INTRODUZIONE - Il tempo a disposizione e la vastità dell’argomento da trattare rendono arduo un compiuto esame delle mille problematiche che da decenni interessano la tematica del risarcimento del danno davanti al giudice amministrativo e che negli ultimi anni, a seguito della sentenza n. 500/1999 delle S.U. della Corte di Cassazione, sono passate dall’essere una questione meramente teorica ed avulsa dalla pratica all’essere, oggi, un aspetto fondamentale e quotidiano con il quale l’avvocato deve confrontarsi per tutelare al meglio le situazioni giuridiche soggettive dei propri assistiti.
Non è questa quindi la sede per ripercorrere l’evoluzione della tematica del risarcimento del danno davanti al Giudice Amministrativo e, in particolare, la tematica del risarcimento del danno ingiusto per lesione dell’interesse legittimo, anche se è bene ricordare quanto meno gli ultimi provvedimenti legislativi che hanno portato a rivoluzionare la materia e, in particolare gli artt. 33 – 35 del d.lgs. 31 marzo 1998, n. 80, con i quali è stato esteso l’ambito della giurisdizione esclusiva anche alle materie dell’edilizia, dell’urbanistica e dei servizi pubblici, con espressa previsione che in tutte le materie dove il giudice amministrativo ha la giurisdizione esclusiva può disporre il risarcimento, anche in forma specifica, del danno ingiusto[1], le successive modifiche al processo amministrativo introdotte con la legge 21 luglio 2000, n. 205 e, da ultimo, l’art. 20 del d.l. 20 novembre 2008, n. 185 (cd. legge anti crisi), convertito poi in legge con modifiche dalla legge 28 gennaio 2009, n. 2 e le penetranti novità introdotte con le “norme straordinarie per la velocizzazione delle procedure esecutive di progetti facenti parte del quadro strategico nazionale e simmetrica modifica del relativo regime di contenzioso amministrativo”, che tanti dibattiti ha di recente aperto in dottrina[2] soprattutto per la considerazione che questa legge potrebbe essere la soluzione interpretativa alla annosa querelle relativa alla pregiudiziale amministrativa.
Visto il tempo a disposizione, quindi, la mia esposizione si concentrerà sull’esame di alcune pronunce giurisprudenziali recenti del Consiglio di Stato vertenti su alcuni degli aspetti “pratici” con i quali l’operatore del diritto più frequentemente si scontra affrontando la tematica del risarcimento del danno davanti al Giudice Amministrativo[3].
1. Sulla domanda risarcitoria
1.1. Forma della domanda e T.A.R. competente
La domanda deve essere proposta con ricorso, notificato e depositato nei modi ordinari. Può essere avanzata contestualmente alla proposizione del ricorso avverso un atto amministrativo, o con un ricorso autonomo o anche con un ricorso per motivi aggiunti[4], visto che si deve ritenere legittimo (cfr. Cons. Stato, VI sez., 15 febbraio 2001, n. 805), anche per motivi di economia processuale, che il ricorrente avanzi la richiesta di risarcimento in pendenza della definizione del giudizio di annullamento.
Sull’ipotesi del giudizio autonomo si deve qui ricordare quanto affermato dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 2 del 9 febbraio 2006 per cui “la scelta di un momento successivo, per prospettare la domanda consequenziale, non giustifica una diversa competenza giurisdizionale” da cui deriva la “concentrazione nel giudizio amministrativo della cognizione delle questioni consequenziali di ordine patrimoniale” fa sì che “la regola della concentrazione, davanti al giudice dell’impugnazione, anche della cognizione della pretesa riparatoria, non conduca ad una diversa soluzione, quando la controversia sul risarcimento sia prospettata con autonomo, e successivo, ricorso, ossia dopo che il giudizio sul provvedimento si sia concluso e la relativa decisione sia passata in giudicato. Ed, invero, il nesso fra illegittimità dell’atto e responsabilità dell’autorità amministrativa che lo ha posto in essere, non ha diversa natura, né è meno stretto o di diversa intensità se le due questioni dibattute - quella di non conformità a legge della misura autoritativa e quella di responsabilità per i danni che ne sono derivati - sono esaminate e risolte in unico o in separati giudizi”.
