1. Fra i vari argomenti oggetto di questo completo e approfondito trattato sui contratti pubblici, ho scelto quello della sorte del contratto stipulato sulla base di una aggiudicazione poi annullata dal giudice amministrativo. Inutile dire che la scelta è legata alla particolare attualità di questa problematica che, come è noto, è stata oggetto di una recente sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione (28 dicembre 2007, n. 27169) che nell’annullare una sentenza del Consiglio di Stato di “caducazione” del contratto (Sez. V, 28 settembre 2005, n. 5196), ha affermato la giurisdizione del giudice ordinario nella materia.
In realtà la Suprema Corte ha ribadito una sua risalente e costante giurisprudenza che ha fissato la linea di demarcazione fra la giurisdizione amministrativa e quella ordinaria nella materia proprio nella stipula del contratto, stipula a seguito della quale la vicenda perde i suoi profili pubblicisitici e rientra in toto nel diritto civile e quindi nell’ambito tradizionale della giurisdizione ordinaria.
La questione, che ha una indiscutibile rilevanza per il futuro della stessa giustizia amministrativa, è esaminata anche nel trattato (R. Garofoli) nel quale si perviene alla conclusione favorevole al riconoscimento della giurisdizione del giudice amministrativo, opinione che è molto diffusa fra gli operatori del diritto amministrativo.
Mi permetto di dissentire da questa tesi e ciò sulla base di argomentazioni che cercherò di sviluppare brevemente nella relazione.
2.
Non mi sfugge ovviamente la strettissima connessione esistente fra l’aggiudicazione e il contratto e non posso negare che la individuazione del momento di riparto proprio in coincidenza con questi due atti crei e abbia creato non pochi problemi nella tutela delle situazioni soggettive dei ricorrenti (non a caso nei sistemi a doppia giurisdizione – si pensi alla Francia – la materia è affidata ad un'unica giurisdizione).
E’ altrettanto pacifico peraltro che l’indirizzo giurisprudenziale della Cassazione è stato sempre fermissimo al riguardo e non è privo di solide basi normative, poiché la legge n. 205 del 2000, all’art. 6, limita chiaramente la giurisdizione esclusiva alle “procedure di affidamento”, concetto che esclude appunto la fase contrattuale.
Inoltre una soluzione pretoria della questione finirebbe col creare più problemi di quanti ne risolva introducendo una sorta di giurisdizione “ripartita”. E’ evidente infatti che allo stato della normativa non tutte le cause di invalidità del contratto potrebbero rientrare nella giurisdizione amministrativa ma solo quelle derivanti dall’aggiudicazione. Non a caso F.G. Scoca (“Annullamento dell’aggiudicazione e sorte del contratto” in Giustamm.it, 1/2007), in un breve spunto a conclusione della sua analisi sulla invalidità del contratto ad evidenza pubblica, sostiene che solo a condizione di far rientrare la questione nell’ambito della regolarità della gara può ipotizzarsi una cognizione del giudice amministrativo.
Si aggiunga che nel contesto attuale dei rapporti con il giudice della giurisdizione (basti pensare alla tutt’ora attuale controversia sulla pregiudizialità) è del tutto inopportuna l’apertura di un nuovo fronte di conflitto per acquisire una giurisdizione in un campo che storicamente non è mai stato del giudice amministrativo.
Ciò non significa che si debba sottovalutare l’importanza del problema poichè non vi è dubbio che si rischia di consolidare una situazione di grave limitazione alle possibilità di tutela degli interessi del concorrente leso.
3. E’ opportuno a questo proposito ricordare le motivazioni sostanziali che sono alla base del recente indirizzo del giudice amministrativo in favore della sua giurisdizione. Esso costituisce la giusta reazione ad una situazione di grave impotenza in cui la giustizia amministrativa si è da tempo venuta a trovare in presenza di questa vicenda in cui l’annullamento dell’aggiudicazione seguiva ad una precedente stipula del contratto.
