa che le norme della CEDU, quali interpretate dalla Corte di Strasburgo, acquistano la forza delle norme costituzionali e sono perciò immuni dal controllo di legittimità costituzionale di questa Corte. Proprio perché si tratta di norme che integrano il parametro costituzionale, ma rimangono pur sempre ad un livello sub-costituzionale, è necessario che esse siano conformi a Costituzione” (par. 4.7, sent. 348).
[70] La conclusione a cui perviene la Corte è che “in definitiva, essendosi consolidata l’affermazione della illegittimità nella fattispecie in esame di un ristoro economico che non corrisponda al valore reale del bene, la disciplina della liquidazione del danno stabilita dalla norma nazionale censurata si pone in contrasto, insanabile in via interpretativa, con l’art. 1 del Protocollo addizionale, nell’interpretazione datane dalla Corte europea; e per ciò stesso viola l’art. 117, primo comma, della Costituzione. D'altra parte, la norma internazionale convenzionale così come interpretata dalla Corte europea, non è in contrasto con le conferenti norme della nostra Costituzione” (par. 8, sent. 349).

 

(pubblicato il 23.11.2007)

 

 
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