1. LE INDICAZIONI DELLA CORTE COSTITUZIONALE N. 77/2007: LA NECESSITÀ DELL’INTERVENTO LEGISLATIVO.
Lo scorso 2 ottobre la Camera dei Deputati ha approvato il disegno di legge n. 1441-bis, recante “Disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, nonché in materia di processo civile”.
Lo schema, che al Senato reca il numero AS-1082, contiene, all’articolo 38, la disciplina della “translatio” del processo, conseguente alla pronuncia declinatoria della giurisdizione, davanti al giudice effettivamente munito della potestas iudicandi.
La previsione intende attuare puntualmente l’obbligo imposto al legislatore dalla pronuncia n. 77/2007 della Corte costituzionale. Con tale sentenza, la Corte aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale delle disposizioni che impediscono l’ingresso dell’istituto della translatio del processo nel nostro ordinamento e, segnatamente, dell’articolo 30 della legge 6 dicembre 1971 n. 1034, nella parte in cui non prevede la conservazione degli effetti, sostanziali e processuali, della domanda nel processo proseguito, a seguito di declinatoria di giurisdizione, davanti al giudice munito di giurisdizione.
La pronuncia n. 77/2007 aveva affermato, espressamente, di limitarsi alla declaratoria di illegittimità costituzionale della norma denunciata, senza introdurre alcuna specifica “addizione” alle disposizioni vigenti, per “rispetto dei confini del proprio ruolo nell’ordinamento”, forse anche allo scopo di prendere nettamente le distanze dalla “fuga in avanti” delle Sezioni Unite della Cassazione, rappresentata dalla sentenza n. 4109/2007.
Quindi, al punto 8, la Corte costituzionale aveva definito le coordinate entro cui dovrà muoversi il futuro legislatore, statuendo che: “Nel rispetto di tali limiti costituzionali, il legislatore ordinario - ferma l'esigenza di disporre che ogni giudice, nel declinare la propria giurisdizione, deve indicare quello che, a suo avviso, ne è munito - è libero di disciplinare nel modo ritenuto più opportuno il meccanismo della riassunzione (forma dell'atto, termine di decadenza, modalità di notifica e/o di deposito, eventuale integrazione del contributo unificato, ecc.) sulla base di una scelta di fondo a lui soltanto demandata: stabilire, cioè, se mantenere in vita il principio per cui ogni giudice è giudice della propria giurisdizione ovvero adottare l'opposto principio seguito dal codice di procedura civile (art. 44) per la competenza.”
In sostanza, secondo la Corte, la nuova disciplina legislativa deve riguardare almeno tre punti:
1. la previsione l’obbligo di indicare il giudice munito di giurisdizione;
2. la definizione delle modalità di riassunzione del processo diretto a conservare gli effetti della domanda;
3. l’individuazione degli effetti, vincolanti, o meno, della decisione sulla giurisdizione;
Aveva aggiunto la Corte, tuttavia (al punto 9), che “laddove possibile utilizzando gli strumenti ermeneutici (come, nel caso oggetto del giudizio a quo, dopo la declinatoria di giurisdizione), i giudici ben potranno dare attuazione al principio della conservazione degli effetti della domanda nel processo riassunto.”
Dunque, la pronuncia della Corte, pur imponendo un obbligo di intervento legislativo non aveva creato affatto un “vuoto” normativo, come è dimostrato dalla circostanza che molte pronunce abbiano già fatto piena applicazione dei principi della translatio, seppure attraverso letture interpretative non sempre coincidenti.
Resta ferma, tuttavia, la necessità di chiarire meglio, sul piano legislativo, alcuni profili fondamentali del concreto funzionamento dell’istituto, costituiti, fra l’altro, dalla esatta individuazione dei termini per la riassunzione del processo dinanzi al giudice munito di giurisdizione, la sorte dell’istruttoria svolta.
Lo schema approvato dalla Camera offre le prime risposte certe ad alcuni dubbi operativi, ma lascia aperto, ancora, qualche interrogativo.
2. LA STRUTTURA DELLA PROPOSTA LEGISLATIVA. LE REGOLE “MINIME” DELLA TRANSLATIO APPLICABILI A TUTTI I PROCESSI. L’EFFICACIA DELLE DECISIONI DECLINATORIE DELLA GIURISDIZIONE
La proposta si compone di un solo articolo, dal contenuto piuttosto schematico ed essenziale, suddiviso in 5 commi, riguardanti, rispettivamente:
1) l’efficacia e il contenuto delle pronunce declinatorie della giurisdizione;
2) le modalità di riassunzione del processo dinanzi al giudice munito di giurisdizione e gli effetti sostanziali e processuali di tale tempestiva riassunzione;
3) la previsione del potere di sollevare, d’ufficio, il conflitto negativo di giurisdizione;
4) le conseguenze derivanti dalla mancata tempestiva riassunzione del giudizio;
5) la sorte delle prove assunte davanti al giudice che declina la giurisdizione.
La rubrica dell’articolo, in modo forse leggermente evasivo, si riferisce alla “Decisione delle questioni di giurisdizione”. In realtà, la disciplina proposta non riguarda tanto la compiuta regolamentazione della pronuncia in punto di giurisdizione, ma, piuttosto, le conseguenze derivanti dalla decisione che declina la giurisdizione, ai fini della prosecuzione successiva del processo.