E’ notorio che in passato l’impossibilità di incidere sull’attività negoziale ha comportato la patologica accentuazione del ruolo della sospensiva: la controversia finiva col trovare la sua soluzione reale nella fase cautelare poiché solo il blocco della procedura poteva impedire che si pervenisse alla stipula di un contratto che era poi inattaccabile dal concorrente leso dalla illegittima aggiudicazione, con il rischio quindi di un vero e proprio diniego di giustizia. Ciò era la conseguenza di una altrettanto ferma giurisprudenza del giudice ordinario che riteneva il contratto stipulato in queste condizioni come meramente annullabile su richiesta dell’amministrazione interessata, cosicché, mancando anche la possibilità di un’azione di risarcimento, al privato non rimaneva che mettere in cornice la sentenza di annullamento quale soddisfazione di un interesse meramente morale.
La situazione è migliorata solo in parte a seguito della legge n. 205 del 2000, che, come è noto, nell’introdurre una procedura speciale per una serie di materie fra cui quella degli appalti, inserendo l’articolo 23-bis nella legge n. 1034 del 1971, ha radicalmente ridotto la possibilità di sospensione, ma contemporaneamente ha esteso e stabilizzato il diritto al risarcimento del danno.
Senonchè, ove questo nuovo quadro normativo dovesse calarsi nel sistema della invalidità elaborato dall’AGO, ne deriverebbe che il risarcimento verrebbe a costituire forma prioritaria di soddisfazione dell’interesse fatto valere in giudizio (vicenda elevata a regola per le grandi infrastrutture dall’art. 246 del Codice dei contratti pubblici).
Ma tutto ciò non è nella tradizione del giudizio amministrativo, la cui funzione è stata da sempre quella di garanzia della correttezza sostanziale dell’azione amministrativa. E non sembra neanche coerente con il sistema comunitario in cui è dedicata un’attenzione tutta particolare a quel complesso di poteri (cautelari) e di vincoli (termini dilatori per la stipula del contratto) che mirano appunto a garantire la possibilità di recupero della correttezza sostanziale delle procedure.
Si può anzi affermare che la nuova direttiva sul contenzioso negli appalti trova la sua origine proprio nella constatazione che “i meccanismi (delle precedenti direttive) non permettono sempre di garantire il rispetto delle disposizioni comunitarie, soprattutto in una fase in cui le violazioni possono ancora essere corrette” (punto 3 del preambolo).
Si spiega dunque la reazione del giudice amministrativo ispirata a quella esigenza di effettività da sempre chiesta a gran voce da tutti e del tutto misconosciuta in questa materia che pure costituisce la più rilevante, almeno sotto il profilo quantitativo, fra quelle devolute alla giurisdizione amministrativa. L’indirizzo giurisprudenziale censurato dalla Cassazione, dunque, non è frutto di velleitarismo né di desiderio di appropriazione indebita della materia ma di una esigenza reale che non può essere in alcun modo trascurata né dal giudice amministrativo né da quello ordinario.
4. Il problema è che la soluzione proposta percorre strade impervie sotto il profilo tecnico e rischia di causare una ulteriore impasse di cui ancora una volta rimarrebbe vittima il cittadino.
Quello che si deve chiedere alla Cassazione non è una improbabile modifica dell’indirizzo giurisprudenziale sul riparto di giurisdizione, bensì una diversa qualificazione del vizio da cui è affetto il contratto stipulato a seguito della aggiudicazione illegittima. Ritenere che si tratti di semplice annullabilità è frutto di una palese sottovalutazione della importanza e del ruolo della procedura ad evidenza pubblica, che viene ad essere ridotta a mera espressione di un interesse quasi interno all’amministrazione, laddove è di tutta evidenza la rilevanza pubblica ed esterna degli interessi perseguiti con la procedura stessa.
Non è necessario ricordare che già al loro sorgere (la legge e il regolamento di contabilità di stato degli anni venti) l’interesse perseguito con le procedure ad evidenza pubblica era quello certo non marginale della correttezza dei pubblici appalti e delle pubbliche forniture dopo gli scandali del periodo bellico, ma se ciò nonostante poteva giustificarsi una loro interpretazione riduttiva non è più possibile farlo ora in presenza di una piramide normativa che prende le mosse addirittura dai Trattati europei, per scendere poi a numerose e complesse direttive, ed arrivare infine ad una normativa nazionale - ora il Codice e il relativo regolamento - che per quantità e complessità ha pochi esempi in altre materie.