In caso di domande autonome il giudice competente, come chiarito dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato con sentenza n. 10 del 18 ottobre 2004, sarà quello che ha esaminato la domanda di annullamento. Sul punto, difatti, l’Adunanza Plenaria ha ritenuto che nel sistema al quale ha dato vita la legge n. 205 del 2000 il giudice di fronte al quale è portata l’impugnazione del provvedimento lesivo sia quello stesso che ha titolo a conoscere del ristoro per equivalente “e ciò, sia che si tratti di ipotesi nelle quali la pretesa risarcitoria consequenziale concerna diritti soggettivi lesi da atti degradatori (diritti soggettivi restituiti alla loro originaria dimensione dopo l’annullamento del provvedimento), sia che si tratti di interessi pretensivi, che, per la rottura dell’anello che lega insieme interesse individuale e interesse pubblico, non possono che ottenere riparazione per equivalente”, né, secondo l’Adunanza Plenaria, vale a modificare la disciplina suddetta “il fatto che la controversia rivolta ad ottenere il risarcimento del danno sia stata avanzata con autonomo e successivo ricorso proposto dopo che il giudizio di impugnazione si era concluso e la relativa sentenza era passata in giudicato” e ciò in quanto “il legame, fra illegittimità del provvedimento e responsabilità dell’ente che l’ha posto in essere, non è meno stretto o di diversa intensità se le due questioni (di illegittimità dell’atto e di responsabilità per i danni che ha cagionato) sono esaminate in unico o separati giudizi”[5].
Non è invece ammissibile la richiesta di risarcimento danni avanzata con una memoria, in quanto così facendo si lede il principio dell’effettività della difesa e del contraddittorio (cfr. Cons. Stato, VI sez., 15 febbraio 2001, n. 805).
La domanda dovrà contenere quanto meno le ragioni della sua richiesta ed una prospettazione del danno. Circa l’indicazione degli elementi di prova e dei criteri di quantificazione non pare che vi siano però preclusioni processuali particolari a che gli stessi vengano forniti successivamente alla proposizione della domanda, anche con la presentazione di una memoria ad hoc.
1.2.Legittimazione attiva e prescrizione dell’azione
Visto che è stata ritenuta possibile la proposizione dell’azione di risarcimento del danno dopo il giudizio di annullamento, ci si deve domandare quali siano i limiti alla legittimazione attiva in caso di giudizio risarcitorio autonomo.
Sul punto soccorre un’interessante sentenza recente della V sez. del Consiglio di Stato, ovvero la n. 3922 del 12 luglio 2007 dove viene ricordato che è indiscusso che la sentenza di annullamento, nella sua parte costitutiva e cassatoria, produce effetti erga omnes, mentre solo gli effetti conformativi sono circoscritti alle parti del giudizio e, pertanto, viene riconosciuta la legittimazione attiva all’azione di risarcimento danni di un soggetto che non era stato parte nel giudizio di annullamento, neanche come interventore.
La portata della pronuncia è notevole se solo si pensi, ad esempio, all’ipotesi dell’annullamento di uno strumento urbanistico o di un regolamento avente portata generale, in quanto così ragionando la platea dei soggetti che possono agire in via risarcitoria nei confronti della P.A. aumenta esponenzialmente.
Ovviamente anche in questo caso incide molto la questione della pregiudiziale amministrativa, soprattutto per quel che riguarda il tema della prescrizione[6]. In caso si ritenga necessario il preventivo annullamento dell’atto illegittimo, per la prescrizione dell’azione, seguendo l’insegnamento fornito dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, con la sentenza n. 2 del 9 febbraio 2006[7], le regole da applicare sono le seguenti: “a) la prescrizione comincia a decorrere dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere: art. 2935 c.c.; b) se l’interruzione è avvenuta mediante un atto che dà inizio ad un giudizio o con una domanda proposta nel corso di un giudizio, il nuovo periodo di prescrizione non decorre fino al momento in cui passa in giudicato la sentenza che definisce il giudizio: art. 2945, secondo comma, c.c.” e che, pertanto, essendo condizione necessaria per la domanda di risarcimento “la pronuncia che riconosce l’illegittimità di provvedimenti dalla cui esecuzione sorgono i danni lamentati e che, in caso di atti autoritativi, è pronuncia che spetta al giudice amministrativo (…) è perciò dal passaggio in giudicato della decisione del giudice amministrativo che può avere inizio il decorso del periodo di prescrizione”.
Nel caso in cui invece si ritenga non essenziale tale annullamento, la prescrizione inizierà a decorrere dalla data di adozione del provvedimento illegittimo o, meglio, dalla data in cui lo stesso si manifesta lesivo della situazione giuridica soggettiva del privato.