Tenendo conto delle indicazioni della Corte costituzionale e dei numerosi contributi dottrinari sull’argomento, l’articolo compie alcune scelte importanti.
È evidente, peraltro, che lo schema intenda dettare solo le regole minime, giudicate assolutamente necessarie per facilitare la pratica attuazione delle translatio, senza entrare nel dettaglio di una pluralità di problemi che, nella pratica, dovrà affrontare e risolvere l’interprete, in relazione alle diverse eventualità che si potranno verificare nella prassi.
Anzitutto, si sceglie di introdurre la nuova disciplina con un unico articolo “isolato”, estraneo al codice di procedura civile e dalle altre leggi generali in materia processuale. In tal modo si vuole sottolineare il carattere generale dell’intervento, che si inserisce, sistematicamente, nelle regole processuali tipiche di ogni giurisdizione.
È un’opzione forse discutibile, anche se indubbiamente semplificatrice. Ma, forse, potrebbe essere preferibile inserire l’articolo nel codice di procedura civile, sancendone l’applicabilità integrale a tutti i processi amministrativi, contabili e tributari, con i necessari adattamenti di compatibilità.
Del resto, non può sfuggire che il linguaggio utilizzato nell’articolo (sebbene non sempre coerente) sia palesemente influenzato dal sistema del processo civile (in particolare, dalle regole in materia di declinatoria di competenza): proprio per tale ragione, la disposizione contiene alcune previsioni non agevolmente inquadrabili nel sistema di altri processi, come quello amministrativo.
Un aspetto centrale della disposizione in esame sembra costituito dalla circostanza che la disciplina prefigurata non sembra tenere conto della indicazione, implicitamente fornita dalla Corte costituzionale, di distinguere accuratamente il profilo concernente la disciplina della pronuncia negativa sulla giurisdizione (e del suo eventuale carattere vincolante) da quello relativo alla translatio in senso stretto, intesa come possibilità di conservazione (totale o parziale) degli effetti sostanziali e processuali della proposizione della domanda davanti a giudice privo di giurisdizione.
Forse proprio questa impostazione è alla base di alcune possibili criticità della disciplina presentata, rilevanti sul piano delle ricadute pratiche delle nuove regole, piuttosto che sull’impostazione teorica della normativa.
Ma è opportuno procedere con ordine.
3. IL CONTENUTO DELLA DECISIONE CHE DECLINA LA GIURISDIZIONE.
Il comma 1 sancisce il preciso obbligo (già affermato dalla sentenza n. 77/2007), per il giudice che declina la propria giurisdizione, di indicare, positivamente, il giudice che ritiene munito di giurisdizione.
La norma precisa che si deve trattare di giudice nazionale, “se esistente”. La formula non è tra le più felici, perché evoca l’inquietante figura del “giudice inesistente”, quasi mutuando uno dei titoli della Trilogia di Italo Calvino (“Il cavaliere inesistente” de “I nostri antenati”).
Ma, a parte le suggestioni letterarie, in tal modo, si ribadisce, in modo implicito, ma evidente la configurabilità del “difetto assoluto di giurisdizione”. È una indicazione scontata, in relazione all’assetto vigente del sistema processuale, ma che non mancherà di suscitare dibattiti. In effetti, il terreno sembrerebbe abbastanza maturo per valutare l’opportunità di ridurre l’area delle questioni di giurisdizione (in particolare, di quelle relative alla proponibilità della domanda nei confronti della pubblica amministrazione), ampliando, semmai, quello della infondatezza nel merito della pretesa. Se la “logica” dell’intervento della Corte costituzionale n. 77/2007 è, almeno in parte, quello di sdrammatizzare e semplificare la rilevanza delle questioni di giurisdizione, accentuando l’unità processuale del sistema, potrebbe essere giunto il momento di delimitare, drasticamente, la stessa portata del concetto di “difetto di giurisdizione”.
La funzione dell’obbligo di indicazione del giudice competente è piuttosto palese. Proprio la nuova considerazione “unitaria” del sistema della giustizia, impone al giudice di indicare positivamente quale sia il giudice ritenuto munito di giurisdizione.
Si deve aggiungere che la previsione sembra chiarire che il giudice, all’atto della declinatoria della giurisdizione non possa e non debba fare altro che indicare il giudice munito di giurisdizione: in particolare, non è affatto tenuto ad indicare quali effetti processuali o sostanziali restino “conservati”, né le modalità e i termini della riassunzione.
Resta da chiedersi se un’eventuale pronuncia in tal senso (sia che stabilisca, sia che neghi la conservazione degli effetti, sia che indichi un termine per la riassunzione inferiore o superiore a quello stabilito al comma 2) abbia valore vincolante per le parti e per il giudice ad quem e, quindi, non debba essere contestata con gli ordinari mezzi di impugnazione.
A rigore, qualora si ritenesse che tale pronuncia sia priva di valore vincolante, si potrebbe sostenere che l’indicazione, per la riassunzione, di un termine maggiore a quello di tre mesi decorrenti dal passaggio in giudicato non possa costituire il presupposto per il riconoscimento dell’errore scusabile, in caso di tardiva riassunzione.