Ma se non si tratta di mera annullabilità occorre peraltro chiarire quale sia la natura di questo vizio e in ciò la giurisprudenza sia del giudice amministrativo sia del giudice ordinario è tutt’ora oscillante; e la cosa non può meravigliare perché la questione non manca di una certa opinabilità come è possibile desumere anche dalle diverse contrastanti soluzioni adottate dagli altri Paesi dell’Unione europea, peraltro prevalentemente orientate alla salvezza del contratto (sulle soluzioni adottate in Francia, Germania, Spagna e Regno Unito si veda l’interessante articolo di B. Marchetti “Annullamento dell’aggiudicazione e sorte del contratto: esperienze europee a confronto in diritto processuale amministrativo” in Diritto processuale amministrativo, 1/2008 pag. 93 e seg.).
Tuttavia dalle direttive europee è possibile trarre qualche utile spunto poiché laddove impongono l’eliminazione del contratto parlano di “inefficacia”, termine che sembra assunto nel suo significato generico, cioè di mancata produzione di effetti sia per cause endogene al contratto sia per cause esogene, ma che sembra escludere la mera annullabilità specie su richiesta della stazione appaltante.
Si aggiunga che se la scelta fra le due opzioni del risarcimento del danno ovvero della “inefficacia” del contratto è affidata al legislatore nazionale, vi sono poi casi di inefficacia previsti espressamente dalla direttiva non marginali per rilevanza e per numero. Nulla lascia intendere dunque che il risarcimento costituisca l’ipotesi principale e che la inefficacia sia da considerarsi meramente residuale.
Al contrario l’opzione inversa appare come una scelta perfettamente coerente con la direttiva in un sistema come il nostro caratterizzato da una minore pregnanza della fase cautelare: un sistema che non fosse in grado di garantire quello che è il risultato di fondo cui la normativa europea aspira, e cioè la correttezza dell’azione amministrativa, non sarebbe rispettoso della sostanza delle direttive comunitarie.
5.Comunque non vi è dubbio che è al dato normativo nazionale che occorre far capo e a questo riguardo non può negarsi che sia pure con formule non del tutto esplicite il legislatore ha preso posizione in favore di un intervento giudiziale mirato non al semplice risarcimento ma alla soddisfazione materiale dell’interesse al bene della vita vantato dal ricorrente.
Alludo innanzitutto all’articolo 7 della legge n. 1034, che nella sua attuale formulazione riconosce la possibilità di una “reintegrazione in forma specifica”, formula che, anche se in modo indiretto – come vedremo - si inserisce, completandola, nella disciplina della funzione tradizionale fin qui espletata in seno a questa giurisdizione.
Riguardo poi specificatamente al settore degli appalti il già menzionato articolo 246 del Codice sui contratti pubblici, per le grandi opere infrastrutturali dispone al quarto comma che “la sospensione o l’annullamento non comporta la caducazione”. Non è difficile desumerne a contrario che negli altri casi la caducazione si verifichi e quindi si realizzi il caso di inefficacia del contratto previsto dalla normativa europea e direi quasi in applicazione della normativa europea.
L’opzione legislativa è discutibile poiché richiama un concetto, quello appunto di caducazione, che non trova riscontro nelle categorie civilistiche, essendo il frutto di una elaborazione giurisprudenziale amministrativa legata alla problematica dei rapporti fra atti (influenza dell’annullamento di un atto su un successivo atto ad esso connesso). Non mi sembra il caso comunque di dibattere ulteriormente la questione, anche se personalmente sarei stato più propenso all’ipotesi della nullità; non mi sembra il caso perché l’argomento non è di competenza del giudice amministrativo: è quello ordinario che dovrà definire le ricadute dell’annullamento dell’aggiudicazione sul contratto, qualificandola sotto il profilo formale; quello che interessa – ripeto – è che non si ritorni ad una inaccettabile mera annullabilità.
E in questo senso nelle più recenti sentenze della Cassazione, richiamate anche nell’ordinanza citata, si nota una certa apertura verso diverse e più rigorose soluzioni (nullità assoluta, caducazione automatica per difetto di legittimazione a contrarre, inefficacia sopravvenuta): l’auspicio è che tale indirizzo si consolidi quale che sia l’opzione prescelta.