1.3. Proponibilità per la prima volta in sede di appello e in sede di giudizio di ottemperanza
Si deve ritenere inammissibile la domanda formulata con il ricorso in appello e ciò in forza del rispetto del principio del doppio grado di giudizio, che impedisce di formulare per la prima volta in appello la domanda (cfr. Cons. Stato, VI sez., 29 novembre 2002, n. 6575)[8].
Allo stesso modo è stata ritenuta inammissibile la domanda di risarcimento formulata in sede di giudizio di ottemperanza. In effetti, tenuto conto che il giudizio di ottemperanza è riservato all’esecuzione delle decisioni passate in giudicato si ritiene possa ammettersi la concentrazione nel giudizio di ottemperanza della fase cognitoria, tipica del giudizio risarcitorio, e della fase esecutiva soltanto per ipotesi di danno che si siano verificate successivamente alla formazione del giudicato e proprio a causa del ritardo nell’esecuzione della pronuncia cui si vuole dare ottemperanza[9] (cfr. Cons. Stato, V Sez., 21 giugno 2006, n. 3690; T.A.R. Campania, Napoli, I sez., 4 ottobre 2001, n. 4485).
Sul punto non si può comunque non ricordare la recente sentenza n. 3615 del 15 luglio 2008 della IV Sez. del Consiglio di Stato che ha rimesso all’Adunanza Plenaria, tra le altre cose, anche la questione del rapporto tra ottemperanza e risarcimento del danno e la conseguente pronuncia n. 13 del 3 dicembre 2008 dell’Adunanza Plenaria che sul punto ha affermato interessanti principi in tema di risarcibilità del danno da ritardo in caso di interessi legittimi pretensivi, ammettendo l’azione.
2. Sulla prova del danno
In base al principio generale sancito dall’art. 2697 c.c., secondo il quale chi agisce in giudizio deve fornire la prova dei fatti costitutivi della domanda, parte della giurisprudenza si è orientata nel senso che ai fini del risarcimento dei danni provocati da illegittimo esercizio del potere amministrativo il ricorrente debba fornire in modo rigoroso la prova dell'esistenza del danno, non potendo invocare il c.d. principio acquisitivo perché tale principio attiene allo svolgimento dell’istruttoria e non all’allegazione dei fatti (cfr. Cons. Stato, VI sez., 2 marzo 2004, n. 973).
Non vi sono quindi particolari dubbi, in giurisprudenza, sulla necessità per il ricorrente di provare il nesso eziologico tra pregiudizio che si lamenta subito ed adozione dell’atto illegittimo.
E’ stato tra l’altro affermato che il potere del giudice di liquidare il danno con valutazione equitativa non esonera la parte interessata dall’obbligo di offrire al giudice gli elementi probatori circa la sussistenza del danno esaurendosi l’apprezzamento equitativo da parte del giudice nella necessità di colmare quelle lacune inevitabili nella determinazione del preciso ammontare del danno ( Cons. Stato, Sez. V, 17 ottobre 2008 n. 5098) ed è stata quindi ritenuta inammissibile la domanda risarcitoria formulata in maniera generica senza alcuna allegazione dei fatti costitutivi (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 4 febbraio 2008, n.306) presupponendo la valutazione equitativa del danno ex art. 1226 c.c., solo l’impossibilità di provare l’ammontare preciso del pregiudizio subito, ma non anche l’esistenza del danno, ovvero dell’an.
Discorso diverso si deve fare, invece, per quanto riguarda la prova del quantum. In questo caso l’ampiezza dell’onus probandi sussistente in capo al ricorrente non può non tenere conto della previsione di cui all’art. 35, comma 2, del d.lgs. n. 80/98, che ha introdotto in capo al giudice il potere di fissare i criteri di liquidazione del danno da determinarsi tra le parti in ambito stragiudiziale.
La norma in parola prevede che “nei casi previsti dal comma 1, il giudice amministrativo può stabilire i criteri in base ai quali l’amministrazione pubblica o il gestore del pubblico servizio devono proporre a favore dell’avente titolo il pagamento di una somma entro un congruo termine. Se le parti non giungono ad un accordo, con il ricorso previsto dall’articolo 27, primo comma, numero 4), del testo unico approvato con regio decreto 26 giugno 1924, n. 1054, può essere chiesta la determinazione della somma dovuta”. E’ evidente, quindi, che se il giudice amministrativo può emanare una sentenza cd. “parziale”, in cui accerta solo la sussistenza dell’an e rinvia, per il quantum, ad una fase successiva, che l’onere probatorio circa il danno patrimoniale dovrà necessariamente tenere conto di questa ipotesi processuale.