La formula normativa utilizzata non è felicissima, nella parte in cui, per definire l’ambito processuale di applicazione della disciplina, utilizza l’espressione “in materia di”: sembra forte la suggestione della crescente espansione del criterio di riparto fondato sulla materia, anziché sulla situazione giuridica tutelata. Ma, più semplicemente, la dizione intende chiarire che, ai fini della norma considerata, non entra in gioco il riparto di giurisdizione in altri ambiti (per esempio nel settore penale).
Inoltre, il riferimento alla indicazione del solo giudice “nazionale” permette di stabilire che, nell’ambito dell’articolato, non assume rilievo nemmeno la questione del difetto di giurisdizione statale, nei confronti del giudice straniero. È vero, infatti, che si dovrebbe auspicare un’indicazione positiva del giudice anche in tale ipotesi, Tuttavia, in tale contesto, l’eventuale obbligo di indicazione del giudice straniero competente non avrebbe molta utilità, posto che ogni eventuale questione sulla vincolatività di tale statuizione e sulla conservazione degli effetti della domanda dipenderebbe dall’ordinamento di quel giudice.
4. GLI EFFETTI DELL’INDICAZIONE DEL GIUDICE MUNITO DI GIURISDIZIONE.
Quali effetti determina l’indicazione del giudice ritenuto munito di giurisdizione? E quali conseguenze comporta l’eventuale violazione dell’obbligo?
L’articolo cerca di spiegarlo nel secondo periodo dello stesso comma 1 e nel comma 2, sul presupposto che proprio tale previsione costituisca il primo passo per la concreta realizzazione della translatio.
Si stabilisce, anzitutto, che soltanto la decisione delle Sezioni Unite sulla giurisdizione è vincolante per ogni giudice e per le parti, “anche in altro processo”.
Dunque, l’efficacia “extraprocessuale” delle decisioni sulla giurisdizione è riferita solo alla pronuncia delle Sezioni Unite. A contrario, quindi, la stessa efficacia non spetta, automaticamente, alla decisione sulla giurisdizione pronunciata da altro giudice, sebbene passata in giudicato.
Peraltro, la formulazione della norma non impedisce di attribuire tuttora efficacia assolutamente vincolante, eventualmente extraprocessuale, alla decisione (positiva) sulla giurisdizione che concerna anche il merito, secondo le indicazioni della giurisprudenza. Del resto, l’articolo in esame si occupa solo della decisione (esplicita) che nega la giurisdizione.
È appena il caso di sottolineare, quindi, che la formula utilizzata non sembra in alcun modo influenzata dalle altre recenti problematiche sulla configurabilità di un giudicato implicito sulla giurisdizione: tema che potrebbe avere rilevanza solo nei diversi casi in cui vi sia una decisione con cui il giudice adito afferma (e non nega) la propria giurisdizione.
Coerentemente, poi, il riferimento al carattere meramente dichiarativo della pronuncia che nega la giurisdizione mostra con chiarezza che non dovrebbe più ritenersi corretta la tradizionale formula di “inammissibilità” della domanda o del ricorso, spesso utilizzata nelle pronunce negative della giurisdizione.
Il comma 2 stabilisce a quali condizioni e in quale modo la pronuncia del giudice, diverso dalla Cassazione a Sezioni Unite, possa assumere efficacia vincolante per le parti e per il giudice.
Il meccanismo, che distingue la posizione del giudice da quella delle parti, è il seguente.
Per le parti, il vincolo della decisione sulla giurisdizione deriva solo dalla duplice circostanza che la domanda sia stata riproposta:
a) dinanzi al giudice indicato nella pronuncia negativa della giurisdizione;
b) entro il termine di tre mesi dal passaggio in giudicato di tale pronuncia.
A ben vedere, però, proprio questa previsione, seppure modellata su alcune delle regole proprie della pronuncia di incompetenza nel processo civile, non appare molto convincente, anche alla luce dell’ampio spazio riconosciuto dalla Corte costituzionale alla discrezionalità del legislatore ordinario.
Non è chiaro, anzitutto, per quale motivo il vincolo del giudicato sulla giurisdizione non dovrebbe sussistere (almeno per le parti), qualora la domanda sia comunque “riproposta” dinanzi ad un giudice diverso da quello designato. Si pensi al caso in cui un giudice ordinario neghi la propria giurisdizione in favore di quello contabile e il processo sia riassunto, invece, davanti al giudice amministrativo. Le parti non sarebbero vincolate alla sentenza passata in giudicato e potrebbero tranquillamente riaprire, ulterioremente, le questioni di giurisdizione. Si potrebbe dire che, in tal modo, l’interessato rinuncerebbe, implicitamente, agli effetti vincolanti della decisione sulla giurisdizione, perdendo il beneficio della conservazione degli effetti della translatio. Ma, in questo modo, verrebbe sacrificata la posizione della parte convenuta, che potrebbe avere interesse a non vedere riaperta la questione della giurisdizione (quanto meno nei casi in cui il difetto di giurisdizione sia stato dichiarato in seguito alle sue difese).
Non solo, ma si pensi al caso (raro, non del tutto improbabile) in cui la domanda sia riproposta proprio dinanzi allo stesso giudice che abbia precedentemente negato al giurisdizione: a rigore, stando alla lettera della disposizione, neanche in tal caso opererebbe il vincolo per le parti.