Mi limito ad aggiungere in proposito che non sembra neanche auspicabile una differenziazione della “sanzione” a seconda della – presunta – maggiore o minore gravità del vizio dell’aggiudicazione (in questo senso S.S. Scoca in “La Cassazione mette le mani sugli appalti pubblici” in Giustamm.it, 2/2008). Anche se vi è un precedente in tal senso in Spagna (B. Marchetti, cit.) non è difficile immaginare, in mancanza di una disciplina espressa e puntuale, le sottili disquisizioni teoriche e i contrasti giurisprudenziali che ne deriverebbero a scapito della giustizia sostanziale.
6.Nella qualificazione nei termini suindicati del vizio dell’attività negoziale è, a mio avviso, la chiave di volta di una soluzione del problema che garantisca insieme il rispetto della giurisdizione del giudice ordinario e la completezza e la effettività della tutela affidata al giudice amministrativo. Difatti una volta che si riconosca che l’annullamento dell’aggiudicazione si traduce in una inefficacia ex lege del contratto si deve anche ammettere che il giudice amministrativo sia legittimato a conoscere tale situazione in via incidentale.
La soluzione era stata proposta, sia pure molto succintamente, in un mio lavoro del 2003 (“Effettività del giudicato ed invalidità del contratto stipulato a seguito di aggiudicazione illegittima” in Rivista di diritto processuale amministrativo, 1/2003), che mi permetto di citare perché era diretto a correggere una originaria impostazione espressa in alcune sentenze della prima sezione del TAR Campania (in particolare 13 marzo 2002, n. 3177) nelle quali si parla di una cognizione in via principale della invalidità del contratto.
Vedo ora riportata con una ricchezza di argomentazioni la stessa tesi da C. Varrone (“L’eterno tormentone della tutela risarcitoria dell’interesse legittimo”, in Giustamm.it, 1/2008) che analizza in modo approfondito il tema da una angolazione prettamente civilistica, collegando la dichiarazione di inefficacia del contratto alla pretesa – diritto soggettivo – al risarcimento in forma specifica.
Puntare ad una cognizione puramente incidentale è da ritenere più soddisfacente non solo sotto il profilo del riparto di giurisdizione, evitando così un contenzioso che è espressione di una patologia del sistema giudiziario, bensì anche e soprattutto nella prospettiva della conformazione stessa del giudizio amministrativo e della sua effettività.
La particolare attenzione dedicata nelle sentenze al profilo della invalidità dell’atto ha portato ad una duplice e grave distorsione dello stesso giudizio amministrativo. Da una parte infatti, come è possibile verificare anche nella sentenza oggetto di annullamento da parte delle Sezioni Unite, si riscontra un abnorme approfondimento di questa problematica dell’invalidità che è sostanzialmente estranea al ruolo e alla competenza del giudice amministrativo.
Dall’altra essa induce alla tentazione di anticipare al giudizio cognitorio la valutazione del merito delle scelte operate dall’amministrazione che la tradizione e soprattutto il legislatore hanno sottratto a questa fase e rinviato all’ottemperanza.
7.Al contrario, l’essenza della cognizione incidentale è che essa non è fine a stessa ma è finalizzata alla pronuncia richiesta dalla parte ricorrente; e tale finalizzazione non è dato scorgere quando quest’ultima si limiti a chiedere l’annullamento dell’aggiudicazione (è il caso delle sentenze di primo e secondo grado censurate dalla Cassazione): una domanda rivolta direttamente contro il contratto non è in alcun modo giustificata non essendo ancora chiaro se il ricorrente intenda poi chiedere il risarcimento del danno ovvero di subentrare nel rapporto, nonché, in quest’ultimo caso, se vi siano le condizioni per tale subentro.
E’ solo in relazione a tali ulteriori e specifiche domande che può porsi il problema della sorte del contratto e solo tecnicamente in funzione di esse che tale problema può essere preso in considerazione nella decisione.