In quest’ottica si può quindi ritenere assolto l’onere probatorio in ordine al quantum allorché il ricorrente indichi, a fronte di un danno certo nella sua verificazione, taluni criteri di quantificazione dello stesso, salvo il potere del giudice di vagliarne la condivisibilità attraverso l’apporto tecnico del consulente.
Ovviamente il principio sopra esposto deve essere gradato in relazione al tipo di situazione soggettiva vantata dal ricorrente (interesse oppositivo, interesse pretensivo) ed al danno dallo stesso lamentato (danno da ritardo, perdita di chance, etc.) e ricordando, comunque, che il risarcimento in forma specifica, ovvero l’annullamento dell’atto, la maggior parte delle volte è satisfativo delle pretese del ricorrente.
3. Sulla colpa della P.A. e sulla prova della stessa
Sulla questione della colpa non si può non ricordare la recente sentenza n. 3615 del 15 luglio 2008 della IV Sez. del Consiglio di Stato dove viene fatto un preciso excursus delle alterne posizioni della giurisprudenza sul punto.
In questa viene ricordato come in una delle prime pronunce che si sono occupate della questione (Cons. Stato, IV Sez., 14 giugno 2001 n. 3169) sia stata affermata la concezione oggettiva della colpa, basata cioè sull’apprezzamento dei vizi che inficiano il provvedimento, ma sono stati mutuati dalla giurisprudenza comunitaria diversi indici valutativi, quali la gravità della violazione commessa dall’Amministrazione anche alla luce dell’ampiezza delle valutazioni discrezionali rimesse all’organo, dei precedenti della giurisprudenza, delle condizioni concrete e dell’apporto eventualmente dato dai privati nel procedimento.
In una successiva pronuncia (Cons. Stato, V Sez., 6 agosto 2001 n. 4239), sono stati ulteriormente chiariti i caratteri della responsabilità della P.A. da attività provvedimentale e, accedendo ad una ricostruzione dogmatica della stessa in termini di responsabilità per contatto sociale qualificato, si è precisato che la responsabilità dell’Amministrazione per l’adozione di un atto illegittimo può presumersi sotto il profilo dell’ascrivibilità del pregiudizio ad una condotta colposa dell’istituzione.
Secondo questa impostazione il privato è quindi tenuto alla semplice allegazione del danno patito e della sua riconducibilità al provvedimento illegittimo ed è imposto all’Amministrazione l’onere di dimostrare la propria incolpevolezza per mezzo di elementi di fatto e di diritto idonei a dimostrare la ricorrenza di un errore scusabile e, quindi, l’assenza di colpa nel proprio operato. In tale ottica è stata superata l’equivalenza colpa-violazione grave, in quanto in tale modo la responsabilità dell’Amministrazione sarebbe stata limitata ai soli casi di colpa grave.
Tale ricostruzione teorica è stata confermata da successive pronunce della giurisprudenza amministrativa e di quella ordinaria (Cons. Stato, VI sez., 20 gennaio 2003, n. 204; Cass. civ., I sez., 10 gennaio 2003, n. 157).
Gli approdi più recenti della giurisprudenza amministrativa hanno, tuttavia, dissentito dalla ricostruzione ricordata, reputando, di contro, che le condivisibili esigenze di semplificazione probatoria sottese all’impostazione sopradescritta possano essere parimenti soddisfatte restando all’interno dei più sicuri confini dello schema e della disciplina della responsabilità aquiliana, utilizzando, per la verifica dell’elemento soggettivo, le presunzioni semplici di cui agli artt. 2727 e 2729 Cod. civ. (cfr. Cons. Stato, IV sez., 6 luglio 2004, n. 5012).
In tale ottica il privato danneggiato, ancorché onerato della dimostrazione della colpa dell’Amministrazione, risulta agevolato dalla possibilità di offrire al giudice elementi indiziari, quali la gravità della violazione, il carattere vincolato dell’azione amministrativa, l’univocità della normativa di riferimento e il proprio apporto partecipativo al procedimento.
Così che, acquisiti gli indici rivelatori della colpa, spetta all’Amministrazione l’allegazione degli elementi ascrivibili allo schema dell’errore scusabile e al giudice apprezzarne, come voluto dalla sentenza n. 500 del 1999, e liberamente valutarne l’idoneità ad attestare o a escludere la colpevolezza dell’Amministrazione.