Pertanto, per garantire una più rapida definizione delle questioni di giurisdizione, non sembrerebbe affatto illogico immaginare – per le sole parti - un effetto vincolante slegato dalla circostanza che la domanda sia riproposta tempestivamente dinanzi ad un diverso giudice, in attuazione di un principio di autoresponsabilità, che pare da incoraggiare, soprattutto nella logica di una accelerazione della definizione delle questioni di giurisdizione.
Per le stesse ragioni, non è del tutto giustificata la previsione secondo cui l’effetto vincolante si realizzi solo nel caso di tempestiva (entro tre mesi dal passaggio in giudicato) riproposizione della domanda. Ma questo punto dovrà essere ripreso alla luce dell’esame della previsione del comma 4 (che sancisce l’estinzione del giudizio nel caso di mancata tempestiva riassunzione).
Anche prescindendo da queste osservazioni, comunque, proprio la costruzione della diversa posizione del giudice e delle parti in ordine alla questione di giurisdizione, sembra inidonea a funzionare efficacemente sul piano pratico.
Infatti, secondo la disposizione, il giudice ad quem (giudice della riassunzione) può sempre rilevare di ufficio il proprio difetto di giurisdizione, sia pure attraverso il particolare meccanismo del regolamento necessario di giurisdizione. Se è così, anche nel caso di tempestiva riassunzione dinanzi al giudice indicato, il vincolo per le parti è tutto sommato piuttosto modesto, dal momento che esse, senza formalizzare un’eccezione in senso proprio, ben potranno prospettare al giudice ad quem, mediante semplice memoria, la questione di giurisdizione, sollecitando la proposizione del conflitto.
In questo modo, la norma in fieri manifesta una evidente tensione tra due idee difficilmente conciliabili:
a) da una parte, l’idea dell’autoresponsabilità, secondo cui le parti sono tenute a reagire tempestivamente contro le decisioni in materia di giurisdizione;
b) dall’altra, il principio, di ordine pubblico, secondo cui il giudice non può essere vincolato dalla decisione sulla giurisdizione adottata da un giudice appartenente ad un altro plesso.
Entrambe le idee si basano su argomenti sistematici importanti: ma la scelta fra l’una e l’altra opzione deve essere compiuta con maggiore chiarezza.
Una qualche utilità residua della disposizione potrebbe prospettarsi, forse, per chiarire che la sentenza di merito pronunciata dal giudice ad quem non potrebbe essere impugnata dalle parti, per motivi inerenti alla giurisdizione. Ma si tratta di una conseguenza abbastanza ovvia, considerando che la questione di giurisdizione è già passata in giudicato e, in seguito alla translatio, il processo è proseguito dinanzi al nuovo giudice.
Va notato, ancora, che nella disposizione non sembra considerato nella giusta prospettiva l’interesse, della parte convenuta in giudizio, ad ottenere tempestivamente una pronuncia di merito (di rigetto della domanda), in seguito alla declinatoria della giurisdizione: si pensi al caso in cui la parte convenuta in giudizio abbia articolato ampie difese di merito e il difetto di giurisdizione sia stato rilevato di ufficio. Infatti, l’effetto vincolante della decisione declinatoria della giurisdizione sembra collegato solo alla riproposizione della domanda ad opera dell’originario attore.
Ma questi, se non ha uno specifico interesse alla conservazione degli effetti dell’originaria domanda (si pensi al caso in cui non siano ancora maturati i termini di prescrizione di un’azione non soggetta a termini di decadenza, come quella risarcitoria), potrebbe anche ritenere preferibile ricominciare ex novo il giudizio, magari proprio davanti allo stesso giudice che aveva negato la giurisdizione, perpetuando quella situazione di incertezza tipica di ogni contenzioso pendente.
Per evitare questo esito si potrebbe ritenere, forse, che la riassunzione sia, comunque, una facoltà di tutte le parti del giudizio e non solo dell’originario attore. Ma sarebbe opportuno chiarire espressamente questo punto nel testo normativo.
Nulla dice la norma in merito alle conseguenze derivanti dalla omessa indicazione del giudice munito di giurisdizione. Si intende che questa lacuna si verifica solo quando l’indicazione manca completamente (tanto nel dispositivo, quanto nella motivazione della sentenza).
In tal caso, sembra plausibile questa soluzione:
a) per conservare gli effetti processuali e sostanziali della domanda, l’interessato ha l’onere comunque di riassumere il giudizio entro tre mesi, davanti a un giudice qualsiasi, purché diverso da quello che ha negato la giurisdizione;
b) in caso di tempestiva riassunzione resta fermo, per le parti, quanto meno il vincolo “negativo” riguardante la carenza di giurisdizione del giudice originariamente adito.
5. LA CONSERVAZIONE DEGLI EFFETTI SOSTANZIALI E PROCESSUALI DELLA DOMANDA.
Il comma 2, come si è detto, fa coincidere i presupposti della vincolatività (per le parti) dell’indicazione del giudice con quelli della conservazione degli effetti processuali e sostanziali della domanda. Per ottenere questo risultato pratico, la nuova domanda deve essere riproposta entro tre mesi dal passaggio in giudicato della sentenza che declina la giurisdizione.
Si tratta di un termine finale sicuramente ragionevole, considerando i diversi interessi contrapposti (certezza dei rapporti e tutela della parte attrice).