Va subito soggiunto che la presenza di una domanda di risarcimento avanzata in sede cognitoria non acquista rilievo ai nostri fini, perché essa non può che essere a sua volta subordinata alla verifica della possibilità di esecuzione del giudicato in forma specifica. E’ questo infatti lo sbocco naturale dell’azione di annullamento e quindi prioritario rispetto all’eventuale risarcimento, anche nella forma della “reintegrazione in forma specifica” (art. 7 della legge n. 205), da cui, come è noto, si differenzia non fosse altro per la non necessità della colpa.
Una tale scansione delle domande è l’unica coerente con la tradizione e l’esperienza del giudice amministrativo la cui azione è diretta in primo luogo alla correzione dell’attività amministrativa e al recupero della sua correttezza nell’interesse pubblico non meno che di quello privato. Né si tratta di una specificità solo italiana poiché nelle direttive comunitarie, e in specie nell’ultima – come si è visto -, questa esigenza costituisce oggetto di una non minore attenzione.
8.Questa complessa e articolata valutazione è peraltro riservata ad una fase successiva al giudizio cognitorio e cioè a quella di ottemperanza, come ricorda in un breve ma puntuale articolo F. Cintioli (“Le sezioni unite rivendicano a se il contratto ma non bloccano il giudizio di ottemperanza” in Giustamm.it, 1/2008). E’ in questa sede che il giudice dovrà innanzitutto valutare se e in che misura esistono le condizioni per subentrare nel rapporto, valutazione che incide inevitabilmente sulla residua discrezionalità amministrativa e che quindi deve essere riservata alla cognizione di merito propria di questo giudizio. E che si tratti appunto di un giudizio di merito è ben presente anche al legislatore europeo, quando ricorda (punto 22 del preambolo) che gli Stati membri possono consentire di non rimettere in discussione il contratto “quando nelle circostanze eccezionali della fattispecie, ciò sia reso necessario da alcune esigenze imperative legate ad un interesse generale”; espressioni che sembrano ricordare alla lettera le ricostruzioni del giudizio di ottemperanza come giudizio di merito.
Solo in un secondo momento, e una volta esclusa in tutto o in parte la possibilità di ordinare il subentro nel rapporto, sarà possibile esaminare la questione del risarcimento. Né rileva il fatto che poi in concreto non sia prodotta la domanda di esecuzione in forma specifica poiché l’opzione deve ritenersi implicita nell’azione di impugnazione il cui scopo precipuo è appunto quello della realizzazione del bene della vita e quindi nella specie di subentro nel rapporto contrattuale.
Il mancato esercizio della pretesa – da verificare – nascente dal giudicato non può che ritorcersi contro il ricorrente che, sottraendosi alla esecuzione del contratto concorre egli stesso alla produzione del danno e quindi per la parte in cui il subentro sia ancora possibile si espone all’applicazione dell’articolo 1227 c.c.
Dunque nel caso non infrequente di un abbinamento fin dall’inizio della domanda di annullamento e di quella di risarcimento, è da escludere che il giudice possa procedere senz’altro alla liquidazione del danno, salvo casi del tutto eccezionali in cui il giudicato abbia integralmente consumato la discrezionalità.
Di regola occorre o rinviare l’intera questione all’ulteriore necessario giudizio di ottemperanza ovvero limitarsi ad una affermazione di principio, come autorizza a fare l’articolo 35 del decreto legislativo n. 80 del 1998 che al comma 2 prevede la possibilità di fissare i criteri del risarcimento del danno, criteri che dovranno però ben evidenziare la condizione che lo stato dell’esecuzione del contratto o la natura dello stesso siano tali da escludere la possibilità di un subentro anche parziale, rinviando dunque la effettiva liquidazione al giudizio di ottemperanza.
Né infine dovrebbe escludersi la possibilità di limitarsi – sempre nel giudizio cognitorio - alla condanna generica di cui all’articolo 278 c.p.c.; considerato che la formulazione molto generica con cui di solito viene proposta la richiesta di risarcimento – almeno secondo la mia esperienza – giustifica che la si interpreti come una domanda ai sensi appunto dell’articolo in esame.
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* Relazione al convegno di presentazione del trattato sui contratti pubblici (a cura di M. A. Sandulli, R. De Nictolis, R. Garofoli) - Università degli studi Roma Tre. |