Sono stati, di conseguenza, definiti i caratteri che devono possedere gli elementi addotti a propria discolpa dall’Amministrazione, a fronte della produzione degli indizi a suo carico, perché la situazione allegata integri gli estremi dell’errore scusabile e consenta, perciò, di escludere la colpa dell’apparato amministrativo, facendo in ciò riferimento anche alla giurisprudenza comunitaria.
Tale orientamento ha trovato conferma in successive recenti decisioni del Consiglio di Stato (cfr. Cons. Stato, IV sez., n. 5500 del 10 agosto 2004; VI Sez., 3 aprile 2007 n. 1514, 9 marzo 2007 n. 1114; 23 giugno 2006 n. 3981; 9 novembre 2006 n. 6607).
4. Sui mezzi di prova
Un breve cenno lo meritano anche i mezzi di prova che ora possono essere usati, a seguito dell’entrata in vigore delle modifiche al processo amministrativo introdotte con la legge n. 205/2000, per dimostrare il danno e l’entità dello stesso.
In particolare, oltre alla prova documentale, ai chiarimenti ed alla verificazione, già ammissibili nel precedente sistema di giustizia amministrativa, è stata introdotta la c.t.u. (cfr. art. 16 della legge n. 205/00 che introduce tale rimedio anche nei giudizi di legittimità).
Questa, come ricorda la III sez. Civile della Corte di Cassazione (sent. n. 13401/2005) può avere sia funzione di prova che di valutazione dei fatti accertati, in quanto “se il giudice affida al consulente il semplice incarico di valutare fatti già accertati o dati preesístenti, la funzione del consulente è deducente e la sua attività non può produrre prova; se, viceversa, al consulente è conferito l'incarico dì accertare fatti non altrimenti accertabili che con l'impiego di tecniche particolari, il consulente è percipiente, la consulenza costituisce fonte diretta di prova ed è utilizzabile al pari di ogni altra prova ritualmente acquisita al processo”. Anche nel giudizio amministrativo, comunque, in nessun caso la consulenza tecnica può servire ad esonerare la parte dal fornire la prova che le spetta fornire in base ai principi che regolano l’onere relativo.
Nelle materie di giurisdizione esclusiva, poi, oltre a quanto sopra sono stati ammessi tutti i mezzi di prova previsti dal codice di procedura civile (ivi compresa la prova testimoniale) con esclusione del giuramento e dell’interrogatorio.
5. Conclusioni
Si è cercato di tratteggiare, velocemente, alcuni degli aspetti essenziali dell’azione di risarcimento del danno avanti al Giudice Amministrativo.
Sicuramente, tornando al tema che mi è stato assegnato, tra gli “onori” rientra la celerità del giudizio, un minore onere probatorio, almeno sino ad oggi, rispetto al giudizio civile, in ordine alla colpa o al dolo della P.A. ed alla quantificazione del danno, tenuto conto delle possibilità che sono insite nello speciale rito per la liquidazione del danno previsto dall’art. 35 del d.lgs. n. 80/98, nonché la concentrazione avanti ad un unico giudice, ovvero la magistratura amministrativa, sicuramente più competente e pronta, rispetto a quella civile, a comprendere il rapporto privato – P.A..
Tra gli “oneri”, invece, rientra sicuramente la relativa “adolescenza” del giudizio risarcitorio avanti al Giudice Amministrativo, con tutto ciò che ne consegue in termini di affinamento delle posizioni giurisprudenziali su tematiche essenziali, quali la pregiudiziale amministrativa, la prova del danno, la legittimazione attiva, la tutela del diritto della difesa, tenuto conto che il giudizio amministrativo nasce come giudizio sul provvedimento e non è quindi disegnato, come quello civile, sull’esame e valutazione del “fatto” e sulla pretesa sostanziale che allo stesso è connessa. |
[1] A seguito dell’ingresso di questa norma, come ricorda M.Branca in “Il risarcimento del danno nei confronti della pubblica amministrazione nella giurisprudenza del giudice ordinario, del giudice amministrativo e della Corte Europea dei diritti dell’uomo”, in www.giustizia-amministrativa.it, “per gli interessi oppositivi, già assistiti dal diritto al risarcimento, in quanto collegati a diritti degradati (o affievoliti), con la riforma del d.lgs. 80/1998 come modificata dalla legge n. 205 del 2000, si realizza essenzialmente una concentrazione della giurisdizione dinanzi al giudice amministrativo, che d’ora in poi conoscerà della legittimità dell’atto e del risarcimento, così sottratto alla giurisdizione del giudice ordinario. Riguardo agli interessi pretesivi, invece, la legge ora ammette su scala generale il diritto al risarcimento del danno, anche qui con concentrazione della tutela dinanzi al giudice amministrativo che già possedeva la giurisdizione sulla legittimità dell’atto”.