La norma si limita a stabilire, genericamente, la conservazione di tali effetti, senza fornirne una elencazione, nemmeno esemplificativa.
In pratica, la disposizione riguarderà, essenzialmente, l’impedimento della decadenza dell’azione e l’interruzione e la sospensione della prescrizione. L’ampia dizione “effetti processuali”, poi, risulta idonea a comprendere anche le conseguenze attinenti alla conservazione delle prove raccolte, salve le precisazioni scolte in relazione alla previsione del comma 5.
Resta, però, non chiarissima la formula utilizzata, nel comma 2: “ferme restando le preclusioni e le decadenze intervenute”, che sembra, a prima vista, proprio in contraddizione con l’essenza della translatio.
Per dare un senso alla previsione, occorre considerare che la conservazione degli effetti della domanda nel processo proseguito presuppone che l’azione sia stata comunque tempestivamente (e ritualmente) proposta dinanzi al giudice privo di giurisdizione.
Si pensi al caso di una domanda proposta, erroneamente, dinanzi al giudice ordinario, il quale declina la propria giurisdizione, indicando il giudice amministrativo.
La rituale riassunzione del giudizio (nei tre mesi decorrenti dal passaggio in giudicato), benché astrattamente idonea alla conservazione degli effetti sostanziali e processuali dell’originaria domanda, non dovrebbe impedire di verificare se l’originaria pretesa, azionata per errore dinanzi al giudice ordinario, sia stata proposta, correttamente, entro il termine di decadenza di cui all’articolo 21 della legge TAR, con atto notificato nei sessanta giorni dalla conoscenza del provvedimento impugnato.
La condivisibile affermazione di questo ragionevole principio si accompagnerà, molto probabilmente, a numerose questioni applicative, di cui non è possibile fare una rassegna, se non meramente esemplificativa. Si pensi all’ipotesi in cui la domanda proposta – erroneamente - dinanzi al giudice ordinario sia stata notificata, entro sessanta giorni, ma solo all’amministrazione e non anche ad almeno uno dei controinteressati. Secondo il codice di procedura civile, nel caso di litisconsorzio necessario, l’integrazione successiva del giudizio è sempre possibile. Viceversa, nel processo amministrativo, opera la diversa regola secondo cui, per impedire la decadenza, la tempestiva notifica alle parti necessarie (almeno uno dei controinteressati) deve avvenire nel termine perentorio di sessanta giorni.
In tali casi, è preferibile ritenere che le preclusioni e le decadenze debbano essere comunque valutate secondo le regole proprie del giudice munito di giurisdizione.
Ovviamente, ciò non sembra impedire la piena operatività del principio dell’errore scusabile, applicabile, però, secondo le valutazioni riservate al giudice ad quem, munito di giurisdizione.
Va ricordato, però, che, allo stato, l’istituto ha piena cittadinanza solo nel processo amministrativo, mentre non ha un adeguato spazio negli altri ordinamenti processuali. Sarebbe opportuno ammetterne l’applicazione generalizzata in tutti i processi, almeno con riferimento alle problematiche relative alla translatio del processo.
Per altro verso, non sembra dubitabile che la previsione di un termine di tre mesi per la “riassunzione” del giudizio non imponga affatto alla parte interessata l’onere di attivarsi nel termine eventualmente più breve previsto, in generale per la proposizione del ricorso “ordinario”, senza attendere il passaggio in giudicato della sentenza sulla giurisdizione.
Da altro e opposto punto di vista, va sottolineato che il termine di tre mesi dal passaggio in giudicato è il termine massimo per la riassunzione, che potrebbe intervenire anche in epoca molto precedente.
Si potrebbe prospettare, in tal caso, il delicato problema della possibile interferenza con il giudizio impugnatorio proposto contro la sentenza declinatoria della giurisdizione. Per la parte che ripropone la domanda (o comunque riassume il giudizio) dinanzi al giudice indicato come munito di giurisdizione, la riassunzione dovrebbe intendersi come acquiescenza alla decisione declinatoria della giurisdizione. In mancanza di diversa disciplina, poi, la sospensione del processo dinanzi al giudice ad quem sarà solo facoltativa e non obbligatoria.
6. LE MODALITÀ DI RIPROPOSIZIONE DELLA DOMANDA DINANZI AL GIUDICE MUNITO DI GIURISDIZIONE.
Il secondo periodo del comma 2 affronta, piuttosto succintamente, il problema delle modalità di riproposizione della domanda, richiamando, semplicemente, la disciplina stabilita per il processo dinanzi al giudice munito di giurisdizione.
La previsione non richiede particolari commenti. In alcuni ambiti, per esempio nel processo civile, esiste una disciplina specifica dell’atto di riassunzione ed a questa occorrerà fare riferimento. In mancanza, occorrerà seguire la disciplina riguardante l’atto introduttivo del giudizio, nel contesto processuale considerato.
Sembra evidente comunque,che, in ogni caso, l’atto di riproposizione della domanda dovrà saldarsi all’atto di ricorso originario e alla pronuncia declinatoria della giurisdizione. Potrebbe essere questa la sede, poi, per chiarire se la riassunzione sia facoltà del solo attore, oppure anche delle altre parti interessate alla decisione di merito.
7. IL REGOLAMENTO NECESSARIO DI GIURISDIZIONE PROPOSTO DAL GIUDICE, IN CASO DI CONFLITTO NEGATIVO.
Il comma 4 affronta il delicato tema della vincolatività della decisone sulla giurisdizione per il giudice.
L’opzione del legislatore segue la proposta della dottrina intesa a considerare assolutamente vincolante solo la pronuncia delle Sezioni Unite.
Questa regola, del resto, è già affermata, con chiarezza e generalità, dal comma 1, secondo periodo. Non si comprende, allora, l’utilità dell’inciso “nel processo”, dal momento che l’indiscutibilità della giurisdizione opera anche se la pronuncia delle Sezioni Unite sia intervenuta in altro giudizio.
Si vuole affermare, probabilmente, che tale statuizione riguarda solo la “stessa” domanda formulata. Ma anche tale conclusione è scontata, per ragioni di coerenza logica.
In mancanza della pronuncia delle Sezioni Unite, il giudice non è vincolato alla pronuncia sulla giurisdizione, ancorché resa nello stesso processo. Tuttavia, se non condivide la pronuncia del giudice a quo, non può adottare una sentenza, ma deve sollevare la questione mediante lo strumento dl rinvio di ufficio alle Sezioni Unite.
La scelta rappresenta il “compromesso” fra l’opzione riguardante la necessità di salvaguardare il controllo sulla giurisdizione del giudice “indicato” da altro giudice di merito e la necessità di chiudere rapidamente ogni dibattito sulla spettanza della giurisdizione.
Il relativo compito è affidato alle Sezioni Unite della Cassazione.
La soluzione normativa prospettata non convince del tutto, soprattutto alla luce delle più recenti acquisizioni in materia di giudicato (addirittura implicito!) sulla giurisdizione.
Se, ora, il processo “prosegue” davanti al giudice indicato, dopo il “passaggio in giudicato” della pronuncia sulla giurisdizione, sembra davvero strano che il giudice ad quem possa nuovamente sollevare la questione dinanzi alle Sezioni Unite. Si tratta, pur sempre, di un giudicato “endo-processuale” e non sembra da incoraggiare la logica di così intensa sopravalutazione della funzione nomofilattica sulla giurisdizione.
Semmai, la regola potrebbe avere una qualche giustificazione nel caso in cui si intenda contestare il “giudicato” sulla giurisdizione in altro processo. In tal caso, allora, sarebbe coerente ipotizzare l’onere di porre la questione alle Sezioni Unite, con la contestuale preclusione per le parti di sollevare nuovamente la questione, avendo ormai queste fatto acquiescenza alla statuizione sul difetto di giurisdizione.
Piuttosto, si potrebbe valutare se non sia il caso di ipotizzare un meccanismo semplificato di impugnazione diretta alle Sezioni Unite di tutte le pronunce che negano la giurisdizione del giudice adito.
Nel caso in cui il giudice, erroneamente, pronunci il difetto di giurisdizione, anziché sollevare il conflitto, la relativa pronuncia andrà impugnata secondo le modalità e le forme proprie di quel processo.
8. IL REGOLAMENTO PREVENTIVO DI GIURISDIZIONE: QUALE SPAZIO CONCRETO?
In ogni caso, resta non agevolmente spiegabile la previsione del comma 3, secondo periodo, in forza della quale “restano ferme le disposizioni sul regolamento preventivo di giurisdizione”.
Come si è visto, il comma 2 stabilisce che la decisione sulla giurisdizione passata in giudicato sia vincolante per le parti, almeno qualora vi sia stata la riassunzione tempestiva. Se è così, le parti non hanno più strumenti processuali per reagire alla pronuncia del giudice a quo, che ha declinato la propria giurisdizione: la questione di giurisdizione è, per loro, ormai indiscutibile.
Concretamente, poi, riesce difficile capire come si potrebbe porre la questione con il regolamento, dal momento che la decisione è “passata in giudicato”, in base alla previsione dei commi 1 e 2 e, quindi, si suppone che siano decorsi anche i termini per la proposizione del regolamento.
Si potrebbe ipotizzare che la proponibilità del regolamento di giurisdizione sia consentita solo per le altre parti rimaste estranee al giudizio a quo: ma anche questa soluzione è già chiaramente imposta dalla previsione secondo cui la decisione negativa della giurisdizione vincola solo le parti nei cui confronti la sentenza è pronunciata.
Vi è, forse, una possibile spiegazione: la norma intende incoraggiare la formazione della decisione sulla giurisdizione delle Sezioni Unite, dotate di quella particolare forza extra processuale. Pertanto, secondo questa prospettiva, dopo la riassunzione del giudizio, il processo proseguito senza una decisione di merito potrebbe ancora lasciare spazio per il regolamento.
Ma anche questa ricostruzione non spiega come possa essere proposto li regolamento, a struttura impugnatoria, contro una sentenza declinatoria della giurisdizione, ormai passata in giudicato.
E anche sul piano dell’opportunità, è molto discutibile la scelta di riaprire ulteriormente le questioni relative alla giurisdizione, proprio nell’ambito di un processo che sta proseguendo dinanzi al giudice indicato come munito della giurisdizione.
9. L’ESTINZIONE DEL PROCESSO RILEVATA DI UFFICIO.
Il comma 4 prevede una sanzione durissima per il caso in cui il processo non prosegua nei termini “fissati” ai sensi del presente articolo: l’estinzione del processo pronunciata dal giudice anche d’ufficio alla prima udienza, insieme alla perdita degli effetti sostanziali e processuali della domanda.