[2] Tra tanti che hanno affrontato la questione non si può non citare il commento di M.A. Sandulli “Il legislatore dà nuovi spunti al dibattito sulla “pregiudiziale”? (Riflessioni a margine della legge n. 2 del 2009, di conversione del d.l. n. 185 del 2008” in www.federalismi.it, dove viene trattato ampiamente il tema delle modifiche al contenzioso amministrativo introdotte con la norma sopra indicata, fornendo spunti interessanti per giustificare la cd. “pregiudiziale” amministrativa ed evidenziando anche le diverse posizioni dottrinali e giurisprudenziali sul punto.
[3] La tematica è stata affrontata da molti autori. In particolare si ritiene opportuno segnalare F.Caringella “Risarcimento del danno e processo amministrativo”, in www.giustizia-amministrativa.it; R.De Nictolis “Il giudizio risarcitorio”, in Manuale di giustizia amministrativa, II, Dike, 2008; C.Taglienti “Il risarcimento del danno, con particolare riferimento alle tecniche di liquidazione”, in www.giustizia-amministrativa.it; G.P. Cirillo “Il danno da illegittimità dell’azione amministrativa e il giudizio risarcitorio – profili sostanziali e processuali”, Giuffrè, 2003, II edizione; F.De Leonardis “Sui presupposti del risarcimento del danno per lesione di interesse legittimo”, in Giornale di Diritto Amministrativo, 147, 2009.
[4] In merito non si può non citare anche Consiglio di Stato, Ad. Plen. 30 luglio 2007, n. 9, che ha affermato che “nei giudizi meramente risarcitori non ricorre la ratio per la quale il Legislatore ha ritenuto di favorire, in deroga ai termini processuali ordinari, una più rapida tutela degli interessi pubblici in ambiti individuati ( cfr. da ultimo V Sez. n. 7194 del 2006)” ed ha escluso, quindi, l’applicabilità dei termini dimidiati di cui all’art. 23 bis ai procedimenti meramente risarcitori aventi ad oggetto i danni derivanti da procedure espropriative.
[5] Ovviamente questa conclusione dovrà essere rivista qualora dovesse prevalere l’orientamento giurisprudenziale che non riconosce la necessità della pregiudiziale amministrativa, dovendo in tal caso, ragionevolmente, farsi riferimento ai criteri dettati dagli artt. 19 e ss. del codice di procedura civile.
[6] Tale termine è di regola ritenuto quello quinquennale applicabile al risarcimento del danno derivante da responsabilità aquiliana, fissato dall’art. 2947 cod. civ., ma vi sono anche posizioni, in dottrina che affermano che la responsabilità della P.A. per attività provvedimentale abbia carattere natura contrattuale o “da contatto sociale”, in qual caso il termine sarebbe quello ordinario decennale.
[7] Ovviamente anche in questo caso la pronuncia è valida nei limiti in cui si accolga la tesi dell’essenzialità della pregiudiziale amministrativa.
[8] Sul punto i giudici amministrativi hanno affermato che “la domanda di risarcimento proposta in primo grado con memoria non notificata è inammissibile, come parimenti inammissibile è la domanda formulata con il ricorso in appello, tenuto conto che il rispetto del principio del doppio grado di giudizio costituisce limite invalicabile che impedisce di formulare per la prima volta in appello la domanda (principio già affermato dalla Sezione, benché con riferimento alla diversa fattispecie della domanda risarcitoria proposta in sede di giudizio di ottemperanza davanti al Consiglio di Stato; v. Cons. Stato, VI, n. 3382/2002)”.
[9] Sostanzialmente si tratta dell’ipotesi in cui sia stata già chiesta al giudice della cognizione una condanna alla reintegrazione in forma specifica, la cui esecuzione diventi impossibile per cause sopravvenute al giudicato. In tale caso è stato ritenuto corretto consentire nella fase esecutiva la richiesta della variazione di tutela con un’istanza di risarcimento per equivalente (cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 7 aprile 2004, n. 1980). |