Anche questa previsione desta perplessità, seppure essa sia mutuata, in larga misura, dalla vigente disciplina in materia di mancata riassunzione del processo, in seguito alla pronuncia sulla competenza (con la fondamentale differenza della rilevabilità di ufficio). In termini generali, è evidente l’equivoco derivante dalla sovrapposizione dei temi relativi alla incontestabilità della giurisdizione con quelli, più specifici, dei presupposti della translatio.
Nessun dubbio, infatti, sulla opportunità di stabilire il termine perentorio di tre mesi, ai fini della conservazione degli effetti sostanziali e processuali dell’originaria domanda. Trascorso inutilmente questo termine, il processo non può continuare con la conservazione degli effetti sostanziali e processuali della domanda.
Ma la conseguenza della estinzione del processo non appare del tutto giustificata. Anzi, essa potrebbe determinare una ulteriore complicazione.
Si pensi all’ipotesi di una domanda risarcitoria aquiliana erroneamente proposta dinanzi al giudice ordinario anziché dinanzi al TAR, che declina la propria giurisdizione. L’interessato “ripropone” la domanda di risarcimento del danno entro i limiti di prescrizione dinanzi al giudice amministrativo, ma oltre il termine trimestrale per la riassunzione.
Per quale motivo il ricorso dovrebbe essere dichiarato “estinto”?
Oltre tutto, non è affatto chiaro quale sia l’effetto di tale pronuncia.
Per il suo carattere processuale, essa non sembra impedire la riproposizione della domanda. Ma allora, la pronuncia di secca estinzione del giudizio sarebbe meramente defatigante, in contrasto con ogni elementare principio di salvaguardia dei valori della ragionevole durata del processo.
Se, invece, la pronuncia fosse considerata idonea a precludere, definitivamente, l’introduzione della domanda, ci troveremmo di fronte a una decadenza con portata sostanziale poco giustificata.
È appena il caso di aggiungere, poi, che, in questo modo, la disposizione risolve in modo piuttosto sbrigativo il complesso problema degli oneri delle parti e dei poteri del giudice in merito alla valutazione concernente la “conservazione” degli effetti sostanziali e processuali della domanda proposta dinanzi al giudice privo di giurisdizione.
In sostanza, la norma segue un principio di rigida alternativa: o vi è conservazione totale degli effetti, oppure vi è estinzione.
Si potrebbe osservare, che, in ogni caso, dovrebbe valere il principio della conservazione degli effetti dell’atto, secondo la tecnica della “conversione”. La riassunzione tardiva potrebbe essere considerata come autonoma domanda, se l’atto contiene tutti i necessari requisiti di forma e di sostanza.
Inoltre, la scelta del legislatore potrebbe essere mitigata attraverso la previsione che l’estinzione del giudizio sia pronunciabile solo su eccezione della parte: in tal modo, l’interesse del convenuto ad ottenere una pronuncia di merito sarebbe comunque pienamente soddisfatto.
10. LA SORTE DELL’ISTRUTTORIA SVOLTA. GLI ARGOMENTI DI PROVA NEL GIUDIZIO ESTINTO.
Il comma 5, infine, affronta il problema della utilizzabilità del materiale istruttorio acquisito. Il tema non era affatto facile, considerando la perdurante differenza dei regimi (anche delle stesse prassi) istruttorie e probatorie presenti nei diversi plessi giurisdizionali.
L’impostazione, apparentemente “compromissoria” della norma, è comprensibile: probabilmente, una disciplina più analitica avrebbe rischiato di moltiplicare le questioni.
Tuttavia, la genericità della previsione resta davvero forte e sembra attribuire al giudice un margine di discrezionalità piuttosto elevato.
Per un verso, poi, il materiale istruttorio è indistintamente “degradato” a mero argomento di prova. Per altro verso, al contrario, esso è considerato tutto “utilizzabile”, senza limiti aprioristici, connessi al mezzo considerato (si pensi alla testimonianza nel giudizio di legittimità dinanzi al giudice amministrativo).
È molto probabile che in sede giurisprudenziale, tuttavia, saranno corrette entrambe le statuizioni, individuandosi casi in cui il materiale probatorio è pienamente utilizzabile, insieme a ipotesi in cui il materiale istruttorio non potrà, in radice, considerarsi nemmeno argomento di prova.
A ben vedere, però, la disposizione, anche in considerazione della sua collocazione (subito dopo il comma 4), dovrebbe intendersi riferita al solo caso della estinzione del processo, per mancata tempestiva riassunzione. In tal caso, estendendo i principi espressi dall’articolo 310 del codice d procedura civile, la disposizione intende affermare che il materiale istruttorio già raccolto, nel solo processo estinto, è sì utilizzabile in altro e successivo giudizio, ma solo nella limitata veste dell’argomento di prova.
Viceversa, la disposizione non sembra prendere una esplicita posizione, sul problema della conservazione delle prove, in seguito a tempestiva e rituale riassunzione del giudizio.
È plausibile ritenere che, in tal caso, debba operare la regola generale della “conservazione degli effetti processuali” della domanda, espressa dal comma 2.
Ma il discorso si complica considerando le persistenti differenze, tuttora attuali, nei vari ambiti processuali, in ordine ala ammissibilità dei mezzi di prova e alle modalità di assunzione, oltre che al regime dell’onere della prova.
Il punto merita di essere approfondito, considerando anche la notevole varietà dei casi che si possono prospettare: per esempio, si considerino le diverse ipotesi di giurisdizione negata dal giudice amministrativo o dal giudice ordinario, in materia di interessi legittimi o di diritti soggettivi.
In linea di principio, peraltro, sembra che la piena efficacia delle prove raccolte davanti al giudice privo di giurisdizione debba essere vagliata secondo la disciplina del giudice ad quem, effettivamente munito di giurisdizione. Per comprendere questa affermazione, si potrebbe fare il caso della prova testimoniale, considerata tuttora inammissibile nell’ordinario giudizio impugnatorio dinanzi al giudice amministrativo. Si ipotizzi che la prova testimoniale sia raccolta davanti al giudice ordinario, il quale nega la propria giurisdizione in relazione alla domanda proposta per la tutela di un interesse legittimo leso da un provvedimento annullabile. In tal caso, l’astratta conservazione degli effetti processuali della prova raccolta davanti al giudice ordinario non assume alcuna rilevanza, perché il giudice amministrativo dovrà dichiarare inammissibile la prova testimoniale.
Né, ovviamente, la prova testimoniale potrebbe essere utilizzata come argomento di prova, dal momento che non vi è alcuna ragione per giustificare il “privilegio” attribuito alla prova testimoniale assunta dinanzi al giudice privo di giurisdizione.
Più delicato è il problema concernente la valutazione di legittimità delle modalità di assunzione della prova, nonché il regime delle decadenze e delle preclusioni riguardanti gli oneri formali di articolazione e di deduzione delle prove.
È possibile che una prova sia stata assunta:
a) irritualmente secondo le regole del giudice che nega la giurisdizione, ma ritualmente secondo il giudice munito di giurisdizione;
a) ritualmente secondo le regole del giudice che nega la giurisdizione, ma irritualmente secondo il giudice munito di giurisdizione.
Nel caso sub a) la prova sembra correttamente utilizzabile. Nel caso sub b), per esigenze di coerenza sistematica, si dovrebbe ritenere inutilizzabile la prova raccolta. Dovrebbe operare, in tal caso, il principio del comma 2, secondo cui restano ferme le preclusioni e le decadenze intervenute”.
Analoghe conclusioni potrebbero prospettarsi in ordine alle preclusioni e decadenze riguardanti l’assunzione delle prove: anche esse devono essere vagliate attraverso la disciplina applicabile al giudizio ad quem.
Ma quanto meno nei casi di giurisdizione dubbia, dovrebbe essere riconosciuta la “buona fede” della parte interessata, che deve seguire le regole proprie del processo svolto dinanzi al giudice che nega la propria giurisdizione.
Anche in tali casi, peraltro, potrebbe essere opportuno introdurre un meccanismo più flessibile, ma generalizzato, di rimessione in termini per errore scusabile.
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AS N.1082
Disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività nonché in materia di processo civile
(Stampato Camera n. 1441-bis), approvato dalla Camera dei deputati il 2 ottobre 2008
Trasmesso dal Presidente della Camera dei deputati alla Presidenza
il 6 ottobre 2008)
Art. 38.
Decisione delle questioni di giurisdizione
1. Il giudice che, in materia civile, amministrativa, contabile, tributaria o di giudici speciali, dichiara il proprio difetto di giurisdizione indica altresý`, se esistente, il giudice nazionale che ritiene munito di giurisdizione. La pronuncia sulla giurisdizione resa dalle sezioni unite della Corte di cassazione e` vincolante per ogni giudice e per le parti anche in altro processo.
2. Se, entro il termine perentorio di tre mesi dal passaggio in giudicato della pronuncia di cui al comma 1, la domanda e` riproposta al giudice ivi indicato, nel successivo processo le parti restano vincolate a tale indicazione e sono fatti salvi gli effetti sostanziali e processuali che la domanda avrebbe prodotto se il giudice di cui e` stata dichiarata la giurisdizione fosse stato adito sin dall’instaurazione del primo giudizio, ferme restando le preclusioni e le decadenze intervenute. Ai fini del presente comma la domanda si ripropone con le modalita` e secondo le forme previste per il giudizio davanti al giudice adito in relazione al rito applicabile.
3. Se sulla questione di giurisdizione non si sono gia` pronunciate, nel processo, le sezioni unite della Corte di cassazione, il giudice davanti al quale la causa e` riassunta puo` sollevare d’ufficio, con ordinanza, tale questione davanti alle medesime sezioni unite della Corte di cassazione, fino alla prima udienza fissata per la trattazione del merito. Restano ferme le disposizioni sul regolamento preventivo di giurisdizione.
4. L’inosservanza dei termini fissati ai sensi del presente articolo per la riassunzione o per la prosecuzione del giudizio comporta l’estinzione del processo, che e` dichiarata anche d’ufficio alla prima udienza, e impedisce la conservazione degli effetti sostanziali e processuali della domanda.
5. In ogni caso di riproposizione della domanda davanti al giudice di cui al comma 1, le prove raccolte nel processo davanti al giudice privo di giurisdizione possono essere valutate come argomenti di prova.